Nella rassegna stampa di oggi:
1) La nuova evangelizzazione «dall’utopia alla scienza». La lettera «Ubicumque et semper» di Benedetto XVI pubblicata da Massimo Introvigne il giorno martedì 12 ottobre 2010
2) MOTU PROPRIO “UBICUMQUE ET SEMPER” DI BENEDETTO XVI - Istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (ZENIT.org)
3) CÁNDIDA MARÍA DE JESÚS SARÀ CANONIZZATA QUESTA DOMENICA - Religiosa spagnola fondatrice della Congregazione delle Figlie di Gesù di Carmen Elena Villa (ZENIT.org)
4) IL VATICANO II, UN CONCILIO “RIVOLUZIONARIO”? - Convegno di studi a Roma, dal 16 al 18 dicembre 2010 - di padre Serafino M. Lanzetta, FI*
5) Maria Madre di Dio: svela il volto dell'uomo - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 12 ottobre 2010
6) 13 Ottobre. Madeleine Delbrêl: il mondo come monastero. - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@libero.it
7) Appello dei Padri sinodali in favore dei cristiani in Iraq. Mons. Warduni: a volte ci sentiamo soli, 12 ottobre 2010 © Copyright Radio Vaticana
8) 12/10/2010 – VATICANO - Sinodo: difficile, ma indispensabile, il dialogo per la convivenza con l’islam - I primi interventi dei vescovi mediorientali evidenziano la necessità del dialogo con i musulmani, l’urgenza del rispetto dei diritti civili, a partire dalla libertà religiosa, il dovere della comunione tra le Chiese cristiane, e in primo luogo tra i cattolici, l’importanza della formazione (AsiaNews).
9) martedì 12 ottobre 2010 - L’ateismo interessante di Giulio Giorello. – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com
10) I CATTOLICI E L’IMPEGNO POLITICO - L'INTERVENTO DEL DOTT. PIERLUIGI VINAI - di Paolo Deotto – dal sito http://riscossacristianaaggiornamentinews.blogspot.com/
11) L’INTERVISTA/ Scola: perché la politica non sa più che cos’è la libertà? - INT. Angelo Scola - mercoledì 13 ottobre 2010 – il sussidiario.net (Federico Ferraù)
12) Avvenire.it, 12 ottobre 2010 - IL CASO - Formiche in lotta tra fede e ateismo di Massimo Introvigne
13) Avvenire.it, 13 ottobre 2010 - La cronaca aspra e la parola del Papa - Ogni volto è volto sacro - di Alessandro D’Avenia
14) Avvenire.it, 13 ottobre 2010 - Deficit formativo, agenzie e ruolo della famiglia - Serve una rivoluzione culturale: tornare a educare alla vita di Carla Collicelli
15) Avvenire.it, 13 ottobre 2010- I GESTI DELLA FEDE - «Il Rosario, scrigno che ci apre a Cristo» di Giacomo Gambassi
La nuova evangelizzazione «dall’utopia alla scienza». La lettera «Ubicumque et semper» di Benedetto XVI pubblicata da Massimo Introvigne il giorno martedì 12 ottobre 2010
Il 12 ottobre è stata resa pubblica la lettera apostolica di Benedetto XVI in forma di motu proprio Ubicumque et semper, datata 21 settembre 2010, con la quale s’istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, presieduto da mons. Rino Fisichella. L’evangelizzazione, afferma Benedetto XVI, non è certo qualcosa di nuovo: «la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura» (Benedetto XVI 2010).
Se però non è nuova l’evangelizzazione, sono continuamente nuove le modalità attraverso le quali si esplica, dovute pure alle circostanze cui di volta in volta si trova di fronte: «tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici» (ibid.). Perché, però, proprio «nel nostro tempo» (ibid.) si parla specificamente di «nuova evangelizzazione»? Benché si debba diffidare dell’illusione ottica che porta chi è immerso in una particolare crisi a considerarla sempre unica e di una gravità senza precedenti – dimenticando quanto gravi siano state altre crisi nella storia – il Papa ci ricorda che la crisi di fede odierna in Occidente ha in effetti «tratti singolari» (ibid.). Un «distacco dalla fede […] si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo» (ibid.).
Il Papa fa cenno al complicato dibattito sulla secolarizzazione – una parola che nella scienza sociologica ha ormai più di un solo significato – e sui suoi motivi, affermando che «le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo» (ibid.). Tra le cause più recenti, avverte Benedetto XVI, non va trascurato il «mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori» (ibid.), che può avere a sua volta effetti secolarizzatori. Molteplici cause hanno portato a una «secolarizzazione» (ibid.) intesa qui nella sua dimensione qualitativa, come «una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale» (ibid.).
All’inizio «tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione» (ibid.), ma «ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose» (ibid.). Le tragiche conseguenze di questa secolarizzazione nei Paesi di antica cultura cristiana, rileva il Papa, sono già state notate dal Concilio Ecumenico Vaticano II e dal servo di Dio Paolo VI (1897-1976), particolarmente nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, del 1975. È stato però il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) a fare di questo tema «uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione» (ibid.).
La «nuova evangelizzazione», proclamata ormai da qualche decennio, non può pero ridursi a uno slogan. Non è una semplice tecnica. Non nasce all’esterno della Chiesa ma «al suo interno» (ibid.), dove presuppone «un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice» (ibid.). Benedetto XVI invita a rileggere un lungo brano dell’esortazione apostolica postsinodale Christifideles Laici, del 1988, di Giovanni Paolo II: «Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”. Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. [...] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni» (Giovanni Paolo II 1988, n. 34, cit. in Benedetto XVI 2010).
Al «fenomeno della secolarizzazione» (ibid.) Benedetto XVI intende ora rispondere dando un rinnovato slancio alla nuova evangelizzazione, rettamente intesa. Certo, anche in Occidente non tutti i Paesi sono nelle stesse condizioni. In alcuni «la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano» (ibid.). Benedetto XVI non fa nomi, ma i dati sociologici mostrano che la Polonia è in condizioni migliori dell’Italia, la quale a sua volta è assai meno «secolarizzata» della Francia.
Non è dunque possibile «elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze» (ibid.). Per questo la nuova evangelizzazione ha bisogno di una sua professionalità, e per questo è istituito il nuovo Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Il Consiglio opererà al servizio, non in sostituzione, delle diocesi, «specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione» (ibid.). È significativo che tra i compiti essenziali che il Papa indica al nuovo Consiglio ci siano «studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione» (ibid.) e «promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo» (ibid.).
Si potrebbe dire, parafrasando quanto un grande nemico della Chiesa come Friedrich Engels (1820-1895) affermava del socialismo, che anche la nuova evangelizzazione è chiamata a passare dall’utopia alla scienza. Ma senza dimenticare che il cuore dell’evangelizzazione batte prima di ogni tecnica. «Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita» (ibid.).
Riferimenti
Benedetto XVI. 2010. Lettera apostolica in forma di motu proprio Ubicumque et semper, con la quale s’istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, del 21-9-2010.
Giovanni Paolo II. 1988. Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, del 30-12-1988.
MOTU PROPRIO “UBICUMQUE ET SEMPER” DI BENEDETTO XVI - Istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (ZENIT.org)
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo del Motu proprio “Ubicumque et semper”, con cui si annuncia la creazione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, presentato questo martedì presso la Santa Sede.
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LETTERA APOSTOLICA in forma di MOTU PROPRIO UBICUMQUE ET SEMPER del Sommo Pontefice BENEDETTO XVI CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo. Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli: "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20). Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr 1Pt 2,9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr At 2,14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso "ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica. Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell'opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura.
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici. Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all'ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell'uomo. E se da un lato l'umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr 1Pt 3,15), dall'altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell'uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale.
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l'uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose.
Già il Concilio Ecumenico Vaticano II assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo. Sulla scia dell'insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore.
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo VI osservava che l'impegno dell'evangelizzazione "si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall'insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri" (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 52). E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l'azione evangelizzatrice della Chiesa "deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo" (Ibid., n. 56). Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di "nuova evangelizzazione", che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione. Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l'esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice. Basti ricordare ciò che si affermava nell'Esortazione postsinodale Christifideles Laici: "Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell'indifferentismo, del secolarismo e dell'ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta «come se Dio non esistesse». Ora l'indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all'ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell'esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. [...] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d'essere disperso sotto l'impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni" (n. 34).
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell'animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano.
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di "nuova evangelizzazione" non significa, infatti, dover elaborare un'unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all'opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio.
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1). Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l'inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita.
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue:
Art. 1.
§ 1. È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus. § 2. Il Consiglio persegue .la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art. 2.
L'azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art. 3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano: 1°. approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2°. promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l'attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 3°. far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 4°. studiare e favorire l'utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5°. promuovere l'uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art.4
§ 1. Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana. § 2. Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori.
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano "L'Osservatore Romano" e che entri in vigore il giorno della promulgazione.
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
CÁNDIDA MARÍA DE JESÚS SARÀ CANONIZZATA QUESTA DOMENICA - Religiosa spagnola fondatrice della Congregazione delle Figlie di Gesù di Carmen Elena Villa (ZENIT.org)
ROMA, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Le suore della Congregazione delle Figlie di Gesù sono in festa per la canonizzazione della loro fondatrice, madre Cándida María de Jesús, che avverrà questa domenica in Vaticano insieme a quella di altri cinque beati.
L'evento rappresenta per loro “un forte appello a una vita più santa e dedita”, un'occasione per rinnovare “il sogno di vivere sempre più secondo i valori del Vangelo e di vivere più centrate nella persona di Gesù Cristo come Madre Cándida”, ha detto a ZENIT suor Anna-Maria Cinco Castro, membro della comunità e postulatrice della causa di beatificazione.
Chi era Cándida de Jesús?
Il suo nome di battesimo era Juana Josefa Cipitria y Barriola. Nacque il 31 maggio 1845 a Berrospe, nella località di Adoain, nei Paesi Baschi.
Manifestò sempre una sensibilità speciale per i più poveri, i bambini abbandonati e i carcerati. Nel 1868 conobbe il gesuita Miguel José Herranz, che la orientò a fondare una comunità che rispondesse a queste inquietudini.
Fu così che l'8 dicembre 1871, insieme ad altre cinque donne e ispirata dalla spiritualità ignaziana, Cándida María de la Cruz, che all'epoca aveva 26 anni, diede inizio alla Congregazione a Salamanca.
Le Figlie di Gesù si sentono chiamate a vivere in atteggiamento filiale nei confronti di Dio come padre, con fiducia, sicurezza nel suo amore incondizionato e lode. Cercano di parlare dell'amore di Dio a popoli e gruppi umani più bisognosi. Nella loro spiritualità, Maria occupa un posto speciale.
Per tutto questo, hanno una vita spirituale intensa, ha detto suor Anna-Maria.
Le religiose sono in totale 1025 e sono presenti in otto Paesi dell'America Latina (Cuba, Repubblica Dominicana, Colombia, Venezuela, Bolivia, Brasile, Uruguay, Argentina), due Nazioni europee (Spagna e Italia), sei Paesi asiatici (Cina, Bangladesh, Thailandia, Taiwan, Filippine e Giappone) e per l'Africa in Mozambico.
Si dedicano all'istruzione e concepiscono la scuola come luogo di incontro nella comunità cristiana. Sviluppano una pedagogia dell'educazione personalizzata con un approccio positivo.
Il miracolo per la canonizzazione
Suor María del Carmen del Val Rodríguez, membro della comunità fondata da Cándida de Jesús, è riuscita a uscire da un profondo coma durato 12 giorni dopo che le sue consorelle avevano recitato una novena alla loro madre fondatrice.
Nel 2000, la religiosa subì una malattia cerebrale che iniziò con tremori, la perdita delle forze e la difficoltà a rimanere i piedi. Venne ricoverata e due giorni dopo ebbe una crisi epilettica. Cadde quindi in coma profondo. Le fu diagnosticata una leucoencefalopatia multifocale progressiva.
I medici rinunciarono a qualsiasi tipo di terapia. Il 4 novembre la religiosa iniziò un recupero improvviso, aprendo spontaneamente gli occhi. Tra l'8 e il 9 cominciò a parlare. I sintomi scomparvero e venne dimessa il 1° dicembre.
I medici hanno compiuto vari esami neurologici che hanno confermato il suo buono stato di salute e la totale assenza di incapacità neurologica e fisica, fatti che risultavano scientificamente inspiegabili. Per questo, nel 2008 la Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi ha confermato all'unanimità il carattere miracoloso della guarigione di questa religiosa.
Papa Benedetto XVI proclamerà quindi santa questa donna spagnola che ha sempre mostrato “un grande spirito di fede che le ha permesso di vedere le persone, gli eventi e tutte le cose sotto la luce di Dio”, ha detto la sua postulatrice.
Una donna che ha sempre irradiato “la sua relazione stretta e costante con Gesù che l'avrebbe fatta sforzare di assomigliare a Lui come un figlio assomiglia al padre”, ha concluso.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
IL VATICANO II, UN CONCILIO “RIVOLUZIONARIO”? - Convegno di studi a Roma, dal 16 al 18 dicembre 2010 - di padre Serafino M. Lanzetta, FI*
ROMA, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata, organizza un convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II, dal 16 al 18 dicembre prossimi, a Roma, presso l’Istituto Maria SS. Bambina (via Paolo VI, 21).
Mossi dal discorso del Santo Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della lettera, quella cioè della «rottura», ci si prefigge di esaminare il Vaticano II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di carattere pastorale.
Certo, non per fare del Vaticano II un concilio “di serie B”, ma al fine di mettere meglio in luce quest’unicum che caratterizza per la prima volta un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni nuove, ma la fede di sempre, in modo pastorale. Così si espresse Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962): «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace».
Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi, soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ecc.
Spesso, però, magari presi dal fervore del nuovo, quando non addirittura da un accecamento storicista, si dimentica di considerare che il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti infallibili; si dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo autentico ordinario.
Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, ricordava che «bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…».
Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva: «…dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti».
Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un «superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)? A nostro modo di vedere, e come si tenterà di far emergere dai lavori del convegno, una della cause è lo stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità.
Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Per molti l’unico concilio dogmatico è il Vaticano II, mentre quelli precedenti sarebbero superabili in nome del nuovo concetto di “pastorale”, che nella categoria “evento”, compendia e sorpassa a livello esistenziale la discontinuità dogmatica causata in precedenza dalle definizioni di fede e la stessa reticenza nei confronti del mondo; per altri il Vaticano II, in quanto semplicemente pastorale, sarebbe sic et simpliciter inoffensivo, se non addirittura da cancellare con un colpo di spugna, ignorando però che il mistero-Chiesa rimane identico nel fluttuar degli eventi, in ragione dell’assistenza dello Spirito Santo e della vigile premura del Magistero.
Il problema è molto delicato e richiede un esame attento, critico e ragionato, partendo dalle fonti e non dai sentimenti. Qual è la mens del Concilio? Dove si evidenzia? Non si può pertanto prescindere dai documenti e dallo stesso iter storico-dottrinale che ha portato alla loro promulgazione. Non stiamo certo con Otto Hermann Pesch che parla di un «significato rivoluzionario» del Vaticano II, stiamo con la Chiesa e nella Chiesa: Ella solo è portatrice della Tradizione. Ma si tenterà di capire perché, di fatto, sembra che una rivoluzione ci sia stata.
[Per maggiori informazioni, si legga il programma]
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*Padre Serafino M. Lanzetta, sacerdote professo dell'Istituto dei Francescani dell'Immacolata, è parroco della Chiesa di S. Salvatore in Ognissanti (Firenze) dal 2004 e insegna teologia dogmatica presso l'Istituto Teologico "Immacolata Mediatrice" (Cassino - Frosinone). Dal 2006 è direttore della rivista teologica "Fides Catholica". Collabora con diversi periodici a carattere culturale e teologico e ha curato finora la realizzazione di due convegni teologici presso il Cenacolo del Ghirlandaio, Firenze, con le relative pubblicazioni.
Maria Madre di Dio: svela il volto dell'uomo - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 12 ottobre 2010
La Madre di Dio è Madre della Chiesa, perché Madre di Colui che è venuto per riunirci tutti e tutto nel suo Corpo risorto
«L’11 ottobre 1962, trentotto anni fa, Papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Si celebrava allora l’11 ottobre la festa della Maternità divina di Maria, e, con questo gesto, con questa data, Papa Giovanni voleva affidare tutto il Concilio alle mani materne, al cuore materno della Madonna. Anche noi cominciamo l’11 ottobre, anche noi vogliamo affidare questo Sinodo, con tutti i problemi, con tutte le sfide, con tutte le speranze, al cuore materno della Madonna, della Madre di Dio.
Pio XI, nel 1930, aveva introdotto questa festa, milleseicento anni dopo il Concilio di Efeso, il quale aveva legittimato, per Maria, il titolo di Theotòkos, Dei Genitrix. In questa grande parola, Dei Genitrix, Theotòkos, il Concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione. E così vale la pena riflettere un po’, un momento, su ciò di cui parla il Concilio di Efeso, ciò di cui parla questo giorno.
In realtà, Theotòkos è un titolo audace. Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell’Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo siamo tutti creature? Perciò si capisce che c’era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di Christotòkos, sì, ma di Theotòkos no: Theòs, Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia. Ma il Concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l’avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito talmente, così radicalmente con quest’uomo, Gesù, che quest’uomo Gesù è Dio, e se parliamo di Lui, possiamo sempre parlare di Dio. Non è nato solo un uomo che aveva a che fare con Dio, ma in Lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario. Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell’intimo, nell’intimità di Dio stesso.
La filosofia aristotelica, lo sappiamo bene, ci dice che tra Dio e l’uomo esiste solo una relazione non reciproca. L’uomo si riferisce a Dio, ma Dio, l’Eterno, è in sé, non cambia: non può avere oggi questa e domani un’altra relazione. Sta in sé, non ha relazione ad extra. E’ una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare: quindi Dio stesso non ha relazione con me. Con l’incarnazione, con l’avvenimento della Theotòkos, questo è cambiato radicalmente, perché Dio ci ha attirato in se stesso e Dio in se stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo all’interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi. In quel momento Dio voleva essere nato da una donna ed essere sempre se stesso: questo è il grande avvenimento. E così possiamo capire la profondità dell’atto del Papa Giovanni, che affidò l’Assise conciliare, sinodale, al mistero centrale, alla Madre di Dio che è attirata dal Signore in Lui stesso, e così noi tutti con Lui.
Il Concilio ha cominciato con l’icona della Theotòkos. Alla fine Papa Paolo Vi riconosce alla stessa Madonna il titolo di Mater Ecclesiae. E queste due icone, che iniziano e concludono il Concilio, sono intrinsecamente collegate, sono, alla fine, un’icone sola. Perché Cristo non è nato come individuo tra altri. E’ nato per crearsi un corpo: è nato – come dice Giovanni al capitolo 12 del suo Vangelo – per attirare tutti a sé e in sé. E’ nato – come dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini – per ricapitolare tutto il mondo, è nato come primogenito di molti fratelli, è nato per riunire il cosmo in sé, cosicché Lui è il capo di un grande Corpo. Dove nasce Cristo, inizia il movimento di ricapitolazione, inizia il momento della chiamata, della costruzione del suo Corpo, della santa Chiesa. La Madre di Theos, la Madre di Dio, è Madre della Chiesa, perché Madre di Colui che è venuto per riunirci tutti nel suo Corpo risorto» [Benedetto XVI, a braccio Lectio brevis dell’Ora Terza della Prima Congregazione dell’Assemblea Speciale del Sinodo per il Medio Oriente, 11 ottobre 2010].
Madre di Dio (Dio voleva essere nato da una donna, Dio sulla terra, in tutto uguale a noi, ed essere sempre se stesso, Dio) e Madre della Chiesa (attraverso di Lei Dio ci attira in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio uno e trino,ma siamo, singoli, umanità, cosmo, nell’intimo, nell’intimità di Dio stesso, figli nel Figlio). Di fronte al dramma dell’umanesimo moderno per la drammatica frattura tra fede e ragione la risposta conciliare ripropone con la Madre di Dio e la Madre della Chiesa la fede e la ragione come due ali con le quali ogni spirito umano si innalza verso la contemplazione del vero e del bene, di Dio, di Cristo, di tutto il vero umanesimo cristiano di fede e ragione di fronte ai rischi attuali di un umanesimo antiumano.
Il deismo, fin dal XVI secolo, ripropone solo la filosofia aristotelica che ci dice che tra Dio e l’uomo esiste solo una relazione non reciproca. L’uomo si riferisce a Dio come Architetto, come orologiaio che una volta costruito, creato il mondo, Lui non c’entra, non è coinvolto con ogni singolo uomo (non ha senso pregarlo), con la storia umana, con il cosmo (ateismo, secolarizzazione). Tutto è affidato alla scienza per conoscere, alla tecnica per realizzare, cui si sono rifatte sia l’ideologia borghese del 1789, sia quella proletaria marxista, sia l’attuale tecno – scienza che considera l’uomo un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. La neoscolastica nel taglio essenzialista sviluppa un rapporto parallelo, dualista tra fede e ragione, tra Vangelo e cultura, pastoralmente non adeguato al problema moderno e attualmente post-moderno. IL Concilio, partendo antropologicamente dalle domande di fondo che caratterizzano il percorso di ogni esistenza umana: chi sono? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo questa vita? constata che è Dio stesso ad aver posto nel cuore di ogni io umano il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva Dio che storicamente possiede un volto umano nato da Maria, che ci ha amato fino alla fine , ogni singolo e l’umanità nel suo insieme in modo che incontrandolo Risorto nel suo corpo che è la Chiesa di cui Maria è Madre può giungere alla verità su se stesso, alla felicità come singolo, come storia umana, come cosmo. Pastoralmente, soprattutto nel moderno e nell’attuale post-moderno, quanto può essere utile la devozione popolare, illuminata dal Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, originata anche da apparizioni riconosciute nell’origine soprannaturale o non ancora riconosciute, ma non escluse.
13 Ottobre. Madeleine Delbrêl: il mondo come monastero. - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@libero.it
martedì 12 ottobre 2010
Non ci è domandato di essere forti nei momenti di sofferenza. Non si chiede al grano, quando lo si macina, di essere forte, ma di lasciare che la macina del mulino ne faccia della farina. (Indivisibile amore)
Oggi 13 Ottobre nel 1964 moriva Madeleine Delbrêl, (n. 1904), una donna francese, che ha indicato una modalità di realizzazione importante nei nostri tempi.
Nata nel 1904 a Mussidan (Francia), educata in un ambiente borghese e scristianizzato, a quindici anni Madeleine Delbrêl si dichiara atea e pessimista. "Il mondo è un assurdo, la vita è un non senso”. Verso i venti anni l’incontro con alcuni giovani cristiani “ai quali Dio pareva essere indispensabile come l’aria” la costringono a pensare. La ragazza che fino a poco tempo prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio, accetta l’ipotesi della sua possibile esistenza e si trova a compiere un cammino inaspettato: sceglie di pregare. Madeleine affonda nella preghiera, non perché già convertita ma perché convinta che sia l’unico atteggiamento possibile e onesto per verificare l’esistenza di Dio. Attraverso la preghiera rimane, come dirà lei stessa, “abbagliata" da Dio.
La giovane decide di entrare in Carmelo, poi a seguito di problemi famigliari e grazie all’aiuto del suo padre spirituale, decide che la sua strada sarà un’altra: il mondo diventerà il suo monastero. In un’epoca in cui l’unica scelta per Dio era all’interno di un’istituzione religiosa, la scelta di Madeleine appare coraggiosa e non facile da comprendere. Nel 1933, assieme ad un gruppo di ragazze, parte per Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, con l’intento di vivere assieme mettendo tutto in comune, nella povertà, nella testimonianza del Vangelo, in mezzo ai poveri.
All’epoca Ivry è la capitale del partito comunista francese, una città tappezzata da manifesti di propaganda sovietica, in cui ci si saluta con il pugno alzato e dove i bambini del quartiere prendono a sassate i preti che incrociano. E’ una città divisa in due: da una parte un pugno di cattolici, soprattutto anziani e benestanti, e dall’altra una moltitudine di militanti comunisti, poveri e lontani dalla Chiesa. Tra queste due parti l’ostilità è fortissima, in ambito cattolico si discute molto su quale dovesse essere il rapporto fra cristiani e marxisti.
Madeleine risolve la questione in base ad un principio molto semplice: “Dio non ha mai detto: amerai il prossimo tuo come te stesso eccetto i comunisti”. Lei e le sue compagne, spinte dal Vangelo, vanno in mezzo alla gente, parlano con tutti, rispettano, amano. Questo piccolo gruppo di donne si conquista ben presto i cuori di tanti comunisti.
La loro è una comunità di donne totalmente laiche, senza abito religioso o difese istituzionali, che fa della strada la sua terra di missione. La loro casa è un porto di mare, la loro porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, ad ogni sostegno. La scelta di Madeleine è quella di vivere come tutti - ognuna di loro ha un proprio lavoro civile- ”gomito a gomito” con la gente del mondo ma è allo stesso tempo quella di tuffarsi in Dio con la stessa forza con cui ci si immerge nel mondo.
La sua presenza, così leale e spontanea, era apprezzata anche da chi non condivideva la sua fede, come il sindaco di Ivry-sur-Seine, George Marrane e il vicesindaco Venisce Gosnat, i quali nel 1939, le affidarono il servizio di assistenza sociale della città.
E da quel giorno, nell’ufficio situato nella sede del Municipio di Ivry in rue Raspail 11, Madeleine Delbrêl fu sempre presente, accogliendo con la sua profonda umanità chiunque bussasse alla sua porta; l’intensa vita interiore, il suo spirito ascetico e contemplativo, illuminarono e diedero sostanza al suo impegno sociale, ricco della carica rivoluzionaria del cristianesimo, che lei visse con grande autenticità.
Madeleine Delbrêl muore nel 1964 sul suo tavolo di lavoro, lasciando una gran quantità di scritti, poesie e testi. Tali scritti stampati in migliaia di copie, hanno accompagnato la ricerca spirituale di intere generazioni.
Il Cardinal Carlo Maria Martini l’ ha definita “una delle più grandi mistiche del XX secolo”. Compagne di Madeleine Delbrel sono ancora presenti a Parigi e Amiens. Un comitato di “Amici di Madeleine Delbrêl” raccoglie un gruppo di oltre 500 persone e, in Francia ed altrove, continua a diffondere la sua spiritualità.
Il 12 maggio 1993, è stato concesso dalla Santa Sede il nulla osta per la Causa di beatificazione; i vescovi di Francia, nel 2004, celebrando il centenario della nascita, affiancando la sua figura a quella di s.Teresa di Lisieux, hanno definito la Serva di Dio Madeleine Delbrêl “faro di luce per avventurarci nel terzo millennio”
Appello dei Padri sinodali in favore dei cristiani in Iraq. Mons. Warduni: a volte ci sentiamo soli, 12 ottobre 2010 © Copyright Radio Vaticana
Al Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente è risuonato l’appello in favore dei cristiani in Iraq, “vittime della guerra, ma non tenuti sufficientemente in considerazione dalla comunità internazionale”. Secondo mons. Shlemon Warduni, vicario patriarcale di Babilonia dei Caldei, “per garantire la presenza dei cristiani nel Paese occorre lavorare di più per costruire la pace e la sicurezza. Inoltre – ha detto – sono di fondamentale importanza l’unità tra le Chiese del Medio Oriente e il dialogo interreligioso”. Al microfono di Paolo Ondarza, mons. Warduni spiega le attese dei cristiani iracheni da queste giornate di lavori in Vaticano.
R. – Ho portato i saluti dei bambini, dei giovani, delle famiglie irachene che aspettano maggiore efficacia nel sostenerli perché sì, ringraziamo tutti per le loro preghiere, ma veramente tante volte abbiamo sentito che siamo soli.
D. – Quando si parla di Iraq, poco si parla dei cristiani …
R. – Purtroppo è così. Però, noi in genere parliamo di tutti gli iracheni, perché siamo nella stessa situazione. Il terrorismo non fa differenza: le autobombe, i kamikaze e i rapimenti delle persone non sanno se chi colpiscono sia cristiano o musulmano … Però bisogna insistere anche sui cristiani, perché i cristiani non fanno male a nessuno; i cristiani vogliono vivere in pace con tutti. Allora, perché fanno questo ai cristiani?
D. – Che risposta dà a questo essere i cristiani obiettivo dei terroristi?
R. – Io direi che il fanatismo è il male seminato nei cuori dei terroristi che produce questo; poi, un po’ c’è anche l’odio contro il cristianesimo, la cattiveria. Perciò noi preghiamo anche per i terroristi, perché il Signore dia loro la grazia, l’apertura della mente e del cuore.
D. – Mons. Warduni, i cristiani in Iraq sanno dello svolgimento di questo Sinodo per il Medio Oriente in Vaticano?
R. – Certamente. Abbiamo parlato anche con i laici; abbiamo organizzato un incontro con oltre 200 tra ragazze e ragazzi laici e ne abbiamo parlato, e abbiamo chiesto le loro preghiere per il buon esito di questo Sinodo.
D. – Una domanda sulla situazione in generale in Iraq: le notizie adesso sono anche meno frequenti rispetto a quelle che ci giungevano fino a qualche anno fa. Oggi, a che punto siamo
R. – C’è un po’ di miglioramento, ma non è assolutamente sufficiente. Poi, riguardo ai mass media, direi che veramente non fanno il loro lavoro come dovrebbero, perché quando ci sono centinaia di morti, allora parlano; se i morti sono soltanto dieci, allora questo non ha importanza e questo è molto grave. Richiamo quindi la coscienza dei mass media affinché facciano bene il loro dovere, di portare la verità al mondo, di mettere concordia fra gli uomini, e questo lo possono fare; dire anche le cose positive che possono esserci, e quindi seminare la fratellanza e la pace.
D. – Se dovesse suggerire appunto ai mass media un argomento positivo che riguarda la situazione in Iraq, che cosa direbbe?
R. – La prima cosa è che i cristiani ancora resistono, e sono lì e vivono malgrado tutte le difficoltà e anche malgrado il fatto che tanti abbiano lasciato l’Iraq. La seconda cosa è che le Chiese svolgono tutte le loro attività nonostante tutte le difficoltà: il catechismo, gli incontri dei giovani, gli incontri dei cristiani, la celebrazione delle funzioni liturgiche; e poi, le nostre chiese, le nostre case sono sempre aperte a tutti. Quindi resistiamo fondandoci sulla Parola del Signore: “Sono con voi fino alla fine del mondo”.
12/10/2010 – VATICANO - Sinodo: difficile, ma indispensabile, il dialogo per la convivenza con l’islam - I primi interventi dei vescovi mediorientali evidenziano la necessità del dialogo con i musulmani, l’urgenza del rispetto dei diritti civili, a partire dalla libertà religiosa, il dovere della comunione tra le Chiese cristiane, e in primo luogo tra i cattolici, l’importanza della formazione (AsiaNews).
Città del Vaticano (AsiaNews) - La necessità del dialogo con i musulmani, l’urgenza del rispetto dei diritti civili, a partire dalla libertà religiosa, il dovere della comunione tra le Chiese cristiane, e in primo luogo tra i cattolici, l’importanza della formazione. I problemi dei cristiani del Medio Oriente cominciano a emergere al Sinodo negli interventi dei vescovi che vivono in quella regione, dopo che ieri il patriarca Naguib, relatore generale, ne aveva tracciato un primo quadro.
Mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, in Iraq, ha sottolineato l’esigenza di un impegno serio per il dialogo con i musulmani. “Senza dialogo con loro non ci sarà la pace e la stabilità. Insieme possiamo eliminare guerre e tutte le forme di violenza. Dobbiamo unire le nostre voci per denunciare insieme il grande affare economico del commercio delle armi”.
Riferendosi in particolare alla situazione dei cristiani iracheni, mons. Sako ha sostenuto che “il mortale esodo che affligge le nostre Chiese non potrà essere evitato. L'emigrazione è la più grande sfida che minaccia la nostra presenza. Le cifre sono preoccupanti. Le Chiese Orientali, ma anche la Chiesa universale, devono assumersi le proprie responsabilità e trovare con la comunità internazionale e le autorità locali scelte comuni che rispettino la dignità della persona umana. Scelte che siano basate sull'uguaglianza e sulla piena cittadinanza, con impegni di partenariato e di protezione. La forza di uno Stato si deve basare sulla credibilità nell'applicazione delle leggi al servizio dei cittadini, senza discriminazione tra maggioranza e minoranza. Vogliamo vivere in pace e libertà invece di sopravvivere”. Di “bicchiere mezzo pieno” nella convivenza tra cristiani e musulmani “che ha 14 secoli” ha parlato mons. Elias Nassar, vescovo di Sidone dei Maroniti, in Libano, sostenendo che “gli alti e bassi della convivenza sono spesso legati a problemi politici”. “L’attaccamento dei musulmani alla preghiera, al digiuno, alla carità, al pellegrinaggio incitano i loro vicini cristiani a divenire più praticanti”. Al tempo stesso, la vicinanza dei cristiani “fa riflettere i musulmani, ad esempio su una lettura critica del Corano”. Ci sono, a suo avviso, iniziative che possono essere prese in un regime laico, come quello siriano, come è accaduto, durante l’Anno paolino, in campi come il teatro, la cultura e lo sport.
Un altro arcivescovo libanese, Paul Youssef Matar, di Beirut dei Maroniti ha evidenziato le “responsabilità” di cristiani e musulmani. “Figli di questa terra da sempre – ha detto – i cristiani debbono sentire che non debbono forgiare un destino limitato a se stessi, ma piuttosto un destino comune con i loro partner”. Il loro far parte del mondo arabo “non dovrebbe far perdere loro né i loro diritti, né le loro libertà, ma confermarli, in comune con i diritti e le libertà dei loro concittadini”.
Quanto ai musulmani, maggioritari, “debbono dare il loro posto ai concittadini cristiani. Non si tratta solo di una presenza nella società, ma dell’elaborazione di un progetto di questa società e anche della sua guida”
C’è anche una responsabilità delle potenze occidentali, che dovrebbero riparare alla ingiustizie commesse in passato. Ne trarrebbero beneficio anche i cristiani della regione, ingiustamente identificati con esse. Gli stessi cristiani d’Occidente e del mondo intero, dovrebbero esprimere la loro solidarietà sforzandosi di conoscere di più i loro fratelli del Medio Oriente e “esercitare una pressione sull’opinione pubblica del loro Paese e sui loro governanti per ristabilire la giustizia nei rapporti con il Medio Oriente e el’islam e aiutare il mondo a lbrarsi del fondamentalismo e condurlo alla moderazione.
L’esigenza della comunione è stata invece al centro dell’intervento di mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini (Iraq). Essa “è il cuore della nostra identità ecclesiale, la dinamica dell’unità e della molteplicità delle nostre Chiese. Da essa dipende la nostra presenza e il nostro futuro, la nostra testimonianza e il nostro impegno”. Ma “la comunione è contraddetta soprattutto dal confessionalismo”. “I riti si sono trasformati in confessioni”. “le nostra Chiese sono invitate a sciogliersi da questa eredità storica per ritrovare il modello della comunità di Gerusalemme”.
Un aspetto particolare, infine, è stato segnalato da mons. Salim Sayegh, vicario patriarcale di Gerusalemme dei Latini per la Giordania, che ha parlato delle sette “che provocano una grande confusione dottrinale”. “In Giordania, ad esempio, ci sono una cinquantina di sette, cinque delle quali hanno più pastori attivi che tutte le chiese cattoliche e ortodosse insieme”. Per “conservare il deposito della fede” occorre “visitare con insistenza le famiglie” per “spiegare, difendere, seminare, vivere e aiutare a vivere la fede cattolica”. “Occuparsi seriamente della formazione cristiana degli adulti”, “sensibilizzare le scuole cattoliche alla loro missione di scuole cattoliche”.
martedì 12 ottobre 2010 - L’ateismo interessante di Giulio Giorello. – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com
Giulio Giorello esprime un ateismo ormai in estinzione, minato costantemente dall'idiozia razionalistica di sette fondamentaliste e folkloristiche. Un ateismo teorico, drammatico, che non strumentalizza la scienza e con cui è piacevolissimo confrontarsi (molto più che con fondamentalisti religiosi). E' docente di Filosofia della scienza all’Università di Milano e ha appena pubblicato "Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo". Si definisce non credente, ma ama leggere e rileggere la Bibbia (e assicura: «mi spiace non sapere l’ebraico»). Al positivismo di Auguste Comte preferisce la mistica di Giovanni della Croce. Ha scritto opere come "Di nessuna chiesa" e "Lo scimmione intelligente", ma non sopporta gli anticlericali e da ragazzo non ha voluto essere esonerato dall’ora di religione. Tracce.it riporta che l’intento di Giorello nel suo libro non è dimostrare che Dio non esiste, ma che l’uomo può farne a meno. È un ateismo pratico e non dogmatico. È il rifiuto di qualsiasi autorità sopra di sé perché il dramma della dipendenza è oggetto della battaglia del “nuovo Illuminismo”.
Intervistato dalla rivista citata, risponde fra l'altro: «Io non ho nessuna intenzione di inginocchiarmi di fronte a Dio. E nemmeno di fronte al progresso, alla lotta di classe, alla scienza, a un capo di partito... Questa è l’idea di autonomia e indipendenza che permea tutto il libro. Mi riconosco pienamente nella componente anti-idolatrica del cristianesimo. La ritrovo molto nei Vangeli, in alcuni passi di san Paolo e nel Vecchio Testamento. Per questo, non vorrei essere confuso con gli atei che pensano che ci si possa liberare di questa grande tradizione nata con Abramo: il loro è l’ateismo di Stato alla sovietica, una delle peggiori caricature che si possano fare della religione».
E ancora specifica: «Il mio ateismo è il rifiuto di mettermi in ginocchio. Ho passione per la fisica, la matematica e la biologia. Non mi sognerei mai, però, di dire che sono tre dèi di una religione della scienza». L'intervistatore gli pone però un quesito ineludibile: se si vuole dimostrare che l’uomo può fare a meno di Dio, perché, allora, ogni uomo, in qualunque epoca, nasce con questo bisogno di Dio (addirittura il celebre antropologo Coppens ha dichiarato che «l'uomo religioso coincide con il primo uomo» (vedi Ultimissima 22/9/10). Lui risponde: «Bella domanda. In effetti, è l’obiezione più seria a quel che ho scritto. Io ho preferito non addentrarmi nell’argomento».
Giorello rivela anche di essere stato allievo al liceo di don Luigi Giussani (fondatore di Comunione e Liberazione): «Con don Giussani facevamo delle litigate epiche. Lì per lì mi arrabbiavo, veniva fuori una contrapposizione. Oggi, coi capelli quasi bianchi, posso dire che ne ho nostalgia. Perché la cosa più bella è discutere con gente certa, appassionata. E, in questo, Giussani era un vero maestro».
I CATTOLICI E L’IMPEGNO POLITICO - L'INTERVENTO DEL DOTT. PIERLUIGI VINAI - di Paolo Deotto – dal sito http://riscossacristianaaggiornamentinews.blogspot.com/
La nostra Società si trova in una grande confusione di valori e di punti di riferimento, e il confronto politico, lungi dal realizzarsi in una dialettica tra diverse parti, con l’unico scopo del bene comune, si trasforma troppo spesso in una lotta senza quartiere, condotta con tutti i mezzi, contro il “nemico”.
In questa situazione Riscossa Cristiana ha ritenuto opportuno avviare un sondaggio tra diverse personalità del mondo della cultura e della politica per cercare di individuare le modalità che devono guidare un cattolico nell’impegno politico. Siamo infatti convinti che, al di là di programmi e di scelte operative, argomenti questo sempre soggetti a revisione, sia di fondamentale importanza riscoprire le ragioni più profonde ed essenziali che devono guidare l’azione politica.
Infatti non ci troviamo semplicemente di fronte a una crisi di gruppi di destra o di sinistra, bensì a una crisi profonda del concetto stesso di Stato e delle sue finalità. I cattolici non possono sfuggire alla responsabilità che hanno nel mondo. “Nessuno infatti accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma la porrà sul porta lucerne, affinché illumini tutti coloro che sono nella casa”
Speriamo così di dare il nostro contributo affinché i cattolici, pur in una dialettica che vede diversi partiti tra loro contrapposti, sappiano recuperare le vere e profonde ragioni del loro operare, per il bene della Chiesa e dell’Italia.
Ringraziamo vivamente il dott. PIERLUIGI VINAI, che per primo ha cortesemente risposto al nostro sondaggio, e qui di seguito riportiamo i Suoi autorevoli pareri:
Buongiorno,
a seguito di sollecitazione dell’amico Piero Vassallo, che mi ha lasciato alcuni appunti a firma del direttore del sito, mi permetto di farvi pervenire poche, semplici, sentite righe. Alcune frasi sono “da manuale” ma non potrebbe essere diverso.
Mi si chiede, sostanzialmente:
Quali sono i doveri di un cattolico impegnato in politica?
Promuovere una società a servizio della persona, perseguendo, conseguentemente, il bene comune. Però, per fare ciò, deve offrire una coerente testimonianza cristiana, ogni giorno, con umiltà, spirito di servizio, sopportazione…anche sbuffando, ma resistendo al maligno. Diversamente non serve a nulla la sua enunciazione di principi che, poi, non vive. Lo so che è dura, durissima, talmente dura che sfido a trovarne uno nel panorama nazionale!
Quali sono le realistiche possibilità di operare?
Apparentemente sembrerebbero poche giudicando lo scenario nazionale attuale, però non è così, e non lo dico solo per un moto di speranza. Ci sono molti operatori politici che si sforzano di portare avanti idee e testimonianza, però i media se li filano davvero poco, conseguentemente essi sono confinati nelle retrovie, tuttavia, se persevereranno e, tutti insieme, sapremo cambiare le “regole d’ingaggio”, non è detto che anche in tempi brevi non si possa emergere.
Quali devono essere i criteri perché un cattolico aderisca ad un partito, in assenza di un partito cattolico?
L’esame dei programmi, dei fini, dei mezzi che siano coerenti col Vangelo. Poi, che la classe dirigente si sforzi di dare buona testimonianza individuale e collettiva.
L’attuale sistema politico può realmente garantire uno spazio espressivo e una possibilità di azione? Come?
Certo che può. Bisognerebbe che i cattolici coinvolti nei vari partiti sapessero fare sentire la loro voce forte e chiara senza timori, ma, soprattutto, senza compromessi finalizzati a conservare od acquisire la “seggiola”; torniamo alla coerenza della testimonianza. Purtroppo ciò non si vede, anche perché, la naturale conseguenza di questa lotta sarebbe la loro fuoriuscita da contenitori vuoti per fondare, insieme, qualcosa di concretamente rappresentativo della presenza dei cattolici in politica. Però, per arrivare a ciò, ci vorrebbe anche un po’ più di coraggio da parte dei pastori della Chiesa che, finora, non incentivano per nulla questo processo di riaggregazione dei cattolici sotto un’unica bandiera.
Diversamente, in che modo i cattolici possono essere presenti nella società?
Ognuno nel proprio ambito, nel lavoro quotidiano, stando “nel mondo” pur non essendo “del mondo” e facendo vedere questa differenza che si traduce nell’amare il mondo appassionatamente conquistandolo ed indirizzandolo anziché subendolo.
Quale giudizio sulla galassia di gruppi, movimenti cattolici, associazioni e sulla loro funzione nella costruzione della società?
Prima di tutto bisognerebbe imparare una volta per tutte a non dividersi continuamente come “cane e gatto” facendosi ridere dietro dai non credenti e seminando confusione e smarrimento nei credenti. Sarebbe un grande passo avanti e rafforzerebbe l’efficacia del loro agire. In ogni caso è da considerarsi una ricchezza la pluralità di sfumature e di campi d’azione del loro intervento, purché tutto si riconduca all’unità che crea società.
Spero che le mie risposte siano adeguate alle vostre aspettative.
Grazie per il coinvolgimento e per l’attenzione.
Un caro saluto.
Pierluigi Vinai
Avvenire.it, 12 ottobre 2010 - LA TESTIMONIANZA - Io, folgorato sulla via del Muro di Pietro Barcellona
Dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989, una depressione devastante si impadronì dei miei pensieri, costringendomi per quasi due anni ad una sorta di assenza vegetativa. Certamente era un crollo della mia comunità di affetti ma anche delle idealizzazioni effimere che avevo costruito in quegli anni per rendere omaggio ad un ideale dell’Io in cui si alienavano la mia libertà e la mia creatività.
La delusione per il perduto orizzonte del progresso umano e il contatto costante con alcuni amici, che mi aprirono le porte al pensiero della crisi e alla cultura del pessimismo, mi fecero incontrare il mostro contro il quale avevo per tanti anni combattuto inutilmente: il nichilismo. Non il nichilismo dei filosofi, la critica della metafisica e l’alienazione originaria dell’Occidente di cui parla Emanuele Severino, ma il senso della vuotezza, una fascinazione del cupio dissolvi che attanagliava il mio corpo come una camicia di forza. Le alternative razionalizzanti alla fine del messianesimo mondano della rivoluzione proletaria non davano nessuna risposta, come non la davano i nuovi saperi emergenti, che attraverso lo studio della mente ripropongono l’evoluzionismo come unica spiegazione possibile delle metamorfosi della vita.
Ci sono molte cose convincenti nell’evoluzionismo, ma c’è un’obiezione dell’esistenza che si ribella alla doppia contingenza del nascere per caso e del vivere per funzionare come parti di un processo che, però, può fare anche a meno di te. Evoluzionismo, casualità e funzionalismo non consentono di attribuire alcun valore in sé a nessun evento della nostra esistenza quotidiana; tutto ciò che facciamo e siamo finisce per essere il mero risultato di una sequenza di fatti casuali e funzionali, senza alcuna dignità. Può sembrare paradossale, ma casualità e funzionalismo non sono contraddittori: il caso lascia accadere gli eventi nella loro successione lineare e la funzione li seleziona in vista della loro utilità nell’evoluzione successiva. Io non esisto prima perché sono una pura possibilità e non esisto dopo perché sono un mero supporto di una catena successiva. Il venire al mondo di un essere umano non ha nessun significato nella sequenza dell’evoluzione.
E non è tanto per rivendicare la mia illusoria libertà di decidere o il significato della mia volontà di esistere che mi rivolto contro l’evoluzionismo, ma per la ragione che non accetto, o meglio, che non riesco ad accettare di essere soltanto una particella insignificante del moto incessante della materia vivente. In fondo, anche l’evoluzionismo è nichilista, poiché il nichilismo non riguarda la possibilità della metafisica o i rapporti che la ragione istituisce fra essere e divenire secondo uniformità calcolabili, ma la negazione del «valore» come segno di una irriducibilità o di un’eccedenza rispetto alla neurobiologia. Senza il «valore», e il soggetto che lo incarna, non si capisce neppure in virtù di che cosa siamo abilitati a pensare, a parlare e ad interrogarci. Ma il «chi è» che diviene consapevole dell’insignificanza cosmica non si lascia ridurre ad una pura increspatura della stessa insignificanza. Nichilismo, evoluzionismo e relativismo conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale.
Attraversando gli strati della mia esperienza, ripercorrendo le cose che ho fatto, gli amori e le passioni che ho vissuto, mi sono persuaso che la mia destinazione sia da sempre stata segnata dal profondo desiderio di sconfiggere le potenze che tendono all’annichilimento di ogni significato. Sembra naturale che, a questo punto della storia, si torni a riflettere sul tema che ha segnato le vicende dell’Occidente: il rapporto fra l’umano e il divino, poiché solo la presenza del divino nell’umano potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle.
L’ineludibile questione di Dio si è presentata, così, alla mia mente sotto l’aspetto apparentemente innocuo dei preti che ho incontrato e di uno in particolare che mi ha chiesto di cercare insieme, senza dare nulla per scontato. Certo, l’immagine di Dio può apparire un punto fermo nella precipitosa corsa nella quale giorno per giorno siamo coinvolti. Ho letto molti libri su come e perché gli esseri umani hanno pensato che la terra e il sole fossero creati da un dio onnipotente e onnisciente. Tutta la storia della nostra civiltà, a partire dalle tradizioni più antiche dell’Egitto e della Mesopotamia, testimonia come gli esseri umani abbiano immaginato di essere salvati dal pericolo della morte da un dio che, dall’alto del proprio trono, ogni tanto volgesse lo sguardo a ciò che accadeva sulla terra. Ma confesso che questo percorso fra storia e teologia mi restituisce una figura divina troppo metafisica per non apparire, come ha scritto di recente Lopez, una pura proiezione psicologica degli esseri umani.
Infatti, in questa visione del Dio onnipotente, l’umano e il divino rimangono due poli troppo distanti per consentirci di accettare il dolore e la sofferenza, le malattie e la morte, le stragi e i genocidi. La storia umana non può essere «salvata» – non nel senso di una redenzione ma nel senso della comprensione del significato di ciò che è accaduto e accade – senza che il divino innervi intimamente le vicende terrene degli uomini e delle donne in carne e ossa.
Ecco perché sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo e dalla sua predicazione nella terra di Galilea. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto fra Dio e mondo, fra divino e umano, una discontinuità assoluta rispetto a tutte le ipotesi di configurazione del Dio delle religioni. Il Verbo incarnato, l’essere Figlio dell’uomo e figlio di Dio, che assume i connotati di una persona fisica, in un tempo determinato, in un luogo preciso e assolutamente fuori anche dalla stessa attesa messianica delle scritture bibliche, è una rottura totale della continuità del tempo storico.
La nascita di Cristo, come evento impensabile e impensato nelle sue caratteristiche concrete, ci immerge in una temporalità che non è il flusso ordinato degli avvenimenti, ma una dimensione di contestualità di presenza e pienezza che, non a caso, dà origine a un nuovo calcolo dei giorni e degli anni. Cristo è come il punto zero che a lungo i matematici hanno cercato di rintracciare e che non può essere ricondotto allo schema dell’inizio e della fine. Eppure, questa trascendenza incarnata appare profondamente mischiata alla carne e al sangue dell’uomo. Solo questa contestualità può consentire di parlare di Cristo come Persona, poiché, come sostiene ancora Lopez, la Persona non è la segmentazione dell’Io e dell’Es, della natura e della cultura, ma la consapevolezza unitaria di una molteplicità che si integra nelle diverse parti umane e divine.
Quando mi capita di assistere alla proiezione dello straordinario film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo ho la sensazione che quella figura biancovestita pronunci frasi e parole che vanno oltre la filosofia greca e la sapienza orientale, per arrivare fin dentro al cuore delle persone, e non ci si può stupire più che quell’uomo sia Dio e che Dio sia un uomo.
L’INTERVISTA/ Scola: perché la politica non sa più che cos’è la libertà? - INT. Angelo Scola - mercoledì 13 ottobre 2010 – il sussidiario.net (Federico Ferraù)
Dalla crisi della politica italiana alla crisi finanziaria, dalla libertà delle iniziative sociali al compito dello stato, quello di cui oggi più si avverte la mancanza sono «ambiti comunitari di amicizia civica, di relazioni buone e di pratiche virtuose» dalle quali l’uomo possa oggi reimparare che cos’è il bene. A dirlo è il Patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ieri a Milano per presentare il suo ultimo libro, Buone ragioni per la vita in comune, insieme a Gianni Riotta, direttore del Sole 24 Ore, in un incontro pubblico organizzato dal Centro culturale di Milano.
Eminenza, in Italia c’è chi parla di “fine della politica”. Oggi il “bene comune” è avvertito come la cosa più necessaria, al tempo stesso è anche la formula più abusata e vuota. Da cosa dipende la sua crisi?
«Dal grave indebolimento delle relazioni personali all’interno della nostra società. L’uomo del terzo millennio è precipitato in un individualismo neutro esasperato, che non è più soltanto quello basato sulla pretesa di autonomia che ha segnato l’epoca moderna. Esso è invece un fenomeno di tipo nuovo, che porta l’uomo ad essere addirittura indifferente, nelle sue scelte, al bene e al male. Questo “uccide” la dimensione antropologica fondamentale dell’essere in relazione, senza la quale non solo la persona non pratica il bene, ma nemmeno lo impara».
Dunque non sappiamo più che la convivenza è un bene. Qual è la strada da seguire per riappropriarci di questa dimensione personale?
«La persona reale vive sempre in un contesto comunitario. Così la società ha sempre bisogno dei due poli: dell’individuo e della comunità civile. È soltanto generando all’interno della società ambiti comunitari di amicizia civica, esempi di quella che Aristotele chiamava la philìa, che si può ridare sostanza ai rapporti e ritrovare in maniera più adeguata il gusto di fare il bene e di evitare il male. Per reimparare il bene, e cambiare questo tessuto sociale litigioso e infiacchito, abbiamo bisogno di relazioni buone».
Nel panorama a volte desolante della scena politica, quando qualcosa non funziona si punta il dito contro il mancato rispetto delle regole. Esse sono in grado di restituirci una vita buona?
«Si può rispondere partendo dalla grande affermazione di Eliot, la dove afferma che l’uomo si illude spesso di costruire società così perfette che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono. È chiaro, come diceva San Tommaso, che la legge ha come scopo di educare al bene e alla virtù, e quindi il rispetto della legge è fondamentale. Ma il problema è che io devo ogni volta essere richiamato a ciò che mi fa percepire il rispetto della legge come un valore; a ciò che non fa prevalere su di esso la mia fragilità. Qui ritorniamo al punto di partenza: per imparare a fare il bene sono necessarie relazioni buone».
Senza di esse dunque non capiremmo. Perché?
«La risposta sta nell’esperienza. Pensiamo alla nostra vita di bambini: quando la mamma mi sorride e dice “com’è bello che tu ci sia”, lentamente mi dà il senso di ciò che è bene e di ciò che è male. Mi spalanca ad una vita come promessa, dandomi la ragione per osservare la legge. Perché la legge, e lo diceva già San Paolo, ha bisogno di essere “personalizzata”, in modo tale che l’uomo diventi legge a se stesso cioè interiormente capace di comprendere e di scegliere ciò che è bene».
Qual è la causa del processo di astrazione che ha spogliato la vita personale e pubblica?
«Le cause sono in parte lontane e risalgono alla modernità; allo stesso tempo stanno assumendo aspetti qualitativamente molto diversi in quest’epoca postmoderna. L’epoca moderna ha stipulato un rapporto immediato e diretto tra l’individuo e lo stato, senza far leva sulla società e sui corpi intermedi che la animano e la costituiscono. Ma in Italia le espressioni sociali hanno mantenuto la loro vitalità e in questo la società civile italiana è certamente la più ricca d’Europa, senza perciò essere meno moderna. Non dovremmo mai dimenticare questa ricchezza, nella quale l’io è continuamente accompagnato, provocato, stimolato, e dove la sua inclinazione al bene viene fatta emergere».
A chi pensa?
«Al mondo del non profit, dell’impresa nei suoi vari campi, a tutti coloro che sono impegnati in una trama di relazioni e iniziative con le quali condividono i problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Occorre che chi ha responsabilità non solo politiche ma anche istituzionali ed ecclesiali si faccia carico di questo. Come uomo di chiesa, ogni volta che vado a visitare le comunità cristiane ho modo di costatare che là dove la persona, seguendo le indicazioni di Gesù, sta dentro una compagnia guidata, fiorisce come persona».
David Cameron ha rilanciato nel dibattito pubblico il tema della Big society. Ma questa pluralità di forme e iniziative sociali, che in Italia operano da tempo e hanno segnato la nostra storia, possono esistere a prescindere dal fattore religioso?
«Storicamente in Italia non hanno potuto esistere senza. Il problema dell’edificazione di una società giusta lo ha individuato molto bene De Lubac: non è vero che non si può costruire una società senza Dio; ma si corre il rischio che sia contro l’uomo. È questo il punto della questione. L’uomo per sua natura è inevitabilmente religioso, che lo ammetta o no, e perciò la dimensione anche pubblica della religione, se è ben capita e se vive del rispetto della natura plurale delle nostre società, dà di fatto un contributo assolutamente determinante perché è un fattore genetico di relazioni buone e di pratiche virtuose».
Cosa deve fare la politica?
«Aprire gli occhi sulle libertà realizzate, in Europa come in Italia. Perché come non si possono richiamare in astratto i diritti, così non si possono richiamare in astratto le libertà. Un welfare che sia più capace di concepire come pubblico non solo ciò che è statale ma ciò che l’iniziativa dei corpi intermedi riesce a produrre, la libertà di educazione, il supporto che si deve dare alla famiglia, un approccio equilibrato alla questione degli immigrati - dentro un abbraccio largamente accogliente e nello stesso tempo rispettoso della mentalità -, la solidarietà nel vivere questo passaggio di crisi economica senza dimenticare il sud del mondo: sono queste le sfide di oggi e la società civile produce mille e più iniziative in questi campi. Bisogna che chi ha responsabilità istituzionali non pretenda di gestirle ma si limiti a governarle, lasci vivere la società e le dia gli strumenti per crescere».
Esiste secondo lei il rischio che la crisi finanziaria abbia dato alla razionalità economica pubblica e privata una “lezione” che non abbiamo capito?
«Su questo il Papa della Caritas in veritate ha detto cose bellissime, invitandoci ad allargare la ragione economica. Oggi abbiamo bisogno di ampliare la ragione a tutti i livelli, smettendo di ridurla alla sola dimensione sperimentale e tecnica. E come lo fa il Papa? Dando dignità economica alla dimensione gratuita della fraternità: mettere in atto azioni e cooperazioni economiche e finanziarie avendo veramente di mira il fine buono per cui esiste l’economia di produzione ed esiste la finanza. Ma il rischio è di credere ancora una volta che si possa uscire da questa situazione solo superando le cosiddette bad rules, le cattive regole».
Benedetto XVI ha aperto il sinodo sul Medio oriente con un discorso a braccio in cui ha fatto una rassegna apparentemente sommaria dei mali del mondo: capitali anonimi, ideologie terroristiche, droga, violenza perpetrata in nome di Dio. «La terra che assorbe queste correnti» - ha detto il Papa - «correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa», è «la fede dei semplici». Ma questa fede è in grado di reggere la sfida?
«Sì, perché è la fede di chi non cessa di lasciar emergere dal proprio cuore l’insopprimibile desiderio di Dio e ha trovato nell’appartenenza a Cristo, e nella preghiera alla Vergine Maria, la strada per secoli in grado di generare uomini e donne capaci di amare, di lavorare, di educare. Questa è la fede dei semplici di cui il Papa parla e lui stesso è il primo testimone di questa fede: uno che con straordinaria umiltà fa valere ancor di più la forza della sua intelligenza. ma non conta l’erudizione: La mia mamma aveva fatto al terza elementare ma era molto più intelligente della vita di quanto non lo sia io, che ho dovuto leggere un po’ di libri».
Avvenire.it, 12 ottobre 2010 - IL CASO - Formiche in lotta tra fede e ateismo di Massimo Introvigne
Arriva in libreria anche in Italia, pubblicato da Elliot (pagine 342, euro 18,50), Anthill ("Formicaio", ma il titolo non è tradotto nella versione italiana), il romanzo di Edward Osborne Wilson, il padre della sociobiologia che è stato tra i casi letterari e sociologici dell’anno negli Stati Uniti. Il romanzo, parzialmente autobiografico, mette in scena il giovane entomologo Raff Cody, figlio di un padre povero e campagnolo e di una madre di una vecchia famiglia dell’Alabama che sembra uscita dalle pagine di Via col vento.
La situazione non è nuova, e la prima parte del romanzo è piuttosto convenzionale. Così come non è nuova la terza parte, dove Cody deve affrontare l’opposizione di cristiani fondamentalisti ostili all’evoluzionismo, pronti a ricorrere anche al rapimento e all’omicidio ma che faranno a loro volta una brutta fine dopo avere incontrato nel primitivo mondo delle paludi dell’Alabama dei violenti più violenti di loro.
L’interesse del romanzo sta tutto nella seconda parte. Raff – come l’autore Wilson – è affascinato dalle formiche e dai formicai e cerca di difendere dagli speculatori edilizi le rive del lago Nobokee, dove gli insetti abbondano. Parallela alla sua lotta ve n’è un’altra, invisibile agli occhi di chi non sia un entomologo, fra tre colonie di formiche che si contendono l’egemonia nella zona. La seconda parte del romanzo, presentata come la tesi di laurea di Raff, è la storia di questa lotta descritta dal punto di vista delle formiche. Qui, in forma di romanzo, Wilson ripresenta le tesi che lo hanno reso famoso come padre della moderna sociobiologia.
Wilson si afferma nel 1971 con Le società degli insetti, un’opera in cui applica alle formiche l’equazione di Hamilton. Questa risponde a un’obiezione che Charles Darwin (1809-1882) considerava potenzialmente fatale per l’idea stessa – cruciale per l’evoluzionismo – secondo cui i caratteri acquisiti utili sono trasmessi ai discendenti. L’obiezione riguarda le formiche operaie, che sono tutte femmine sterili.
Questi insetti acquistano caratteri utili ma, giacché sono sterili, non possono trasmetterli alla loro progenie: come avviene quindi in questo caso la trasmissione dei caratteri acquisiti? La soluzione che già Darwin aveva abbozzato consiste nell’ipotizzare che il progresso evolutivo possa trasmettersi non solo direttamente ai discendenti ma anche indirettamente ad altri membri della comunità. Questa spiegazione, per la verità piuttosto fumosa, è formalizzata in un’equazione dal biologo britannico William Donald Hamilton (1936-2000), ed è applicata da Wilson allo studio empirico delle formiche.
Dopo il successo de Le società degli insetti Wilson lancia una nuova scienza chiamata "sociobiologia" – il termine esiste già da decenni, ma è sconosciuto al grande pubblico –, la quale dovrebbe generalizzare i risultati dell’equazione di Hamilton estendendoli anche all’uomo e alle società umane. L’impresa è ambiziosa, e provoca reazioni furibonde. Se una certa sinistra accusa la sociobiologia di razzismo, gli ambienti religiosi temono che, applicando all’uomo e alla società idee desunte dal mondo degli insetti, spariscano la dignità unica dell’uomo, il libero arbitrio e anche l’idea di Dio.
Occorre però distinguere fra le posizioni di un popolare divulgatore della sociobiologia – lo zoologo e ateo militante britannico Richard Dawkins – e quelle del suo maestro Wilson. Quest’ultimo dichiara che la fede in Dio non è semplicemente falsa ma «è vera in senso darwiniano», in quanto produce coesione sociale e quell’«altruismo che è necessario per la sopravvivenza delle società umane». È pure possibile che la religione non abbia solo un’utilità funzionale. Wilson afferma di non considerarsi né ateo né agnostico ma «un deista provvisorio. Questo significa che voglio considerare la possibilità di una Causa Ultima. Ma non siamo veramente vicini a capire di che cosa possa trattarsi».
Nel romanzo Wilson mette in scena una contrapposizione fra formiche atee e credenti. Le une negano, le altre affermano l’esistenza di dei nella forma di «alberi che si muovono», divinità capricciose che possono portare alle formiche magnifici doni oppure distruggerle senza motivo. Hanno ragione le formiche credenti. Gli «alberi che si muovono» esistono: sono gli uomini, divinità benevole che quando lasciano sulle rive del lago i resti dei loro picnic elargiscono alle formiche un’abbondanza inattesa. La dinamica ricorda quelle dei "cargo cult" dell’Oceania, dove i nativi scambiano per navi degli dei quelle europee che portano aiuti alimentari.
Ma quando, proprio grazie a quest’abbondanza, gli insetti si moltiplicano in modo considerato fastidioso gli uomini li distruggono senza preavviso con lanciafiamme e insetticidi. Le formiche atee dunque hanno torto. Tuttavia, anche quelle credenti non hanno completamente ragione perché gli «alberi che si muovono» non sono entità soprannaturali. Ma il fatto che gli uomini non siano dei non prova che gli dei non esistano. Anche come romanziere, Wilson non si lascia ridurre ai suoi più schematici epigoni come Dawkins. E la sociobiologia conserva tutta la sua irriducibile ambiguità.
Avvenire.it, 13 ottobre 2010 - La cronaca aspra e la parola del Papa - Ogni volto è volto sacro - di Alessandro D’Avenia
Il poeta Rilke s’imbatte in una elemosinante. L’amico che lo accompagna le dà uno spicciolo. Rilke tira dritto, ma giunto presso un fioraio compra una rosa e di ritorno solleva la donna e gliela regala. Il poeta coglie la sacralità ferita di quella donna, difende la sua dignità di "amata", sacralità e dignità che l’anonimo spicciolo privo di uno sguardo negli occhi non riesce ad abbracciare e restituire. I poeti, con i bambini e i santi, sono i custodi del mistero. «Ora che nelle fosse / con fantasia ritorta / e mani spudorate dalle fattezze umane l’uomo lacera / l’immagine divina»: un altro poeta, Ungaretti, scorge, nelle deportazioni della II guerra mondiale, mani folli che strappano via dal volto umano ciò che lo rende umano: l’essere immagine di Dio.
Di questo dobbiamo parlare quando accadono eventi meno apocalittici, ma non meno tragici come il coma del tassista o della donna rumena sfigurati da mani folli. Si leveranno malinconiche voci a significare nella modalità del piagnisteo o dello sdegno che la civiltà è al capolinea... Si girerà, in modo politicamente corretto, attorno all’unico vero problema centrato dai poeti: dove va a finire "la persona" se non vediamo più qualcosa di sacro nel volto "delle persone"? La perdita del senso del sacro nel quotidiano è la più grande tragedia della cultura contemporanea, la tragedia che ha causato nel secolo più ateo della storia due guerre mondiali.
Tutti inorridiamo di fronte a casi come quelli descritti. Ma tutti noi, convinti di essere signori di minuscoli regni, soli al centro del creato, disprezziamo le persone che affollano il "nostro" vagone del metrò, intralciano la "nostra" coda al supermercato. Tutte le volte che non riusciamo a scorgere nell’altro una persona degna di tutta la nostra attenzione, la diminuiamo e diventiamo potenziali "omicidi". Ma esiste un antidoto.
La novità del cristianesimo, la vera buona notizia, è che Dio ha un volto umano e tutti gli uomini hanno quello stesso volto. Non è questione di "tolleranza"o "simpatia", assolutamente insufficienti a sentire la realtà dell’altro tutto intero, ma è questione di "empatia": sentire l’altro come qualcuno dotato della mia stessa dignità. Nella coda al supermercato la donna piena di pacchi non è una potenziale nemica da sconfiggere, ma qualcuno che ha una storia sacra, perché la storia di ogni uomo è sacra, perché quell’uomo è voluto dall’eternità da Dio. Questa è la configurazione esistenziale di base del cristiano. Solo il cristianesimo ha la pretesa folle di trasformare quelli nel traffico con me da nemici da eliminare a figli dello stesso Padre e quindi fratelli con difficoltà e problemi importanti persino più dei miei.
Persona: volto di Dio. Per gli antichi era solo la maschera dell’attore. Cristo ha reso quella maschera il volto stesso di Dio, riconoscibile più direttamente nel debole (l’anziana in piedi, l’elemosinante in ginocchio, il barbone coricato...), ma presente in ogni volto umano (il manager abbronzato, lo studente svogliato, la portinaia chiacchierona...). Persona deriva dal lasciare passare il suono della voce amplificandolo (per-sonare): con la venuta di Dio in un volto la persona si riempie della voce stessa di Dio. Il volto dell’uomo amplifica l’immagine di Dio e lo rende tangibile.
Una cultura, priva del mistero cristiano, non perde Dio, ma perde l’uomo, suo vero volto. Non è un caso che Benedetto XVI abbia parlato nel recente documento "Ovunque e sempre" della necessità di una nuova evangelizzazione, non solo dove il volto di Cristo non è noto, ma soprattutto dove è stato sradicato: «Si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili... Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose».
Un pagano scorgendo il modo di comportarsi dei primi cristiani commentava: «Guarda come si amano!». Riportare nella maschera vuota di una cultura senza Dio la pienezza del volto di Cristo e quindi del Creatore è il compito dei cristiani anche oggi, in una cultura secolarizzata che, come diceva il poeta: «Per pensarti, Eterno, / non ha che le bestemmie».
Avvenire.it, 13 ottobre 2010 - Deficit formativo, agenzie e ruolo della famiglia - Serve una rivoluzione culturale: tornare a educare alla vita di Carla Collicelli
Di bambini e di adole-scenti si parla prevalen-temente in occasione di fatti di cronaca nera, come sta accadendo per il terribile caso di Sara, al centro delle cronache, anche televisive, negli ultimi giorni. Come se una società, che sta rapidamente invecchiando e che si occupa molto di anziani, trovasse normale derubricare dal proprio campo di attenzione l’età minorile nella sua normalità – relegandola in una sorta di invisibilità sociale – e si risvegliasse solo di fronte a eventi gravissimi. In particolare, non si considerano con la dovuta attenzione l’importanza della relazione educativa tra adulti e bambini, e i rischi del suo venir meno. Nel caso di Sara, ad esempio, siamo ancora una volta di fronte a una violenza perpetrata nell’ambito familiare, e al triste intreccio tra violenza e pulsioni sessuali di adulti nei confronti di adolescenti. Il che potrebbe sembrare quasi un paradosso in una situazione in cui, tra le tante trasformazioni in atto, si considera positivamente quella sorta di evoluzione della consapevolezza della famiglia, divenuta sempre più soggetto affettuoso, attento alla qualità della vita, al dialogo, alla comprensione reciproca.
In effetti, accurate ricerche, anche del Censis, ci rimandano un quadro della famiglia italiana come soggetto forte e attivo nella cura dei più deboli, compresi i minori. Un quadro che non fa quasi mai notizia. Mentre gli episodi che assurgono all’onore della cronaca, rimandano a un’evidente fragilità educativa e relazionale, presente in una categoria minoritaria di famiglie. In questi casi si riscontra quasi sempre una relazione intergenerazionale che tende a banalizzarsi, e una riduzione ai minimi termini, se non addirittura un totale annullamento, dello scambio valoriale tra i membri familiari delle diverse generazioni. Il che si sposa con la eliminazione dai vissuti familiari della dimensione etica, con la spinta a costruirsi un’identità fuori di casa o davanti allo schermo del televisore o del computer, e anche – nei casi più gravi – con la ricerca di esperienze estreme di abuso, prevaricazione e violenza.
Più in generale le analisi sulla funzione educativa nella famiglia e nella società rimandano a una crisi di senso delle funzioni dell’apprendere e dell’insegnare, tenuta in vita ormai da poche e minoritarie agenzie educative extrascolastiche, come lo scautismo e – soprattutto al Centro-Nord – l’attività degli oratori. Cresce il deficit formativo non tanto nelle fattispecie formali, quali i titoli di studio o le competenze professionali, di cui pure molto si parla, quanto nelle capacità di affrontare la vita con scelte responsabili, di compiere delle scelte e anche di difendersi dal male altrui.
Il rafforzamento degli specialismi e delle tecnicalità nel modo di affrontare i problemi delle giovani generazioni, e la perdita di competenza nelle relazioni educative familiari, sono due facce di una stessa medaglia, quella di un mondo che rischia di far crescere "le passioni tristi", al posto di quelle di impegno positivo e di sano affetto familiare. Il compito è allora quello di ripensare il ruolo educativo, rilanciando lo scambio tra generazioni sul piano della condivisione dei valori più profondi e degli obiettivi civili, politici, sociali, lavorando per la costruzione di un contesto educativo più largo attorno alle tradizionali agenzie di socializzazione ed istruzione e sostenendo la famiglia nel suo ruolo educativo.
Avvenire.it, 13 ottobre 2010- I GESTI DELLA FEDE - «Il Rosario, scrigno che ci apre a Cristo» di Giacomo Gambassi
Cita il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin che in una sua lettera scriveva: «Nel Rosario tutta la nostra vita si cristianizza attraverso lo sviluppo dell’Ave Maria». «Ecco, proprio questa forma di preghiera che definirei unica ci dà modo di assimilare ciò che Cristo ha vissuto e quanto la Chiesa proclama e celebra», spiega il monfortano padre Stefano De Fiores, docente alla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum» e presidente dell’Associazione mariologica interdisciplinare italiana.
Da secoli il mese di ottobre ha al centro il Rosario. Una tradizione con radici precise. «Richiama la battaglia di Lepanto dell’ottobre 1571 in cui si sono affrontate le flotte dell’Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa – afferma De Fiores –. La vittoria è stata attribuita alla Madonna del Rosario da san Pio V il quale, ancora prima di avere informazioni precise, aveva dato la lieta novella sottolineando che era stato fermato un pericolo per l’Europa. Da qui la volontà di dedicare questo mese alla valorizzazione del Rosario».
Una preghiera che il mariologo definisce una «pratica senza eguali fra gli esercizi di pietà e le espressioni di devozione che caratterizzano l’Occidente cristiano». Giovanni Paolo II, all’inizio del suo pontificato, nel 1978, l’aveva chiamata «la mia preghiera prediletta». E De Fiores ricorda che papa Wojtyla vedeva nel Rosario «una contemplazione dei misteri di Cristo con il cuore della Madre». «Grazie allo sguardo di Maria – aggiunge il docente – troviamo come in uno scrigno prezioso la vita di Cristo in tutte le sue valenze. Basti pensare alla quadriforme espressione dei misteri: gaudiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi. Quindi si tratta di continuare nella Chiesa quella contemplazione di Gesù iniziata dalla Vergine».
Fulcro è l’Ave Maria recitata dieci volte in ogni mistero. «La ripetizione appartiene alle religioni. Non abbiamo altri modi di interiorizzare ciò in cui crediamo se non seguendo questa strada. La mentalità razionalista ritiene che sia sufficiente presentare un concetto appena una volta per comprenderlo. Invece le verità di fede vanno fatte proprie e ripensate. In effetti serve una ruminatio».
E con le dita che sfiorano i grani della corona il Rosario diventa preghiera tattile. «Il corpo non può essere assente – chiarisce il mariologo –. Direi che più le mani si muovono, più si è portati a meditare. Oggi si parla giustamente di una spiritualità del corpo: il corpo aiuta l’anima a elevarsi. E la corona consente che ci sia una partecipazione integrale nella preghiera».
Ma il Rosario non è una pratica a sé. Del resto Paolo VI lo definiva un «supporto» alla liturgia. «Per questo – aggiunge De Fiores – è bene che il Rosario sia collegato alla liturgia. Così i tempi liturgici possono influire sulla scelta dei misteri. Perché, ad esempio, il 6 gennaio non accennare all’Epifania di Cristo proprio nei misteri? E questa armonizzazione con la liturgia è stata ben mostrata dal magistero pontificio in cui il Rosario è ritenuto un efficace compendio del Vangelo».
Da qui il richiamo a uno "stile" che la preghiera mariana può assumere. «Per essere toccati dalla sua bellezza servono pause di silenzio, un bel canto del Gloria a lode della Trinità e soprattutto la proclamazione della Parola. Infatti si tratta di una preghiera eminentemente biblica, come ha evidenziato Benedetto XVI. Va quindi favorito il legame fra la Scrittura e il Rosario che non fa altro che meditare il Verbo attraverso il mistero dell’incarnazione, autentico perno di questa preghiera».
Comunque alcuni accorgimenti possono essere utili.
«Per avvicinare i giovani è possibile animate le "poste" (o decine) del Rosario secondo i linguaggi dei ragazzi e renderle vive con l’aggancio all’attualità. Oppure si può ricorrere a proiezioni di immagini artistiche che faranno del Rosario anche un mezzo di catechesi in quanto un’icona parla e spiega». Poi ci sono le intenzioni. «Due le ha esplicitate Giovanni Paolo II: la pace e la famiglia. Certo possono essere ampliate ai molteplici ambiti della vita. E, quando nella seconda parte dell’Ave Maria diciamo "Santa Maria…", entriamo in una dimensione di intercessione con la quale ci affidiamo alla Madre di Dio».