martedì 19 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    La presenza di Dio - (©L'Osservatore Romano - 18-19 ottobre 2010) g.m.v.
2)    Lettera di Benedetto XVI ai seminaristi - Il mondo ha ancora bisogno di sacerdoti - Gli uomini avranno sempre bisogno di Dio e Dio di uomini che parlino di lui al mondo, ecco perché ha ancora oggi senso diventare sacerdoti. Lo scrive Benedetto XVI nella lettera indirizzata ai seminaristi di tutto il mondo nella festa liturgica di san Luca Evangelista. Il Papa, ricordate le sofferenze legate alle vicende degli abusi, ha ribadito che, sebbene siano da riprovare, tuttavia non possono screditare la missione sacerdotale, che rimane "grande e pura". - (©L'Osservatore Romano - 18-19 ottobre 2010)
3)    Lettera di Padre Aldo Trento 16 ottobre 2010
4)    LA TUTELA DELLA DOMENICA E LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI - Incontro al Parlamento Europeo a Bruxelles di don Mariusz Frukacz
5)    IMPEGNO SOCIALE E POLITICO...ORA TOCCA AI LAICI - Si è conclusa la Settimana sociale di Reggio Calabria di Chiara Santomiero
6)    COME EDIFICARE LA CHIESA IN MYANMAR - Intervista a suor Veronica Nwe Ni Moe (ZENIT.org)
7)    SAN STANISŁAW KAZIMIERCZYK, APOSTOLO DELL'EUCARISTIA – (ZENIT.org)
8)    Cavallari, Fabio - Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele Fonte: CulturaCattolica.it Edizioni Lindau - Vale la pena vivere così? È dignitoso?
9)    Il demonio non è un’entità astratta ma un angelo decaduto (quindi è “concreto”) come ben concreta è la sua opera nefasta. Purtroppo i sacerdoti non credono all’esistenza del demonio. Dall'omosessualità si può guarire di Carlo Di Pietro dal sito http://www.pontifex.roma.it
10)                      Perché i cattolici hanno venduto la scuola agli islamici? La storia di Blackburn dell’Avv. Gianfranco Amato dal sito http://www.pontifex.roma.it
11)                      Tutto quello che non ci dicono su Halloween di Giuliano Guzzo del 19/10/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org
12)                      Avvenire.it, 19 Ottobre 2010 - IL CASO - Stepinac, troppo cattolico per essere Giusto? - Stefano Andrini
13)                      Avvenire.it, 19 Ottobre 2010 - GUIDO CHIESA «Io, da ateo a credente e il mio film su Maria» di Tiziana Lupi
14)                      IL PAPA E LA «NECESSITÀ» DEI SACERDOTI  - Dio ha la faccia di quei poveri uomini di MARINA CORRADI – Avvenire, 19 ottobre 2010
15)                      La guerra mondiale degli stupri DI NELLO SCAVO – Avvenire, 19 ottobre 2010
16)                      la lettera - «Gesù, modello per ogni educatore unità di misura dell’umanesimo» - «Educare vuol dire aprire alla vita e trasformare la vita in dono». S’intitola «Di generazione in generazione» il nuovo documento rivolto alla Chiesa di Genova dal presidente della Cei S.E. Card. Angelo Bagnasco - (L.Ros.) – Avvenire, 19 ottobre 2010
17)                      Famiglia, pilastro della società - Ai nuovi ambasciatori di El Salvador e Colombia presso la Santa Sede, il Papa chiede la difesa della vita, del matrimonio e della libertà di educazione per i genitori DA ROMA FABRIZIO MASTROFINI – Avvenire, 19 ottobre 2010


La presenza di Dio - (©L'Osservatore Romano - 18-19 ottobre 2010) g.m.v.

C'è ancora bisogno di santi e di preti? A porre la domanda è Benedetto XVI di fronte alle canonizzazioni che ha presieduto in piazza San Pietro e nella lettera ai seminaristi. E la questione è radicale, perché riguarda la presenza di Dio nel mondo. I sei santi proclamati dal Papa - tra loro ben quattro donne, tra cui la prima australiana, Mary MacKillop, leader davvero eccezionale e coraggiosa - lo hanno capito, lasciando trasparire e risplendere questa presenza.
Nel buio della follia nazista si era convinti che la nuova Germania non avrebbe più avuto bisogno di preti, ha ricordato Benedetto XVI ai seminaristi. In un testo, diretto e importante, che non è rivolto esclusivamente a chi sta preparandosi al sacerdozio perché parla della fede, come nel versetto del vangelo di Luca (18, 8) commentato dal Papa nella messa per le canonizzazioni:  "Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".
Il tono della lettera di Benedetto XVI è ancora una volta quasi confidenziale, e lascia trasparire un'esperienza personale profonda. Di fronte alle convinzioni che i preti appartengano al passato il Papa risponde che al contrario anche oggi c'è bisogno di loro, cioè di "uomini che esistono per lui e che lo portano agli altri". Se Dio infatti non viene più percepito "la vita diventa vuota". Ecco perché vale la pena diventare sacerdoti. In un cammino che non si fa da soli - ecco la sapienza del seminario - ma in comunità.
Benedetto XVI descrive il prete essenzialmente come "uomo di Dio". Che non è però uno sconosciuto ritiratosi dopo il big bang, ma colui che si è mostrato in Gesù, il Dio vicino. E il sacerdote, che non è un amministratore qualsiasi, è il suo messaggero. Per questo il prete deve "non perdere mai il contatto interiore con Dio":  così va compresa - spiega il Papa - l'esortazione del Signore  a  pregare  "in  ogni  momento".
Ma come concretamente? Iniziando e concludendo la giornata con una preghiera, leggendo e ascoltando la Scrittura, divenendo sensibili ai propri errori ma anche al bello e al bene. Celebrando l'Eucaristia e comprendendo come la liturgia della Chiesa è cresciuta nel tempo, formata da innumerevoli generazioni, in una continuità ininterrotta. Accostandosi umilmente al sacramento della Penitenza per "opporsi all'abbrutimento dell'anima".
È davvero un'agenda del prete - ma utile a ogni credente - quella che Benedetto XVI descrive nella lettera, con indicazioni che s'impongono per la loro semplicità e sapienza. Raccomandando sensibilità per la pietà popolare e nello stesso tempo mostrando l'importanza dello studio, che non è altro se non "conoscere e comprendere la struttura interna della fede":  attraverso la conoscenza della Scrittura nella sua unità, dei Padri e dei grandi concili, nell'approfondimento delle varie articolazioni della teologia, in un orientamento sulle grandi religioni, nello studio della filosofia e del diritto canonico, definito "condizione dell'amore" con un coraggio controcorrente.
C'è da aspettarsi che l'attenzione dei media sia ancora una volta attirata da quanto il Papa scrive sullo scandalo degli abusi sessuali di bambini e giovani da parte di sacerdoti. Ma Benedetto XVI punta più in alto, sottolineando che la dimensione della sessualità deve essere integrata nella persona, perché altrimenti "diventa banale e distruttiva". Come mostrano gli esempi innumerevoli di preti autentici - e dei santi - che proprio per questo sono convincenti. Nel lasciare soprattutto trasparire la luce di Dio che illumina ogni uomo.


Lettera di Benedetto XVI ai seminaristi - Il mondo ha ancora bisogno di sacerdoti -
Gli uomini avranno sempre bisogno di Dio e Dio di uomini che parlino di lui al mondo, ecco perché ha ancora oggi senso diventare sacerdoti. Lo scrive Benedetto XVI nella lettera indirizzata ai seminaristi di tutto il mondo nella festa liturgica di san Luca Evangelista. Il Papa, ricordate le sofferenze legate alle vicende degli abusi, ha ribadito che, sebbene siano da riprovare, tuttavia non possono screditare la missione sacerdotale, che rimane "grande e pura". - (©L'Osservatore Romano - 18-19 ottobre 2010)

Cari Seminaristi,
nel dicembre 1944, quando fui chiamato al servizio militare, il comandante di compagnia domandò a ciascuno di noi a quale professione aspirasse per il futuro. Risposi di voler diventare sacerdote cattolico. Il sottotenente replicò:  Allora Lei deve cercarsi qualcos'altro. Nella nuova Germania non c'è più bisogno di preti. Sapevo che questa "nuova Germania" era già alla fine, e che dopo le enormi devastazioni portate da quella follia sul Paese, ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti. Oggi, la situazione è completamente diversa. In vari modi, però, anche oggi molti pensano che il sacerdozio cattolico non sia una "professione" per il futuro, ma che appartenga piuttosto al passato. Voi, cari amici, vi siete decisi ad entrare in seminario, e vi siete, quindi, messi in cammino verso il ministero sacerdotale nella Chiesa Cattolica, contro tali obiezioni e opinioni. Avete fatto bene a farlo. Perché gli uomini avranno sempre bisogno di Dio, anche nell'epoca del dominio tecnico del mondo e della globalizzazione:  del Dio che ci si è mostrato in Gesù Cristo e che ci raduna nella Chiesa universale, per imparare con Lui e per mezzo di Lui la vera vita e per tenere presenti e rendere efficaci i criteri della vera umanità. Dove l'uomo non percepisce più Dio, la vita diventa vuota; tutto è insufficiente. L'uomo cerca poi rifugio nell'ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata. Dio vive. Ha creato ognuno di noi e conosce, quindi, tutti. È così grande che ha tempo per le nostre piccole cose:  "I capelli del vostro capo sono tutti contati". Dio vive, e ha bisogno di uomini che esistono per Lui e che Lo portano agli altri. Sì, ha senso diventare sacerdote:  il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre, fino a quando esisterà.
Il seminario è una comunità in cammino verso il servizio sacerdotale. Con ciò, ho già detto qualcosa di molto importante:  sacerdoti non si diventa da soli. Occorre la "comunità dei discepoli", l'insieme di coloro che vogliono servire la comune Chiesa. Con questa lettera vorrei evidenziare - anche guardando indietro al mio tempo in seminario - qualche elemento importante per questi anni del vostro essere in cammino.
1. Chi vuole diventare sacerdote, dev'essere soprattutto un "uomo di Dio", come lo descrive san Paolo (1 Tm 6, 11). Per noi Dio non è un'ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il "big bang". Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio. Nelle sue parole sentiamo Dio stesso parlare con noi. Perciò la cosa più importante nel cammino verso il sacerdozio e durante tutta la vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo. Il sacerdote non è l'amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini. Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro. Per questo, cari amici, è tanto importante che impariate a vivere in contatto costante con Dio. Quando il Signore dice:  "Pregate in ogni momento", naturalmente non ci chiede di dire continuamente parole di preghiera, ma di non perdere mai il contatto interiore con Dio. Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera. Perciò è importante che il giorno incominci e si concluda con la preghiera. Che ascoltiamo Dio nella lettura della Scrittura. Che gli diciamo i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre gioie e sofferenze, i nostri errori e il nostro ringraziamento per ogni cosa bella e buona, e che in questo modo Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita. Così diventiamo sensibili ai nostri errori e impariamo a lavorare per migliorarci; ma diventiamo sensibili anche a tutto il bello e il bene che riceviamo ogni giorno come cosa ovvia, e così cresce la gratitudine. Con la gratitudine cresce la gioia per il fatto che Dio ci è vicino e possiamo servirlo
2. Dio non è solo una parola per noi. Nei Sacramenti Egli si dona a noi in persona, attraverso cose corporali. Il centro del nostro rapporto con Dio e della configurazione della nostra vita è l'Eucaristia. Celebrarla con partecipazione interiore e incontrare così Cristo in persona, dev'essere il centro di tutte le nostre giornate. San Cipriano ha interpretato la domanda del Vangelo:  "Dacci oggi il nostro pane quotidiano", dicendo, tra l'altro, che "nostro" pane, il pane che possiamo ricevere da cristiani nella Chiesa, è il Signore eucaristico stesso. Nella domanda del Padre Nostro preghiamo quindi che Egli ci doni ogni giorno questo "nostro" pane; che esso sia sempre il cibo della nostra vita. Che il Cristo risorto, che si dona a noi nell'Eucaristia, plasmi davvero tutta la nostra vita con lo splendore del suo amore divino. Per la retta celebrazione eucaristica è necessario anche che impariamo a conoscere, capire e amare la liturgia della Chiesa nella sua forma concreta. Nella liturgia preghiamo con i fedeli di tutti i secoli - passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera. Come posso affermare per il mio cammino personale, è una cosa entusiasmante imparare a capire man mano come tutto ciò sia cresciuto, quanta esperienza di fede ci sia nella struttura della liturgia della Messa, quante generazioni l'abbiano formata pregando.
3. Anche il sacramento della Penitenza è importante. Mi insegna a guardarmi dal punto di vista di Dio, e mi costringe ad essere onesto nei confronti di me stesso. Mi conduce all'umiltà. Il Curato d'Ars ha detto una volta:  Voi pensate che non abbia senso ottenere l'assoluzione oggi, pur sapendo che domani farete di nuovo gli stessi peccati. Ma - così dice - Dio stesso dimentica al momento i vostri peccati di domani, per donarvi la sua grazia oggi. Benché abbiamo da combattere continuamente con gli stessi errori, è importante opporsi all'abbrutimento dell'anima, all'indifferenza che si rassegna al fatto di essere fatti così. È importante restare in cammino, senza scrupolosità, nella consapevolezza riconoscente che Dio mi perdona sempre di nuovo. Ma anche senza indifferenza, che non farebbe più lottare per la santità e per il miglioramento. E, nel lasciarmi perdonare, imparo anche a perdonare gli altri. Riconoscendo la mia miseria, divento anche più tollerante e comprensivo nei confronti delle debolezze del prossimo.
4. Mantenete pure in voi la sensibilità per la pietà popolare, che è diversa in tutte le culture, ma che è pur sempre molto simile, perché il cuore dell'uomo alla fine è lo stesso. Certo, la pietà popolare tende all'irrazionalità, talvolta forse anche all'esteriorità. Eppure, escluderla è del tutto sbagliato. Attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue. Certamente la pietà popolare dev'essere sempre purificata, riferita al centro, ma merita il nostro amore, ed essa rende noi stessi in modo pienamente reale "Popolo di Dio".
5. Il tempo in seminario è anche e soprattutto tempo di studio. La fede cristiana ha una dimensione razionale e intellettuale che le è essenziale. Senza di essa la fede non sarebbe se stessa. Paolo parla di una "forma di insegnamento", alla quale siamo stati affidati nel battesimo (Rm 6, 17). Voi tutti conoscete la parola di San Pietro, considerata dai teologi medioevali la giustificazione per una teologia razionale e scientificamente elaborata:  "Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi "ragione" (logos) della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Imparare la capacità di dare tali risposte, è uno dei principali compiti degli anni di seminario. Posso solo pregarvi insistentemente:  Studiate con impegno! Sfruttate gli anni dello studio! Non ve ne pentirete. Certo, spesso le materie di studio sembrano molto lontane dalla pratica della vita cristiana e dal servizio pastorale. Tuttavia è completamente sbagliato porre sempre subito la domanda pragmatica:  Mi potrà servire questo in futuro? Sarà di utilità pratica, pastorale? Non si tratta appunto soltanto di imparare le cose evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità, così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi. Perciò è importante andare oltre le mutevoli domande del momento per comprendere le domande vere e proprie e capire così anche le risposte come vere risposte. È importante conoscere a fondo la Sacra Scrittura interamente, nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento:  la formazione dei testi, la loro peculiarità letteraria, la graduale composizione di essi fino a formare il canone dei libri sacri, l'interiore unità dinamica che non si trova in superficie, ma che sola dà a tutti i singoli testi il loro significato pieno. È importante conoscere i Padri e i grandi Concili, nei quali la Chiesa ha assimilato, riflettendo e credendo, le affermazioni essenziali della Scrittura. Potrei continuare in questo modo:  ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità:  ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell'unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi. Che sia importante conoscere le questioni essenziali della teologia morale e della dottrina sociale cattolica, non ho bisogno di dirlo espressamente. Quanto importante sia oggi la teologia ecumenica, il conoscere le varie comunità cristiane, è evidente; parimenti la necessità di un orientamento fondamentale sulle grandi religioni, e non da ultima la filosofia:  la comprensione del cercare e domandare umano, al quale la fede vuol dare risposta. Ma imparate anche a comprendere e - oso dire - ad amare il diritto canonico nella sua necessità intrinseca e nelle forme della sua applicazione pratica:  una società senza diritto sarebbe una società priva di diritti. Il diritto è condizione dell'amore. Ora non voglio continuare ad elencare, ma solo dire ancora una volta:  amate lo studio della teologia e seguitelo con attenta sensibilità per ancorare la teologia alla comunità viva della Chiesa, la quale, con la sua autorità, non è un polo opposto alla scienza teologica, ma il suo presupposto. Senza la Chiesa che crede, la teologia smette di essere se stessa e diventa un insieme di diverse discipline senza unità interiore.
6. Gli anni nel seminario devono essere anche un tempo di maturazione umana. Per il sacerdote, il quale dovrà accompagnare altri lungo il cammino della vita e fino alla porta della morte, è importante che egli stesso abbia messo in giusto equilibrio cuore e intelletto, ragione e sentimento, corpo e anima, e che sia umanamente "integro". La tradizione cristiana, pertanto, ha sempre collegato con le "virtù teologali" anche le "virtù cardinali", derivate dall'esperienza umana e dalla filosofia, e in genere la sana tradizione etica dell'umanità. Paolo lo dice ai Filippesi in modo molto chiaro:  "In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri" (4, 8). Di questo contesto fa parte anche l'integrazione della sessualità nell'insieme della personalità. La sessualità è un dono del Creatore, ma anche un compito che riguarda lo sviluppo del proprio essere umano. Quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo. Oggi vediamo questo in molti esempi nella nostra società. Di recente abbiamo dovuto constatare con grande dispiacere che sacerdoti hanno sfigurato il loro ministero con l'abuso sessuale di bambini e giovani. Anziché portare le persone ad un'umanità matura ed esserne l'esempio, hanno provocato, con i loro abusi, distruzioni di cui proviamo profondo dolore e rincrescimento. A causa di tutto ciò può sorgere la domanda in molti, forse anche in voi stessi, se sia bene farsi prete; se la via del celibato sia sensata come vita umana. L'abuso, però, che è da riprovare profondamente, non può screditare la missione sacerdotale, la quale rimane grande e pura. Grazie a Dio, tutti conosciamo sacerdoti convincenti, plasmati dalla loro fede, i quali testimoniano che in questo stato, e proprio nella vita celibataria, si può giungere ad un'umanità autentica, pura e matura. Ciò che è accaduto, però, deve renderci più vigilanti e attenti, proprio per interrogare accuratamente noi stessi, davanti a Dio, nel cammino verso il sacerdozio, per capire se ciò sia la sua volontà per me. È compito dei padri confessori e dei vostri superiori accompagnarvi e aiutarvi in questo percorso di discernimento. È un elemento essenziale del vostro cammino praticare le virtù umane fondamentali, con lo sguardo rivolto al Dio manifestato in Cristo, e lasciarsi, sempre di nuovo, purificare da Lui.
7. Oggi gli inizi della vocazione sacerdotale sono più vari e diversi che in anni passati. La decisione per il sacerdozio si forma oggi spesso nelle esperienze di una professione secolare già appresa. Cresce spesso nelle comunità, specialmente nei movimenti, che favoriscono un incontro comunitario con Cristo e la sua Chiesa, un'esperienza spirituale e la gioia nel servizio della fede. La decisione matura anche in incontri del tutto personali con la grandezza e la miseria dell'essere umano. Così i candidati al sacerdozio vivono spesso in continenti spirituali completamente diversi. Potrà essere difficile riconoscere gli elementi comuni del futuro mandato e del suo itinerario spirituale. Proprio per questo il seminario è importante come comunità in cammino al di sopra delle varie forme di spiritualità. I movimenti sono una cosa magnifica. Voi sapete quanto li apprezzo e amo come dono dello Spirito Santo alla Chiesa. Devono essere valutati, però, secondo il modo in cui tutti sono aperti alla comune realtà cattolica, alla vita dell'unica e comune Chiesa di Cristo che in tutta la sua varietà è comunque solo una. Il seminario è il periodo nel quale imparate l'uno con l'altro e l'uno dall'altro. Nella convivenza, forse talvolta difficile, dovete imparare la generosità e la tolleranza non solo nel sopportarvi a vicenda, ma nell'arricchirvi l'un l'altro, in modo che ciascuno possa apportare le sue peculiari doti all'insieme, mentre tutti servono la stessa Chiesa, lo stesso Signore. Questa scuola della tolleranza, anzi, dell'accettarsi e del comprendersi nell'unità del Corpo di Cristo, fa parte degli elementi importanti degli anni di seminario.
Cari seminaristi! Con queste righe ho voluto mostrarvi quanto penso a voi proprio in questi tempi difficili e quanto vi sono vicino nella preghiera. E pregate anche per me, perché io possa svolgere bene il mio servizio, finché il Signore lo vuole. Affido il vostro cammino di preparazione al Sacerdozio alla materna protezione di Maria Santissima, la cui casa fu scuola di bene e di grazia. Tutti vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Dal Vaticano, 18 ottobre 2010, Festa di San Luca, Evangelista.
Vostro nel Signore
 (©L'Osservatore Romano - 18-19 ottobre 2010)


Lettera di Padre Aldo Trento 16 ottobre 2010
Cari amici,
"Padre sono felice di essere qui, in questo ospedale. Giá arrivando e vedendo tanta bellezza, fiori, aiuole, piante, ordine, pulizia, e in particolare tanto amore, mi sono sentita come in paradiso. Lo stesso cancro ha assunto una faccia diversa".
Mi dice Giuseppina che poi é morta questa notte. La clinica é sempre piena. Moribondi soli, della strada, che arrivano per ricevere un gesto di amore puro che trova nei sacramenti il cuore e poi ripartono per il Paradiso. Spesso diamo il battesimo sotto-condizione perché non sappiamo nulla di loro, se non una cosa bellissima che Carrón ci ripete spesso: "di un amore eterno ti ho amato avendo pietá del tuo niente..." o come dice Giussani nella scuola di Comunitá: "Mi sono comosso perché tu mi odi". Guardo quel mio figlio di cui sono anche il padrino, battezzato domenica, sempre sub-condizione (significa che puó darsi che giá sia stato battezzato), mongoloide, trovato in una strada, ammalato di AIDS perché abusato sessualmente, e non posso non commuovermi pensando, oggi sabato, a quanto abbiamo pregato nelle lodi (come vorrei che voi amici miei, come quando eravate a G.S. recitaste il libro delle ore tutti i giorni per scoprire ció che a 17 anni intuivamo ma non era ancora carne): "Puó una madre abbandonare suo figlio? non commoversi per il figlio del suo ventre? Bene, se anche si dimenticasse Io non ti dimenticheró mai". Amici, guai a noi se introducessimo il sospetto che non sia cosí nella nostra vita, qualunque siano le circostanze. Immaginate che disperazione sarebbe la nostra vita, se questa certezza non fosse granitica come contenuto dell´io, quando un giorno ci amalassimo di cancro o quando ci prendesse la depressione!! Amici il peccato piú grave é il sospetto, il dubbio, quasi che Dio sia capace di inbrogliarci quando "di un amor eterno ti ho amato avendo pietá del mio niente".
Quanti momenti drammatici in queste settimane, mi sono anche arrabiato (peró da molto tempo a questa parte la mia rabbia con Dio é piena di tenerezza) con Lui, ma non c´é niente che mi possa fare nascere il sospetto che quanto mi é accaduto non sia una tenerezza di Dio.
Se non sofrissi, non vivrei quella familiaritá con Lui, che tanto bella rende la vita e che mi permette di trasmettere ai miei bambini la gioia del perdono. L´altra sera le mie figlie della casetta di Betlemme, le adolescenti vennero nel mio studio per parlarmi, confidarmi i loro problemi (é un fatto normale ma sempre nuovo). Fra le tante cose dette, alcune mi hanno colpito e fu quando, loro, abusate sessualmente per il compagno della "madre" e con il consenso della stessa, mi hanno detto: "papa´noi non vogliamo piú vivere con la mamma per quello che ci ha fatto, peró la perdoniamo". E una mi ha detto: "io vorrei vederla, ma so che lei non vuole sapere niente di me". "Per questo abbiamo bisogno che tu e Diana, la mamma di fatto, stiate con noi quando abbiamo il tempo libero della scuola, perché siamo una famiglia". L´altra sera ho cercato di insegnare a Noelia (5 anni) come si piegano i vestiti. Io la guardavo e lei, molto impegnata ogni tanto mi guardava per vedere se ero daccordo, che tenerezza! Peró se Gesú non fosse qui vivo non lo farei, mi spazienterei. É la contemporaneitá di Cristo che permette alle bambine di perdonare e a me di insegnare come si piegano i vestiti. Questa contemporaneitá é ció che ha dato la libertá carica di amore a Cesare e Lorena, che, appena sposati, alcuni mesi fa, hanno deciso di venire a vivere con i maschi della casetta numero uno di Belen. Si sono trovati giá la prima notte da sposi con a fianco della loro camera, la camera degli 11, scavezzacolli, che sono diventati loro figli. Adesso Lorena é incinta e la felicitá per tutti é ancora piú grande. I bambini che erano di una violenza inaudita -oggi sarebbero tutti nella strada a seminare violenza- oggi sono cambiati, sono bellissimi. Perfino Gabriele, di cui non abbiamo dati e che si é dato il mio cognome, che ha vissuto solo di violenza (scappava sui tetti delle case, tirava sassi rompendo i vetri delle macchine, rispondeva a botte, aveva un cinismo terribile), adesso é il migliore della sua classe. Amici é il miracolo della gratuitá, cosí come la descrive Giussani nella S.D.C. I miei educatori sono tutte persone che hanno la quinta elementare o qualcuno le medie superiori, e sono le protagoniste di questo miracolo...ma perché? Perché ogni giorno ci ricordiamo le nostre origini che é la stessa dei nostri bambini: "Io sono Tu che mi fai" o "Chi sei Tu o Cristo che di un amore eterno mi hai amato avendo pietá del mio niente".
Amici la vita é una grande avventura.
Con Affetto P. Aldo


LA TUTELA DELLA DOMENICA E LA DIFESA DEI DIRITTI UMANI - Incontro al Parlamento Europeo a Bruxelles di don Mariusz Frukacz

VARSAVIA, lunedì, 18 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La tutela della domenica, la natura specifica della domenica in Europa e nell'Unione Europea, la difesa della domenica in relazione alla difesa dei diritti umani in Asia, Africa e in altri paesi dove esiste la persecuzione dei cristiani, sono stati argomenti principali di una conferenza stampa che si è svolta il 13 ottobre presso il Parlamento Europeo a Bruxelles.
“Per diversi anni, non vi è stata alcuna traccia di carattere specifico in merito alla domenica nei documenti dell’Unione Europea. In questi mesi si sta lavorando su un progetto di direttiva sul restauro della registrazione del 1983, su un carattere speciale del giorno di festa per i cristiani”, ha detto don Piotr Mazurkiewicz, segretario della Commissione delle Conferenze Episcopali  dell’Unione Europea (COMECE).

"Un uomo ha bisogno di almeno un giorno di riposo a settimana per rigenerarsi, per esigenze spirituali e per avere il tempo di stare con la famiglia”. Per questi motivi “è molto importante garantire e proteggere il giorno della domenica, come giorno libero, come stanno chiedendo le associazioni culturali, i movimenti religiosi e i sindacati”, ha continuato don. Mazurkiewicz.
“Questa iniziativa dei cittadini dell’Unione Europea è uno strumento importante per il futuro. E ha la natura della mobilitazione – ha aggiunto il segretario della COMECE –. Per la realizzazione di questa iniziativa bisogna raccogliere 1 milione delle firme nei 9 paesi dell’ Unione Europea”.

Monsignor Wiktor Skworc, Vescovo di Tarnów, ha spiegato che “non si può immaginare l’ Europa di oggi senza la domenica come un giorno per la famiglia. L’umanità deve avere la possibilità di realizzare i suoi bisogni religiosi”.
Per quanto riguarda la difesa dei diritti don Piotr Mazurkiewicz ha osservato che "da 10 anni il gruppo più perseguitato al mondo sono i cristiani. I mass media in Europa non hanno notato e rivelato questo problema in modo sufficiente. Per la difesa dei cristiani è necessario anche il lavoro dei giornalisti”.

A promuovere l’iniziativa per la tutela della domenica, su invito dell'eurodeputato polacco Paweł Kowal, sono arrivati a Bruxelles un gruppo di sacerdoti, giornalisti e membri di movimenti e associazioni polacche.
 Tra questi: monsignor Wiktor Skworc, Vescovo di Tarnów, i sacerdoti rappresentanti delle diocesi di Tarnów, Rzeszów, Czestochowa, Cracovia, Bielsko Biała in Polonia; i rappresentanti dei movimenti - Associazione “Chiesa Domestica”, Associazione Cattolica della Gioventù, Azione Cattolica -; e i rappresentai dei media cattolici dei settimanali “Niedziela” e “Gość Niedzielny”.
Durante il loro soggiorno a Bruxelles dal 12 al 14 ottobre la delegazione ha osservato il lavoro delle principali istituzioni dell'Unione europea, tra cui il Parlamento Europeo, la NATO, e la Commissione delle Conferenze Episcopali  in Unione europea (COMESE).

La delegazione ha anche incontrato i deputati polacchi, tra cui Konrad Szymański, Paweł Kowal e gli ambasciatori Jan Tombińskim, rappresentante permanente della Polonia all'Unione Europea, e Boguslaw Winid, rappresentante permanente della Polonia alla NATO.
Per maggiori informazioni: http://www.travail-dimanche.com/expertises-etudes-reflexions/etude-dimpact-du-travail-du-dimanche-sur-la-sante-des-salaries.html
Qui è disponibile il testo della petizione per la domenica.


IMPEGNO SOCIALE E POLITICO...ORA TOCCA AI LAICI - Si è conclusa la Settimana sociale di Reggio Calabria di Chiara Santomiero

REGGIO CALABRIA, lunedì, 18 ottobre 2010 (ZENIT.org).- "Abbiamo sperimentato un modo nuovo di essere Chiesa, facendo i conti con le cose così come sono": lo ha affermato Luca Diotallevi, vice presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, tracciando le conclusioni dell'appuntamento di Reggio Calabria terminato domenica 17 ottobre.
Un incontro, secondo Diotallevi che ha evidenziato l’impegno di "molta gente che ha una forte passione per il bene comune" e la necessità di rimettere al centro "il primato della vita spirituale". “Siamo la prua – ha proseguito il vice presidente del Comitato organizzatore - della nave di una nuova generazione che si misura con l'onere di un pensiero nuovo e di un'azione nuova, che il Papa ha richiesto nella Caritas in veritate".
“Il ‘popolo’ di Reggio Calabria - ha affermato Diotallevi - ha un'agenda comune da cui partire” e “il primo compito del Comitato, tornati a casa, sarà quello di raccontare ai vescovi, attraverso il documento conclusivo, ciò che è successo, in termine di conquiste e di problemi”. Un compito che spetterà soprattutto al laicato.
“Quante più occasioni di ampio confronto si riusciranno a creare – ha affermato Franco Miano, presidente dell’Azione cattolica italiana, commentando con ZENIT i lavori della Settimana sociale di Reggio Calabria –, tanto più crescerà una sensibilità diffusa dei cattolici sui problemi del Paese”.
Da adesso in poi “il nostro compito, in particolare quello dell’associazionismo, sarà di provare ad articolare concretamente i contenuti e le proposte della Settimana ed offrire alla comunità civile dei riferimenti precisi da parte del laicato cattolico”. In particolare, secondo il presidente dell’Ac “i cattolici devono puntare ad una forma di costante impegno sociale e politico inscritta nelle attività di base di tutti”.
Per quanto riguarda i cattolici impegnati in politica “occorre che essi siano sostenuti dalla comunità ecclesiale - in modo non acritico -, affinché non gli manchino i riferimenti morali e spirituali necessari al loro spendersi per il bene comune, ma, allo stesso tempo, deve esserci da parte loro una tensione a rimanere collegati e a non tagliare il rapporto con il loro ambito di provenienza”. “Proprio di questo – ha annunciato Miano – si discuterà nell’incontro che l’Azione cattolica ha proposto per il prossimo 13 novembre a tutti gli amministratori locali provenienti dall’esperienza associativa”.
“A Reggio Calabria – ha affermato Mario Marazziti, portavoce della Comunità di S. Egidio – si è avvertito un ‘respiro comune’ da parte dei cattolici”. Al di là delle appartenenze ecclesiali, emerge, secondo Marazziti “una grande voglia di umanizzazione della società, la tensione per un forte impegno contro certi fenomeni di imbarbarimento dei costumi e dei comportamenti ai quali, sempre più spesso, ci capita di assistere sgomenti”.
“Mi ha impressionato – ha affermato Paola Dal Toso, responsabile del Centro documentazione Agesci e segretaria della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali – la partecipazione molto attenta e costruttiva dei delegati. Gli interventi ascoltati hanno evidenziato non solo una stretta aderenza ai temi, ma una accurata preparazione”.
“Le priorità indicate dall’Agenda – ha affermato Dal Toso che ha registrato gli interventi dell’area tematica ‘includere’ – sono stati davvero ‘declinati’ con suggerimenti precisi, senza enunciazioni teoriche”. Ciò dimostra, secondo Dal Toso, “una maturità dei laicato cattolico che è impegnato da tempo nell’elaborare e anche nell’attuare risposte concrete ai bisogni del nostro Paese”.
E’ stata evidente, infatti “specialmente nel dibattito riguardo al tema dell’immigrazione, una capacità propositiva frutto di un impegno già speso generosamente nella quotidianità”. In questo senso, per il futuro delle Settimane sociali “è auspicabile – ha concluso Dal Toso – una sempre maggiore fiducia nell’agire del laicato, soprattutto di quello organizzato, e un ancora maggiore coinvolgimento dei giovani attraverso il coordinamento del servizio di pastorale giovanile”.
“Il metodo del discernimento comunitario – ha affermato Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo – torna, attraverso la Settimana sociale di Reggio Calabria, a porsi come lo strumento più efficace per riscoprire le ricchezze della comunità cristiana”. “L’Agenda per il Paese – ha proseguito Martinez – non è solo per i cattolici, ma il contributo di idee e di valori imprescindibili che i cattolici offrono a tutta la società per ritrovare insieme le coordinate del bene comune”. “I ‘benefattori’, cioè coloro che operano il bene – ha affermato Martinez – sono più diffusi di quanto appaia dalle cronache”.
Il Rinnovamento nello spirito è particolarmente impegnato per il “recupero della dimensione spirituale sottesa all’impegno per il bene comune” perché solo la dimensione spirituale “può consentire di resistere al male e di rispondere al male con il bene”. L’attuazione delle proposte elaborate dalla Settimana sociale “è compito di tutti i cristiani, ma deve trovare nel laicato organizzato il primo promotore”. “Un compito tanto più facilitato – ha concluso Martinez – dal clima di grande fraternità e amicizia che si è respirato tra le aggregazioni laicali lavorando insieme, all’interno dell’appuntamento di Reggio Calabria, per raggiungere il bene comune”.


COME EDIFICARE LA CHIESA IN MYANMAR - Intervista a suor Veronica Nwe Ni Moe (ZENIT.org)

ROMA, lunedì, 18 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Sono passati tre anni da quando il Myanmar aveva occupato tutti i titoli dei giornali a causa delle violente repressioni messe in atto dalla giunta militare contro le manifestazioni in favore della democrazia guidate dai monaci buddisti.
Ora il Paese si prepara per le elezioni nazionali previste per il mese prossimo, anche se la comunità internazionale non si aspetta di assistere a un momento di alta democrazia.

È in questo contesto che suor Veronica Nwe Ni Moe e le sorelle salesiane stanno costruendo la Chiesa, un bambino alla volta.

In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, suor Veronica parla del lavoro delle salesiane in Myanmar e del suo impegno nel proseguire gli studi a Roma.

Suor Veronica, lei sta lavorando molto con i giovani. Sta studiando a Roma incentrandosi sull’educazione. Quali sono le sfide per i giovani del Myanmar?

Suor Veronica: Io sono una suora salesiana. Noi vediamo molte giovani ragazze che vengono da noi. Abbiamo un centro per le ragazze dai 15 ai 25 anni che provengono dalle diverse parrocchie e sono solitamente di estrazione dei diversi gruppi etnici; vengono senza un futuro e senza una guida.

Il centro del Paese è prevalentemente buddista, mentre le regioni periferiche sono molto più cattoliche. Come mai la sua famiglia è cattolica pur stando in una regione buddista?

Suor Veronica: Mia madre è originaria della tribù Karen, delle regioni periferiche, e in Myanmar i “tribali” – come veniamo definiti – sono prevalentemente cattolici.

Ci può spiegare meglio la situazione nelle regioni periferiche?

Suor Veronica: Noi non conosciamo il vero motivo dell’aggressione del Governo nei confronti delle tribù. Ciò che posso dire è che le persone innocenti, soprattutto i giovani che si trovano nel mezzo del conflitto, ne stanno soffrendo. Sono costretti a trasportare cibo e armi e sono costantemente in movimento. Non esiste stabilità e l’educazione è inesistente, o comunque non è una priorità.

La maggior parte delle ragazze è anche oggetto di sfruttamento o di abusi da parte di diverse persone soprattutto nelle zone periferiche. Quindi non esiste futuro per queste giovani e anche per i giovani, nonostante i loro vari talenti. Le ragazze che vengono da noi ricevono istruzione e imparano a usare la loro creatività. Quando sono diventata suora sono stata con le ragazze per tre anni. In quel periodo mi sono resa conto che anche io avevo imparato moltissime cose da loro.

Per esempio?

Suor Veronica: Semplicemente essere contenti di ciò che si ha. La felicità non risiede nelle cose materiali che si possiedono ma nella vita vissuta; una vita di impegno e di onestà che dà loro questa gioia.

Deve essere doloroso per lei assistere alla sofferenza di queste giovani?

Suor Veronica: Certamente. Anche io soffro. Siamo educatrici e la nostra Congregazione in tutto il mondo possiede delle scuole, centri giovanili, oratori e noi siamo libere; non così in Myanmar. Ciò che cerco di fare, anzitutto, è di pregare per loro. Poi mi impegno con tutto il cuore per la loro educazione e per insegnare loro come essere buone madri cristiane, perché possano trasmettere la loro fede ai figli.

È possibile aprire scuole, anche solo nei piccoli villaggi di queste zone?

Suor Veronica: Abbiamo un asilo con 100 bambini e la maggior parte di loro sono buddisti. Lavorare con i buddisti non è difficile perché sono molto pacifici e i genitori apprezzano il nostro lavoro. È facile lavorare in collaborazione con i genitori.

Ma lei ha aperto solo un asilo finora? Cosa le impedisce di fare di più? La guerra?

Suor Veronica: Anzitutto è l’esiguo numero di suore salesiane in Birmania. Siamo solo 21, anche se al momento siamo in crescita. Abbiamo 16 o 17 aspiranti, 8 postulanti e nove novizie: stiamo crescendo. Questi numeri non ci aiutano, anche perché noi vogliamo dare il 100% di noi stesse. E vogliamo fare bene! Abbiamo quattro case in Myanmar e le 21 sorelle sono distribuite tra queste case.

Come è il rapporto quotidiano tra cattolici e buddisti?

Suor Veronica: È molto pacifico. Per esempio, nel villaggio in cui sono nata, delle 800 famiglie, 8 sono cattoliche e sono tutti miei parenti. Quindi tutti i miei amici sono in gran parte buddisti. Viviamo in pace; questa è la normalità. I monaci buddisti sono gentili e benevoli.

Suor Veronica, nell’ambito dell’evangelizzazione della Chiesa esistono alcuni giovani chiamati “zeteman”. Ci può parlare di loro e di cosa fanno?

Suor Veronica: Sono giovani cattolici missionari, dai 18 anni in su; sono molto giovani. Dedicano la loro vita al servizio delle diocesi per 3 anni. Si trasferiscono in luoghi sperduti – nelle montagne o nelle foreste – per servire la loro diocesi. Il loro scopo principale è il servizio e il lavoro caritativo nell’educazione, nell’assistenza sanitaria e nell’assistenza agli anziani. Non fanno catechismo, ma se la gente gli chiede di Gesù e della fede, allora ne parlano e condividono la propria fede. Lo fanno come servizio e talvolta a rischio della propria vita. Spesso soccombono alle malattie contratte nei loro viaggi attraverso la giungla. È un servizio molto importante perché spesso i religiosi e i preti non riescono a raggiungere quelle zone.

Quanto tempo restano via e quanto gli ci vuole per raggiungere un villaggio nelle montagne?

Suor Veronica: Due delle nostre suore salesiane hanno fatto questo servizio prima di farsi suore; in qualche modo la vocazione salesiana è nata da questo servizio “zeteman”. So che viaggiano molto per raggiungere luoghi distanti. Per esempio possono impiegare anche 3 giorni di viaggio in macchina per arrivare a destinazione, spesso visitando villaggi molto poveri e spesso senza cibo. Spesso vivono con gli abitanti dei villaggi.

Suor Veronica, ci può dire qualcosa della sua vocazione?

Suor Veronica: Da giovane non avevo mai pensato a diventare una suora. La mia ambizione era di fare medicina e prendermi cura dei malati. Ho cercato di studiare molto perché nel mio Paese, diventare dottore richiede un duro lavoro. Quando avevo 10 anni volevo anche studiare informatica e inglese. Mio padre a quel tempo, negli anni 1997-1998, aveva conosciuto le suore salesiane ed era rimasto molto colpito dalla loro gioia e dalla loro accoglienza. Un giorno, al suo ritorno dalla città, mi ha chiesto se avessi voluto studiare da loro. Io gli ho risposto di sì e lui mi ci ha accompagnato.

Durante il mio soggiorno da loro ho iniziato a questionarmi e a vedere la loro gioia nonostante le difficoltà. Avevo 17 o 18 anni ed ero alla ricerca della vera felicità per la mia vita. Spesso mi domandavo perché loro erano sempre felici mentre per me non era sempre così. Successivamente ho capito che la loro vera felicità stava nell’amare Dio e servire il prossimo. Questo adesso lo so. È stata la ricerca della vera felicità che mi ha portato a seguire le salesiane: essere felice nel servizio e nell’aiutare a educare i giovani.

Lei si trova a Roma per motivi di studio. Cosa l’ha portata qui?

Suor Veronica: Prima di tutto, è per obbedienza alla mia superiora. Mi è stato chiesto di studiare e di preparami per la mia futura missione. L’altro motivo è che la mia superiora mi ha informato di aver ricevuto una borsa di studio da Aiuto alla Chiesa che Soffre. ACS mi ha fornito una borsa di 5 anni. Sono molto riconoscente ad ACS. Ho anche pregato per tutti coloro che mi hanno sostenuto nei mie studi, nella mia formazione; me ne ricordo sempre e sono fermamente convinta che se non conosco niente non potrò neanche condividere niente. Posso condividere solo ciò che conosco e ciò che ho imparato. La cosa più importante che posso condividere al mio ritorno è l’amore di Dio. Questa è la cosa più preziosa di tutte e noi ne abbiamo molto bisogno.

E ora vede che i suoi frutti sono messi all’opera: la sua istruzione, le lingue, ora che è a Roma completando i suoi studi, per tornare presto in Myanmar? Suor Veronica, qual è la sua speranza per la Chiesa in Myanmar?

Suor Veronica: Ho tanta speranza. Vedo un futuro molto buono per la Chiesa cattolica in Birmania. Vedo un aumento nel numero dei giovani che dimostrano di essere molto generosi. L’altro motivo è che la Chiesa cattolica è nota per la sua carità e per essere molto vicina ai poveri. Noi vogliamo continuare a lavorare su questi punti di forza e su questo mandato: gioia, povertà e servizio ai poveri. Inoltre, credo nella grazia di Dio. Dio lavora dentro e attraverso di noi e con la nostra dedizione ai fedeli. So che cresceremo.

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Questa intervista è stata condotta per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.


Per maggiori informazioni: www.WhereGodWeeps.org


SAN STANISŁAW KAZIMIERCZYK, APOSTOLO DELL'EUCARISTIA – (ZENIT.org)
ROMA, lunedì, 18 ottobre 2010 (ZENIT.org).- San Stanisław Kazimierczyk, sacerdote dei Canonici Regolari Lateranensi, fu un vero apostolo dell'Eucaristia, ed educatore dei giovani religiosi, ai quali cercò sempre di inculcare l'amore per il Santissimo Sacramento.
Nacque il 27 settembre del 1433 a Cracovia da una famiglia borghese: suo padre Mattia Scholtis era tessitore e anche presidente del tribunale municipale per diversi anni; la madre Edvige, che lo diede alla luce in età avanzata, era una donna devota e impegnata nella vita religosa della parocchia del Corpus Domini, dove faceva parte dell'Arcifraternita del Santissimo Sacramento.
Battezzato nella chiesa dal Corpus Domini, è qui che, presso la scuola parrocchiale, seguì le prime lezioni, partecipando alle funzioni religiose. Studiò all'Accademia di Cracovia conseguendo il titolo di baccelliere in teologia.
A 23 anni entrò nel convento dei Canonici Regolari Lateranensi di Casimiria, dove trascorse la sua infanzia e cominciò la sua formazione. Prima di professare i voti religiosi, dovette compiere un noviziato annuale, nel corse del quale si distinse per una eccezionale modestia, umiltà ed eccellenza anche nella preghiera. Dopo l'ordinazione sacerdotale, secondo il costume proprio del convento, il sacerdote per cinque anni dovette prepararsi agli obblighi apostolici, lavorando allo scriptorium monastico.
Dopo questi ciqnue anni, venne nominato predicatore e confessore, mentre nel convento insegnava ai novizi e sostituiva il padre superiore. I giovani monaci nutrivano grande stima e fiducia in lui, poiché non solo insegnava loro la dottrina crisitana, ma cercava anche con successo di testimoniarla con la sua vita.
I biografi del Santo scrivono che con le sue omelie destava un'enorme ammirazione “perché tutto quello che usciva dalla sua bocca, zuccherava le anime e conduceva a sante virtù (…)” e senza essere “lusinghevole in sermoni (…) audacemente castigava peccati grossolani”.
Protettore della gioventù monastica, insegnava ai giovani candidati allo stato monastico la storia della Congregazione, le relative regole e il carisma.
Condusse una vita molto intensa ed attiva sottoponendosi ad estenuanti pratiche ascetiche. A 56 anni si ammalò e morì il 3 maggio 1489. Venne sepolto nel presbiterio, accanto all'altare di Santa Maria Maddalena, patrona dei tessitori. Nel 1632 don Martino Kłoczyński, abate del convento, fede edificare uno splendido altare dove furono trasfrite le spoglie del santo.
Dopo la morte di san Stanisław Kazimierczyk, i fedeli cominciarono a chiedere l'intercessione del santo attraverso le loro preghiere, nella convinzione che possedesse la grazia di ottenere i miracoli, che venivano annotati in un libro speciale. Già nel primo anno dopo la morte se ne annotarono addirittura 176.
I Canonici Regolari Lateranensi cominciarono a presentare domande ufficiali presso la Santa Sede per confermare il suo culto solo nel 1773. In seguito, negli anni Settanta del XX sec. il Cardinale Karol Wojtyla, su richiesta dei Canonici costituì una Commissione storica con la finalità di ricercare e raccogliere ogni odcumento legato alla vita di san Stanisław a conferma della continuità del suo culto. Sulla base di tali documenti iniziò il processo di beatificazione durato dal 1987 al 1992.
Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 18 aprile 1993 a Roma.
Il miracolo che gli ha spalancato le porte alla canonizzazione è stata la guarigione avvenuta intorno al 1617 di Piotr Komorowski, starosta di Oświęcim e proprietario di vaste proprietà a Sucha Beskidzka, che si era ammalato gravemente ad un occhio, tanto che si pensava potesse perdere completamente la vista, non avendo più l'altro occhio.
Il processo di canonizzazione a livello diocesano è stato aperto nel 1995. Il 19 dicembre del 2009 Benedetto XVI ha infine riconosciuto il miracolo di guarigione ottenuto per sua intercessione.


Cavallari, Fabio - Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele Fonte: CulturaCattolica.it Edizioni Lindau - Vale la pena vivere così? È dignitoso?

Daniela, affetta dalla Locked-in Syndrome, o Sindrome del Chiavistello, è stata per mesi erroneamente scambiata per un paziente in coma vegetativo e letteralmente lasciata sola nel suo corpo immobile, cognitivamente cosciente.

Massimiliano ha trascorso dieci anni della sua esistenza in coma. Alcuni medici lo hanno definito un «tronco morto», un vegetale senza alcuna possibilità di recupero. La sua famiglia lo ha tolto dalla lungodegenza, lo ha portato a casa, accudito come un neonato, inserito in un programma di riabilitazione. Una follia, hanno sentenziato in molti. Ma un giorno d’inverno si è risvegliato, ha sconfessato tutta la letteratura medica di riferimento, è tornato a testimoniare la sua presenza.

Bruno e Claudio sono stati colpiti dalla SLA (sclerosi laterale amiotrofica), non si muovono, non parlano. La loro salvezza, un respiratore artificiale. Entrambi amano, ascoltano la musica, vivono, vogliono vivere.

Oscar ha ventun’anni, è in coma vegetativo da quindici.

Daniela, Giulia, Egle, Massimiliano, Giovanni, Oscar, Bruno e Claudio,
malattie rare, degenerative, patologie sconosciute, condizioni invalidanti tali che se solo venissero ipotizzate a una persona nel pieno della propria efficienza fisica, condurrebbero a una sola risposta:
«No. Non voglio vivere così».
In verità non siamo in grado di ipotizzare una situazione che non ci è data.
Ogni nostro ragionamento poggia le proprie radici sul qui e ora. Impossibile fare diversamente.

Daniela, Giulia, Egle, Massimiliano, Giovanni, Oscar, Bruno, Claudio, con le loro famiglie, sono uniti come fossero fratelli e sorelle nella volontà di lottare, di riconquistare il proprio tempo, quello consumato, espropriato dal «male».

Ogni percorso, seppur individuale, impossibile da replicare,
è sostenuto da una serie di verbi comuni.
Ogni famiglia, ogni ammalato grave, terminale, incosciente,
chiede attenzione, il diritto alla cura, il rispetto della propria essenza.

E poi chiede di «stare insieme».
Come a sottolineare che la solitudine è funesta, peggio di qualsiasi patologia.
Da soli è impossibile superare lo scoramento, la fatica, l'esclusione.
Dentro la solitudine si vuole morire, si chiede la morte.

Dal libro

Vale la pena vivere così? È dignitoso?
Sono domande alle quali, noi sani, abbiamo cercato di rispondere, talvolta con serietà e giudizio, altre con superficialità e leggerezza. In ogni caso, spingendo il nostro ragionamento oltre le possibilità date.
Una vita degna di essere vissuta. Ma da quale punto di vista? Per chi?
Il dibattito attorno al confine sempre più incerto e problematico tra vita e morte si è fatto strada nel nostro paese, scomodando intellettuali, il mondo della politica e quello dei mass-media. Spesso la discussione ha fornito il pretesto per suggerire una regolamentazione legislativa in grado di governare la «dolce morte». All’attenzione dell’opinione pubblica sono giunte situazioni di uomini e di donne che hanno destato commozione, indignazione, talvolta compassione. Negli occhi di tutti sono rimaste immagini meste e voci soffocate.
La raffigurazione del sofferente, la sua richiesta esplicita o quella della famiglia, replicata all’infinito dalla macchina mediatica, hanno prodotto giudizi e prese di posizione, viziate da un difetto di forma e di sostanza.
L’aspetto emotivo, quello determinato dalla visione o dall’ascolto di esperienze «altre», distanti, in qualche modo virtuali, perché impossibili da toccare, hanno determinato un cortocircuito. Tutti noi abbiamo assistito a una rappresentazione del dolore, a una iconografia della sofferenza. In assoluta buona fede, siamo stati condotti a dissertare attraverso le coordinate che ci venivano proposte. Non si tratta di cinismo o cattiva coscienza, bensì della nostra assoluta impossibilità di ragionare tramite «ipotesi» quando discutiamo dell’elemento primario che ci contraddistingue: la vita.
Il dolore è un sentimento intimo e personale sul quale non possiamo pretendere di elaborare idee attraverso il principio del «se fosse». Anche quando assistiamo al dolore del più caro degli amici, non abbiamo la possibilità di «condividere» tale dolore, tutt’al più possiamo condividere la domanda che alberga in esso. Quando affrontiamo la sofferenza da una prospettiva «parente», «amica», esiste però un elemento che interviene a interpretare il nostro disagio. Non è più l’aspetto emotivamente sensibile, bensì il pensiero affettivo. Senza di esso gli unici appigli di cui siamo in possesso sono quelli emozionali. Da soli, per quanto legittimi e umani, non ci permettono di comprendere, di penetrare con ragione e coscienza nella dinamica dell’uomo che davanti alla vita chiede, domanda, pone un dubbio su sé stesso e sul mondo.
Ebbene noi tutti siamo indotti a riflettere attorno a questi temi attraverso il racconto che ci viene offerto dall’informazione di massa. Ogni storia, vicenda umana, in qualche modo ci piomba addosso con tutto il suo carico di straziante angoscia, senza lasciarci neppure il tempo per quella giusta ponderazione che poi produce la «buona vita».
Agli onori della cronaca – e l’affermazione è priva di alcun giudizio sulle persone e i familiari coinvolti che, in questi frangenti, sono sempre «vittime» –, sono salite le testimonianze di coloro che hanno chiesto, per sé o per altri, di «staccare la spina».
Sono rimaste nella memoria di tutti noi le situazioni più drammatiche che i «media» ci hanno proposto. Ognuno, sia chiaro, merita la giusta attenzione, lo spazio che cuore e intelletto pretendono, però non tutto finisce in quelle storie. Le altre narrazioni, quelle dove il «sì» alla vita è dominante, difficilmente catturano l’attenzione dei più. Eppure sono molte, la maggioranza.
Questo libro vuole raccontare proprio quello spaccato di realtà. Senza pregiudizi, senza un pensiero precostituito. Sono otto storie, ma potevano essere molte di più. Uomini, donne, famiglie che al cospetto di condizioni gravi, talvolta disperate, hanno deciso di lottare ogni giorno, per rivendicare il proprio diritto a vivere.
In nessuno di loro c’è un pensiero asettico, una presa di posizione dettata da un’ideologia o una risposta che trova ogni soluzione nella fede. Certo, l’elemento trascendente, quando presente, costituisce un viatico straordinario, ma in verità ognuno di loro risponde alla vita con la vita.
Dentro l’esperienza quotidiana, faticosa, dolente, amara, c’è solo la voglia di onorare il senso stesso dell’esistenza. Ognuno con una modalità differente, con il portato che la propria storia ha generato. Anche in queste storie c’è l’emozione, l’aspetto emotivamente sensibile, ma a governare ogni esperienza, a sostenere ogni lotta, c’è il pensiero affettivo.
_ [...]
Le storie di Vivi possono insegnare allora a conservare quello stato di sospensione che permette a ognuno di essere prima di tutto «uomo», e solo dopo ammalato, padre o madre di una persona in gravi condizioni di salute. Non ci sono pretese salvifiche nelle parole di questo libro, ma ci sono le narrazioni, i percorsi individuali e collettivi.
Oggi più che mai è diventato un obbligo civile raccontare la vita, solo in questa maniera è possibile superare le classificazioni, le profusioni di astrattismo, le ipotesi preconfezionate. Raccontare vuol dire raccogliere, porgere, offrire una narrazione in grado di costruire una connessione sentimentale con l’altro, con chi ci siede accanto, con colui che non può parlare o respirare autonomamente.
_ [...]
Scrivere queste avventure è stato un’immersione nella passione per la vita, un viaggio, anche dolente e faticoso, dentro i volti e il respiro di uomini e donne indomiti, tenaci, testardi.
Un cammino, quello compiuto tra le pieghe di queste pagine, narrato rispettando l’originalità irriducibile di ogni vissuto, che, epurato da ogni propensione prometeica, è in grado di produrre memoria, percorsi condivisi, parole pregne del significato simbolico che ogni vocabolo conserva in dono quando non è sperperato, sciupato, vilipeso.
Vivi è la realtà che non pensi, quella che rigettiamo come ipotesi, perché spaventosa, a lato rispetto al nostro metro di paragone.
Otto storie, otto vite, modi differenti di rapportarsi con il mondo, di gestire il dolore, di percorrere un cammino.

_ [...] Massimiliano, Bruno, Daniela, Claudio, Giulia, Egle, Giovanni, Oscar _ [...]
Non sono eroi che gareggiano per un premio, il riconoscimento, la platea o il plauso. Sono uomini. Soggetti in carne e ossa. Uomini e donne. Vivi. (f.c.)


Il demonio non è un’entità astratta ma un angelo decaduto (quindi è “concreto”) come ben concreta è la sua opera nefasta. Purtroppo i sacerdoti non credono all’esistenza del demonio. Dall'omosessualità si può guarire di Carlo Di Pietro dal sito http://www.pontifex.roma.it

Gentilissimo professore, lei da anni è impegnato nella difesa della retta ed ortodossa Dottrina Cattolica, per altro, tempo fa, ho avuto il piacere di leggere il suo testo di demonologia "Luci e tenebre" e, da studioso dell'argomento, lo ritengo molto interessante e denso di informazioni utilissime, principalmente per giovanissimi e genitori. Le pongo le seguenti domande, alle quali desidererei ricevere una risposta breve, ma esaustiva: 1) Il Demonio è entità astratta, ma ben concreta nell'operare. Cosa pensa dei sacerdoti che non credono nel demonio?  Il demonio non è un’entità astratta ma un angelo decaduto (quindi è “concreto”) come ben concreta è la sua opera nefasta. Purtroppo i sacerdoti che non credono all’esistenza del demonio non credono alla eterna Parola di Dio. Nel Vangelo il diavolo viene nominato più volte e Gesù stesso compie degli esorcismi per scacciare i demoni. 2) L'attuale società è al collasso. Valori smarriti, famiglie distrutte, droga ed alcool, sessualità distorte. Secondo il suo punto di vista tutto ciò è opera del Maligno? Tutto il male viene inspirato dal diavolo; anzi, tutto ciò che contrasta con la Parola di Dio trova in satana il principale stratega che ovviamente si avvale anche della collaborazione di quanti lo adorano al posto di Dio (in cambio di potere, denaro, successo, sesso ecc.).

3) Quanto influisce il diavolo sulla psiche dell'uomo, che non è fortificato nella Fede? Il diavolo influenza certamente la psiche delle persone che non si proteggono mediante le preghiere; lo Spirito Santo, per bocca di S. Paolo, insegna in Efesini  6,10 seg. “Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza.  Rivestitevi dell'armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.  Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi…”

4) Che ne pensa delle lobbies gay e del potere che hanno? Il demonio, in un esorcismo riportato nel mio libro “Storie di esorcismi”, disse d’essere aiutato da “quelli di oltre cortina” (espressione utilizzata dal diavolo stesso).

5) Molti genitori ci scrivono perché sono preoccupati del fatto che hanno figli con tendenze sessuali ambigue, cosa rispondere? E’ necessario che i genitori preghino assiduamente anche per il benessere fisico e spirituale dei propri figli. Il dott. Nicolosi (psicoterapeuta che si occupa di omosessualità) ha scritto nei suoi libri e testimoniato nelle sue conferenze che dall’omosessualità si può uscire, se lo si desidera.


Perché i cattolici hanno venduto la scuola agli islamici? La storia di Blackburn dell’Avv. Gianfranco Amato dal sito http://www.pontifex.roma.it

Le grandi trasformazioni avvengono sempre attraverso piccoli ma significativi segnali. Uno di questi è rappresentato dalla vicenda della scuola elementare cattolica del Sacro Cuore di Blackburn nel Lancashire inglese.La Sacred Heart Roman Catholic Primary School Blackburn, questo il nome ufficiale della scuola, vanta origini storiche più che dignitose, risalenti a centodieci anni fa. La prima pietra fu posata il 5 maggio 1900 da Sua Eccellenza monsignor John Bilsborrow, Vescovo di Salford, ed il 14 gennaio 1901 la scuola fu ufficialmente inaugurata, accogliendo i primi ventotto alunni.
Perché la vicenda di questo centenario istituto scolastico cattolico sia diventato un segno dei tempi è presto detto. Alla fine di settembre è stato dato l’annuncio che la Sacred Heart Roman Catholic Primary School di Blackbury sarà quasi certamente rilevata dalla locale moschea Masjid-e-Tauheedul, e diventerà una scuola islamica. La presenza degli alunni cattolici, che dieci anni fa si attestava attorno al 90 per cento, oggi non raggiunge il 3 per cento, rappresentando una sparuta minoranza rispetto agli altri studenti di origine asiatica quasi tutti musulmani. Da qui la decisione delle autorità religiose di lasciare l’istituto.

La diocesi di Salford ha dichiarato, infatti, di non ritenere più appropriato definire come cattolica la scuola, che oggi ha 197 alunni, di cui solo cinque o sei appartenenti alla Chiesa di Roma. Geraldine Bradbury, responsabile diocesana dell’educazione, ha ammesso di «non aver mai assistito ad un cambiamento di tali dimensioni prima d’ora», ed ha comunque difeso la decisione di abbandonare le elementari del Sacro Cuore, ritenendo giusto «dare alle esigenze educative della comunità un’adeguata risposta». Quindi, disco verde alla scuola musulmana. Del resto, il consiglio di amministrazione delle elementari del Sacro Cuore si è già dimesso, adducendo la motivazione che l’orientamento cattolico dell’istituto da tempo non rispecchia più il sentire religioso della comunità locale.

A questo punto la legge impone all’amministrazione comunale di Blackburn l’obbligo di indire una gara pubblica per individuare l’organizzazione che dovrà gestire la scuola.

La moschea Masjid-e-Tauheedul appare in pole position per l’aggiudicazione, visto che, oltretutto, uno studio fatto eseguire dalla medesima amministrazione comunale ha rilevato come una scuola islamica rappresenti, in realtà, la migliore risposta alle istanze della popolazione locale, in maggioranza musulmana. La stessa moschea, peraltro, gestisce già un istituto superiore femminile a Blackburn, il Tauheedul Islam Girls’ High School, il cui preside, Hamid Patel, ha definito più che ragionevole il subentro nella gestione della scuola elementare del Sacro Cuore, visto quasi tutti gli allievi della scuola cattolica sono ormai musulmani.

Questa vicenda paradigmatica contiene in sé i due fattori che caratterizzano l’avanzata dilagante dell’islam in Gran Bretagna: il progressivo allontanamento dalla tradizionale fede religiosa cristiana, e la crescita demografica a ritmi esponenziali della comunità musulmana.

Ignorare questa evidenza significa eludere la realtà, perdere il senso di ciò che accade, e cedere alla mortale logique de l’autruche. Non è nascondendo la testa sotto la sabbia che si affronta un fenomeno epocale come quello del rapporto con l’islam. Serve semmai un giudizio che, attraverso l’intelligenza, la coscienza e la ragione, sia in grado di comprendere la natura e il significato di tale fenomeno.

Dando un’occhiata al sito web della diocesi di Salford, ed in particolare allo spazio dedicato all’educazione, si può leggere quanto segue a proposito delle scuole cattoliche:

Com’è noto, San Pietro una volta disse: «Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi. Ma fate questo con dolcezza e rispetto» (1 Pietro 3,15). La Chiesa cattolica ha sempre mostrato una particolare attenzione all’educazione per essere in grado di testimoniare l’azione salvifica di Gesù Cristo in una maniera convincente e rispettosa. Tale compito richiede un’adeguata formazione delle menti e dei cuori. La diocesi di Salford fornisce i mezzi con cui i cristiani possono essere formati ed educati nella fede.

Beh, dopo la vicenda delle scuole elementari del Sacro Cuore di Blackburn forse sarebbe meglio che i responsabili diocesani facciano qualche riflessione in più. E non solo loro.


Tutto quello che non ci dicono su Halloween di Giuliano Guzzo del 19/10/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org

L’affare è colossale - 300 milioni, euro più euro meno – e spazia dal traffico di zucche alla vendita di cappelli da strega, canini vampireschi e mille altre diavolerie. Ma non è pecuniario, per quanto esorbitante, l’aspetto sul quale dovrebbero riflettere gli 8 milioni di italiani che tra poco festeggeranno Halloween, bensì religioso; anzi, diabolico. A dispetto delle buone intenzioni con le quali asili, scuole e persino parrocchie a breve apriranno le loro porte a quella che ritengono un’innocua carnevalata, l’appuntamento in questione, infatti, oltre ad essere l’inizio del calendario celtico, rappresenta anche la più importante festa delle sette sataniche. Parola di Anton Lavey (1930-1997), fondatore della Chiesa di Satana, il quale ha messo inoltre in chiaro come non ci sia alcuna “differenza fra magia “bianca” e “nera” tranne nella presuntuosa ipocrisia, presunta legittimità e autoinganno del praticante di magia “bianca” (A. Lavey, The Satanic Bible, New York 1969, p. 110).

Il 40% dei giovani che, secondo un’indagine di Telefono Antiplagio, festeggia la notte delle streghe con dichiarate simpatie verso il mondo magico è dunque avvertito: si rischiano brutti incontri. Gli scettici, come al solito, sorrideranno nel leggere queste righe, ma il pericolo è reale: il 16% delle persone avviate all’esoterismo - che poi è l’anticamera del satanismo - ha esordito, a detta del Servizio antisette della Comunità Papa Giovanni XXIII , proprio durante Halloween. Qualcosa vorrà pur dire. Non per nulla Doreen Irvine, prostituta passata per anni al satanismo e convertitasi poi al Cristianesimo, su Halloween è stata piuttosto esplicita: se i padri sapessero il significato di questa festa, ha detto, non la nominerebbero nemmeno davanti ai loro figli.

Non è un mistero, dopotutto, che il 31 ottobre cada uno dei quattro sabba, e non uno qualsiasi bensì il peggiore, quello più inquietante. Infatti, mentre i primi tre segnano i tempi delle stagioni "benefiche” – il risveglio della terra dopo l'inverno, il tempo della semina, il tempo della messe -, il quarto inaugura l’arrivo dell’inverno e, portando freddo, fame e morte, celebra la "sconfitta" del sole. Anche per questo la notte 31 ottobre, già capodanno dei Celti - che erano soliti celebrarla come la notte di Samhaim, alias “il Signore della morte, il Principe delle Tenebre”, convinti dell’apertura delle porte annwn (regno degli spiriti) e sidhe (regno delle fate) - è rimasto come il capodanno degli stregoni; di qui l’attivismo satanico fatto di incursioni nelle chiese, furti di ostie consacrate e roghi di rosari.

Com’è avvenuto un anno fa nella chiesetta di San Lorenzo a Tempio, in Sardegna, dove poco prima dell’alba dell’1 novembre un gruppo satanisti ha pensato bene di bruciare delle immagini sacre, poi rinvenute dai vigili del fuoco e del parroco locale, don Gianni Sini, guarda caso esorcista della diocesi. Nella cosiddetta “notte delle streghe” se la vedono brutta anche i felini, spesso vittime di inquietanti sacrifici: lo scorso autunno scorso, proprio in questi giorni, un esercito di volontari animalisti operativo in Lombardia, Toscana e Umbria ha tratto in salvo 71 gatti neri verosimilmente destinati ai rituali delle messe nere. Appare assai incauto, dunque, insistere con le bonarie minimizzazioni di Halloween, che di fatto con l’”All Hallows’Eve day” – letteralmente la “vigilia d’Ognissanti” – non c’entra nulla. E che, proprio per la sua natura di appuntamento quanto meno equivoco, merita d’essere guardato dai cristiani con particolare attenzione; e tenuta a debita distanza: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Isaia 5,20).

Tutt’altra cosa, rispetto a quelle sin qui ricordate, è la Festa di Ognissanti. In origine l’idea fu di un monaco sassone, Alcuino di York, che volle cristianizzare all’insegna della santità e della comunione dei santi la già ricordata festa celtica di Samain. Un’intuizione teologica, questa, ripresa poi, su richiesta di Papa Gregorio IV, dall'imperatore Ludovico il Pio. Ma fu soltanto secoli dopo - precisamente nel 1475 – e grazie al pontefice Sisto IV, che la festività di Ognissanti divenne obbligatoria in tutta la Chiesa. E non mancarono, coi secoli, ulteriori metamorfosi, ma ciò che qui è importante ricordare è che quella di Ognissanti è una ricorrenza secolare, teologicamente importante, mentre l’Halloween che conosciamo oggi, oltre – e scusate se è poco - a fare il gioco dei satanisti, si configura come una festa commercializzata e diffusa solo recentemente: perfino le grandi enciclopedie - dall’Enciclopedia cattolica (1948-1954) al Grande Dizionario enciclopedico (1935), dal Grande Dizionario della lingua italiana (1972) alla Grande Enciclopedia universale Atlantica (1982) – fino a ieri la ignoravano. Oggi invece tutti la conoscono ma solo pochi, purtroppo, si rendono conto di che cosa sia veramente. Una ragione in più per aprire gli occhi alla gente, in particolar modo a chi ricopre il delicato compito di educatore e animatore dei più giovani. Che notoriamente sono il bersaglio preferito di chi ha le peggiori intenzioni.


Avvenire.it, 19 Ottobre 2010 - IL CASO - Stepinac, troppo cattolico per essere Giusto? - Stefano Andrini

«Il moderno razzismo nutre rancore contro la Chiesa poiché essa non vuole cadere in ginocchio dinanzi al suo idolo, la nazione, e adorarlo». Queste parole, pronunciate da Alojzije Stepinac nel 1938 a Zagabria disegnano un ritratto controcorrente dell’arcivescovo: e correggono le interpretazioni unilaterali di una certa storiografia che ha descritto il pastore come nazionalista, antisemita e sodale del governo di Ante Pavelic e dei crimini compiuti dagli ustascia tra il 1941 e il 1945. Il merito di questa revisione è del film Possono rubarci tutto, l’anima mai, realizzato dal liceo scientifico "G. Marconi" di Pesaro e in proiezione oggi a Bologna nell’ambito della Festa della storia. Ricco di testimonianze il Dvd getta nuova luce sui rapporti tra l’arcivescovo e gli ebrei. «Durante l’occupazione nazista – racconta ad esempio Amyel Shomrony, segretario del rabbino capo di Zagabria – Stepinac protesse in diversi modi gli ebrei, che altrimenti sarebbero stati vittime della politica antisemita dei nazisti e dei loro collaboratori ustascia. L’arcivescovo si adoperò inoltre perché gli ebrei non portassero al braccio il distintivo di riconoscimento». Gli stessi tedeschi lo definivano in un rapporto al capo della polizia «un grande amico degli ebrei».

Da parte sua, nel 1946, il presidente della comunità ebraica degli Stati Uniti Louis Breier dichiarava: «Questo grande uomo della Chiesa è stato accusato di essere un collaboratore nazista. Noi ebrei lo neghiamo». Nonostante questi riconoscimenti la Suprema Corte israeliana ha rifiutato per ben due volte la richiesta di inserire il nome di Stepinac tra quelli dei Giusti riconosciuti dal Museo della Shoah di Gerusalemme. «Non è in discussione – affermano Maristella Palac Smiljanka e Paola Campanini, coordinatrici del film – che Stepinac abbia salvato tanti ebrei. Il problema è un altro. Stepinac, come vescovo della Chiesa cattolica, era, secondo il consiglio dello Yad Vashem, protetto dagli ustascia e quindi non ha rischiato la vita. Stepinac inoltre, avendo taciuto, secondo il consiglio, alcuni crimini degli ustascia, è stato considerato collaboratore del regime nazifascista». Purtroppo, proseguono le due insegnanti «questo giudizio è stato espresso sulla base dei documenti (spesso manipolati o nascosti) con cui il regime comunista ha condannato a morte Stepinac come criminale di guerra».

Ma il film, che ha ottenuto il secondo premio del concorso nazionale promosso dall’accordo di rete Storia e memoria, propone un altro elemento. «Dopo aver negato a Stepinac per la seconda volta il titolo di giusto, il consiglio dello Yad Vashem, avendo riconosciuto che egli aveva salvato tanti ebrei, prese in considerazione la possibilità di scrivere almeno una lettera di ringraziamento ai suoi familiari. Neppure tale proposta però fu accettata, perché, essendo Stepinac privo di eredi, la lettera di ringraziamento sarebbe dovuta andare alla Chiesa cattolica». Di conseguenza, è la conclusione delle due docenti «in questo mancato riconoscimento hanno pesato anche i pregiudizi ideologici». Alla ricostruzione aggiunge qualche tassello Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università "G. Marconi" di Roma. «Concordo con il ritratto che di Stepinac fece Spadolini: un arcivescovo che inizialmente concesse qualche protezione agli ustascia ma che poi si accorse strada facendo dell’errore compiuto e prese le distanze».

Ancora prima dell’indipendenza croata, spiega lo studioso, «l’arcivescovo si trova a coordinare tentativi di aiuto agli ebrei oggetto delle persecuzione in Jugoslavia. La sua impostazione era già da allora agli antipodi dell’ultra-nazionalismo e per questo si guadagnò diverse lettere di insulti dai cattolici intransigenti: una di queste sosteneva che l’arcivescovo sotto i panni del prete portava la stella di Davide». Con la nascita nel 1941 della Croazia indipendente, proprio negli anni della presunta collusione con Pavelic, Stepinac si mette in contatto con il rabbino capo di Zagabria per un’iniziativa coordinata che ha lo scopo di salvare gli ebrei dalla deportazione ad Auschwitz. «Un’ anno più tardi – ricorda ancora Napolitano – sarà lo stesso rabbino capo a riconoscerlo. In una lettera a Pio XII usa toni inconfutabili di riconoscenza. Parla di bontà senza limiti da parte della Santa Sede. Parole inspiegabili se non ci fosse stato un impegno in atto della Chiesa croata». Sulla mancata concessione del riconoscimento di Giusto Napolitano svela un retroscena: «Nell’ultimo viaggio fatto in Israele ho cercato di consultare le carte sui Giusti. Ma ho avuto una sorpresa. I casi che non hanno avuto buon esito non sono disponibili.

E su Stepinac c’è un veto totale. Tutto quello che sappiamo su di lui dagli archivi disponibili – conclude – lo assolve. Anche se questo non significa ovviamente che nella Chiesa croata, soprattutto in certi ordini religiosi, non vi fossero tracce di ultra-nazionalismo». È la stessa conclusione a cui giunge il film: «Le accuse pretestuose che vennero rivolte a Stepinac dipendevano dal fatto che le sue parole non erano inquadrabili all’interno di un’ideologia. Stepinac, pur condannando apertamente i crimini compiuti, non condannò mai ufficialmente gli ustascia, che restavano parte integrante del suo gregge. E, pur proteggendo gli ebrei e i serbi, non esitò a criticare i loro medici, quando suggerivano di ricorrere all’aborto, prendendo invece le difese del governo che si opponeva a quella pratica. Egli non ha venduto a nessun potere la sua coscienza».


Avvenire.it, 19 Ottobre 2010 - GUIDO CHIESA «Io, da ateo a credente e il mio film su Maria» di Tiziana Lupi

Racconta Guido Chiesa che, da quando ha iniziato a lavorare al film Io sono con te (in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma e nelle sale dal 19 novembre), una delle domande che gli è stata rivolta più spesso è: «Ma chi te l’ha fatto fare?». A rivolgergliela «erano persone chi mi conoscevano e sapevano che, fino a qualche anno fa, un film del genere per me sarebbe stato impensabile». Perché Chiesa, già regista de Il partigiano Johnny e della serie tv Quo Vadis, Baby?, non avrebbe mai immaginato di realizzare un film dedicato a Maria di Nazareth e, soprattutto, alla sua maternità, al suo modo di essere madre di Gesù, il figlio di Dio: «Diciamo che provenivo da un ambiente poco interessato a queste questioni. Così come mia moglie, Nicoletta Micheli, che ha scritto con me il film».

Cosa le ha fatto cambiare idea?
Un giorno mia moglie mi ha raccontato un suo incontro. Quello con una mamma, come lei, che le ha parlato di Maria come nessuno aveva mai fatto prima. Per lei è stata quasi una folgorazione tanto che, tornata a casa, ne ha parlato subito con me.

E lei cos’ha pensato?
Ho pensato, come oggi molti credono di me, che fosse un po’ "impazzita". Invece quello era solo il primo passo di un percorso che abbiamo iniziato insieme e che ci ha portato, tra l’altro, a pensare e realizzare Io sono con te.

Vuol dire che avete trovato la fede?
Abbiamo scoperto che non è vero che fede e ragione devono necessariamente entrare in collisione quando si parla di certi argomenti. Le faccio un esempio, visto che stiamo parlando di Maria: una delle questioni sempre aperte riguarda la sua verginità. Scientificamente è inspiegabile, su questo siamo tutti d’accordo. Ma anche l’effetto placebo lo è, eppure nessuno mette in dubbio che esista veramente. Quello che voglio dire è che il mio essere diverso rispetto al passato sta nell’accettare che non tutto debba necessariamente essere spiegato. La scienza lo sa che non tutte le risposte sono possibili. Il premio Nobel per la fisica Max Planck, quando gli chiesero cosa ci fosse prima del tempo minimo calcolabile, rispose: «Prima c’è Dio»

Che cosa significa trovare la fede a cinquant’anni?
È una Fede diversa da quella nata in tenera età che io, devo ammetterlo, invidio. Gesù stesso lo dice: «Il Regno dei Cieli è per i bambini», diciamo che «i sapienti» fanno più fatica.

Perché ha deciso di fare un film su Maria?
Per raccontare lo «scandalo» del Cristianesimo: che alla sua origine ci fosse una donna. Fino ad allora la donna era rappresentata da Eva, era considerata impura, non poteva parlare nelle assemblee. Maria è un fatto straordinario. Il Cristianesimo è l’unica, tra le grandi religioni del mondo, a identificare in una donna il principio positivo della salvezza, a vedere nella madre il cardine dell’intera vicenda umana. E straordinaria è la narrazione della nascita di Gesù. Solo il cristianesimo ci parla dell’infanzia del suo fondatore. Di Maometto o di Buddha bambini non sappiamo quasi nulla, di Gesù sappiamo con precisione dove e come è nato.

Ed è questo che racconta il suo film «Io sono con te»?
Nel film ripercorriamo quella parte della vita di Gesù che va dal suo concepimento ai dodici anni, quando i genitori lo ritrovarono nel tempio. Ma Io sono con te è, prima di tutto, il racconto di una maternità. Il ritratto di una madre e della relazione con il proprio figlio, sostenuta dalla presenza discreta di Giuseppe che «si fa da parte», rinunciando al primato maschile caratteristico dell’epoca. I fatti sono quelli raccontati nei Vangeli, in particolare quello di Luca: il concepimento, la visita di Maria ad Elisabetta, la nascita, l’incontro con i Re Magi, la «scomparsa» di Gesù dodicenne. Gli unici elementi che si avvicinano agli apocrifi sono il nome della madre di Maria e la condizione di vedovo con figli di Giuseppe.

Dove è stato girato il film?
Nelle campagne della Tunisia, dove abbiamo trovato un ambiente culturalmente e antropologicamente il più vicino possibile alle condizioni di vita della Palestina di duemila anni fa. Per la stessa ragione abbiamo scelto attori locali, spesso non professionisti, a partire proprio da Maria. Questo scenario arcaico, patriarcale, caratterizzato da gerarchie socio-familiari millenarie, fa apparire ancora più sorprendente la parabola di Maria e di suo figlio Gesù che, da semplici e umili, hanno rivelato al mondo la Via della Salvezza.

A chi si rivolge «Io sono con te»?
La sfida è cercare di parlare a pubblici diversi. Alle donne, in prima battuta, per le domande sollevate nel film su questioni come il nascere, il crescere, l’educare i figli in una prospettiva decisamente femminile. Poi ai genitori e a tutti quelli interessati a certi temi. Credenti e non, che possano considerare il film un possibile argomento di discussione.


IL PAPA E LA «NECESSITÀ» DEI SACERDOTI  - Dio ha la faccia di quei poveri uomini di MARINA CORRADI – Avvenire, 19 ottobre 2010

Germania, 1944. Un ufficiale della Wehrmacht domanda a dei ragazzi di leva quali progetti hanno per il futuro. Una recluta di 17 anni risponde che vuole diventare sacerdote. Replica sprezzante l’ufficiale: «Cercati qualcos’altro.

Nella nuova Germania non c’è più bisogno di preti». L’aneddoto raccontato da Benedetto XVI nella lettera ai seminaristi non è solo biografia di un Papa tedesco, e nemmeno soltanto storia del passato. L’illusione di un 'nuovo ordine mondiale', la ubris

di orgoglio di una società di superuomini che avrebbero ritenuto indegno il gesto di pregare, ci appaiono oggi tenebra lontana; ma ogni tempo ha i suoi 'nuovi ordini', imposti – oppure suggeriti. Nuovi mondi vengono continuamente disegnati, in cui, si immagina, non ci sarà più bisogno di alcun Dio. I libri di storia sono pieni di progetti di giustizia universale e di uguaglianza, tragicamente falliti. Ma sempre si allargano nuove illusioni; l’ultimo divo è l’uomo tecnologico, che governi il principio della vita e ne dilati oltre ogni limite la durata: intendendo per 'vita', si intende, solo quella dei sani, e dei perfetti. E uomini capaci di darsi la vita, di toccare i tasti remoti del Dna, di selezionarsi, che bisogno mai avranno di un dio? Cercati qualcos’altro, ragazzo, non c’è più bisogno di preti.

Anche in certi laboratori di biotecnologia, oggi, un ventenne potrebbe sentirsi dire così. Oppure semplicemente nel quotidiano rumore mediatico che dipinge il sacerdote come un resto del passato, uno che osa, folle, giudicare cosa è buono e cosa cattivo, e afferma l’assurda pretesa della castità. Quando poi, secondo l’ultima vulgata, quel nome – sacerdote – non è quasi immediatamente associato, come un’onta generalizzata, alla pedofilia. Un altro pensiero obbligatorio, senza divisa e senz’armi, ripete oggi, come fra le righe, che di sacerdoti non c’è più bisogno. Proprio per questo il Papa ha esordito con quel ricordo. Come dicendo: anche a voi, ragazzi, diranno che non siete più necessari. Ma non impressionatevi. Non era vero nel ’44 e non è vero oggi: perché «gli uomini avranno sempre bisogno di Dio. Dove l’uomo non percepisce più Dio, la vita diventa vuota; tutto è insufficiente».

Non è vero forse? L’orizzonte annientato di un’esistenza ridotta a sola attesa di cose materiali, e l’angoscia sorda e inespressa davanti alla morte, se siamo solo polvere: non si respira questo forse nelle strade della nostre città, nelle periferie in cui si uccide per nulla o si muore, vecchi, soli, senza che neanche il vicino di casa se ne accorga?

Bisogno di Dio, più che mai, e di uomini che portino tra gli uomini il suo volto. Non un Dio ritiratosi in distanze siderali dopo il giorno della creazione, ma il Dio di Gesù Cristo, nato da donna, uomo fra gli uomini. E così i ragazzi che nei seminari crescono andranno - fra gli uomini: nelle città e nelle periferie del mondo, nelle aule di scuola in cui si diventa grandi e nelle stanze d’ospedale in cui si muore. Nel tempo che idolatra il denaro e il successo, scandalosamente testimoniando con la propria presenza che si vive per altro, e che non siamo destinati al nulla. «Non c’è più bisogno di preti». Lo dicono – lo gridano, lo insinuano, o lo annunciano sorridendo – i maestri del nostro tempo, i predicatori di un’umanità autosufficiente e distratta. Ma non è vero. C’è una domanda negli uomini, censurata spesso, e però sospesa nei pensieri: la domanda di un padre che ci conosca a uno a uno, un padre che abbracci e perdoni, e non disperda nel nulla il dolore e la fatica, ma ci conduca – noi affaticati, noi che non capiamo – in un disegno buono. C’è bisogno di Dio più che mai, nel tempo del superomismo tecnologico che convive con milioni di miserie e solitudini dimenticate. E come verrà quel Dio, nel terzo millennio? Come è già, come è sempre venuto: con la faccia di poveri uomini, non più buoni degli altri, non salvi dal male; ma che, chiamati, promettono di vivere per lui.


La guerra mondiale degli stupri DI NELLO SCAVO – Avvenire, 19 ottobre 2010

Datiwa non potrà di menticare. Il sole basso, rosso come il fuoco, sembrava incen diare i rami dei baobab. E poi quella brutalità be stiale. Aveva 15 anni. «Quando sono tornata al villaggio, ho scoperto che non solo io, ma anche le altre donne, anche mia madre e mia nonna, erano state violentate dai milita ri ». Congo, Liberia, Ciad, Dar fur, Cecenia, Kirghizistan, Afghanistan, Messico, Hai ti. Non c’è continente che sia immune dal crimine di stupro commesso in zone di conflitto. L’immagina rio collettivo vede nella violenza sulle donne l’im pulso di militari imbarba riti dalle guerre. «Non è e satto. Lo stupro non è un effetto collaterale». Mar got Wallström è categori ca. Per il rappresentante speciale dell’Onu contro le violenze sessuali nei con flitti armati, gli abusi nel corso di guerre «sono una delle principali sfide del nostro tempo, una vera ar ma tattica usata dagli e serciti ». Non si tratta solo di umi liare le etnie 'nemiche'. Lo scopo è di dividere le famiglie, cancellare interi gruppi, diffondere malat tie come l’Aids e soggioga re le popolazioni anche per il tempo a venire. Un’arma non convenzio nale adoperata per com piere il genocidio, fisico e psicologico, di intere po polazioni. «Mio marito mi ha ripudiata – ha raccon tato a un osservatore Onu Miryam, congolese madre di due figlie, in attesa del terzo –. Mi ha detto di tor nare dai miei genitori in sieme ai nostri bambini.

Poco tempo dopo ho sco perto di essere rimasta in cinta durante i giorni del le violenze. Ci avevano rin chiuse in tante, e ci pren devano anche cinque vol te al giorno. Adesso, quan do esco, la gente dice che mio marito mi ha scaccia ta ». Come se neanche la storia recente sia riuscita a inse gnare granché. Il bagno di sangue nella ex Jugoslavia del resto ha fatto scuola. Nella dissolta federazione balcanica alla fine degli anni 90 vennero istituzio nalizzati i 'campi di stu pro'. Si stima che in Bo snia durante la guerra cir ca 50mila donne siano sta te violentate. Qualche an no prima in Ruanda, du rante il ge nocidio del 1994, furo no bruta lizzate tra le 250 mila e il mezzo milione di donne d’o gni età.

E pensare che già nel 1863 il presidente ameri cano Abramo Lincoln die de l’ordine alle truppe u nioniste di astenersi da qualsiasi violenza sessua le, che da quel momento sarebbero state conside rate «una grave violazio ne ». Da allora i trattati in ternazionali e le conven zioni sul Diritto di guerra hanno rincarato le pene contro chi si macchia di questi crimini. Ma poi, nella realtà, a pagare so no in pochi. Secondo Amnesty International, per le 50mila donne a busate in Bosnia solo per una trentina di casi è stato istruito un pro cesso: 18 davanti al Tribunale interna zionale dell’Aja e 12 dai giudici del Tribunale per crimini di guerra di Saraje vo. Oltre ai trau mi riportati, le vittime di questi crimini di guerra, ha spiegato l’in vestigatore di Am nesty, Marek Marczynski, vengono an che stigmatizzate dalla so cietà: «Molte non osano parlare pubblicamente, perché numerosi autori di tali violenze vivono nelle loro stesse comunità dove hanno assunto posizioni di potere».

La riprova viene ancora da Est. Appena quattro mesi fa il Kirghizistan è stato teatro di una fiammata an tietnica che ha colpito la minoranza uzbeka che vi ve nel Sud della Repubbli ca centroasiatica. Fra i ri fugiati si contano almeno 40mila tra donne e bambini testimoni di in cendi, saccheggi, stupri e omicidi di massa. La brutalità anche in que ste aree non è mai frutto delle bestiali pulsioni degli uomini in divisa o dei pa­ramilitari. Fa parte dei pia ni di attacco, esattamente come ne fanno parte le manovre dei battaglioni corazzati o i colpi dell’ar tiglieria pesante. «L’uno – racconta un osservatore Onu impegnato a rico struire i fatti dei recenti scontri in Congo – non esclude l’altro. Strano a dir si, ma al tempo degli eser citi ipertecnologici, armi convenzionali ed armi non convenzionali sono complementari».

La recente Risoluzione 1820 del Consiglio di sicu rezza delle Nazioni Unite ha condannato lo stupro in quanto vera arma di guerra, sostenendo che fermare la violenza ses suale nelle zone di con flitto è un mezzo impor tante per mantenere la pa ce e la sicurezza a livello internazionale. Il docu mento è stato approvato all’unanimità nel giugno del 2008, ma pochi mesi l’impegno fu violato pro prio da chi lo aveva preso. Nell’agosto successivo, in Georgia la Russia aveva ri calcato le strategie belli che adoperate in Cecenia. Secondo un rapporto del­l’Unione europea dedica to al conflitto lampo, in quella regione accanto ai carri armati e ai sofistica ti team informatici prota gonisti della guerra elet tronica, venne affiancata un’arma infame.

«Diversi elementi – si leg ge nell’investiga zione di Bruxelles – suggeriscono che la pulizia etnica è sta ta praticata contro la popolazione georgiana dell’Os sezia del Sud du rante e dopo il con flitto ». Se per un verso l’Ue sostiene che da entrambi i lati sono stati commessi diversi cri mini in violazione del di ritto internazionale uma nitario e dei diritti umani, solo da una parte sono ar rivati «attacchi indiscrimi nati, trattamenti degra danti, stupri, assalti, pre se di ostaggi ed arresti ar bitrari », commessi consa pevolmente «anche dopo il cessate il fuoco». I col pevoli? «Le milizie del l’Ossezia del Sud e i mili tari irregolari, non con trollati adeguatamente dalle forze russe».

In Bosnia almeno20 mila donne violate in appositi «campi». In Ruanda quasi mezzo milione. «Non è solo bestialità, è gelido calcolo militare e strategico» La Risoluzione 1820 del Consiglio di sicurezza condanna la violenza sessuale come arma usata dai belligeranti. Ma i processi sono ancora pochissimi.


la lettera - «Gesù, modello per ogni educatore unità di misura dell’umanesimo» - «Educare vuol dire aprire alla vita e trasformare la vita in dono». S’intitola «Di generazione in generazione» il nuovo documento rivolto alla Chiesa di Genova dal presidente della Cei S.E. Card. Angelo Bagnasco - (L.Ros.) – Avvenire, 19 ottobre 2010

«Educare vuol dire aprire alla vita: vuol dire incon trarla e dialogare con lei». Educare «è trasformare la vita, che ci è stata data senza nostra richiesta, in un dono, frutto della nostra libertà». E ducare è un compito che richiede e ducatori credibili, che interpella in nanzitutto i genitori e poi tutti gli a dulti, che mobilita la Chiesa, che chia ma a rispondere alle attese più auten tiche e profonde dei giovani, perché non sia la «cultura del nulla» oggi do minante ad avere l’ultima, decisiva pa rola. In questo compito però non sia mo soli: abbiamo un riferimento cer to. «Gesù è il maestro perfetto, ma an che il modello pieno e affascinante da guardare per educare ed educarci: è l’unità di misura dell’umanesimo».

Sono alcuni passi della «lettera pasto rale 2010-2011 sull’educazione» che l’arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, ha indirizzato alla diocesi. «Spero che, attraverso i par roci, arrivi nelle case di tutti come u na piccola e affettuosa presenza del vescovo», ha detto domenica nell’o melia della Messa d’apertura dell’an no pastorale, in Cattedrale. Di gene razione in generazione s’intitola il te sto del presidente della Cei dedicato al tema che i vescovi italiani hanno scelto per gli Orientamenti pastorali del decennio. Che l’educazione sia u­na «sfida urgente e difficile», è una consapevolezza che cresce, nella Chie sa come nella società. Ma servono pa role che «comunichino qualcosa di ve ro e di grande, che permettano di en trare in rapporto, di intrecciare vite. Altrimenti è confusione, smarrimen to, isolamento», scrive Bagnasco.

Se è vero che «la luce si accende solo con la luce, la vita solo con la vita, la libertà solo con la libertà», per educa re servono educatori credibili: «Se non sono io per primo un uomo lumino so, libero e vivo interiormente, non potrò accendere nulla e nessuno». E semplare, in chiave educativa, il rap porto fra Gesù e gli apostoli, «uomini formati» eppure educati «a incontra re la loro nuova vita» fino a diventare credibili testimoni del Risorto. In Ge sù, «vero Dio, scopriamo anche il vol to dell’uomo vero e completo»; per ciò Cristo è «esempio» anche «per i non credenti».

La cultura d’oggi sembra dominata dal nichilismo e dal relativismo. Ma chi conosce i giovani – e Bagnasco richia ma i suoi incontri nelle scuole – sa quanta sete di autenticità e di verità ci sia nelle nuove generazioni. «I primi e fondamentali educatori dei figli» – «maestri di umanità» e «se credenti, di fede» – sono, sempre, i genitori. La Chiesa e lo Stato devono sostenerli senza mai sostituirsi a loro. Se è vero che «si nasce liberi, ma bisogna im parare ad essere liberi», decisiva è quella «palestra della libertà» che fa scoprire – anzitutto in famiglia – la «bellezza dei legami», l’«autodominio» e la «responsabilità» verso gli altri. Di fronte alla sfida educativa la Chiesa ha una «esperienza secolare» che conti nuerà a porre al servizio dei genitori e di ogni educatore. Ricordando quale è l’orizzonte della «educazione alla fe de, la scoperta di Cristo e della Chie sa »: quell’«incontro con Gesù» che «per il bambino, il ragazzo, il giovane» è «motivo di fiducia, di forza, di riferi mento per la costruzione di se stesso. I santi ce ne danno testimonianza».


Famiglia, pilastro della società - Ai nuovi ambasciatori di El Salvador e Colombia presso la Santa Sede, il Papa chiede la difesa della vita, del matrimonio e della libertà di educazione per i genitori DA ROMA FABRIZIO MASTROFINI – Avvenire, 19 ottobre 2010

T utelare la vita, la famiglia, il di ritto dei genitori a educare i fi gli secondo i princìpi morali in cui credono. Lo ha chiesto ancora u na volta Benedetto XVI parlando sia al nuovo ambasciatore della Colom bia presso la Santa Sede, César Mau ricio Velàsquez Ossa, sia al nuovo am­basciatore di El Salvador, Manuel Ro berto Lòpez Barrea, ricevuti ieri mat tina in due udienze se parate. I due discorsi del Papa hanno ribadito la necessità «di tutelare e promuovere l’inviolabi le dignità della persona umana, per la quale è fondamentale che l’or dinamento giuridico ri­spetti la legge naturale, in ambiti tanto essen ziali come la salvaguar dia della vita, dal conce pimento al suo termine naturale; il diritto a na­scere e vivere in una fa miglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna o il diritto dei ge nitori a che i figli ricevano un’educa zione in accordo con i propri princi pi morali e credenze». Sono questi «pilastri insostituibili – ha osservato il Papa – nell’edificazione di una so cietà veramente degna dell’uomo e dei valori che le sono propri». Al l’ambasciatore colombiano Velà squez, Benedetto XVI ha fatto poi presente in maniera specifica che la commemorazione del bicentenario dell’inizio del processo che portò al l’indipendenza della Repubblica co lombiana «sarà un’occasione singo lare per accogliere le lezioni che la storia offre, intensificare le iniziative e i mezzi che consolidino la sicurez za, la pace, la concordia e lo svilup po integrale di tutti i suoi cittadini e guardare con serenità e gioia il futu ro che si avvicina». «In questo cam mino – ha proseguito il Papa – è di fondamentale importanza il concor so di tutti, in modo che i più profon di aneliti e progetti del popolo co lombiano si vadano facendo sempre di più una felice e promettente realtà». Il Papa ha inoltre ricordato che «non solo durante questi due se coli ma dagli albori dell’arrivo degli spagnoli in America, la Chiesa catto lica è stata presente in ciascuna tap pa della storia del Paese, svolgendo sempre un ruolo decisivo», che ha portato innumerevoli e fruttuose rea lizzazioni umane, spirituali e mate riali. «Questi sforzi, non senza sacri­fici e difficoltà – ha avvertito il Papa – non possono essere ignorati», an zi, vale la pena «salvaguardarli come eredità preziosa e potenziarli come proposta benefica per tutta la Na zione ». Per quanto riguarda El Sal vador, Benedetto XVI ha assicurato che «la Sede apostolica contribuirà ad affrontare il cammino di dialogo e convivenza pacifica intrapreso», in modo che «ogni salvadoregno con sideri il suolo patrio come un’auten tica casa che l’accoglie e gli offre la possibilità di vivere in esso con sere nità ». Il rafforzamento della concor dia interna «incrementerà il bene della Nazione e contribuirà a che questa continui ad avere un posto di rilievo in tutta l’America Centrale, dove è importante che esistano voci che invitino alla reciproca compren sione e alla cooperazione generosa, per il giusto progresso e la stabilità della comunità internazionale». «E vangelizzando e dando testimo nianza dell’amore a Dio e a ogni uo mo senza eccezione alcuna», la Chie sa in El Salvador «si trasforma in ele mento efficace per lo sradicamento della povertà ed in stimolo vigoroso per lottare contro la violenza, l’im­punità e il narcotraffico che tante stragi stanno causando, soprattutto tra i giovani».