martedì 26 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Maria – Messaggio del 25 ottobre 2010: "Cari figli, questo tempo sia per voi il tempo della preghiera. Il mio invito desidera essere per voi, figlioli, un’ invito a decidersi a seguire il cammino della conversione, per questo pregate e chiedete l’intercessione di tutti i santi. Essi siano per voi esempio, sprono e gioia verso la vita eterna. Grazie per aver risposto alla mia chiamata."
2)    RICOSTRUIRE LA FIDUCIA TRA CRISTIANI E INDÙ - Intervista al vescovo Sarat Chandra Nayak (ZENIT.org).
3)    Legionari. Il passato che non vuole passare - Gli eredi e custodi dell'indegno fondatore Maciel non accettano di lasciare i posti di comando. Ma il delegato papale De Paolis lancia un ultimatum: o cambiano, o sarà "naufragio" per tutti. Il testo integrale della sua lettera di Sandro Magister
4)    Benedetto XVI ha ribadito oggi il carattere vincolante della Sacra Scrittura di Salvatore Izzo © Copyright (AGI), 25 ott. 2010
5)    BRASILE: il peso dell’aborto sulle elezioni presidenziali - Lunedì 25 Ottobre 2010 CR n.1163 del 23/10/2010 dal sito http://www.corrispondenzaromana.it
6)    PERSECUZIONI ANTICRISTIANE: una profanazione anticristiana ogni due giorni - Articoli CR Lunedì 25 Ottobre 2010 CR n.1163 del 23/10/2010 dal sito http://www.corrispondenzaromana.it
7)    Debolezza del pensiero debole di Mario Marcolla - Questa nota di Mario Marcolla delinea taluni tratti della filosofia italiana contemporanea, che, pur metabolizzando con scarsissima originalità esiti concettuali d’Oltralpe, aspirerebbe a porsi come la verità del tempo. Una volta però smascherato il terrorismo della chiacchiera che perpetrano i “flebili” autori del pensiero “debole” apparirà manifesto perché essi siano consegnati al dibattito dei rotocalchi o delle gazzette. [Da «Studi Cattolici», n. 298, dicembre 1985, pp. 748-751]
8)    L'urgenza della pace di Giovanni Maria Vian (©L'Osservatore Romano - 25-26 ottobre 2010)
9)    Urge la riscoperta dell'apologetica - http://www.pontifex.roma.it
10)                      SINODO/ Il Patriarca Naguib: ecco come riusciamo a convivere con l’islam - INT. Antonios Naguib - martedì 26 ottobre 2010 – il sussidiario.net
11)                      Avvenire.it, 26 ottobre 2010 - IL CASO - Un Wiesenthal contro Ceausescu di Daniele Zappalà
12)                      E D I TOR I A L E - L’ ARROGANZA DEI NUOVI GNOSTICI - ROBERTO TIMOSSI – Avvenire, 26 ottobre 2010
13)                      Dio: una grande domanda e una ancor più grande presenza - L’affermazione della persona come soggetto intelligente e libero viene messa in crisi allorché si consideri la natura materiale come l’unica realtà esistente nell’universo DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 26 ottobre 2010


RICOSTRUIRE LA FIDUCIA TRA CRISTIANI E INDÙ - Intervista al vescovo Sarat Chandra Nayak (ZENIT.org).

BERHAMPUR (India), lunedì, 25 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La sfida principale della Chiesa in India non è la ricostruzione degli edifici distrutti dalla violenza anticattolica dei fondamentalisti indù, ma la ricostruzione della fiducia interreligiosa, secondo un vescovo di Orissa.

Monsignor Sarat Chandra Nayak presiede la diocesi di Berhampur, nello Stato di Orissa. In quella regione, circa 300 villaggi cristiani e 4.000 case sono stati distrutti dai fondamentalisti indù nel solo 2008.

In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il Vescovo ha parlato della violenza anticristiana nella sua regione, dei fattori che complicano i rapporti tra indù e cattolici e della sua speranza nonostante le difficoltà.

Perché l'Orissa è uno degli Stati meno sviluppati dell’India?

Monsignor Nayak: La popolazione è per lo più orientata all’agricoltura. La zona costiera rappresenta circa il 20% dell’area geografica totale e il resto è zona montuosa abitata da caste o tribù “registrate”, note oggi come dalit.

Infatti, più del 40% della popolazione è dalit. Perché la percentuale di dalit in quell’area è così alta?

I dalit vivono lì perché quando le persone appartenenti alle caste di livello più alto avevano occupato le fertili terre delle zone costiere, per loro non vi era più posto e quindi hanno dovuto muoversi nelle giungle e nelle zone di maggiore altitudine dove non vi sono terre coltivabili.

Qual è li suo motto episcopale e perché lo ha scelto?

Monsignor Nayak: Il mio motto episcopale è: “Essere un servitore felice”.

Si può essere servitori ma allo stesso tempo infelici. Si può essere costretti a servire, mentre io vorrei essere un servitore felice.

Ho notato prima, quando la sua croce si era girata, che sul retro c’è inciso: “Duc in altum”. Ha scelto lei questa frase e perché?

Monsignor Nayak: Non l’ho scelta io; mi è stata regalata. Ma corrisponde alla mia visione e al mio desiderio.

In seguito alla chiamata di Papa Giovanni Paolo II?

Monsignor Nayak: Sì.

È stato per lei un modello da seguire?

Monsignor Nayak: Sì, dare il 100% di se stessi. Come vescovo non potrò risolvere tutti i problemi, ma ciò che devo fare è dare il 100% di me stesso.

Eccellenza, lo Stato di Orissa purtroppo è noto per aver subito in passato violenze contro i cristiani. Ci può spiegare le ragioni alla base di queste violenze contro i cristiani e se provengono principalmente dagli estremisti indù, come ripete costantemente la stampa?

Monsignor Nayak: I motivi delle violenze? La fonte della violenza risiede sicuramente negli estremisti indù. Su questo non c’è dubbio, anche se oggi esistono diverse colorazioni.

La gente vede aspetti diversi. È per questo che queste violenze sono così complesse. Non c’è solo l’aspetto della violenza intercomunitaria o interetnica, ma vi sono anche altri aspetti.

Esistono per esempio motivazioni economiche: i negozianti e gli imprenditori in queste zone montuose provengono soprattutto dalle aree pianeggianti e quindi da livelli sociali più alti. Gente che ha fatto questo lavoro da sempre. Ora, grazie a una maggiore istruzione, i dalit e i tribali stanno intraprendendo attività commerciali e stanno diventando imprenditori. Questo danneggia gli imprenditori indù, che quindi cercano di creare problemi infiammando i sentimenti religiosi e danneggiando gli affari dei dalit e dei tribali. Questo è ciò che è avvenuto nel 2007.

Le prime aggressioni sono state perpetrate contro i negozi cristiani, i bombardamenti. Quindi c’è una motivazione economica.

In tutto Orissa, soprattutto in queste zone problematiche, gli imprenditori provengono dalle caste più elevate.

Forse è importante chiarire che la maggioranza dei cristiani sono dalit.

Monsignor Nayak: Sì, il 60% dei cristiani sono dalit; forse il 38% sono tribali mentre il resto appartiene alle altre caste.

Quindi il primo attacco è stato per motivi economici, perché gli imprenditori si sentivano minacciati dal crescente sviluppo della popolazione dalit. Esiste anche una motivazione politica?

Monsignor Nayak: Sì, esiste anche un motivo politico.

I dalit e i tribali rappresentano il 40% della popolazione di Orissa, e quando si riuniscono diventano una forza politica notevole. Quindi l’alta casta cerca di dividere queste due comunità.

Quindi subentra un altro aspetto in queste violenze: il contrasto tra le tribù e i dalit.

Provocato da chi o da cosa?

Monsignor Nayak: Da elementi esterni; da gente delle alte caste che vedono danneggiati i propri interessi quando questi due gruppi si uniscono.

Credo che sia importante anche parlare di una nota del Global Council of Indian Christians, che ha catalogato alcune delle violenze.

Questi sono i dati: 92 incidenti di violenza sono stati catalogati come contro i cristiani. Per esempio, quattro cristiani sono stati uccisi con delle spade da una folla di circa un migliaio di nazionalisti indù; due suore sono state stuprate in pubblico e un sacerdote del centro pastorale, padre Thomas, è stato gravemente percosso, spogliato e messo in mostra.

La violenza è drammatica. Vengono date alle fiamme le case, vengono attaccate le chiese e distrutti i conventi. Sono violenze molto aggressive.

Nel dicembre 2007, l’attacco era diretto contro le istituzioni e non contro le persone. Perché? Perché i fondamentalisti indù ritenevano che con i nostri servizi – scuole, assistenza sanitaria e di “elevazione” sociale – la gente era attratta al Cristianesimo. Per questo i numeri crescevano.

Il loro scopo era di distruggere queste istituzioni attraverso le quali i servizi cristiani erano offerti alla gente. Ma non sono rimasti soddisfatti di questo. Questa volta l’attacco ha preso di mira non solo le istituzioni, ma anche le persone, per traumatizzare e incutere timore, al fine di impedire l’esercizio del ministero.

Non si sono limitati all’aggressione contro padre Thomas, ma hanno anche attaccato i tesoriere dell’Arcidiocesi di Bubaneshwar, padre Bernard, e padre Edward di Sambalpur, Roukela.

Sono stati uccisi?

Monsignor Nayak: No, sono stati gravemente picchiati.

La strategia della paura funziona? I cristiani stanno abbandonando le loro zone? Hanno paura per la loro fede? Stanno abbandonando la fede?

Monsignor Nayak: Sì, sta funzionando. Dopo le aggressioni alle persone, si è passati agli attacchi contro i villaggi e nei villaggi sono state distrutte le case. Nelle case non distrutte, è stato detto ai cristiani che se non si fossero convertiti all’Induismo avrebbero rischiato la vita e la distruzione delle proprietà.

In questo modo si cerca di forzare la mano e alcuni si arrendono.

Si convertono?

Monsignor Nayak: Sì. I casi sono molti: più di un migliaio. Non conosco i dati esatti, ma prima che arrivassi in Europa, erano più di mille quelli convertiti all’Induismo.

Perché i cristiani sono così pesantemente minacciati dagli indù, se costituiscono una percentuale così esigua in queste zone?

Monsignor Nayak: I motivi sono diversi. Anzitutto, la presenza cristiana, anche se arriva quasi al 2%, fornisce servizi – educazione servizi sociali e sanitari – che rappresenta quasi il 20% del totale. E si dice che questo è il motivo per l’aumento delle conversioni in questa area. Quindi questo è uno.

Poi si sentono minacciati dall’aumento della popolazione cristiana, anche se da molti anni non si registra alcun aumento numerico sostanziale.

La popolazione è rimasta stazionaria.

Monsignor Nayak: Sì, più o meno è rimasta stazionaria. Ma gli indù sottolineano sempre: conversione, conversione, conversione. E il timore deriva dalla passata esperienza storica con gli inglesi.

Gli inglesi erano venuti per motivi commerciali e poi hanno conquistato l’India governandola per 200 anni. In quel periodo è avvenuta la cristianizzazione e le conversioni. Quindi se si consente ai cristiani di crescere in numero, questi riprenderanno il controllo del Paese.

Riconquisteranno il Paese.

Monsignor Nayak: La conquista del Paese. Questo è il timore... l’infondato timore.

Noi siamo cristiani, ma siamo indiani, non stranieri.

Sì, e anche lì c’è una minaccia, se ho capito bene, contro lo stesso sistema delle caste?

Monsignor Nayak: Sì, quello è un motivo: il dominio politico.

Il secondo è il sistema delle caste. L’Induismo è infuso con il sistema delle caste. Gli indù, quelli dominanti, i brahmini, pensano che senza il sistema delle caste finirebbe anche il loro dominio. Per questo si sentono minacciati dalla diffusione del valore cristiano dell’eguaglianza di tutti gli uomini.

Hanno paura?

Monsignor Nayak: Hanno paura di perdere il loro potere e il loro dominio sulla gente.

Soprattutto perché gran parte delle conversioni cristiane vengono dalle caste inferiori?

Monsignor Nayak: Dai dalit e dai tribali, che prima usavano a loro vantaggio, ma che ora non possono più usare, perché il Cristianesimo dà loro eguali diritti e l’educazione gli dà una “elevazione” anche economica. Per questo quelli delle caste più alte si sentono minacciati nel loro dominio e nei loro interessi.

Ma non hanno ragione? Se il Cristianesimo continuasse a crescere e i cristiani continuassero a insegnare che le persone sono tutte uguali, ciò sarebbe una minaccia per il sistema delle caste. Non è verosimile che a un certo momento i dalit diranno: perché dovremmo essere trattati in modo diverso? Siamo uguali, come ci insegna il Cristianesimo. Quindi, in effetti, gli indù hanno ragione a dire che ciò rappresenta una minaccia per il sistema delle caste.

Monsignor Nayak: Sì, è una vera minaccia al sistema delle caste.

Ma perché di dovrebbe esserci un sistema che rende alcune persone inferiori alle mucche, inferiori agli animali? Gli indù, noi rispettiamo i loro sentimenti; loro trattano e rispettano le mucche come degli dei, ma non rispettano gli esseri umani; non tutti gli indù, ma alcuni gruppi in particolare, che pensano di essere i custodi dell’Induismo.

In India gli indù sono l’84% e in Orissa sono più del 90%. Noi conviviamo insieme felicemente e ci rispettiamo gli uni gli altri. Loro comprendono il valore umano e la dignità umana, ma esiste un piccolo gruppo che è dominante.

Credo che sia importante sottolineare che è solo un gruppo di fondamentalisti estremisti che ha provocato queste violenze. In molti casi, i cristiani che erano perseguitati hanno trovato rifugio nelle famiglie indù e hanno ricevuto da loro accoglienza e protezione.

Questa è la grande gioia e la speranza che riceviamo noi perseguitati: che c’è ancora speranza per poter vivere insieme.

Abbiamo perso molte strutture e molte vite umana. Gli edifici li possiamo ricostruire, ma ciò che è stato perso è la fiducia reciproca tra le genti di diversi gruppi e diverse religioni.

Gente che viveva insieme da secoli e che ora vede incrinarsi quella fiducia. La sfida per ciascuno di noi è cercare di recuperare quella fiducia.

In effetti, la Chiesa cattolica a Orissa, a causa delle Violenze, ha minacciato di chiudere uno degli elementi di forza forse più importanti: le scuole.

I vescovi hanno lasciato intendere che se le violenze dovessero continuare, saranno chiuse le scuole.

Qual è l’importanza delle scuole e dell’istruzione per quest’area? Qual è il suo significato?

Monsignor Nayak: L’istruzione è uno dei più importanti servizi che la Chiesa assicura alla gente. Sebbene siano scuole cristiane, il 90% degli studenti sono indù e musulmani. Quindi il servizio è ben accettato e rispettato.

Perché chiudere queste scuole? Perché da un lato ci sono i nostri fratelli sofferenti e perseguitati, che non hanno case né sicurezza. E dall’altra parte ci si chiede di dare un servizio senza mostrare solidarietà a questa gente perseguitata.

Chiudere le scuole è un modo per mostrare la nostra solidarietà – noi non l’approviamo – ed è anche un modo per richiamare l’attenzione sul fatto che non si deve dare il nostro servizio per scontato.

Nel 2007 vi sono stati dei gravi attacchi; nel 2008 anche, e gli estremisti hanno promesso di farne ancora. Avete paura? Quali misure potete prendere per impedire a questi estremisti di perpetrare altri attacchi di questo tipo?

Monsignor Nayak: Un modo è di costruire una pacifica convivenza tra le persone di buona volontà. Il livello locale è molto importante perché è lì che la gente vive e convive. Sono quelli che vengono da fuori che istigano e dividono la gente. Se la gente locale rimane unita, gli esterni non avranno la possibilità di creare conflitti.

Quindi, costruire una solidarietà locale tra gruppi diversi o religioni diverse sarà la prima cosa da fare. Ricostruire la fiducia che si è persa, convincerci che è possibile vivere insieme, così come è avvenuto da tempo immemore. Questa sarà la priorità.

In secondo luogo, certamente occorrerà dialogare con questi estremisti, questi fondamentalisti, perché le loro idee sulla Chiesa sono molto limitate ed erronee.

L’idea che la Chiesa possa dominare e conquistare l’India è del tutto sbagliata. Se le conversioni sono aumentate e si sono diffuse, i dati numerici sul Cristianesimo dovrebbero dimostrarlo, ma non è così. I dati ufficiali mostrano che il numero è stabile. Anzi, i cristiani crescono anche meno degli altri gruppi. Quindi non esiste alcuna minaccia.

In effetti un dialogo vi è stato tra esponenti cristiani e esponenti di questo gruppo fondamentalista VHP (Vishva Hindu Parishad), Bajrang Dal, il 5 settembre, quando i disordini erano ancora in atto. Un certo “Mr. J”, della J TV, ha organizzato questo incontro, dove ho potuto constatare la loro erronea visione della Chiesa e dei concetti che hanno sulla Chiesa e di come vedono il nostro servizio come una strategia per fare conversioni.

Se il nostro servizio è una strategia per le conversioni, allora le migliaia di persone che hanno usufruito delle nostre scuole e dei nostri ospedali si sarebbero convertiti. Persino alcuni ministri ed esponenti del BJP (Partito del popolo indiano) hanno studiato nelle nostre scuole cristiane e non si sono convertiti. Ma serve a distogliere l’attenzione della gente, dando una falsa impressione e dati falsi sulla Chiesa. Quindi il dialogo potrà certamente chiarire certe questioni.

Non è proprio della fede induista – solo per chiarire, sulla questione della reincarnazione – che se uno è un dalit è perché se lo merita in base a come ha vissuto nella sua vita precedente? E che se vive bene ora, forse nella vita futura potrà tornare a stare in una casta più elevata? Secondo questa visione, la Chiesa cattolica, nel cercare di migliorare la condizione sociale delle persone, sta di fatto creando un ostacolo o una confusione nella tradizione indù in cui la persona deve migliorare la propria vita in funzione della reincarnazione futura? È d’accordo con questo?

Monsignor Nayak: Non sono d’accordo. Personalmente, da cristiano, non credo nella reincarnazione perché considero la vita umana molto preziosa: è a immagine di Dio stesso. Per questo non può poi diventare la vita di un cane. È ciò che è adesso.

Questa opportunità è data agli esseri umani nel momento della loro creazione. Puoi scegliere di fare ciò che vuoi, ma adesso – o mai più.

Dopo la morte non potrai fare niente. Ora puoi scegliere di credere, accettare, vivere una buona vita, e la tua ricompensa sarà il paradiso o l’inferno. Questo è ciò che abbiamo nella nostra fede cristiana, non che si possa diventare un cane o del bestiame; quello noi non lo crediamo.

Ma anche queste persone che pensano di stare nella tradizione induista della reincarnazione, se questo è quello che credono dovrebbero anche dimostrarlo. Invece, molti non vedono questa responsabilità attuale. Se pensassero che la loro posizione attuale sia dovuta alle buone azioni della loro vita passata, non dovrebbero avere il timore di perderla per la vita futura se si dovessero comportare male? Quindi non ci credono, perché se ci credessero starebbero attenti a non comportarsi male per non...

Per non tornare indietro?

Monsignor Nayak: Esatto. Quindi non credo che la loro fede sia retta da questa luce, non credo.

Concettualmente ci credono, ma in realtà no: sono impegnati nell’ora, in ciò che gli piace, ciò che gli interessa economicamente, socialmente; il dominio politico che vogliono mantenere. Quindi questo è il motivo: l’interesse economico, politico e religioso e quello della casta. E tutte queste cose stanno complicando la situazione.

Quali sono le sue speranze per il futuro dei cristiani nello Stato di Orissa?

Monsignor Nayak: I rapporti dei cristiani con gli altri gruppi, soprattutto gli indù, sono destinati a migliorare perché vi sono già molte voci che si levano per affermare il bene che la Chiesa e i cristiani stanno facendo e di come stiano soffrendo da innocenti.

La mia speranza, per la mia fede, è che le nostre sofferenze non vadano mai sprecate. Dio ci assicura che “ogni goccia delle nostre lacrime è raccolta in un otre”; nel nostro caso sarà in una piscina, ma sicuramente non andranno sprecate.

Il seme dei martiri, il sangue dei martiri sono il seme della fede. Di questo sono convinto. E sicuramente questo ci ridarà vita e la fede cristiana e la Chiesa saranno all’altezza della chiamata ad essere sacramento di salvezza in Orissa, a Kandhamal.

Quindi sono come agnelli sacrificali?

Monsignor Nayak: Sì. Non è una novità. I cristiani hanno sempre sofferto e non è una novità. È dall’inizio del Cristianesimo, dall’inizio della Chiesa: si dice che la Chiesa nasce dalla ferita del costato di Gesù.

La salvezza del mondo non verrà solo dal nostro servizio, ma anche dal nostro abbandono della vita stessa attraverso la sofferenza.

È così che lei incoraggia i suoi fedeli cristiani? Dicendogli che parte della nostra vita cristiana è di accettare ed essere consapevoli di dover portare la croce di Cristo?

Monsignor Nayak: Sì, non esiste altra via se non quella della croce, per i cristiani. Tra l’uccidere o essere uccisi, i cristiani non devono uccidere.

Gesù ci ha insegnato questo: lasciati uccidere. Se la mia morte salverà l’umanità, sono pronto.


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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.


Legionari. Il passato che non vuole passare - Gli eredi e custodi dell'indegno fondatore Maciel non accettano di lasciare i posti di comando. Ma il delegato papale De Paolis lancia un ultimatum: o cambiano, o sarà "naufragio" per tutti. Il testo integrale della sua lettera di Sandro Magister

ROMA, 25 ottobre 2010 – Ora che è stato promosso cardinale, l'arcivescovo Velasio De Paolis avrà ancora più autorità nell'attuare il mandato che ha ricevuto da Benedetto XVI per il salvataggio dei Legionari di Cristo, portati sull'orlo della rovina dal loro stesso fondatore Marcial Maciel e dagli uomini della sua cerchia.

Ma le difficoltà che il delegato pontificio sta incontrando sono notevoli. I superiori della congregazione, il più potente dei quali è il vicario generale Luís Garza Medina (nella foto), non rinunciano affatto all'idea di restare ai loro posti di comando, ora e sempre.

A metà settembre De Paolis ha chiesto a Garza di lasciare le principali cariche che detiene, almeno quelle di direttore territoriale per l'Italia, di responsabile delle vergini consacrate del movimento Regnum Christi, di prefetto generale degli studi e di capo della holding finanziaria Integer. Ma Garza ha risposto di no. Tra i due è sceso il gelo.

De Paolis è in carica dal 16 giugno, ma solo da questo ottobre può operare e decidere in pieno, da quando finalmente gli sono stati dati i quattro "consiglieri" che le autorità vaticane gli avevano promesso quattro mesi prima. Uno di loro, Brian Farrel, è un legionario con un importante ruolo nella curia vaticana, fautore di una svolta risoluta nel cammino della congregazione. Altri due, il gesuita Gianfranco Ghirlanda e il giuseppino Agostino Montan, sono canonisti di grande esperienza, ancor più a sostegno di un'azione decisamente riformatrice. Più incline a mediare con i capi dei legionari appare il quarto, Mario Marchesi, in passato professore nel loro ateneo.

Lo scorso 19 ottobre, De Paolis ha indirizzato ai legionari e ai membri del Regnum Christi una lunga e ben costruita lettera, riprodotta integralmente più sotto, dalla quale si ricavano indicazioni abbastanza chiare sul cammino di "ricostruzione" e "rinnovamento" che il delegato pontificio intende percorrere. E sugli ostacoli che incontra.

De Paolis definisce il suo progetto "cambiamento nella continuità", con l'accento sulla prima parola. Da cambiare – scrive – sono "non poche cose". Riguardano la libertà di coscienza, il ruolo dei confessori e direttori spirituali, le forme di controllo sulla vita quotidiana, e altro. Ma il punto su cui egli insiste di più è "il problema dell'esercizio dell'autorità all'interno della Legione", compreso il modo con cui i superiori si rapportano tra loro.

Alla necessità che i superiori cambino il loro modo d'agire De Paolis dedica numerosi passaggi e un intero paragrafo della lettera. Per la prima volta in un documento ufficiale di Chiesa, egli mette nero su bianco la tesi secondo la quale "gli attuali superiori non potevano non conoscere le colpe del fondatore", per cui "tacendole essi avrebbero mentito". Non sottoscrive questa tesi, ma neppure la esclude. Nell'ipotizzare che la loro conoscenza delle nefandezze del fondatore sarebbe avvenuta "tardi e gradualmente", non dice né come né quando. E in effetti è ormai di dominio comune, anche tra le alte autorità vaticane, che Garza e gli altri fedelissimi di Maciel conoscessero e coprissero la sua doppia vita già dai primi anni Novanta, molto prima della sua condanna nel 2006 e della sua morte nel 2008.

Ma nonostante ciò, dalla lettera di De Paolis si ricava che né lui né le autorità vaticane intendano per ora rimuovere con un atto d'imperio i superiori della Legione. Quello che cercano di ottenere è che essi lascino le cariche di loro volontà o almeno cambino da subito il loro atteggiamento, perché – è detto nella lettera – "se ci lasceremo prendere dalla volontà di prevalere, e di imporre le proprie idee contro gli altri, il naufragio è certo".

Sta di fatto che, sinora, di questa auspicata conversione non si vede traccia, nei capi. Facendo muro, essi bloccano l'uscita allo scoperto e la presa d'iniziativa della parte sana della Legione, di quelle decine, centinaia di sacerdoti e novizi che anelano a un rinnovamento della loro vita religiosa, ma continuano a soffrire vincoli e pressioni molto asfissianti, a livello individuale e collettivo.

In ogni caso, se il calcolo dei superiori della Legione era di risolvere tutto in tempi brevi, pochi mesi, e con aggiustamenti minimi, De Paolis con questa lettera cancella ogni loro illusione. Il processo di ricostruzione – scrive – prenderà "il tempo necessario, che si prevede di almeno due o tre anni o anche più". E cita l'esortazione di Dio al profeta Elia: "Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino".

Il delegato pontificio annuncia la costituzione di tre commissioni: la prima per la revisione a fondo delle costituzioni; la seconda per le vittime e le richieste di risarcimento; la terza per i problemi di ordine economico, sinora dominio incontrastato di Garza.

Per il movimento laicale Regnum Christi – che sarà presto indagato da un visitatore apostolico, Ricardo Blázquez, arcivescovo di Valladolid – viene prospettata una maggiore autonomia rispetto alla Legione.

Quanto al carisma specifico dei legionari, la lettera di De Paolis lo individua nell'educazione di sacerdoti e laici, nelle scuole e nelle università, a una cultura cristiana capace di reagire alla cultura diffusa "inficiata di immanentismo e relativismo".

È difficile, se non impossibile, che i superiori della Legione riescano a rovesciare queste linee direttrici. Ma ostacolarle sì. E in assenza di rapidi passi avanti nel cammino di rinnovamento, altri sacerdoti se ne andranno, non "teste calde" come i loro superiori dicono, ma tra i migliori, in aggiunta a quelli che hanno già lasciato, incardinandosi nel clero diocesano. Le nuove vocazioni spariranno, come già si inaridiscono un po' ovunque, ad esempio in Italia, dove quest'anno è entrato un solo novizio.

Stando così le cose, se si vuole dare fiducia e coraggio al corpo sano della Legione di Cristo, il segnale di svolta non può essere che uno ed urgente: la rimozione di quei capi, almeno i maggiori, che devono tutto il loro potere all'uomo che l'ha fondata e insieme inabissata. E ancora continuano a tenerla in prigione.

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LETTERA DEL DELEGATO PONTIFICIO AI LEGIONARI - Congregatio Legionariorum Christi Delegatus Pontificius Roma, 19 ottobre 2010

Ai Legionari di Cristo
e ai membri consacrati del Regnum Christi

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,

dalla prima lettera che vi ho inviato in data 10 luglio, inizio del compito che il Santo Padre mi ha voluto affidare verso i Legionari di Cristo e il movimento Regnum Christi, collegato con loro, sono trascorsi tre mesi. Si è trattato di un tempo di vacanze estive, durante il quale l’impegno del lavoro è piuttosto affievolito. Tuttavia è stato un tempo prezioso per il cammino intrapreso. Molti hanno fatto sentire la loro voce, inviando i loro scritti o incontrandomi personalmente. Sono stati molti. Purtroppo non ho potuto ascoltare tutti quelli che lo desideravano. Ma spero che il cammino, che si prevede ancora lungo, lo permetterà in seguito. Né ho potuto rispondere ai tanti che hanno fatto sentire la loro voce per scritto. Non pochi hanno voluto inviarmi i loro auguri e saluti. Evidentemente non posso rispondere a ciascuno personalmente.

Colgo volentieri l’occasione per ringraziare tutti coloro che si sono fatti presenti: coloro che hanno voluto semplicemente farsi presente con un saluto ed un augurio; coloro che hanno voluto raccontare anche la storia della loro vocazione ed esprimere la loro volontà di rimanere fedeli alla propria vocazione religiosa e sacerdotale nella Legione, come fedeltà a Dio e alla Chiesa; coloro che hanno offerto anche i loro suggerimenti per il cammino di rinnovamento che siamo chiamati a percorrere, sia per avvertire dei pericoli che si corre quando si venga presi dalla voglia di cambiamento, sia per incoraggiare a cambiare e a rinnovare la Congregazione. Sono certo che tutti si muovono con il desiderio di operare per il bene; e certamente tutti sottolineano aspetti da tenere presenti nel cammino.

Vorrei invitare alla riflessione. Ciascuno di noi, sia pure con la maggiore buona volontà, in genere è parziale nella propria visione e valutazione dei fatti e delle esigenze di rinnovamento; pertanto invece che creare contrapposizioni per fare trionfare la propria visione, è necessario che ciascuno guardi anche agli altri e sia aperto e disponibile alla valutazione degli altri. Dalla valutazione e dai contributi di tutti, siamo chiamati ad un discernimento che ci porti alla strada del cambiamento nella continuità della stessa vita della Congregazione. Di fatto non si può negare che non poche cose vanno, dopo seria ponderazione, cambiate o migliorate; altre, e sono le fondamentali, circa la vita religiosa e sacerdotale, vanno conservate e promosse.

L’importante è soprattutto che ciascuno sia mosso dal desiderio di bene e dalla volontà di convertirsi sempre di più al Signore, sotto la guida della Chiesa, per essere disponibili alla sua volontà e progredire nel cammino della fedeltà e della santità, secondo la vocazione propria. Se si procederà uniti e rispettosi gli uni degli altri, il cammino sarà spedito e sicuro; se ci lasceremo prendere dalla volontà di prevalere, e di imporre le proprie idee contro gli altri, il naufragio è certo.

La responsabilità pertanto è grande e ciascuno la deve sentire di fronte alla propria coscienza, di fronte a Dio, di fronte alla Chiesa e alla Congregazione. Con questo spirito e con questo incoraggiamento, vi invio questa lettera con la quale comunico qualche notizia e qualche riflessione sul cammino percorso e sulla prospettiva del futuro.

I. Completamento del quadro per l’accompagnamento

1. Nella presentazione della lettera pontificia di nomina ho precisato che ulteriori determinazioni sarebbero state date in seguito con la pubblicazione del decreto del Segretario di Stato, che porta la data del 9 luglio 2010. Si tratta di un decreto che vi è stato già comunicato ed è da voi conosciuto. In questo Decreto viene precisato un punto fondamentale che va tenuto presente: con la nomina del Delegato Pontificio la Legione non viene commissariata, ma viene accompagnata nel suo cammino attraverso il Delegato Pontificio. Il Decreto Pontificio infatti, riconosce e conferma i superiori attuali. Questo significa da una parte che i superiori rimangono in carica a norma delle costituzioni; e dall’altra che essi devono procedere in armonia con lo stesso Delegato Pontificio. Ciò significa anche che la prima istanza per una trattazione dei problemi della stessa Legione sono i superiori, ai quali i religiosi sono pertanto invitati prima di tutto a  rivolgersi.

2. Nello stesso tempo ho precisato che la mia funzione avrebbe potuto attivarsi pienamente solo quando mi fossero stati dati i consiglieri, che mi sarebbero stati di aiuto nel mio compito di Delegato Pontificio. In questi giorni è stata comunicata la notizia di questi consiglieri. Essi sono:

– S.E. Mons. Brian Farrell, L.C., segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
– P. Gianfranco Ghirlanda, S.I., ex rettore della Pontificia Università Gregoriana.
– Mons. Mario Marchesi, vicario generale della diocesi di Cremona.
– P. Agostino Montan, C.S.I., direttore dell’Ufficio per la vita consacrata della diocesi di Roma e vice-decano della facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense.

3. C’è anche una precisazione per quanto riguarda il movimento Regnum Christi, particolarmente per le persone consacrate. S. E. Mons. Ricardo Blázquez, arcivescovo di Valladolid, è stato costituito visitatore dei consacrati nel movimento Regnum Christi. Tale visita sarà attuata sotto la responsabilità del Delegato Pontificio e in coordinamento con la sua responsabilità su tutta la Legione di Cristo e il movimento Regnum Christi. Il movimento Regnum Christi è un bene prezioso indivisibilmente associato alla Legione. Questa deve sentirne la responsabilità e deve continuare ad offrire la sua cura; ma anche questo rapporto deve essere oggetto di una serena riflessione, e fa parte del cammino di rinnovamento che riguarda la Legione stessa e le sue costituzioni, anche in riferimento ai membri del Regnum Christi.

4. Inizio di una nuova fase

Preciso ancora che il mio incarico di Delegato Pontificio non è neppure quello di visitatore apostolico, che ha il compito fondamentale di incontrare persone, raccogliere informazioni per avere un quadro della situazione reale e offrire all’Autorità competente suggerimenti e proposte quali rimedi per curare le situazioni non conformi all’ideale evangelico della vita religiosa.

Il compito di visitatore è stato assolto dai cinque vescovi incaricati dal Santo Padre a visitare tutta la Congregazione.

Tale compito si è protratto per quasi un anno. Il risultato è stato presentato al Santo Padre, che ha indicato, con la nomina del Suo Delegato, il cammino ulteriore, che non consiste più in quello di visitatore o commissario, ma in quello di accompagnare il cammino di rinnovamento, particolarmente in vista di un Capitolo Straordinario che dovrà elaborare un testo costituzionale da sottoporre alla Sede Apostolica. Si tratta di un cammino che dovrà partire dalle indicazioni emerse dalla visita apostolica e fatte proprie dalla Santa Sede, perché sulla base di esse ci si avvii verso il necessario rinnovamento.

È un compito che spetta a tutti e tutti pertanto devono essere coinvolti e responsabilizzati. Ma è evidente che tale compito compete soprattutto ai Superiori che sono chiamati ad organizzare, stimolare, suscitare e impegnare tutti, attivamente e ordinatamente, in questo rinnovamento. A questo stadio del cammino della Congregazione è di estrema importanza che i Superiori svolgano bene il loro compito.

Questo è anche l’aiuto principale che il Delegato Pontificio è chiamato a offrire. Il Santo Padre, avviando questa nuova fase del cammino, ha rinnovato la sua fiducia nella Congregazione; tale fiducia potrà avere esito positivo solo se ad essa seguirà la fiducia dei Legionari, che sono caldamente invitati ad abbandonare sospetti e diffidenze e ad operare fattivamente e positivamente per il bene della Legione, senza attardarsi ancora sul passato e senza alimentare divisioni. Dopo la fase della visita apostolica, è seguita quella nuova della ricostruzione e del rinnovamento. È quella nella quale siamo invitati ad inserirci.

II. Notizie e valutazioni

1. Nei tre mesi che sono intercorsi tra la pubblicazione della mia nomina e quella dei miei consiglieri, ho avuto diversi incontri, benché fossimo in periodo estivo e quindi di vacanze, con i superiori dell’istituto, sia per trattare alcuni problemi urgenti che si ponevano di volta in volta, sia anche per dare risposte ad attese che erano nell’aria e per offrire precisazioni su questioni che la prassi veniva di volta in volta ponendo.

2. Ho avuto così diversi incontri con la direzione generale, e ultimamente con la direzione generale e i superiori provinciali che si trovavano a Roma. Non si è trattato tanto di decisioni, rinviate a quando fossero nominati i quattro consiglieri del Delegato Pontificio; si è riflettuto piuttosto su aspetti di ordine generale e si è cominciato ad individuare alcune questioni da affrontare, sulle procedure da adottare, su problemi da chiarire, ecc. Sono stati presentati anche sia pure in modo molto sintetico alcuni rilievi emersi dalla riflessione dei visitatori della stessa Congregazione. Si è parlato del rapporto tra la situazione personale del Fondatore e la realtà carismatica e spirituale della stessa Legione; si è tentata anche una prima riflessione sul problema dell’esercizio dell’autorità all’interno della Legione; sul tema della libertà di coscienza, dei confessori e dei direttori spirituali; si è compiuto qualche riflessione sul cammino da percorrere per la revisione delle costituzioni, con particolare riferimento alla struttura di esse, nel rapporto tra norme costituzionali e altre; si è cercato anche di chiarire bene il rapporto tra i superiori della Legione e il Delegato Pontificio; e altri argomenti del governo della Congregazione.

3. Si sono individuati alcuni problemi per i quali si prevede che sarà necessaria la  costituzione di una commissione: anzitutto e principalmente la commissione per la revisione delle costituzioni; ma si prospetta anche la necessità di una commissione di avvicinamento di coloro che in qualche modo avanzano pretese nei confronti  della Legione, e di una commissione per i problemi di ordine economico.

4. Non è mancato neppure un accenno ai tempi che si prevedono, per portare a termine il cammino. Da parte dei Legionari si rileva un desiderio di affrettare i tempi. Ma si è insistito sulla necessità di prendere il tempo necessario, che si prevede di almeno due o tre anni o anche più.

5. Leggendo le numerose lettere giunte, in linea generale si tratta di reazioni positive. Si ringrazia il Santo Padre per il suo intervento e per la nomina del Delegato Pontificio; si esprime la propria disponibilità a collaborare con lo stesso Delegato e si assicura la preghiera; si ringrazia il Signore per la vocazione ricevuta e si esprime fiducia nella Congregazione dei Legionari, nella quale si vuole perseverare. I seminaristi in genere si sono limitati ad esprimere la volontà di perseverare nella vocazione. Alcuni sacerdoti hanno espresso anche dei suggerimenti, delle perplessità, dei dubbi e difficoltà, soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione e la prassi sul foro interno, sull’esercizio dell’autorità e sulla nomina dei superiori o i cambiamenti; sulla formazione; qualcuno ha chiesto un tempo di riflessione come extra domum, o la volontà di lasciare la stessa Congregazione.

III. Alcuni punti specifici di maggiore rilievo

1. Vicenda del Fondatore e la reazione dei Legionari

La grande maggioranza dei Legionari, di fronte alla vicenda del Fondatore, ha reagito positivamente riaffermando la gratitudine a Dio per la loro vocazione e scoprendo il tanto bene che la Legione aveva pure compiuto e sta tuttora compiendo. La Legione del resto è stata approvata dalla Chiesa e non può non essere ritenuta opera di Dio, al servizio del Suo Regno e della Chiesa. Le responsabilità del Fondatore non possono essere trasferite semplicemente sulla stessa Legione de Cristo.

2. Superiori attuali e loro responsabilità

Una difficoltà è ritornata più volte e da più parti secondo la quale gli attuali superiori non potevano non conoscere le colpe del Fondatore. Tacendole essi avrebbero mentito. Ma si sa che il problema non è tanto semplice. Le diverse denuncie pubblicate sui giornali fin dagli anni 1990 erano ben note, anche ai superiori della Congregazione. Ma altra cosa è avere le prove della fondatezza e più ancora la certezza di esse. Questa è avvenuta solo molto più tardi e gradualmente. In casi simili la comunicazione non è facile. Si impone l’esigenza di ritrovare la fiducia, per la necessaria collaborazione. 

3. Il carisma della Legione   

Un’altra questione molto delicata è quella del carisma della stessa Legione. La mancata distinzione tra norme costituzionali e norme di diritto ha forse nociuto all’individuazione del carisma stesso. Ma sembra innegabile che esso risulta sufficientemente chiaro e preciso, ed è quanto mai attuale. Si impone una riflessione ed approfondimento.

Vogliamo accennare ad un solo aspetto. La cultura attuale è secolarizzata, inficiata di immanentismo e relativismo. Tale mentalità caratterizza la cultura del tempo e le persone che oggi fanno opinione o si ritengono detentrici della cultura. È questione di cultura e questione quindi di leadership: ossia di persone nelle cui mani risiede la guida della società. Siamo di fronte ad una società che non esprime più personaggi di spessore culturale cristiano e segnatamente cattolico. Nello stesso tempo sappiamo che la fede non può essere ricondotta solo a livello privato.

La società di oggi per essere cristianizzata ha bisogno di persone che possano assumere la responsabilità della società di domani, che si formano nelle scuole e nelle università, di sacerdoti, persone consacrate e laici impegnati, ben formati, di apostoli della nuova evangelizzazione.

Il passato deve guidarci ad inserirci nel presente. La Chiesa ha plasmato il passato, ha contribuito ad una visione cristiana della vita, attraverso i monasteri, le università, gli studi e la cultura. La Chiesa riafferma questo quando parla di nuova evangelizzazione e progetta il nuovo dicastero per la nuova evangelizzazione. Penso che la Congregazione dei Legionari di Cristo trovi proprio in questo campo il suo spazio di servizio alla Chiesa. E questo fa bene sperare per il futuro.

IV. Riflessione conclusiva

A me pare che si può e si deve sperare in un positivo cammino di rinnovamento. Vi sono all’orizzonte tanti segni che fanno bene sperare per un approdo positivo al termine del cammino. Lo shock provocato dalle vicende del Fondatore è stato di un impatto terribile, in grado di distruggere la stessa Congregazione, come del resto tanti vaticinavano. Essa invece non solo sopravvive, ma è ancora quasi intatta nella sua vitalità. La grande maggioranza dei Legionari ha saputo leggere la storia della propria vocazione, non tanto in relazione al Fondatore, ma in relazione al mistero di Cristo e della Chiesa, e rinnovare la propria fedeltà a Cristo e alla Chiesa, nella Legione.

La capacità di leggere in una dimensione soprannaturale la loro vicenda ha permesso loro di non perdersi e smarrirsi. La stella polare della fedeltà alla Chiesa e dell’obbedienza al Papa li ha preservati da facili scoramenti e abbandoni. Non pochi hanno raccontato la loro reazione agli avvenimenti. La gran parte afferma che non ha avuto nessuna esitazione a riconfermare la propria fedeltà e il proprio impegno davanti a Dio e alla Chiesa. Più di qualcuno ha comunicato che ha avuto una prima reazione di stizza e quasi di rabbia, con la sensazione di essere stato tradito; ma poi si è ripreso. Qualcuno ha meditato anche di lasciare la Legione, per entrare in una diocesi. Ma si è trattato, tutto sommato, di pochi, che hanno scelto tale strada.

Qualche abbassamento si è avuto nella promozione vocazionale. In questi casi la difficoltà è venuta particolarmente dai parenti, che non hanno saputo discernere sufficientemente nel grande clamore sollevato dai mezzi di comunicazione la verità dalla falsificazione. In questo vortice di opinione pubblica purtroppo si è lasciato prendere anche qualche legionario che ha desistito dall’impegno di promozione vocazionale.

Nel cammino che rimane da percorrere, si annida forse un pericolo che va menzionato ed è tipico nelle situazioni di questo genere. Nella vicenda dei Legionari di Cristo si sta vivendo una specie di paradosso. Per gli Istituti religiosi in genere si lamenta che in nome del rinnovamento postconciliare richiesto dal Concilio, è venuta a mancare la disciplina e il senso dell’autorità, con una certa rilassatezza anche nella pratica dei consigli evangelici e con una crisi vocazionale impressionante, nonostante la ricchezza della teologia sulla vita religiosa che si è  sviluppata in questo periodo; per i Legionari invece si tratta di aprirsi di più a questo rinnovamento postconciliare della disciplina e dell’esercizio dell’autorità. Il pericolo di andare oltre il segno e di innescare un meccanismo di disimpegno disciplinare e spirituale è reale; e serpeggia particolarmente tra qualche sacerdote o religioso. Questo pericolo è temuto dallo stesso Superiore Generale, il quale, esprimendo al Papa il suo impegno di obbedienza e di fedeltà, chiedeva però che l’istituto in questo cammino di rinnovamento sia preservato da questo pericolo, ossia dal pericolo che l’impegno per il rinnovamento si trasformi in indisciplinatezza e rilassatezza.

Rinnovo il mio invito a tutti voi di intensificare in questo periodo la vostra preghiera. L’angelo del Signore disse al profeta Elia: "Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino" (1 Re 19, 7). Così anche noi ci accostiamo con fiducia alla fonte inesauribile dell’Eucaristia, dove Cristo stesso è il nostro Sostegno e Compagno di viaggio. Che Dio vi benedica tutti.

Devotissimo

+ Velasio De Paolis, C.S.


Benedetto XVI ha ribadito oggi il carattere vincolante della Sacra Scrittura di Salvatore Izzo © Copyright (AGI), 25 ott. 2010

Benedetto XVI ha ribadito oggi "il carattere vincolante della Sacra Scrittura, la cui testimonianza rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni religiose permanentemente valide della Chiesa stessa.
Convinzioni - ha aggiunto - che si manifestano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste".
Per il Papa e' dunque valida la "lettura" di Erik Peterson, il teologo protestante convertitosi al cattolicesimo, che l'Osservatore Romano definisce oggi "una delle figure piu' eminenti del XX secolo" e alla cui opera e' dedicato il convegno in corso in questi giorni a Roma in occasione del cinquantesimo anniversario della morte.
All'invontro hanno partecipato anche l'ex presidente dei vescovi tedeschi, card. Karl Lehmann, vescovo di Mainz, e i familiari di Peterson.
Ricevendo il gruppo, il Papa ha ripercorso con rapidi tratti la biografia dello studioso di Amburgo sottolineando come la difficile situazione politica in Germania dopo la prima guerra mondiale, ormai priva di certezze, si riflettesse anche nel dibattito teologico.
In quel contesto il protestante Peterson decise di lavorare in campo storico e di affrontare specialmente problemi di storia delle religioni. Di li' parti' il cammino di ricerca durante il quale Peterson, che volle trasferirsi a Roma, giunse sempre piu' alla certezza che non c'e' nessuna storia staccata da Dio e che in questa storia la Chiesa ha un posto speciale e trova il suo significato.
Nel suo intervento, Benedetto XVI ha messo in evidenza i capisaldi della riflessione teologica petersoniana e ha affermato che il suo motto poteva essere la frase della Lettera agli Ebrei: "Non abbiamo quaggiu' una citta' stabile".
"Erik Peterson — ha ricordato Benedetto XVI - non ha mai trovato un vero posto in tutta la sua vita, dove poter ottenere riconoscimento e stabile dimora. E proprio la precarieta' della sua esistenza (acuita dalla perdita dell'insegnamento dopo la sua conversione al cattolicesimo) ha determinato il fatto che molte delle cose da lui pensate e scritte siano rimase frammentarie".
Particolarmente prezioso, percio', ha sottolineato il Papa e' stato e continua a essere l'impegno di quanti stanno lavorando all'edizione della sua opera e alla sua traduzione in varie lingue (italiano, francese, spagnolo, inglese, ungherese e perfino cinese). Un'opera nella quale emerge chiaramente come il suo pensiero non si ferma mai ai dettagli, ma sa contemplare sempre l'insieme della teologia.
"Non abbiamo quaggiu' una citta' stabile" e percio' Peterson - ha concluso Ratzinger - "anche quando non aveva la sicurezza di uno stipendio fisso, non esito', una volta giunto a Roma, a sposarsi e a formare una famiglia, confidando nella provvidenza di Dio ed esprimendo in modo concreto la sua convinzione interiore che noi, pur essendo stranieri sulla terra, troviamo tuttavia un sostegno nella comunione dell'amore, e che nell'amore stesso vi e' qualcosa che dura per l'eternita'. Andiamo infatti in cerca di una citta' futura.


BRASILE: il peso dell’aborto sulle elezioni presidenziali - Lunedì 25 Ottobre 2010 CR n.1163 del 23/10/2010 dal sito http://www.corrispondenzaromana.it

Mentre si avvicina il secondo turno delle elezioni per eleggere il nuovo presidente del Brasile (cfr. CR n. 61, 9 ottobre 2010), l’arcivescovo di Paraíba, monsignor Aldo Pagotto, ha denunciato la campagna di «disinformazione e di manipolazione delle coscienze», con la quale il Partito dei Lavoratori ha tentato di convincere gli elettori di un presunto cambiamento di atteggiamento verso l'aborto istituzionale allo scopo di accaparrarsi i voti degli elettori pro-vita nel secondo turno di votazione a favore della candidata presidenziale del governo, Dilma Rousseff.

In un video diffuso il 12 ottobre, il presule ha spiegato che le azioni del PT (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) contraddicono il suo presunto cambiamento di posizione contro questa pratica anti vita e ha aggiunto che il gruppo politico usa sistematicamente la menzogna per indurre in errore gli elettori circa i suoi progetti reali per il paese.

«Quando la democrazia si trasforma in questo tipo di demagogia, per ottenere voti, è la dittatura che si profila», ha detto l'Arcivescovo, e ha avvertito che la posizione del PT pro-aborto non è basata su “voci” come sostenuto dal Presidente Lula.

Elogiando l'atteggiamento dei vescovi di San Paolo che nel loro “Appello ai brasiliani e alle brasiliane” hanno denunciato le manovre del PT per promuovere l'aborto, Mons. Pagotto ha affermato la necessità per ogni prelato brasiliano di far sentire la sua voce. «Siamo di fronte a un partito che è istituzionalmente compromesso con l’installazione della cultura della morte nel nostro Paese, (...) che impedisce ai suoi membri a seguire la propria coscienza, che utilizza sistematicamente lo stratagemma per ingannare gli elettori circa i loro reali progetti per la nazione», ha avvertito.

L'arcivescovo ha quindi ricordato che dagli anni ‘90, la cultura della morte in Brasile è stata sistematicamente introdotta dai massicci finanziamenti delle grandi fondazioni internazionali che trovano nel PT il suo principale alleato. «Fin dal suo arrivo al potere, il Partito dei Lavoratori ha assunto come progetto di governo la piena legalizzazione dell'aborto in Brasile» ha aggiunto. «Nel corso degli anni questo è stato ripetuto molte volte. E ciò dovrebbe far giustamente concludere che questo atteggiamento pro-aborto da parte del PT non è un equivoco, non è il frutto di una codardia, né un vizio, o un errore di percorso, ma una vera e propria strategia per implementare la cultura della morte in Brasile» (www.lucisullest.it, 19 ottobre 2010).


PERSECUZIONI ANTICRISTIANE: una profanazione anticristiana ogni due giorni - Articoli CR Lunedì 25 Ottobre 2010 CR n.1163 del 23/10/2010 dal sito http://www.corrispondenzaromana.it

Croci capovolte e insudiciate da simboli nazisti nel santuario dedicato alla Madonna di Saint-Loup (Jura), vandalismi su tombe e cappelle nel cimitero d’Hénin-Beaumont (Pas-de-Calais), statue sottratte nella chiesa Saint-Géry de Valenciennes (Nord), lampadari ridotti in frantumi e una via crucis incendiata a Saint-Pierre de Pouan-les-Vallées (Aube), risalente al XIII secolo.

Nell’indifferenza, la Francia un giorno su due è teatro di profanazioni. Secondo una nota della direzione generale della gendarmeria nazionale, che “Le Figaro” (22 settembre 2010) si è procurata, l’anno scorso sono stati registrati non meno di 184 profanazioni di tombe, appena diciannove in meno rispetto al 2008. “I fatti perpetrati nei cimiteri sono essenzialmente degradi di stele, di ornamenti e di iscrizioni”, nota il rapporto, precisando che le profanazioni rilevate dai gendarmi – che coprono il 95% del territorio – riguardano “per lo più tombe cristiane o chiese”.

Gli atti di vandalismo che colpiscono i luoghi di culto hanno raggiunto un livello di guardia tale che sono stati enumerati da un sito, www.indignations.org, animato dal comitato Indignations, creato nel giugno del 2005 all’indomani di una parodia di matrimonio omosessuale nella cattedrale Notre-Dame di Parigi.

“In generale, le indagini non permettono sempre di individuare le motivazioni reali degli autori, ammettono i gendarmi. In effetti, gli elementi di prova scoperti talvolta generano confusioni (per esempio le svastiche che accompagnano i graffiti satanici)”. “Le persone interpellate generalmente dichiarano di aver agito senza una motivazione ideologica, per gioco, mimetismo o inoperosità”, afferma il rapporto, ricordando che otto profanazioni su dieci sono imputabili a “individui isolati che soffrono di problemi psichiatrici”. Se due fatti sono imputabili ad “adoratori del demonio”, qualificati come “minoritari”, gli analisti dell’Ufficio di Affari Criminali (BAC) notano che “sulla totalità dei fatti censiti nel 2009, numerosi sono i casi in cui si suppone la matrice satanica (croci rotte e capovolte)”. Infine la presenza di alcol è un “fattore importante di passaggio all’atto, in particolare tra gli adolescenti e i giovani”.



Debolezza del pensiero debole di Mario Marcolla - Questa nota di Mario Marcolla delinea taluni tratti della filosofia italiana contemporanea, che, pur metabolizzando con scarsissima originalità esiti concettuali d’Oltralpe, aspirerebbe a porsi come la verità del tempo. Una volta però smascherato il terrorismo della chiacchiera che perpetrano i “flebili” autori del pensiero “debole” apparirà manifesto perché essi siano consegnati al dibattito dei rotocalchi o delle gazzette. [Da «Studi Cattolici», n. 298, dicembre 1985, pp. 748-751]

Nichilismo da salotto

Su L’Espresso del 23 giugno scorso Sandro Magister, nell’articolo Libertà, fraternità, carità, solleva la questione della supposta “frattura che separa la Chiesa dalla cultura diffusa nel nostro tempo”. Egli scrive che “i problemi posti dai filosofi dell’Areopago d’oggi, come Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, sono a essa per lo più sconosciuti”. Come già avvenne subito dopo il Concilio molti critici accusano la Chiesa di essere in ritardo nel recepire i messaggi della cultura contemporanea e. quindi. di non poter capire ciò che anima la società nella quale essa vive. Allora, l’accostamento a marce forzate verso il marxismo da parte di alcune frange cattoliche produsse il fenomeno della contestazione a sinistra nelle comunità del dissenso. Anche la teologia ne fu investita e si ebbe la fioritura dei teologi della secolarizzazione, che cercarono di portare la cultura ecclesiale al passo con l’idea di progresso e di sviluppo. Ora, invece, si tratterebbe di riconoscere la cultura del post-moderno che incalza, su basi nietzschiane, heideggeriane e nichiliste, onde poter decifrare e comprendere i fenomeni religiosi e sociali degli anni Ottanta. “Pensatori solitari?”, si chiede Magister riferendosi agli autori citati. £ risponde: «Non è detto. Prendiamo l’ultimo libro di Vattimo, La fine della modernità. La “chance positiva” che Vattimo rivendica all’esistenza attuale dà voce al vivere irriflesso di grandi masse, che la Chiesa non dovrebbe ignorare semplicemente perché sgradevole. Questa “chance” è che nessun binario è più imposto al cammino degli uomini. Alla Storia universale, sostiene Vattimo, succede la disseminazione di storie particolari, il vortice delle mille soggettività. Ai valori fondanti, incontrovertibili, subentra la convertibilità di ogni cosa e persona in merce. Perenne Nashville, la nuova età non conosce più diaframmi tra vita e spettacolo, tra il consumare e l’essere consumati, tra la morte e il gioco». La lunga citazione è motivata dalla necessità di capire come la cultura dei filosofi crei da tempo in alcuni cattolici un complesso di inferiorità radicale, quasi la vergogna di appartenere a un mondo di fede che non conosce il pensiero forte della filosofia areligiosa, anche quando esso si trasforma in “pensiero debole” orientato a definirsi come “sapere esplicitamente residuale, che avrebbe molti dei caratteri della divulgazione (con la filosofia non a fondamento, ma a conclusione delle scienze): che si collocherebbe dunque al livello di una verità debole, la cui debolezza potrebbe richiamarsi all’ambiguità di svelamento e velamento che è propria della Lichtung heideggeriana” (Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, p. 187).

Struttura heideggeriana

Questo riferimento alle note conclusive dell’opera di Vattimo intende richiamare l’attenzione sulla struttura heideggeriana del suo pensiero, che, dall’inizio alla fine, cavalcando il riscoperto nichilismo nietzschiano, ci sommerge di termini tedeschi, perché il sapore della vera filosofia non venga perduto e contaminato dalla traduzione in una lingua come la nostra che da cent’anni si sforza di assorbire i sistemi d’oltralpe senza mai completamente assimilarli. È un destino, quello di una certa cultura italiana anticattolica, di cercare l’identità del pensiero greco e la sua continuità nel pensiero cristiano attraverso lo scandaglio filologico ed erudito degli autori tedeschi, i quali, con una razionalità metallica, costruiscono sistemi (Weltanschauungen) con cui inondare il mondo. Questa fu già la via dell’idealismo italiano che, col Croce e col Gentile. tradusse l’enorme matassa della filosofia di Hegel, dipanandola e adattandola ai gusti della nostra cultura, senza però riuscire a creare un fondamento durevole nel nostro sapere, come ormai si può costatare, valutando le fortune di questi filosofi.
Lo stesso sta avvenendo per Heidegger, il grande maestro dell’esistenzialismo, rimasto fino ad oggi in Italia conosciuto entro le strette cerchie degli specialisti, anche per l’impenetrabilità del suo linguaggio e una certa diffidenza, dopo l’ultima guerra tutto ciò che veniva dalla terra germanica.
Gianni Vattimo realizza finalmente un’opera di divulgazione del Geschick (destino) epocale heideggeriano e lo diffonde a piene pagine per nutrire la nostra provinciale scarsità di idee. Il tutto ha inizio con l’assunzione nell’interpretazione di Heidegger del frammento di Anassimandro, capitolo fondamentale degli Holzwege, opera pubblicata a Francoforte nel 1950 e tradotta in italiano nel 1968 col titolo Sentieri interrotti (La Nuova Italia, Firenze). In essa il filosofo tedesco, con severità ermeneutica, scopre il tragico inganno che pesa sulla storia dell’Occidente, dai greci ai giorni nostri. La definizione dell’essere e dell’ente è stata travisata lungo la cultura di duemilacinquecento anni a causa dell’errata interpretazione del frammento di Anassimandro e questo travisamento segna il nostro destino. Citiamo il frammento nelle traduzioni riportate da Heidegger: quella del giovane Nietzsche del 1873 e quella di Hermann Diels nel libro Fragmente der Vorsokratiker del 1903. Nietzsche: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo». E Diels: «Ma là donde le cose hanno il loro sorgere, si volge anche il loro venire meno, secondo la necessità; esse pagano reciprocamente la pena e il fio per la loro malvagità (Ruchlosigkeit) secondo il tempo stabilito». Nel frammento è detto in sostanza, e molto chiaramente, che le cose escono dal niente e nel niente ritornano. Ma l’analisi di Heidegger, puntuale e rigorosa, rovescia ogni interpretazione che al frammento è stata data fino ad oggi e preannuncia un destino aurorale per l’epoca che sta per sorgere. Non intendiamo qui banalizzare l’opera di un filosofo come Heidegger, ma contestare l’uso del sistema (la nuova interpretazione del frammento di Anassimandro) come modo per costruire tutta una filosofia. Occorre al riguardo riferirci a quanto scrisse Eric Voegelin. in una famosa opera sullo gnosticismo moderno: «La speculazione di Heidegger occupa un posto importante nella storia dello gnosticismo occidentale. La costruzione del processo chiuso dell’essere; il distacco dell’essere immanente dall’essere trascendente; il rifiuto di ammettere le esperienze di philia, eros, pistis (fede) ed felpi (speranza) — descritte e definite dai filosofi ellenici — come gli eventi ontici per cui l’anima partecipa dell’essere trascendente e accetta di essere ordinata da esso; il rifiuto, quindi, di riconoscervi gli eventi dai quali trae origine la filosofia, specialmente quella platonica; e infine il rifiuto a consentire che l’idea stessa della costruzione di un processo chiuso dell’essere sia contestata alla luce di questi eventi: tutto ciò si trovava già senza dubbio, sia pure a diversi livelli di chiarezza, negli gnostici speculativi del secolo XIX. Ma Heidegger ha ridotto questo complesso alla sua struttura essenziale e lo ha depurato delle visioni del futuro legate a periodi. Sono sparite le immagini ridicole dell’uomo positivista, dell’uomo socialista e del superuomo. Al loro posto Heidegger pone l’essere stesso, vuoto di ogni contenuto, al cui incombente dominio dobbiamo sottometterci» (Il Mito del mondo nuovo, Rusconi 1970, P. 107).

Congedo dalla metafisica

Gianni Vattimo, da buon discepolo di Heidegger, raccoglie la sua eredità in Italia e la diffonde con l’entusiasmo del neofita che mena fendenti per togliere ogni fondamento (Grund) alla realtà dell’essere della tradizione classica e cristiana: «Questa dissoluzione della stabilità dell’essere è solo parziale nei grandi sistemi dello storicismo metafisico ottocentesco: lì, l’essere non sta, però diviene secondo i ritmi necessari e riconoscibili. che dunque mantengono ancora una certa stabilità ideale. Nietzsche e Heidegger lo pensano invece radicalmente come evento, e per loro è dunque decisivo, proprio per parlare dell’essere, capire “a che punto”, noi ed esso stesso, siamo. L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi» (Op. cit., p. 11). La presa di congedo dall’essere metafisico è perentoria e definitiva e segna il passaggio verso il post-moderno, che è l’epoca nella quale stiamo entrando, l’epoca nella quale la tecnica, ancorché fondata sulla continuità del pensiero metafisico, rivelerà la sua essenza.
“La fine della modernità” analizzata da Vattimo con sottile acume retorico assume il nichilismo come destino. Il disvelamento dell’essere in una nuova era porta l’autore a far proprie le profezie decadenti di autori quali Oswald Spengler che con Il tramonto dell’Occidente inaugurò dopo la prima guerra mondiale la letteratura della crisi della civiltà europea (come non ricordare, accanto a lui, Johan Huizinga, Arnold Toynbee, Ortega y Gasset e, prima di loro, l’americano Brooks Adams col suo libro fondamentale The Law of Civilization and Decay del 1896, che invano Ezra Pound cercò da far tradurre nella nostra lingua negli anni Trenta), nonché i pensieri forti di uno scrittore come Ernst Jönger che con le opere Nella tempesta d’acciaio, Quota 125, Fuoco e sangue, Die totale Mobilmachung. Der Arbeiter e Sulle scogliere di marmo preparò in Germania gli spiriti giovanili al grande olocausto dell’ultimo conflitto mondiale. Ma questi sono i giochi del destino. Già Heidegger fu accusato di condiscendenza verso il nazismo. Ora. i suoi discepoli non possono che compiere, con una parabola in ritardo di cinquant’anni, lo stesso percorso.

Accettazione del presente

Ma ritorniamo al libro. Per Vattimo, Nietzsche è stato il filosofo che ha fatto esplodere tutte le certezze della civiltà europea e Heidegger è stato il suo profeta. Il rovesciamento degli idoli conclude con l’accettazione del presente, anche se Vattimo nega questo esito. Spulciamo dal suo libro alcuni passaggi: «In che misura si può chiamare nichilista questa visione della costituzione ermeneutica dell’Esserci? Anzitutto. in uno del sensi attribuiti a questo termine da Nietzsche, in un appunto collocato dagli editori all’inizio dell’edizione del 1906 del Wille zur Macht: nichilismo è quella situazione in cui, come nella rivoluzione copemicana, “l’uomo rotola via dal centro verso la X”. Per Nietzsche, questo significa che nichilismo è la situazione in cui l’uomo riconosce esplicitamente l’assenza di fondamento come costitutiva della sua condizione (quello che, in altri termini, Nitzsche chiama la morte di Dio») (Op. cit., p. 127). Ma illuminante e definitiva è quest’ultima sentenza: «Se è così, non solo la costituzione ermeneutica dell’Esserci ha un carattere nichilistico perché l’uomo si fonda solo rotolando via dal centro verso la X; ma anche perché l’essere il cui senso si tratta di recuperare è un essere che tende a identificarsi con il nulla, con i caratteri effimeri dell’esistere, come rinchiuso tra i termini della nascita e della morte» (Op. cit., p. 129).

”Fast-food” filosofico

Ma se l’Essere di Heidegger e di Vattimo è questo, è inutile proseguire ogni ricerca. La realtà odierna, affatto post-modema, ma modernissima ogni giorno di più, già si fonda su questo nulla dell’esistere “tra la nascita e la morte” senza ulteriori motivazioni. Certo, il libro di Vattimo, raccolta di saggi già editi, ha scosso il carrozzone sonnecchiante di certa cultura ufficiale. La definizione del “pensiero debole”, del “soggetto debole”, “dell’indebolimento della forza cogente delta realtà” ha ormai fatto il giro delle gazzette ed è discorso alla moda; è il “fast food” di cui ha scritto Saverio Vertone su Il Corriere della sera del 17 ottobre scorso.
Se questa è la cultura diffusa della quale la Chiesa dovrebbe prendere coscienza, noi cattolici, come “gli abitatori del tempo” di un’opera famosa di Emanuele Severino, dovremmo starcene lontani, con le nostre residue certezze metafisiche, per non rovinare al fondo dell’abisso (Abgrund) verso il quale Vattimo e Heidegger vorrebbero trascinarci, per scoprire nichilisticamente la nuova aurora della civiltà. Emanuele Severino è autore molto diverso da Gianni Vattimo e meriterebbe una presentazione a parte. Ma, nell’insieme, i filosofi dell’Areopago italiano ci fanno dubitare della salute umana della filosofia attuale. Ancora una volta potremmo dire con san Paolo: «Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1 Cor 1, 19-20). Con tutto quel che segue.

Mario Marcolla
@ Edizioni Ares


L'urgenza della pace di Giovanni Maria Vian (©L'Osservatore Romano - 25-26 ottobre 2010)

La preoccupazione per Gerusalemme e per sostenere i cristiani della terra che è stata lo scenario dell'incarnazione del Figlio di Dio risale a tempi antichissimi ed è presente già nelle lettere di san Paolo. Oggi, in un contesto difficile e doloroso, questa preoccupazione ha portato, per la prima volta, a un'assemblea speciale per il Medio oriente del Sinodo dei vescovi. Un'esperienza davvero straordinaria l'ha definita Benedetto XVI, che l'ha voluta, presieduta e seguita con attenzione per due settimane.
Con il pensiero costante a tanti cristiani - che il Papa, sulle tracce dei suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II, ha voluto visitare e incoraggiare durante i viaggi in Turchia, Giordania, Israele, Palestina e Cipro - che vivono disagi materiali, scoraggiamento, tensione, paura. In una regione da troppo tempo insanguinata da conflitti, guerre, terrorismo, e che pure è santa per i tre grandi monoteismi.
E il primo risultato del sinodo è stato quello di richiamare l'attenzione dei cattolici - ma anche di tutti i cristiani, degli ebrei, dei musulmani, di ogni persona che abbia a cuore le sorti della giustizia e della pace - su una regione vastissima dove troppe sono le incomprensioni, le rivalità, le ingiustizie, le violenze. Con la preghiera, innanzi tutto, come ha detto il vescovo di Roma concludendo l'assemblea a San Pietro e sottolineando il legame tra la preghiera stessa e la giustizia:  "Il grido del povero e dell'oppresso trova un'eco immediata in Dio, che vuole intervenire per aprire una via di uscita, per restituire un futuro di libertà, un orizzonte di speranza".
L'assemblea sinodale poi ha offerto un'occasione - finora mai sperimentata e di cui tutti dovrebbero rallegrarsi - di confronto ad alto livello, nella varietà delle posizioni e nella libertà di espressione, ma con una sostanziale importante convergenza nel desiderio e nell'auspicio di giustizia e di pace. Che vanno perseguite senza scoraggiarsi, attraverso un confronto amichevole, ma anche chiaro e costruttivo, tra cattolici di diversi riti, e tra questi e i cristiani di diverse confessioni, gli ebrei e i musulmani:  in quel "trialogo" che Benedetto XVI ha auspicato nel suo viaggio in Terra santa. Al di là delle differenze e delle difficoltà, con la pazienza del bene, bisogna infatti rendersi conto che la pace è indispensabile.
Ripetendo il grido di Paolo VI che "la pace è possibile", il suo attuale successore ha aggiunto che "la pace è urgente". Urgente se si vuole una vita degna della persona umana e della società. In tutti i Paesi della regione, senza distinzioni. Ed è questo anche l'unico antidoto all'emigrazione:  per le comunità cristiane una vera e propria emorragia, che bisogna fermare.
Un contributo che i cristiani possono portare nella regione - ha sottolineato con chiarezza Benedetto XVI - è poi la promozione di "un'autentica libertà religiosa e di coscienza, uno dei diritti fondamentali della persona umana che ogni Stato dovrebbe sempre rispettare". Uno "spazio di libertà" che va allargato attraverso il dialogo con i musulmani, come hanno auspicato i padri sinodali.
La preoccupazione della Chiesa è una sola, e questo spiega anche la sua politica:  testimoniare e annunciare il Vangelo. Come tante volte Benedetto XVI ha ripetuto e va ripetendo, senza stancarsi e senza scoraggiarsi. Per questo il Papa - che ha costituito a questo scopo un apposito organismo nella Curia romana - ha annunciato il tema della prossima assemblea ordinaria:  la nuova evangelizzazione. Indicando, nel Vicino e nel Medio oriente come nel resto del mondo, l'urgenza del Vangelo.
g. m. v.


Urge la riscoperta dell'apologetica - http://www.pontifex.roma.it

Ecco uno dei motivi per cui è sorto Il Cammino dei Tre Sentieri: Secondo Sentiero - L'apologetica L'apologetica è la dimostrazione e la difesa razionale e storica delle verità della fede cristiana. Per il suo carattere universale si distingue dall'apologia che è la difesa particolare delle singole verità. Riguardo agli interessi dell'apologetica si può dire che essa si divide in due parti: una, più specificamente filosofica; ed un'altra, più specificamente storico-teologica. La parte più specificamente filosofica comprende: l'esistenza di un Dio personale ed unico, la credibilità della Rivelazione, la valutazione della Rivelazione (soprattutto attraverso i miracoli). La parte più specificamente storico-teologica comprende: Gesù Cristo come Verbo incarnato, la storicità dei Vangeli, la fondazione della Chiesa e la Chiesa nel suo itinerario storico. Il metodo L'apologetica tratta tutto questo con il lume naturale della ragione per disporre l'animo al dono divino della fede, attraverso la dimostrazione razionale dei motivi di credibilità.

Il Concilio Vaticano I afferma: "La retta ragione dimostra i fondamenti della fede". Dunque, l'apologetica si distingue dalla teologia, la quale, invece, si muove nella sfera della fede e con il lume soprannaturale della fede stessa.

Per capire l'apologetica bisogna tener presente una differenza importante, quella tra dimostrabilità e credibilità. La prima è la possibilità di dimostrare razionalmente; infatti nel Cattolicesimo c'è una serie di affermazioni la cui veridicità è possibile dimostrare con la ragione (esistenza, unicità, bontà di Dio.). La seconda (la credibilità) è quando, pur non avendo la possibilità di dimostrare, la ragione può comunque intervenire per valutare la credibilità di ciò che viene affermato.

Ebbene, nel Cattolicesimo tutte quelle verità che non sono dimostrabili, sono pur sempre credibili. Nel Cattolicesimo possono esserci e ci sono verità al di sopra della ragione, ma non contro la ragione, cioè irragionevoli. L'oblio dell'apologetica Negli ultimi tempi l'apologetica ha subito una vera e propria congiura di occultamento. E' stata ripetutamente attaccata e si è cercata di demolirla completamente. Si possono individuare almeno tre cause alla base di ciò che è avvenuto.

1.La "protestantizzazione" del Cattolicesimo. Vi è, infatti, una profonda differenza tra il concetto di fede del Cattolicesimo e quello del Protestantesimo. Per il Cattolicesimo la fede è assenso dell'intelletto alle verità rivelate da Dio; il che vuol dire che la ragione, anche nei casi in cui non può dimostrare, è sempre chiamata in causa per valutare la ragionevolezza delle verità rivelate (è la differenza tra dimostrabilità e credibilità di cui abbiamo parlato prima). Lutero, invece, estromise la ragione (arrivò di fatto a demonizzarla) e ridusse la fede ad un esclusivo sentimento di fiducia nell'onnipotenza e nella misericordia di Dio.

2.L'influenza del 'modernismo'. Il modernismo (complesso di eresie sorte in seno alla Chiesa al principio del XX secolo sotto l'influsso della filosofia e della critica moderne) adottò il motivo luterano della fede-sentimento, facendo del dogma un'espressione provvisoria del senso religioso che eromperebbe dal subconscio. Il Magistero della Chiesa ha condannato questa teoria. E' scritto infatti nel giuramento antimodernistico di san Pio X: "Ritengo certissimamente e sinceramente professo che la fede non è un cieco sentimento religioso, che scaturisce dal fondo del sub-coscienza sotto la pressione del cuore e dell'inclinazione della volontà...ma un vero assenso dell'intelletto alla verità ricevuta dal di fuori." Concetto questo ribadito anche da Pio XII nell'Humani generis. Il modernismo, malgrado solennemente condannato, si è mostrato come una sorta di 'fiume carsico', è sembrato andare sottoterra (cioè sparire) per poi riemergere e venire nuovamente alla luce. E' fuor di dubbio che una significativa parte della teologia contemporanea risenta, in misura maggiore o minore, di influenze modernistiche.

3.Influenza del 'personalismo' cristiano. Vi è una differenza tra il tradizionale concetto di persona e quello personalista. Il concetto tradizionale dice che la persona è sostanza individuale di natura razionale (secondo la celebre definizione di Boezio). Il personalismo, invece, ritiene che la persona non si possa definire ontologicamente, anzi sarebbe di fatto indefinibile. La persona non sarebbe altro che un concetto "fluido" di emanazioni e manifestazioni psicologiche, laddove l'elemento emotivo-sentimentale avrebbe la prevalenza su quello razionale. Ed ecco perché oggi si riscontra una forte sentimentalizzazione della Fede: non è più la verità che giudica l'esperienza, ma l'esperienza che pretende giudicare la verità. Siamo molto lontani, pertanto, dall'impostazione autenticamente cattolica, laddove l'incontro con Cristo costituisce sì il criterio di giudizio del proprio essere cristiani (è il cosiddetto "primato della volontà libera" di cui parla anche san Tommaso d'Aquino), ma -e lo si dimentica molto spesso- la volontà deve sempre seguire logicamente l'adesione intellettuale al vero. Non si può infatti amare, se prima non si conosce. Perché la necessità dell'apologetica oggi? Il famoso filosofo cattolico Augusto Del Noce disse che il fenomeno della secolarizzazione non è l'eliminazione del sacro, quanto la trasformazione del sacro da fatto pubblico a fatto privato. E infatti è così. I nostri tempi, pur essendo fortemente secolarizzati, non sono per nulla desacralizzati. Si corre dietro a tutto e c'è un'enorme inflazione d'irrazionalismo. Dominano (anche tra molti che si definiscono cattolici) il relativismo e il sincretismo religiosi. Fenomeni (questi ultimi) che impongono, da un punto di vista cattolico, almeno due urgenze pastorali.

La prima: convincersi che non ogni esperienza del sacro è autenticamente esperienza religiosa, e che dunque le religioni non si equivalgono.

La seconda: recuperare la persuasività della fede, nel senso petrino, cioè saper rendere ragione della propria speranza (1 Pietro 15). Non basta conoscere la Verità: bisogna amarla! Ma -è evidente- che l'apologetica può aver successo nel momento in cui non sia solo espressione della conoscenza ma anche e soprattutto dell'amore verso la Verità. Da qui la ragione de Il Cammino dei Tre Sentieri. Dio è l'Essere nella sua pienezza, è la causa prima, il fondamento di tutto.

L'essere ha tre proprietà (trascendentali), che sono: la verità, la bontà e la bellezza. Dio, in quanto essere assoluto, è: Somma Verità, Somma Bontà, Somma Bellezza.

L'apologetica deve saper parlare a tutto l'uomo: tanto al suo intelletto quanto al suo cuore. La Verità cristiana è una Persona e l'esito è prima la conoscenza poi, necessariamente, l'abbraccio. La luce serve per guardare, senza di essa è impossibile lo sguardo. Se non osserviamo, bisogna prima accendere la luce; se già guardiamo, per poter continuare a guardare, dobbiamo far sì che la luce rimanga accesa. Ecco dunque che la Grazia è fondamentale per iniziare davvero a conoscere Dio, così come è fondamentale per conservare la vera conoscenza di Dio. Modello e protettrice di chi vuol fare innamorare della Verità è l'Immacolata, che è stata ed è l'Ancella della Verità, Colei che ha portato la Verità nel suo grembo.

Ci sono almeno due motivi per capire quanto la capacità di fare innamorare alla Verità debba poggiare su Maria. Primo: Maria è la nemica di ogni errore ("porrò inimicizia tra te e la Donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe. Tu le insidierai il calcagno, ma Ella ti schiaccerà la testa-Genesi 3). Secondo: perché Maria è Colei che ha portato veramente nel suo Grembo la Verità, Colei che l'ha cullata e l'ha abbracciata. Chi più di Maria ha amato la Verità? [Fonte I tre sentieri]


SINODO/ Il Patriarca Naguib: ecco come riusciamo a convivere con l’islam - INT. Antonios Naguib - martedì 26 ottobre 2010 – il sussidiario.net

Come si sviluppa, nella vita quotidiana - in Egitto - la convivenza della comunità cristiana con l'Islam, quali sono le maggiori difficoltà che i cattolici incontrano e a che punto siamo con la libertà di professare la fede? Lo abbiamo chiesto a Mons. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti (tra i cardinali che saranno creati nel prossimo Concistoro del 20 novembre). Il quale, tra le altre cose, ha commentato le recenti accuse di Israele al Vaticano in seguito al Sinodo sul Medio oriente, a cui il Patriarca ha partecipato.
 
Quali sono le maggiori difficoltà che la sua Chiesa si trova ad affrontare?

La più grande consiste nell’assicurare una formazione solida ai nostri fedeli cattolici. Una formazione illuminata e aperta verso il dialogo, verso la collaborazione nell’impegno reale e positivo nella costruzione della nostra società. E’ il compito più difficile.

Cosa può dire della convivenza e del dialogo con i musulmani nel suo Paese? In Occidente sembra sempre esposto al rischio e alla pratica della violenza: è così?

Le faccio un esempio molto semplice. Nell’Assemblea sinodale eravamo 250. Tutti i giorni c’erano decine di interventi, scritti e orali, e discussioni nei circoli minori linguistici. Tutto ciò è stato dominato da toni positivi e propositivi. E’ successo che uno dei padri sinodali abbia consegnato un suo intervento scritto in cui suggeriva semplicemente che, tra le altre cose, nell’ambito del dialogo, si affrontassero anche quegli elementi che nei cristiani creano sconforto. Come i versetti del Corano che parlano di violenza. Queste sono state le uniche parole riprese dalla stampa. In Italia, in Libano, in Egitto e altrove.

Vuol dire che le violenze sono amplificate dai media?

Un solo episodio clamoroso viene presentato come ordinario. Nella nostra convivenza possono esserci piccoli conflitti tra conoscenti, amici, colleghi. In genere, tuttavia, sono di natura personale. Se questi capitano tra un cristiano e un islamico, immediatamente vengono dipinti come scontri interreligiosi. L’acuirsi di tale percezione, all’interno della nostra comunità, a volte fa sì che il conflitto si estenda. E, in effetti, è capitato che in tali episodi ci fossero dei feriti o dei morti. Da una parte, e dall’altra. Dipende dalla reazione dei vari gruppi di appartenenza e, spesso, dall’intervento delle autorità.

Qual è, quindi, la reale situazione dei cristiani in Egitto?

I cristiani di tutte le confessioni rappresentano un minoranza di 10 milioni di persone su 82. I cattolici sono 250mila. Tutti insieme viviamo mescolati ai musulmani: non ci sono quartieri, villaggi o città unicamente cristiani o musulmani. E’ da 14 secoli che viviamo così. Nella vita concreta, poi, ci sono possibilità per tutti. Nel commercio, ad esempio, non sono imposte restrizioni, così come l’insegnamento è aperto a chiunque.

Per quanto riguarda invece la garanzia di professarsi liberamente cristiani?

Bisogna distinguere tra libertà di culto e libertà di religione. Nel primo caso non ci sono particolari problemi. Per costruire una chiesa, ad esempio, la soluzione passa attraverso i contatti con i responsabili. Certo, bisogna avere pazienza, aspettare del tempo, seguire i passaggi burocratici. Ma alla fine il permesso arriva. La pratica religiosa, nelle nostre chiese, non è ostacolata e le nostre scuole cattoliche sono molto apprezzate.

E sulla libertà di religione?

La scelta della propria religione, senza costrizioni, è più difficile. Anche se non c’è una legge, e la Costituzione garantisce libertà in questo senso, secondo la mentalità pratica e la visione religiosa dei musulmani, non esiste il diritto a passare ad un’altra religione.

In cosa consiste, quindi, per un cristiano egiziano la base del dialogo con le altre religioni?

Nel “dialogo della vita”, come siamo soliti chiamarlo. Significa testimoniare la propria fede vivendo autenticamente i principi del Vangelo, nel rispetto dell’altro e nel perdono. Cooperando positivamente alla costruzione del Paese. Si tratta del concetto di presenza cristiana. Che era anche il tema principale del Sinodo.

Cosa intende?

Il significato della nostra presenza in Egitto non si può relegare a storia morta o reperto archeologico. Risiede, anzitutto, nel continuare e perpetrare la missione di Cristo Redentore nel nostro Paese. Anche perché è iniziata proprio lì la Storia sacra… In secondo luogo, è legata al nostro ruolo di “pacificatori”. Abbiamo il compito di educare al senso dell’accettazione, del rispetto dell’altro e dalla reciprocità. Che, poi, non sono altro che i valori evangelici.

Nel Concistoro del 20 novembre sarà creato cardinale. Cosa cambierà nella sua responsabilità del governo della Chiesa?

Sono chiamato a partecipare più da vicino al servizio del Sommo Pontefice nella costruzione del dialogo, della comunione e dell’unità con le altre chiese. A partire dalle diverse confessioni cristiane del mio Paese e dal rapporto con le altre religioni.

Il vice ministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, ha lanciato un durissimo attacco al Sinodo sul Medio Oriente: “È stato preso in ostaggio da una maggioranza anti-israeliana”. Le risulta?

E’ stata data un’interpretazione politica. Il Sinodo ha richiamato la situazione dolorosa e ingiusta in cui vive da anni la popolazione palestinese. Che ha creato destabilizzazione in tutta la regione. Noi, come tutti, abbiamo invitato ad una soluzione giusta. Che ascolti le esigenze del popolo palestinese. Anzitutto quella di avere un territorio in cui vivere pacificamente. Non credo questa sia una presa di posizione contraria allo stato di Israele. E’ semplicemente un appello a trovare una soluzione. Quella dei due Stati.

(Paolo Nessi)


Avvenire.it, 26 ottobre 2010 - IL CASO - Un Wiesenthal contro Ceausescu di Daniele Zappalà
In Romania, il nome Securitate può ancora raffreddare all’istante ogni conversazione. Sul numero esatto di vittime dell’ex polizia segreta, la più estesa del blocco comunista se rapportata alla popolazione nazionale, ci sono solo stime. Di fatto, a differenza di quanto accaduto a Berlino con la Stasi, gli archivi rumeni della Securitate non sono ancora del tutto accessibili, secondo gli studiosi che tentano di visitarli.

Vent’anni dopo il rovesciamento tumultuoso e memorabile del "genio dei Carpazi", l’oscuro dittatore Nicolae Ceausescu, tanti dolorosi tasselli della recente storia rumena tardano a giungere sotto la lente degli storici. E fra questi ultimi, c’è chi denuncia apertamente le residue "reticenze" verso il passato di una parte delle autorità. Chi invoca tutta la verità sugli eccidi della Securitate confida soprattutto nel lavoro di un giovane organismo: l’Istituto d’investigazione sui crimini del comunismo, creato nel 2005 grazie all’ostinazione di Marius Oprea, uno studioso che ha ben presto dirottato verso il presente le proprie competenze di archeologo, traendo ispirazione dal lavoro dell’Istituto della memoria polacco e del Centro Wiesenthal sulla Shoah, negli Stati Uniti.

Ricostruire la cartografia e cronologia dei massacri comunisti pare un’impresa immane. Tanto più che l’istituto di Oprea può contare appena su una trentina di effettivi, stipendiati grazie a fluttuanti fondi di Stato o legati a donazioni provenienti perlopiù da Germania e Stati Uniti. In pochi anni, l’"archeologo politico" ha nondimeno affinato il proprio metodo di ricerca, raccogliendo tutta la documentazione disponibile e organizzando al contempo spedizioni sul campo nelle presunte aree degli eccidi. Presto, i risultati di questi sforzi sono tornati alla luce a decine in tutta la loro macabra evidenza.

Presso il villaggio di Teregova, nel cuore della Transilvania, l’archeologo ha ad esempio localizzato di recente la fossa in cui venne occultato il corpo di un militante anticomunista trucidato nel lontano 1949. In questo caso, il ritrovamento non ha contribuito solo alla causa della verità storica. I resti del martire sono stati infatti restituiti alla figlia, testimone sessant’anni fa dell’esecuzione. A distanza di un’epoca, il lutto di una donna ha potuto trovare così un tardivo sollievo. La squadra di Oprea ha già scoperto decine di fosse analoghe.

Ma nei cantoni più disparati della Romania, strangolata per decenni da uno degli apparati totalitari più oppressivi della storia, sarebbero almeno diecimila i cadaveri di vittime della Securitate che attendono ancora degna sepoltura. Si tratta di una stima accreditata dallo stesso Oprea, ma destinata probabilmente a evolvere nel tempo. Ogni bilancio è infatti complicato dall’area estremamente vasta degli eccidi, così come dalla durata nel tempo della recrudescenza sanguinaria. Le squadre della morte entrarono in azione in Romania fin dal 1947, con l’insediamento della neonata "repubblica popolare".

L’obiettivo di stanare e annientare ogni tentativo di dissidenza, o presunto tale, venne perseguito sistematicamente dal regime. E la Securitate, ad esempio, riuscì a reprimere ogni tentativo di costituzione di sindacati indipendenti dal regime. Per anni, gli agenti seminarono il terrore fin nelle aree più ritirate dell’entroterra montuoso, dove i militanti anticomunisti avevano spesso trovato rifugio. Luoghi proprio come Teregova, dove nella memoria e nella coscienza degli anziani restano impresse scene terribili. Oprea è consapevole dei limiti del suo lavoro di pioniere.

Ma l’archeologo si è fissato almeno lo scopo di dare l’esempio aprendo l’immane cantiere, convinto che la Romania non potrà schivare ancora a lungo in futuro l’appuntamento con le pagine più nere della propria storia recente. L’archeologo suole ripetere che, così come avvenne per la Shoah, pure i crimini del comunismo saranno pienamente scandagliati e compresi a una generazione di distanza dalla fine dell’incubo. In altri termini, secondo quest’ipotesi, vent’anni sono appena bastati per cominciare a fugare gli effetti deleteri dei vecchi muri di menzogne.

Per ora, i rinvenimenti di Oprea non hanno messo davvero in moto la macchina giudiziaria, ma l’archeologo non elude neppure questo fronte, nonostante tutte le difficoltà e i rischi impliciti nel tentativo d’identificare dei responsabili. Nel 1989, sostiene in ogni caso Oprea, ci fu anche chi impugnò le bandiere della nuova "rivoluzione" con le mani ancora sporche del sangue versato negli anni precedenti. Il "cacciatore sulle orme della Securitate", come ormai lo chiamano, dichiara che non abbandonerà mai la sua causa.

Dietro il suo impegno, c’è anche un drammatico movente personale. Fu un sicario della Securitate a uccidere il padre dell’archeologo durante la convulsa fase della transizione. Sceso da allora anche nell’arena politica al fianco dei liberali, Oprea conduce una parallela battaglia molto personale contro quanto resta oggi in Romania, sotto mentite spoglie, dei vecchi schemi. Chi soprattutto dall’estero sostiene la causa dell’archeologo non ha dubbi sul fatto che un simile impegno di ricerca travalica gli odierni steccati politici di partito. Così come le frontiere, dato che la piena comprensione dei misfatti comunisti avrà pesanti ripercussioni sul futuro stesso dell’Unione europea.  Accolte oggi ufficialmente sotto la bandiera blu stellata della nuova Europa, tante contrade rumene non dimenticano per questo i cumuli di ossa lasciati dai demoni politici del passato. In mezzo ai Carpazi ormai liberati dal proprio "genio" più cupo ma non dai ricordi dell’orrore, a Teregova e in decine di altri villaggi, c’è ancora chi avrebbe molto da raccontare. Spesso, attende solo che qualcuno arrivi un giorno per capire.


E D I TOR I A L E - L’ ARROGANZA DEI NUOVI GNOSTICI - ROBERTO TIMOSSI – Avvenire, 26 ottobre 2010

«Gnosi» (dal greco 'gnósis') significa conoscenza e nel II secolo d.C. questa parola venne assunta come elemento caratterizzante di un movimento filosofico-religioso denominato poi 'gnosticismo'. Lo gnosticismo è tornato di attualità con la pubblicazione nel 2006 del cosiddetto 'Vangelo di Giuda': un testo proveniente dalla tradizione gnostica come altri vangeli apocrifi, che ha suscitato una diffusa curiosità nell’opinione pubblica perché mediaticamente presentato come una rilettura o rimessa in discussione dei fondamenti storici del cristianesimo. In realtà, l’affermarsi del culto cristiano è avvenuto proprio in polemica e in antitesi con lo gnosticismo, specie con la sua svalutazione della rivelazione biblica e della figura di Gesù Cristo in favore di una conoscenza diretta superiore, di cui gli gnostici si reputavano gli unici depositari. Tipico dello gnosticismo fu così anche un dualismo manicheo, che separava nettamente gli illuminati dalla 'gnosi' e predestinati alla salvezza da tutti coloro che ne erano esclusi, a incominciare dai cristiani. Ai giorni nostri si ha l’impressione di un ritorno all’impostazione gnostica di una parte importante della cultura contemporanea, in particolare di quella italiana. Nonostante infatti si proclami a piè sospinto il fallibilismo, il relativismo e il disincanto verso qualsiasi fede dogmatica, l’atteggiamento dei sedicenti fallibilisti e relativisti è spesso quello di coloro che pensano di detenere il monopolio dell’autentico sapere. Basta leggere gli articoli o i saggi del laicismo alla Flores d’Arcais o quelli dell’ateismo scientista alla Odifreddi per cogliere immediatamente un senso di superiorità culturale nei confronti dei credenti, specie se cattolici. Più o meno consapevolmente, le tesi che sostengono vengono presentate come verità indubitabili, come certezze assolute, perché hanno il loro fondamento nel razionalismo illuministico e nelle scoperte scientifiche. A ben riflettere, tuttavia, tanto la ragione illuministica quanto la conoscenza scientifica devono fondarsi innanzitutto sulla kantiana consapevolezza dei propri limiti, devono essere costantemente critiche e autocritiche, perché la conoscenza umana è appunto fallibile e ci si deve accostare alla verità con l’umiltà di chi sa di non sapere o di incorrere facilmente in errore. Nel linguaggio del laicismo e dell’ateismo scientista si trova invece tutto meno che l’umiltà intellettuale; anzi, per chi ha qualche familiarità con la tradizione gnostica, vi si scorge lo stesso atteggiamento 'sapienzale' unito a una certa saccenteria. Ma la convinzione di detenere in esclusiva la verità non è il solo elemento che ci conduce a considerare i laicisti come dei nuovi gnostici. Ad esso si accompagna infatti la loro esplicita tendenza a dividere in due la comunità umana proprio come faceva l’antica gnosi: da una parte i non credenti seguaci della sola dea ragione e unici protagonisti del progresso sociale, civile e culturale; dall’altra i credenti, inesorabilmente condannati alla dimensione della subcultura religiosa. Questa forma di manicheismo è recentemente giunta fino al punto di rifiutare apertamente il dialogo coi credenti e di bollare il confronto nel Cortile dei gentili come un inutile espediente retorico. Il proselitismo militante che caratterizza negli ultimi tempi la propaganda laicista e ateista deve allora – a mio avviso – rendere consapevole il cristiano che, come nel II secolo d.C., è tenuto nuovamente a fare i conti con un movimento gnostico.


Dio: una grande domanda e una ancor più grande presenza - L’affermazione della persona come soggetto intelligente e libero viene messa in crisi allorché si consideri la natura materiale come l’unica realtà esistente nell’universo DI CAMILLO RUINI – Avvenire, 26 ottobre 2010

Inizio con una domanda: la gente oggi crede ancora o non crede più in Dio? La risposta prevalente tra i sociologi della religione qual che decennio fa era che molta gente ci crede ancora ma la fede in Dio sta diminuendo ed è difficilmente compatibile con lo sviluppo moderno della cultura e della società, al meno in Occidente. Perciò la fede in Dio sarebbe destinata praticamente a scomparire, o a sopravvivere in qualche gruppo che si isoli in se stesso e rifiuti la modernità. Grosso mo do, era questa la tesi della «secolarizzazione » come esito fatale della modernità.

Oggi questa tesi è molto contestata e per lo più abbandonata, di fronte al fatto evidente della ripresa delle grandi religioni – in particolare del­la loro nuova rilevanza sulla scena pubblica – e anche del rinnovato vi gore del senso e della ricerca religio sa tra la gente in Occidente. Ma co­me stanno realmente le cose? Per ri spondere faccio riferimento soprat tutto all’opera imponente del filo sofo, storico e sociologo canadese Charles Taylor L’età secolare. Egli ne ga che esista un rapporto automati co tra modernità e perdita o diminuzione della fede in Dio. Ciò può essere vero per alcuni Paesi, come ad esempio quelli del Nord-Europa, ma non per tutti: ad esempio non è vero per gli Stati Uniti. La netta distinzione tra politica e religione, co me anche tra la religione e le altre di mensioni dell’esistenza (economi che, scientifiche, artistiche, ricreative…), è ormai una caratteristica co mune delle attuali società democra tiche, che può restringere la presen za di Dio nella nostra esperienza di vita ma non contrasta necessaria mente con la fede in lui. Il cambia mento decisivo avvenuto in questo campo può invece riassumersi così: dalla metà dell’800, quindi ormai da più di 150 anni, siamo pas sati da una società nella qua le era «virtualmente impos­sibile non credere in Dio, ad una in cui, anche per il cre dente più devoto, credere in Dio è solo una possibilità u mana tra le altre». Il vero nu­cleo della secolarizzazione, secondo Taylor, sta proprio qui: nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre. Personalmente mi ritrovo in questa analisi e anche nelle indicazioni di massima che Taylor ricava da essa. Secondo lui si è affermata in Occi dente, non solo tra le persone di cul tura ma ormai anche tra la gente co mune, la convinzione di un «fiorire dell’uomo», cioè di un ideale di pie nezza della vita, che sarebbe possi bile senza Dio. È questa oggi per la fede la sfida decisiva, una sfida chia ramente non solo intellettuale ma spirituale, morale, esistenziale, alla quale non si può rispondere limi tandosi a criticare la sensibilità at tuale e a mettere in evidenza i suoi indubbi limiti, ma piuttosto attin gendo alla ricchezza della proposta cristiana su Dio e sull’uomo per of frire a questa sensibilità una possi bilità di realizzazione ben più piena e ben più grande. Alla base sta la cer tezza, confermata anche dagli svi luppi attuali della storia, che il rap porto dell’uomo con la religione e con Dio è tanto profondo che, quan do cambiano anche radicalmente i contesti sociali e culturali, la do manda religiosa non si estingue, ma si ricompone in forme più adatte al la nuova situazione. All’interno di questo quadro vorrei precisare, in modo un po’ più orga nico, l’atteggiamento con il quale va posta la questione di Dio. Anzitutto dobbiamo rinunciare alla pretesa di un approccio 'neutrale', puramen te oggettivo o scientifico. La que stione di Dio, infatti, coinvolge ine vitabilmente la persona, il soggetto che la pone, poiché ha a che fare con il senso e la direzione della nostra vi che ta e con il modo in cui interpretiamo noi stessi e tutta la realtà. Non è esa gerato, dunque, affermare che «con Dio o senza Dio cambia tutto». Inol tre, la stessa impossibilità di un ap proccio neutrale alla questione di Dio non costituisce soltanto un no stro limite. Al contrario, racchiude un significato fortemente positivo, consiste proprio nel totale coin volgimento di noi stessi, della nostra esperienza di vita, della libertà e de gli affetti, insieme all’intelligenza e alle sue capacità critiche. È vera spe cialmente a questo riguardo la pa rola di sant’Agostino: «Si conosce ve ramente solo ciò che si ama vera mente ». Specialmente quando si tratta di Dio è sbagliato unque rin chiudersi in una prospettiva razio nalistica.

(...) Termino riprendendo il suggeri mento di Charles Taylor che ci invi ta a mettere l’apertura a Dio in col legamento con il «fiorire dell’uomo». Esiste un profondo parallelismo tra l’approccio a Dio e l’approccio a noi stessi, in quanto soggetti intelligenti e liberi. In entrambi i casi siamo sottoposti, nel nostro tempo, alla pressione di un forte e pervasivo scientismo e naturalismo materiali stico, che vorrebbero dichiarare Dio inesistente, o quanto meno razio nalmente non conoscibile, e ridurre l’uomo a un oggetto della natura tra gli altri. Oggi, come forse mai in pre cedenza, appare chiaro dunque che l’affermazione dell’uomo come sog getto e l’affermazione di Dio stanno in piedi insieme o cadono insieme. Ciò del resto è profondamente logico: da una parte infatti è ben diffici le fondare un vero e irriducibile emergere dell’uomo rispetto al resto della natura se la natura stessa è l’unica realtà; dall’altra parte è ugual mente difficile lasciare aperta una via che conduca razionalmente al Dio personale, intelligente e libero – in modo vero anche se superiore ad ogni concetto della nostra mente – se non si riconosce anzitutto al sog getto umano questo irriducibile ca rattere personale. Poniamoci ora da un punto di vista più storico ed esistenziale. La 'svol ta antropologica' attraverso la qua le, nell’epoca moderna, l’uomo, il soggetto umano, si è posto al centro della realtà, si è sviluppata storica mente come 'emancipazione', an zitutto nei confronti di Dio. Attual mente però, al fine di potersi regge re e proseguire nella storia, la svolta verso il soggetto ha bisogno di Dio. Questo emerge proprio dalla critica che la 'postmodernità' ha condotto nei confronti della modernità e della sua pretesa di autosufficienza del soggetto umano. Emblematica è, a questo riguardo, l’affermazione con cui Jean-Paul Sartre conclude il suo libro L’essere e il nulla: «L’uomo è una passione inutile». In effetti, se Dio non esiste e quindi l’uomo – o gni singola persona e l’intero gene re umano – è solo nell’universo, viene semplicemente dalla natura e alla natura ritorna (una natura che non sa niente di lui e non si cura di lui), è difficile pensare che sia possibile per noi soddisfare in qualche modo quell’«anelito di pienezza» che è inserito nel nostro essere ed è quindi presente in ciascuno di noi.