martedì 12 ottobre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Editoriale - Il potere e la fede dei semplici Luca Doninelli - martedì 12 ottobre 2010 - ilsussidiario.net - All'apertura del Sinodo sul Medio Oriente, Benedetto XVI parla senza leggere discorsi preparati…
2)    8 ottobre 2010 - Guerra santa a Medjugorje - L’apparizione che divide la chiesa. Schönborn ci crede ma Roma è prudente. L’indagine di Ruini di Paolo Rodari - http://www.ilfoglio.it
3)    Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa - Il profeta delle decrescita Serge Latouche pontifica in modo sbagliato sul Papa. In merito a «L’ode papale alla “buona” economia» di Serge Latouche. 08-10-2010 - di Giorgio Mion – dal sito http://www.vanthuanobservatory.org
4)    11/10/2010 - VATICANO - M. ORIENTE - Il Medio Oriente di Benedetto XVI di Samir Khalil Samir - Come il papa guarda al Sinodo, ai problemi della regione e alle Chiese? Ecco alcune annotazioni: la tradizione apostolica delle Chiese orientali, la loro diversità e unità col papa. Il suggerimento per gli ortodossi; l’importanza della missione e dell’annuncio di Cristo salvatore anche per i musulmani. L’enfasi sulla “terra” di israeliani, palestinesi, musulmani e la testimonianza cristiana su una “terra” che non è di questo mondo (AsiaNews).
5)    La fede dei semplici salva la Chiesa - postato da Angela Ambrogetti [11/10/2010] 17:42– dal sito http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/
6)    BENEDETTO XVI: “DIO CI HA ATTIRATO IN SE STESSO” - Meditazione nella prima Congregazione generale del Sinodo per il Medio Oriente
7)    S.E. Card. Carlo Caffarra - "Le dieci parole dell’alleanza". Piccola catechesi sui dieci comandamenti - Parrocchia S. Maria della Misericordia, 7 ottobre 2010
8)    Via i bambini dalla TV!? - October 11th, 2010 di Carlo Bellieni – dal sito http://carlobellieni.com/
9)    lunedì 11 ottobre 2010 - L’astrofisico Penrose, ex collega di Hawking: «il multiverso non ha superato Dio». – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com
10)                      IlGiornale - articolo di martedì 12 ottobre 2010 - L’inedito di Andrea Tornielli - Pio XII intervenne nel tentativo di salvare i tre carabinieri che il 25 luglio 1943 arrestarono Benito Mussolini…
11)                      Avvenire.it, 12 ottobre 2010 - Dal relativismo al benessere narciso - Per non piegarci all'impero e alla vana chiacchiera di Pierangelo Sequeri
12)                      L’anno di Leone XIII. L’enciclica "Diuturnum": non c’è autorità se non da Dio pubblicata da Massimo Introvigne il giorno martedì 12 ottobre 2010
13)                      Avvenire.it, 12 ottobre 2010 – INEDITI - Il samizdat di Simenon di Roberto Festorazzi


Editoriale - Il potere e la fede dei semplici Luca Doninelli - martedì 12 ottobre 2010 - ilsussidiario.net - All'apertura del Sinodo sul Medio Oriente, Benedetto XVI parla senza leggere discorsi preparati…


All'apertura del Sinodo sul Medio Oriente, Benedetto XVI parla senza leggere discorsi preparati.
Sarebbe facile esprimere le preoccupazioni "della Chiesa" come se la Chiesa fosse qualcosa di generico, una specie di organismo di vigilanza sulla spiritualità e (fino a qualche tempo fa) sulla buona morale del mondo. Mòniti contro la droga, contro le lotte fratricide, contro il terrorismo, contro la povertà e la fame, contro l'aborto sono cose che ci si aspettano dalla Chiesa, appartengono al suo ruolo.

Ma il Papa non ci vuole vendere questa immagine, nella quale in fondo (come in tutte le immagini, anche le peggiori) è facile accomodarsi, accettando una parte da recitare nel grande spettacolo del mondo - dove una parte per i preti ci sarà sempre. Il Papa ci parla dei mali che devastano il mondo e noi, con una smorfia interiore, ci rendiamo conto che sta parlando di cose concrete, difficilmente rubricabili sotto qualsiasi voce.

Ci parla dei "capitali anonimi", di quelle oscure concentrazioni di capitali che si muovono quasi per forza propria, e generano schiavitù e violenza fino al massacro senza che nessuno si debba sentire responsabile in prima persona. I capitali anonimi sono quelli che mandano avanti la politica mondiale, che presiedono al mercato delle armi (ma non solo), e si muovono secondo una logica propria, leggi proprie di fronte alle quali la volontà di un uomo non appare solo impotente, ma anche insensata.

A questi mostri Benedetto XVI aggiunge, oltre alla droga e alle ideologie terroristiche "che dicono di agire a nome di Dio", anche "il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica" dove valori come la castità o il matrimonio non contano più.

Cosa accomuna tutti questi flagelli? La risposta è, secondo me, un altro flagello: l'assenza dell'uomo sul fronte delle azioni. Questi mali sembrano agire da soli, indifferenti al consenso o al dissenso delle persone. La loro azione rende più torpido il nostro cuore, allenta le nostre difese, ci fa vivere come dentro un sogno pieno di giochi a premi, concorsi canori, interviste televisive, mentre nemmeno ci accorgiamo che ci stanno calpestando il cuore e l'intelligenza.

L'appello del Papa è un appello al cuore dell'uomo, che sempre si ridesta quando si trova di fronte non soltanto uno che parla del significato della vita, ma che lo rende presente portandolo, esattamente come ciascuno porta con sé le cose che ama veramente.

Nelle parole del Papa, infatti, non c'è solo un realistico allarme contro i poteri senza nome che insanguinano il mondo, ma la forza di una vittoria che in qualche modo è già presente. E il primo segno di questa vittoria sta nella sorpresa con cui lo ascoltiamo, nella capacità delle sue parole e della sua presenza umana di eludere le caselle nelle quali tutti (cristiani compresi) tenderebbero a rinchiudere le sue preoccupazioni.

Si capisce allora che il problema non è tanto quello di stracciarsi le vesti di fronte ai mali senza volto che affliggono l'uomo del nostro tempo, demoralizzandolo fino a ridurlo a uno stato di perenne torpore, ma di rispondere all'appello che il Papa ci fa. Si tratta di capire che la fede non è qualcosa che si aggiunge alla vita - un conforto, un sostegno psicologico o altro - ma una domanda radicale che chiede una decisione profonda: io, adesso, qui, voglio esistere o no?, voglio essere o no?, voglio finalmente capire chi sono io, o no?

A questo livello si pongono, davanti al complicatissimo rebus del Medio Oriente - metafora di tutti i problemi del mondo - le parole di Benedetto XVI.


8 ottobre 2010 - Guerra santa a Medjugorje - L’apparizione che divide la chiesa. Schönborn ci crede ma Roma è prudente. L’indagine di Ruini di Paolo Rodari - http://www.ilfoglio.it
L’ultima mossa del cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn è del 23 settembre scorso. Incurante delle richieste di prudenza più volte espresse dalla curia romana, Schönborn ha aperto le porte della monumentale Stephansdom, la cattedrale di Santo Stefano, a due dei sei veggenti di Medjugorje: Marija Pavlovic e Ivan Dragicevic. Davanti a centinaia di fedeli, i due hanno parlato delle apparizioni, dei messaggi che la Madonna affida loro da quasi trent’anni. Poi, sull’altare antistante la tomba in marmo rosso dell’imperatore Federico III, ha preso posto lo stesso cardinale arcivescovo che si è rivolto ai due medjugorjani con queste parole: “Grazie di essere qui in mezzo a noi. Grazie per il servizio che avete reso in tutti questi anni”.
Da quasi tre decenni la battaglia su Medjugorje è aperta dentro la chiesa cattolica. Da una parte la curia romana che resiste, scettica, a volte prevenuta, sempre e comunque prudente. Dall’altra diverse personalità ecclesiastiche e il popolo che in massa si riversa da ogni parte del mondo nel paesino dell’Erzegovina dove il 24 giugno del 1981 sei giovani dichiararono di aver avuto, sulla collina Crnica, nel luogo chiamato Podbrdo, un’apparizione. Videro una figura bianca con un bambino nelle braccia. “Abbiamo visto la Madonna”, dissero. Per tanti anni le apparizioni furono quotidiane. Dal 1987 la Madonna appare ogni 25 del mese e soltanto a Marija. Gli altri hanno apparizioni più sporadiche.

Roma chiede silenzio, prudenza, passi brevi e molto ponderati. Mentre diversi sacerdoti e vescovi, tra questi Schönborn, agiscono più d’istinto. Sentono che a Medjugorje, come fu a Fatima e Lourdes, il soprannaturale parla e si manifesta. L’arcivescovo di Vienna sa bene quanto i suoi interventi pro Medjugorje infastidiscano Roma. Ma sembra non curarsene, spinto probabilmente anche dal richiamo dell’Erzegovina che un tempo fu terra dell’Impero: un richiamo importante per un nobiluomo di ascendenza asburgica. La devozione popolare è alimentata anche dal combattivo padre Livio Fanzaga e dalla sua Radio Maria. Dalla comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante. E da tante parrocchie, molte italiane, che ai treni per Lourdes e ai voli per Fatima preferiscono i pullman per Medjugorje.
A Roma il partito degli anti visionari non è dell’ultima ora. Le resistenze interne è da tempo che giocano un ruolo importante. Dice il decano dei vaticanisti Benny Lai: “La curia gioca il suo ruolo di istituzione monolitica. Cerca sempre di resistere fino all’ultimo ai visionari, veri o presunti tali. Ancora oggi le guarigioni di Lourdes sono guardate con sospetto. Medjugorje, in particolare, non è mai stata presa in seria considerazione dall’apparato. Certo, Giovanni Paolo II aveva una posizione aperta su Medjugorje. Come ce l’aveva, ad esempio, su padre Pio da Pietrelcina. Ma un conto è l’idea personale di un Pontefice. Un altro è la voce ufficiale della chiesa. Una voce che non può tollerare i passi in avanti troppo affrettati di singoli vescovi o cardinali che siano”.
Fu lo scorso gennaio che Schönborn si recò in visita a Medjugorje, una televisione al proprio seguito. Da qui lanciò un messaggio a tutta la chiesa: “Bisogna chiudere gli occhi per dubitare che a Medjugorje scorrano fiumi di grazia”. Immediata fu la reazione del vescovo di Mostar (la diocesi in cui ricade Medjugorje), monsignor Ratko Peric. In una nota ufficiale si lamentò di non essere stato preventivamente informato da Schönborn del suo arrivo. Da Mostar i malumori arrivarono fino a Roma. Tanto che, lo scorso giugno, quando Benedetto XVI ricevette Schönborn dopo le accuse rivolte all’ex segretario di stato vaticano Angelo Sodano di aver insabbiato a suo tempo l’inchiesta sugli atti di pedofilia che avrebbe compiuto l’ex arcivescovo di Vienna Hans Hermann Groër, si dice che parlò con Schönborn anche di Medjugorje e dell’inopportunità della sua visita.

L’anti medjugorjanesimo romano ha radici profonde nella Congregazione per la dottrina della fede. Sul dossier Medjugorje ci sono, fin da quando lavoravano all’ex Sant’Uffizio, Tarcisio Bertone, oggi segretario di stato vaticano, e Angelo Amato, oggi prefetto dei Santi. Bertone è sempre stato un watchdog tignoso quanto ad apparizioni mariane. Su Fatima sostiene che nulla c’è da rivelare di quanto già non si sappia. E su Medjugorje? Nel 2005, quando era arcivescovo di Genova, andò a Porta a Porta e lì disse la sua. Scoppiò un pandemonio tra preti e fedeli. “Radio Maria, rivolta contro il cardinale”, titolò il Corriere della Sera. Cosa accadde? Bertone non negò il diritto a pregare la Vergine in quei luoghi, ma deplorò “gli eccessi di fanatismo, come i manifestini distribuiti in diverse chiese, nei quali si assicura anche la possibilità di assistere a un’apparizione della Madonna, a ora stabilita”. E ancora: “Dal 1981 a oggi Maria sarebbe apparsa decine di migliaia di volte a Medjugorje. Questo è un fenomeno non assimilabile ad altre apparizioni mariane”. Radio Maria reagì furente. In diretta padre Livio proruppe contro lo “scetticismo” del cardinale. Che rispose: “Sono reazioni scomposte e offensive di fedeli e sacerdoti che si definiscono ‘medjugorjani’”. E ancora: “Sono attacchi inaccettabili non certo compatibili con i fautori di un’autentica devozione mariana”. Quindi l’ordine rivolto dall’alto all’Opera romana pellegrinaggi di depennare dal catalogo le visite al più famoso santuario della ex Jugoslavia.

Benedetto XVI ha sempre ascoltato il giudizio del suo braccio destro fin dai tempi dell’ex Sant’Uffizio. Ratzinger scoprì Bertone nel 1988 e da allora in poi lo mise all’opera sulle questioni più intricate e scottanti: lo scisma di Marcel Lefebvre, la teologia della liberazione, i padri di famiglia ordinati preti nella Cecoslovacchia comunista, il terzo segreto di Fatima, lo scandalo dei preti pedofili negli Stati Uniti, il matrimonio dell’arcivescovo Emmanuel Milingo con una seguace della setta di Moon e, appunto, il dossier Medjugorje. Bertone e la Dottrina della fede hanno lavorato in simbiosi con la diocesi di Mostar. Qui il vescovo Pavao Zanic prima, e poi il suo successore Ratko Peric, hanno sempre avuto una posizione scettica. Fu l’11 ottobre 1984 che Zanic disse: “Dichiaro che è tutta una grande truffa, un inganno… non ci sono apparizioni della Madonna… Io credo che c’è il Demonio!”. Una posizione forte, alla quale seguì una nota del 1991 della Conferenza episcopale Jugoslava: “Sulla base delle ricerche finora compiute non è possibile dichiarare che si tratti di apparizioni e fenomeni soprannaturali”. Parole che per il partito degli anti medjugorjani sono la conferma che è tutto un bluff. Mentre per i medjugorjani no. Dicono: “La Conferenza episcopale jugoslava non dice che non vi sono apparizioni, ma solo che non sono ancora state confermate”. E’ stato Papa Ratzinger, la scorsa primavera, a riaprire tutto. Con un’azione a sorpresa ha istituito una Commissione internazionale d’inchiesta guidata dal cardinale Camillo Ruini. Da tempo c’è chi sostiene che Ruini sia scettico su Medjugorje e che dunque l’esito dell’inchiesta sia in qualche modo scontato. Ma è davvero così? Davvero Ruini affosserà Medjugorje, trent’anni di apparizioni e migliaia di conversioni comprese? In Vaticano si dicono due cose. Anzitutto che è stato Ruini a lasciare fuori dalla Commissione, composta da circa venti persone, l’attuale vescovo di Mostar, Ratko Peric. E ciò significa che per volere di Ruini ai lavori non partecipa la personalità ecclesiastica che più di altre è contraria al riconoscimento dell’autenticità delle apparizioni. In secondo luogo, si ritiene che oggi sia del tutto prematuro fare previsioni. I tempi dell’inchiesta sono lunghi, si parla addirittura di anni. Anche perché è difficile esprimersi in maniera definitiva mentre le apparizioni ancora hanno luogo. Una prima volta la Commissione si è riunita il 26 marzo scorso ma non ha fatto altro che dividere il da farsi secondo argomenti diversi. Tra questi, il capitolo “traduzioni”. Già, perché è dalle traduzioni dei messaggi della Madonna che dipende principalmente l’esito dei lavori guidati da Ruini. I veggenti hanno lasciato in questi anni migliaia di messaggi che, dicono, ha comunicato loro la Madonna. E oggi il problema principale è tornare indietro nel tempo e recuperare soltanto quelli autentici. Infatti, i messaggi, veicolati dai veggenti in lingua croata, hanno avuto centinaia di traduzioni in tutte le lingue del mondo. Le traduzioni si sono sovrapposte ai testi originali ed è difficile, soprattutto coi messaggi dei primi anni, distinguere tra gli originali e gli apocrifi. Nei primi anni Ottanta, ad esempio, vi fu uno scontro durissimo tra il vescovo di Mostar e i francescani che risiedono vicino alla parrocchia di Medjugorje. La curia voleva meno protagonismo da parte dei francescani che invece rivendicavano un ruolo importante rispetto alla parrocchia e ai veggenti. Secondo alcuni messaggi riportati dagli stessi veggenti la Madonna prese posizioni in questa disputa a favore dei francescani. “Non ubbidite a nessuno!”, disse il 15 aprile 1982 la Madonna secondo quanto ha riportato la veggente Vicka. E’ anche su queste dichiarazioni che Ruini deve lavorare.

Oltre ai messaggi c’è il problema dei segreti. Come a Fatima, anche Medjugorje ha nel suo bagaglio diversi segreti. Dieci, per l’esattezza. Oggi ancora non sono stati rivelati. Sono un macigno misterioso che pesa e fa paura alla chiesa, alla curia di Roma, alla Dottrina della fede. Anche perché si dice descrivano gli eventi che si verificheranno se l’umanità non riuscirà a ravvedersi. Sostengono i veggenti che con la realizzazione dei segreti la vita nel mondo cambierà: dopo la loro manifestazione, gli uomini crederanno come nei tempi antichi. Una veggente, Mirjana, ha dichiarato che dieci giorni prima della realizzazione di ogni segreto avviserà un sacerdote, il padre francescano Petar Ljubicié, incaricandolo di rivelarli. Egli dovrà digiunare per sette giorni e avrà il compito di rivelarli tre giorni prima della loro realizzazione. Poiché è arbitro della sua missione, potrebbe tenerli per sé, come fece Giovanni XXIII per il segreto di Fatima, la cui rivelazione era autorizzata per il 1960. Tuttavia, padre Petar è fermamente intenzionato a rivelarli: è stato interrogato in proposito anche da Antonio Socci nel 2004 e ha confermato che lo farà “senz’altro”. E se si tiene conto che padre Petar ha già sessant’anni, i tempi delle rivelazione non possono essere lontani.
E Benedetto XVI? Nella battaglia tra favorevoli e contrari egli sembra stare nel mezzo. Se Giovanni Paolo II era difatti convinto della verità di queste apparizioni, Ratzinger sembra voler restare un passo indietro. Nel 2000, quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio, scrisse un “Commento teologico” circa le apparizioni mariane. C’è rivelazione e rivelazione, spiegò, nel solco di quanto già scrisse nel Settecento il dotto cardinale Prospero Lambertini, poi Papa col nome di Benedetto XIV. Un conto è la rivelazione che si è espressa definitivamente in Gesù, che esige dal cristiano un pieno assenso di fede cattolica. Un conto sono le rivelazioni “private”: meritevoli queste “di un assentimento di fede umana conforme alle regole della prudenza, che ce le presenta come probabili e piamente credibili”. Queste rivelazioni sono un “aiuto che è offerto per comprendere e vivere meglio il Vangelo, ma del quale non è obbligatorio fare uso”.
Non è scorretto pensare che ancora oggi il Papa si mantenga al livello di quanto espresso nel dotto commento teologico. Ma dice Antonio Socci: “Incontrai Ratzinger a Belluno poco prima dell’elezione al soglio di Pietro e gli chiesi di Medjugorje. Non si sbilanciò molto ma mi chiese cosa avessi visto io a Medjugorje. Gli raccontai del fiume di gente convertita… Mi disse: ‘Ovviamente questo aspetto è decisivo. Perché la chiesa non può chiudere la porta dove la gente ritrova la fede’”.
Ratzinger pare non sia mai andato a Medjugorje. Così Karol Wojtyla. Ma sono tantissimi i vescovi e i cardinali che, spesso in incognito, sono andati a vedere. Molti hanno aspettato di diventare “emeriti”, di non avere più incarichi importanti, per raggiungere, sempre in viaggi segreti, l’Erzegovina. Così fece, prima di morire il cardinale Corrado Ursi. Vescovo di nomina pacelliana, esponente di spicco di quel rinnovamento liturgico che nel post Concilio tanto ha fatto parlare di sé, per andare a Medjugorje affrontò un viaggio di 1.500 chilometri in macchina. Aveva 94 anni. Arrivando disse: “Quanta gioia e grazia per essere presenti qui”.

Recentemente è stata la volta del cardinale Bernardino Echeverría Ruiz, arcivescovo emerito di Guayaquil (Ecuador). A Medjugorje ha detto: “I messaggi della Madonna sono totalmente biblici”. Poco prima di morire arrivò a Medjugorje il cardinale arcivescovo di Praga Frantisek Tomasek, noto in tutto il mondo soprattutto per l’epica opposizione al comunismo nell’ex Cecoslovacchia. Disse: “Ritengo che dobbiamo anche agli eventi di Medjugorje una parte della nostra grande primavera spirituale, che Dio ci ha donato per mezzo di Maria. La preghiera e il digiuno, la fede e la conversione e l’invito alla pace possono venire solo da Dio. Per dirla semplicemente, sento parlare molto di Medjugorje, ma vorrei sentirne parlare di più”. Indimenticato, infine, è rimasto tra i medjugorjani l’affondo di uno dei più profondi teologi della nostra epoca: Hans Urs Von Balthasar. Fondatore della rivista Communio, amico e maestro di Joseph Ratzinger – morì poco prima di ricevere da Giovanni Paolo II la berretta cardinalizia per meriti “alla carriera”  –, intervenne su Medjugorje dopo che il vescovo di Mostar, Zanic, risentito coi francescani residenti vicino alla parrocchia, aveva attaccato Medjugorje con queste parole: “Una vicenda in cui compaiono frati ribelli e sospesi a divinis, segreti e vite della Vergine mai rivelati, personaggi che si ritengono inviati dalla provvidenza, guarigioni mai verificate e gente che si rovina la vista guardando il sole”. Von Balthasar prese carta e penna e scrisse a Zanic queste lapidarie parole: “Monsignore! Come è possibile che lei abbia mandato un tanto triste documento in tutto il mondo! Mi sono sentito profondamente colpito vedendo la funzione episcopale tanto degradata. Invece di avere pazienza, come le era stato raccomandato da più persone, lei tuona e scaglia saette a scapito di persone note e innocenti, degne del suo rispetto e della sua tutela. Ripete delle accuse che sono state confutate cento volte”. Von Balthasar accusa Zanic di non avere auto pazienza. La stessa accusa che oggi da Roma viene fatta a vescovi e cardinali troppo frettolosi di mostrarsi medjugorjani. A Ruini il compito di arbitrare tra le due correnti contendenti. Con molta pazienza.
© - FOGLIO QUOTIDIANO


Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa - Il profeta delle decrescita Serge Latouche pontifica in modo sbagliato sul Papa. In merito a «L’ode papale alla “buona” economia» di Serge Latouche. 08-10-2010 - di Giorgio Mion – dal sito http://www.vanthuanobservatory.org

In merito a «L’ode papale alla “buona” economia» di Serge Latouche
(“Le monde diplomatique – Il Manifesto”, settembre 2010)

«Paolo VI aveva una visione articolata dello sviluppo. Con il termine “sviluppo” voleva indicare l’obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace» (Caritas i veritate n. 21).
Basterebbe leggere, anche con fugace attenzione, questo passaggio della Caritas in Veritate per comprendere come l’analisi che dell’Enciclica compie Serge Latouche sul numero di settembre di “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana pubblicata con “Il Manifesto”) – sia parziale, preconcetta e profondamente errata.
Il “profeta della decrescita” pontifica su un presunto sodalizio tra il pensiero ed il magistero della Chiesa – di Benedetto XVI, in particolare – e la peggiore economia di mercato: Latouche legge nella Caritas in Veritate (e perfino nella Populorum Progressio) un bieco liberismo, che sostiene la crescita ad ogni costo, che misura l’uomo sulla base di indicatori esclusivamente (o prevalentemente) economicistici, che – in definitiva – si dimentica delle reali domande dei miliardi di uomini e donne che soffrono la fame e la povertà. Neanche a dirlo, la soluzione di Latouche è sempre quella: se non si riesce a risollevare queste popolazioni, meglio che decresca tutto il pianeta!
L’errore di Latouche è proteiforme e, forse, non scevro di preconcetti laicisti; proviamo a riassumere alcune evidenti “facce” di questa interpretazione – palesemente errata – del pensiero economico presente nella Caritas in Veritate:
sviluppo e crescita non sono sinonimi, come pare intendere Latouche, che ha provveduto diligentemente a contare quante volte la prima parola è presente nel testo papale (258 volte), dimenticandosi di dire che la seconda solo 12 volte (di cui solo due nella sua accezione economica). Il significato – etimologico, sociale ed economico – dei due termini è profondamente differente: la crescita presuppone un mero aumento di un certo fenomeno o, meglio, di alcune dimensioni misurabili di tale fenomeno, lo sviluppo impone un miglioramento qualitativo di una certa situazione. Infatti, “sviluppo” significa, propriamente, “sciogliere dal viluppo, dai legami”, cioè da un qualche impedimento. La preoccupazione costante del Magistero ecclesiale – confermato dalla Caritas in Veritate – è togliere l’uomo da ogni “viluppo” concreto che impedisca ad esso di compiersi perfettamente ed interamente, esaltando il proprio anelito trascendente. Benedetto XVI constata che oggi molte situazioni che impediscono all’uomo il proprio pieno sviluppo permangono e si acuiscono: non solo la fame, la povertà, la mancanza di istruzione, ma anche il mancato riconoscimento della libertà religiosa, lo scarso rispetto per la vita, la debole difesa dei diritti dei lavoratori. Questi problemi pongono l’esigenza di «soluzioni nuove» da ricercare «… insieme, nel rispetto delle leggi proprie di ogni realtà e alla luce di una visione integrale dell’uomo, che rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità» (CV n. 32): lungi, dunque, da generiche e non meglio chiarite “benedizioni” all’economia “nonostante tutto”, il Papa richiama l’attenzione sulla necessità di ricentrare ogni analisi – economica, sociale e politica – sull’uomo e sulla sua poliedrica interezza.
A Latouche manca completamente la comprensione della visione antropologica cristiana: le citazioni che fa sono esclusivamente legate ad una dimensione economica della Dottrina Sociale della Chiesa, che non può essere decontestualizzata dall’alveo naturale. La Costituzione Pastorale Gaudium et Spes chiaramente si esprime su questo: «È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione» (GS n. 3): non è possibile effettuare un’esegesi dell’Enciclica di Benedetto XVI se non collocandola nel panorama concettuale – oltreché pastorale! – in cui si colloca.
Latouche invita, poi, la Chiesa ad occuparsi del bene comune, dimenticandosi come esso sia uno dei principi fondamentali della Dottrina Sociale: ancora una volta, decontestualizzare un pensiero dalla sua linea costituisce un errore logico e metodologico, che non permette di cogliere né il significato profondo di quel pensiero, né la sua direzione.
Nell’ambito strettamente economico, il riferimento alla gratuità ed alla fraternità, così ben chiaro nella Caritas in Veritate, costituisce una rivoluzione profonda se collocato nelle logiche di politica economica seguite fino ad oggi: si tratta di categorie logiche profondamente umane eppure del tutto tralasciate in passato dal pensiero economico. Benedetto XVI richiama fortemente l’uomo a se stesso, non escludendo la dimensione del dono – che gli è necessaria – nelle sue scelte economiche e politiche. Si sottolinea che questa è una vera “voce nuova”, che può contribuire a risolvere situazioni indegne di povertà e fame, che può contribuire allo sviluppo sociale ed umano e, soprattutto, che richiama al centro dell’azione la persona; diversamente, la logica della decrescita proposta da Latouche – che fa riferimento ancora ed esclusivamente a categorie meramente economiche, dimenticandosi dell’uomo in quanto tale – è cosa vecchia e del tutto inapplicabile.
Latouche dice, poi, che sta scomparendo l’economia mutualistica, eppure poi non capisce il riferimento – da Lui stesso citato – alla «pluralità delle forme istituzionali d’impresa»: altra grande rivoluzione compiuta da Benedetto XIV, che sostiene come gli archetipi dell’impresa orientata al lucro non siano più sostenibili o, almeno, non siano più da considerarsi univoci, perché c’è spazio per l’attività economica finalizzata “all’uomo”, si chiami essa “non profit”, “cooperazione”, “mutualità”, ecc.
Latouche – che non si dimostra un grande conoscitore di cose di Chiesa – confonde il Magistero ecclesiale con l’azione – santa ed illuminata – di alcuni membri della Chiesa e cerca, citando questi ultimi, l’incrinatura interna che non c’è: ciò perché si dimentica che il denominatore comune è il Vangelo, al cui annuncio la Chiesa offre tutte le sue energie, mediante strumenti che hanno valore e significato diversi. La Chiesa pone al centro della propria azione il pensiero che «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (CV n. 78) ed in questa direzione agisce coerentemente, lasciando ad ognuno il proprio ambito di competenza. E in questo senso, è al Papa che spetta parlare in senso universale.
«La verità […] è “lògos” che crea “dia-lògos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanziosa delle cose» (CV n. 4). Speriamo che in futuro, anche un “profeta” del calibro di Latouche si ricordi di leggere tutta un’Enciclica prima di commentarla e sia in grado, amando la verità, di andare al di là dei propri preconcetti.


11/10/2010 - VATICANO - M. ORIENTE - Il Medio Oriente di Benedetto XVI di Samir Khalil Samir - Come il papa guarda al Sinodo, ai problemi della regione e alle Chiese? Ecco alcune annotazioni: la tradizione apostolica delle Chiese orientali, la loro diversità e unità col papa. Il suggerimento per gli ortodossi; l’importanza della missione e dell’annuncio di Cristo salvatore anche per i musulmani. L’enfasi sulla “terra” di israeliani, palestinesi, musulmani e la testimonianza cristiana su una “terra” che non è di questo mondo (AsiaNews).

Città del Vaticano (AsiaNews) – All’inizio del Sinodo delle Chiese del Medio oriente è molto importante analizzare il discorso che Benedetto XVI ha tenuto ieri durante la solenne liturgia in san Pietro. Alcune sue sottolineature sono fondamentali per comprendere la situazione sociale e ecclesiale della regione.

Chiese apostoliche

Il papa anzitutto accenna al fatto che il Medio Oriente ha visto “sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, la continuità della presenza dei cristiani”.
Il pontefice vuole sottolineare l’apostolicità delle chiese del Medio Oriente e il fatto che sono Chiese vive. Chiesa d’Antiochia, laddove i cristiani per la prima volto ricevono dagli altri questo nome (Atti  11,26). Chiesa di Gerusalemme, che ha vissuto il fatto storico Gesù e ha conosciuto gli Apostoli. Chiesa d’Alessandria, dove San Marco l’Evangelista è stato martirizzato. Non sono Chiese che hanno ricevuto la fede da missionari venuti da Roma, ma dagli apostoli stessi, e sono dunque testimoni del messaggio originale. Questo, per le nostre Chiese, è una forza spirituale importante. Se spariscono, sarebbe una perdita per l’insieme dei cristiani.

Pluralismo culturale e religioso: ricchezza ma anche particolarismo

Continua il papa: “In quelle terre, l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari”.
Poi parla della varietà di tradizioni. Questa varietà va sottolineata: in Oriente abbiamo addirittura sette Patriarchi e sette tradizioni liturgiche, culturali, spirituali, disciplinari, e aggiungerei teologiche. Dogmaticamente c’è unità, teologicamente c’è una grande varietà, che ne fanno la ricchezza. In esegesi per esempio, con le due grande scuole d’interpretazione: quella di Alessandria, più allegorica e mistica, con Origene già alla fine del secondo secolo; e quella di Antiochia, più grammaticale e letterale.

Anche le posizioni teologiche sono sin dall’inizio multiple. La varietà liturgica è ben nota; quella spirituale raramente si approfondisce; le varietà culturali denotano una grande ricchezza, di lingue e di tradizioni. E’ la diversità culturale dell’Oriente che ha creato un’immensa ricchezza ma anche conflitti politici e teologici.

In Occidente invece c’era solo Roma, come città di profonda cultura. Le altre non avevano peso, né politico, né culturale. Invece in Oriente, anche ben prima del cristianesimo, c’erano centri importantissimi: Alessandria, Edessa, Gerusalemme, Antiochia.

Questa varietà viene dalla struttura storica dell’Oriente. E le conseguenze si sentono fino ad oggi. In Occidente l’unificazione (e forse l’omogeneità) andava da sé, da noi invece è il contrario. Ogni Chiesa è fiera del suo passato anche precristiano, sanno tutte di essere erede di civiltà prestigiose!
Questa varietà è una grande ricchezza, ma talvolta fa scivolare le Chiese nel particolarismo, oppure nel nazionalismo e nelle divisioni interne che indeboliscono.

Il papato e l’unità della Chiesa

Ed è anche il problema del Papato, che sarà sollevato, lo so, da alcuni vescovi. Alcuni sentono che Roma interviene troppo nei loro affari, senza necessità, semplicemente per abitudine di centralismo, oppure talvolta per convinzione che la pratica romana è superiore a quella nostra. Altri sottolineano che ci vuole una sola testa, soprattutto in caso di conflitti, che permette di risolvere i problemi. Tutti dicono pero’ : rispettate le nostre diversità, le nostre culture. In Oriente cattolico, per esempio, ci sono preti sposati e preti celibi, e tanti punti …

E questo è uno degli aspetti che il papa vuole affrontare. Se non c’è comunione, non c’è testimonianza. La nostra testimonianza viene dalla nostra comunione. Come dice il Vangelo: da questo sapranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni con gli altri (Giov. 13, 35).  Se ognuno sottolinea troppo la propria specificità si può arrivare alla divisione o alla dimenticanza degli altri per salvare la propria cultura. L’Oriente insiste sulla particolarità più che sull’unità : ci vuole un equilibrio.

Anche l’Occidente sta riscoprendo la particolarità: Germania, Francia, Spagna, rivendicano modi specifici di credere e di governare la Chiesa, per non parlare delle tradizioni africane e asiatiche.

Negli Stati Uniti vi sono tendenze particolaristiche riguardo alla relazione uomo-donna, che mettono molte cose in questione. L’anglicanesimo si è spaccato negli ultimi decenni perché le chiese africane hanno rifiutato le decisioni americane o inglesi su questo punto. Come mantenere l’unità della Chiesa, rispettando però la cultura di ognuno ?

Questo è un problema essenziale: esso riguarda lo scisma o l’unità, ed è su questo che le Chiese d’Oriente possono dare un contributo. Perché siamo orientali, con innumerevoli tradizioni, ma siamo cattolici, riconoscendo il principio di unità che è rappresentato dal vescovo di Roma.

Questo modello delle Chiese d’oriente potrebbe essere un suggerimento per il mondo dell’ortodossia. Se gli ortodossi vedono che la realtà cattolica è vissuta in modo ricco e positivo, allora potrebbero avvicinarsi all’unità. E viceversa : Un vescovo mi confidava ieri che se gli ortodossi vedono l’unità solo testimoniata in modo burocratico, non come rapporto fra i patriarchi e il papa, questo li allontanerebbe dall’unità.

I fedeli orientali emigrati in Occidente

Ad un certo punto del suo discorso, il papa parla dei fedeli della diaspora, e questo solleva un problema dentro la Chiesa cattolica, perché spesso i vescovi in Europa vogliono avere giurisdizione sui fedeli orientali emigrati. Per esempio c’è una regola che vieta l’esistenza di preti orientali sposati in occidente. Possono averli in Oriente, ma non nelle diocesi occidentali. Era stato deciso - si è detto - per non scandalizzare i fedeli. Ma tutto questo deve cambiare.

All’origine, i patriarcati erano geografici, ma ora il fatto dell’emigrazione sta sollevando diverse questioni. Ieri il papa ha parlato di “tutti i fedeli affidati alle loro (cioè dei Patriarchi) cure pastorali nei rispettivi Paesi e anche nella diaspora”. É un piccolo punto, ma fondamentale. É un problema che esiste anche con gli ortodossi, con la Chiesa di Mosca. Da chi dipendono gli ortodossi della diaspora? Una volta era il Patriarca ecumenico che aveva la responsabilità fuori, adesso vogliono restringere la sua responsabilità alla sola Turchia.

“La salvezza è universale, ma passa attraverso una mediazione determinata, storica”

Ad un certo punto Benedetto XVI commenta le letture della messa e racconta dei due malati di lebbra, ambedue non ebrei [Naaman il siro (2 Re 5,14-17); il samaritano (Luca, 17,11-19)], che guariscono perché credono alla parola dell’inviato di Dio, e li guarisce. Commenta: “Guariscono nel corpo, ma si aprono alla fede, e questa li guarisce nell’anima, cioè li salva”.
Il papa solleva il problema della conversione. Andando oltre egli afferma: “la salvezza è universale”, tutti sono chiamati dall’amore di Dio a esser salvati. Per noi cristiani questo ha un’importanza teologica essenziale nei confronti dei musulmani. Non è una razza, un popolo, che è salvato: Dio vuole la salvezza universale.

Ma dice che tale salvezza passa attraverso il giudaismo, e poi attraverso il cristianesimo. “La salvezza è universale, ma passa attraverso una mediazione determinata, storica”. E lo sottolinea usando la parola “porta”: “la porta della vita è aperta a tutti”. In pratica Benedetto XVI riafferma che la salvezza è solo in Cristo (2 Timoteo 2,10), e questo è un passaggio obbligato.

Nella teologia contemporanea vi è spesso opposizione. Qualcuno dice: la salvezza è universale, quindi non c’è bisogno di Cristo; altri dicono: fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.

In una visione semplice, partendo dai testi biblici, Ratzinger risolve questa opposizione: la salvezza è il Cristo, annunciato o preparato dall’Israele storico, e prolungato dall’Israele spirituale che è la Chiesa. Il ruolo della Chiesa è perciò indispensabile, anche se non assoluto.

Necessità della missione per ritrovare il senso della nostra fede

Tutto questo è importante per noi in Medio Oriente.  Dal punto di vista sociologico ci sentiamo nell’impossibilità di praticare la missione verso i musulmani, che sono la maggioranza del nostro popolo, di invitarli a scoprire il Vangelo e la salvezza assoluta che viene dal Vangelo, perché le leggi lo vietano.

Ho visto ieri il vescovo di Algeri che mi diceva di aver passato due ore con il ministro del Culto, su questa questione [leggi anti-proselitismo, che frenano la libertà di annunciare]. Al punto che alcuni vescovi e tanti missionari si rifiutano di battezzare musulmani che pure chiedono il battesimo da anni, per paura di far loro perdere elementi della loro cultura!
Dal punto di vista teologico il discorso del papa corregge quelle teologie (come alcune indiane e molte “teologie delle religioni” diffuse in Occidente) che predicano che non è necessario il passaggio per il Cristo. Un missionario mi diceva: il Concilio Vaticano II ha stabilito che tutti possono essere salvati nella loro religione; perché dunque battezzarle?

Le nostre Chiese in Oriente hanno perso il senso missionario concentrandosi sulla sopravvivenza. Ma la sopravvivenza di un corpo non avviene se sto solo a guardare il problema fisico: diviene un’asfissia. Ed è quanto succede alle nostre Chiese: siamo talmente interessati a salvare la nostra cultura, la nostra particolarità, la nostra sopravvivenza, che alla fine ci occupiamo di piccolezze, invece di vedere la nostra missione mondiale.

Anche in Europa stiamo morendo perché tutta l’epoca missionaria, quella in cui dall’Italia e dalla Francia andavano dappertutto, non c’è più. Oggi siamo talmente preoccupati di noi stessi e dei nostri problemi che si perde il senso missionario. Dobbiamo ritrovare questo senso.  Anche ridurre la nostra missione a opere caritative, a impegno per lo sviluppo non è soddisfacente.

La terra

Proseguendo, Benedetto XVI parla di una salvezza legata alla terra: “Dio si rivela così come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (cfr Esodo 3,6), che vuole condurre il suo popolo alla ‘terra’ della libertà e della pace”. Ma – aggiunge – “questa ‘terra’ non è di questo mondo”.

Queste affermazioni sono importantissime per il Medio Oriente dove è diffusa tutta una teologia e una politica basata sulla “terra”: la questione di Gerusalemme, l’Israele di oggi (o quello dei sionisti, fino al Nilo e all’Eufrate), la Palestina… Tutta la problematica della terra è fondamentale. E ognuno la rivendica per sé. Gli ebrei rivendicano la Terra Santa in nome della promessa divina della “terra”; i musulmani la rivendicano perché fa parte del “Dâr al-Islâm”, la Casa dell’Islam. Ma il papa dice: è una terra non di questo mondo.

Eppure, Gerusalemme, per i cristiani - più che per chiunque altro - è la terra dove Gesù ha vissuto, ha predicato ed è morto. Ma la Chiesa cattolica non ha mai rivendicato, almeno nei tempi moderni, che essa sia una terra cristiana. Ha solo rivendicato la libertà di accesso, anche ai tempi delle crociate.

Invece gli ebrei nella loro maggioranza, dicono: No, questa terra non la lasceremo mai (e ci sono anche coloni che lottano militarmente per occuparla!). In verità va detto che vi sono pure ebrei che spiritualizzano il legame con la terra. I musulmani a loro volta dicono che ciò che è stato una volta musulmano, non si può più lasciare. I cristiani d’Oriente dovranno sempre sottolineare, che questa “terra” non è di questo mondo. É un nostro contributo alla pace e alla giustizia.

Il Medio Oriente, “terra” di tutti

Anche lo sguardo che Benedetto XVI ha sul Medio Oriente è speciale: “è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, dove ha vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo”.

Questa enumerazione in cinque elementi è meravigliosa! Il papa collega questa visione (“dall’alto”, secondo la prospettiva di Dio)
·         alla fede di Abramo (in cui possiamo vedere anche l’inserimento dei musulmani, per i quali Abramo è padre nelle fede, e più largamente a tutti quelli che cercano Dio in cuor loro!);
·         all’Israele storico: “la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti”; ma forse anche di tutti quelli che “ritornano dall’esilio” che sono oggigiorno innumerevoli;
·         al cristianesimo storico: “la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, dove ha vissuto, è morto ed è risorto” (da notare che la passione è sempre collegata alla risurrezione, senza la quale non ha senso);
·         infine per sottolineare “la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo”, cioè l’evangelizzazione. Ancora una volta, la missione della Chiesa è di nuovo sottolineata con questo “per”.
Non possiamo escludere nessuna dimensione dal Medio Oriente, ma non possiamo dimenticare che tutto questo è orientato alla missione. Questa meraviglia della rivelazione dell’amore di Dio in Cristo non posso tenerla per me: anche i musulmani hanno diritto a conoscere Gesù Cristo.

Conclusione : il disegno di Amore universale di Dio

Infine, un ultimo aspetto: guardare il Medio Oriente nella prospettiva di Dio significa che esiste “un disegno universale di salvezza nell’amore”. La salvezza nell’amore si esplica nella libertà e non può essere proselitismo. Tutto ha compimento in Gesù Cristo, figlio di questa terra. Dal suo cuore e dal suo spirito, la Chiesa è nata (allusione alla morte di Cristo sulla croce, col suo costato aperto e l’acqua e il sangue che scorre); essa è pellegrina in questo mondo, assume il suo ruolo universale salvifico: segno, e strumento, cioè sacramento di Cristo. La Chiesa che ha come missione la comunione e la testimonianza.

Il messaggio di salvezza è l’annuncio che Dio è amore. L’uomo, creato a immagine di Dio, ha come compito di riconoscere la natura vera di Dio, e di salvarsi vivendo l’amore e diffondendolo. La Chiesa è segno e strumento solo se vive la comunione d’amore.

“La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, ecco il motto di questo Sinodo, come l’ha sviluppato Benedetto XVI ieri nell’omelia.

“La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, ecco il motto di questo Sinodo, come l’ha sviluppato Benedetto XVI ieri nell’omelia.


La fede dei semplici salva la Chiesa - postato da Angela Ambrogetti [11/10/2010] 17:42– dal sito http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/

La fede dei semplici salva la Chiesa dalle correnti che vogliono far scomparire la fede.
Benedetto XVI ha aperto la prima giornata dei lavori del Sinodo per il Medio Oriente con una meditazione sui salmi della Liturgia delle ore di lunedì 11 ottobre con un ricordo del Concilio Vaticano II. Era l' 11 ottobre del 1962 quando papa Giovanni affidò i lavori della Assise alla Madre di Dio. "Titolo audace" ha detto il papa, ma che ci fa campire come Dio sia uscito da sé e come ci abbia attirato a se stesso.
E così Paolo VI concluse il Concilio affidandosi alla Madre della Chiesa, infondo una unica icona. Dalla "Chiesa credente, con Maria nel centro, nasce la Chiesa, il Corpo di Cristo, ha detto il papa. Questa duplice nascita è l' unica nascita del Christus Totus, del Cristo che abbraccia il mondo e noi tutti." Un processo che passa per la Croce, per il martirio. Tra la nascita e la Pentecoste c'è la passione e la resurrezione. Ecco allora, per il papa la chiave anche per affrontare oggi, come sempre nella storia, la trasformazione del mondo, la caduta dei falsi dei, degli idoli che, come il drago della Apocalisse, cercano di distruggere la Chiesa, la Donna e suo Figlio. " Il processo di trasformazione del mondo costa la sofferenza dei testimoni di Cristo." La caduta degli dei.
"Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano l'uomo, che non sono più cosa dell'uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche. Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via."
E il papa presenta una risposta proprio con la immagine "misteriosa"dell'Apocalisse: il dragone che "mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l'unica razionalità, come l'unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio. Perciò il Salmo dice - il primo salmo dell'Ora Media - la fede dei semplici è la vera saggezza. Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano."
E il papa aggiunge anche una riflessione sulla difesa del creato di rara profondità.
"E c'è anche un'ultima parola nel Salmo 81, "movebuntur omnia fundamenta terrae", vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza."
Benedetto apre il Sinodo e vola alto. Molto più di alcuni padri sinodali che, purtroppo, più che di fede parlano di politica.


BENEDETTO XVI: “DIO CI HA ATTIRATO IN SE STESSO” - Meditazione nella prima Congregazione generale del Sinodo per il Medio Oriente

ROMA lunedì, 11 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione che il Benedetto XVI ha tenuto questo lunedì nell’Aula del Sinodo, nel corso della prima Congregazione generale dell’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, dopo la lectio brevis dell’Ora Terza.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
l'11 ottobre 1962, trentotto anni fa, Papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Si celebrava allora l'11 ottobre la festa della Maternità divina di Maria, e, con questo gesto, con questa data, Papa Giovanni voleva affidare tutto il Concilio alle mani materne, al cuore materno della Madonna. Anche noi cominciamo l'11 ottobre, anche noi vogliamo affidare questo Sinodo, con tutti i problemi, con tutte le sfide, con tutte le speranze, al cuore materno della Madonna, della Madre di Dio.
Pio XI, nel 1930, aveva introdotto questa festa, milleseicento anni dopo il Concilio di Efeso, il quale aveva legittimato, per Maria, il titolo Theotókos, Dei Genitrix. In questa grande parola Dei Genitrix, Theotókos, il Concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione. E così vale la pena riflettere un po', un momento, su ciò di cui parla il Concilio di Efeso, ciò di cui parla questo giorno.
In realtà, Theotókos è un titolo audace. Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell'Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo, siamo tutti creature? Perciò si capisce che c'era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di Christotókos, sì, ma di Theotókos no: Theós, Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia. Ma il Concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l'avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito talmente, così radicalmente con quest'uomo, Gesù, che quest'uomo Gesù è Dio, e se parliamo di Lui, possiamo sempre anche parlare di Dio. Non è nato solo un uomo che aveva a che fare con Dio, ma in Lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario: Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell'intimo, nell'intimità di Dio stesso.
La filosofia aristotelica, lo sappiamo bene, ci dice che tra Dio e l'uomo esiste solo una relazione non reciproca. L'uomo si riferisce a Dio, ma Dio, l'Eterno, è in sé, non cambia: non può avere oggi questa e domani un'altra relazione. Sta in sé, non ha relazione ad extra. È una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare: quindi Dio stesso non ha relazione con me. Con l'incarnazione, con l’avvenimento della Theotókos, questo è cambiato radicalmente, perché Dio ci ha attirato in se stesso e Dio in se stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo nell'interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi. In quel momento Dio voleva essere nato da una donna ed essere sempre se stesso: questo è il grande avvenimento. E così possiamo capire la profondità dell’atto di Papa Giovanni, che affidò l’Assise conciliare, sinodale, al mistero centrale, alla Madre di Dio che è attirata dal Signore in Lui stesso, e così noi tutti con Lei.
Il Concilio ha cominciato con l'icona della Theotókos. Alla fine Papa Paolo VI riconosce alla stessa Madonna il titolo Mater Ecclesiae. E queste due icone, che iniziano e concludono il Concilio, sono intrinsecamente collegate, sono, alla fine, un’icona sola. Perché Cristo non è nato come un individuo tra altri. È nato per crearsi un corpo: è nato — come dice Giovanni al capitolo 12 del suo Vangelo — per attirare tutti a sé e in sé. È nato — come dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini — per ricapitolare tutto il mondo, è nato come primogenito di molti fratelli, è nato per riunire il cosmo in sé, cosicché Lui è il Capo di un grande Corpo. Dove nasce Cristo, inizia il movimento della ricapitolazione, inizia il momento della chiamata, della costruzione del suo Corpo, della santa Chiesa. La Madre di Theós, la Madre di Dio, è Madre della Chiesa, perché Madre di Colui che è venuto per riunirci tutti nel suo Corpo risorto.
San Luca ci fa capire questo nel parallelismo tra il primo capitolo del suo Vangelo e il primo capitolo degli Atti degli Apostoli, che ripetono su due livelli lo stesso mistero. Nel primo capitolo del Vangelo lo Spirito Santo viene su Maria e così partorisce e ci dona il Figlio di Dio. Nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli Maria è al centro dei discepoli di Gesù che pregano tutti insieme, implorando la nube dello Spirito Santo. E così dalla Chiesa credente, con Maria nel centro, nasce la Chiesa, il Corpo di Cristo. Questa duplice nascita è l’unica nascita del Christus totus, del Cristo che abbraccia il mondo e noi tutti.
Nascita a Betlemme, nascita nel Cenacolo. Nascita di Gesù Bambino, nascita del Corpo di Cristo, della Chiesa. Sono due avvenimenti o un unico avvenimento. Ma tra i due stanno realmente la Croce e la Risurrezione. E solo tramite la Croce avviene il cammino verso la totalità del Cristo, verso il suo Corpo risorto, verso l'universalizzazione del suo essere nell'unità della Chiesa. E così, tenendo presente che solo dal grano caduto in terra nasce poi il grande raccolto, dal Signore trafitto sulla Croce viene l'universalità dei suoi discepoli riuniti in questo suo Corpo, morto e risorto.
Tenendo conto di questo nesso tra Theotókos e Mater Ecclesiae, il nostro sguardo va verso l'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse, dove, nel capitolo 12, appare proprio questa sintesi. La donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo e la luna sotto i piedi, partorisce. E partorisce con un grido di dolore, partorisce con grande dolore. Qui il mistero mariano è il mistero di Betlemme allargato al mistero cosmico. Cristo nasce sempre di nuovo in tutte le generazioni e così assume, raccoglie l'umanità in se stesso. E questa nascita cosmica si realizza nel grido della Croce, nel dolore della Passione. E a questo grido della Croce appartiene il sangue dei martiri.
Così, in questo momento, possiamo gettare uno sguardo sul secondo Salmo di questa Ora Media, il Salmo 81, dove si vede una parte di questo processo. Dio sta tra gli dei – ancora sono considerati in Israele come dei. In questo Salmo, in un concentramento grande, in una visione profetica, si vede il depotenziamento degli dei. Quelli che apparivano dei non sono dei e perdono il carattere divino, cadono a terra. Dii estis et moriemini sicut nomine (cfr al 81, 6-7): il depotenziamento, la caduta delle divinità.
Questo processo che si realizza nel lungo cammino della fede di Israele, e che qui è riassunto in un'unica visione, è un processo vero della storia della religione: la caduta degli dei. E così la trasformazione del mondo, la conoscenza del vero Dio, il depotenziamento delle forze che dominano la terra, è un processo di dolore. Nella storia di Israele vediamo come questo liberarsi dal politeismo, questo riconoscimento — «solo Lui è Dio» — si realizza in tanti dolori, cominciando dal cammino di Abramo, l'esilio, i Maccabei, fino a Cristo. E nella storia continua questo processo del depotenziamento, del quale parla l'Apocalisse al capitolo 12; parla della caduta degli angeli, che non sono angeli, non sono divinità sulla terra. E si realizza realmente, proprio nel tempo della Chiesa nascente, dove vediamo come col sangue dei martiri vengono depotenziate le divinità, cominciando dall'imperatore divino, da tutte queste divinità. È il sangue dei martiri, il dolore, il grido della Madre Chiesa che le fa cadere e trasforma così il mondo.
Questa caduta non è solo la conoscenza che esse non sono Dio; è il processo di trasformazione del mondo, che costa il sangue, costa la sofferenza dei testimoni di Cristo. E, se guardiamo bene, vediamo che questo processo non è mai finito. Si realizza nei diversi periodi della storia in modi sempre nuovi; anche oggi, in questo momento, in cui Cristo, l'unico Figlio di Dio, deve nascere per il mondo con la caduta degli dei, con il dolore, il martirio dei testimoni. Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano l'uomo, che non sono più cosa dell’uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche. Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via.
Queste ideologie che dominano, così che si impongono con forza, sono divinità. E nel dolore dei santi, nel dolore dei credenti, della Madre Chiesa della quale noi siamo parte, devono cadere queste divinità, deve realizzarsi quanto dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini: le dominazioni, i poteri cadono e diventano sudditi dell'unico Signore Gesù Cristo. Di questa lotta nella quale noi stiamo, di questo depotenziamento di dio, di questa caduta dei falsi dei, che cadono perché non sono divinità, ma poteri che distruggono il mondo, parla l'Apocalisse al capitolo 12, anche con un'immagine misteriosa, per la quale, mi pare, ci sono tuttavia diverse belle interpretazioni. Viene detto che il dragone mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l'unica razionalità, come l'unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio. Perciò il Salmo dice – il primo salmo dell’Ora Media – la fede dei semplici è la vera saggezza (cfr Sal 118,130). Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano.
E c'è anche un'ultima parola nel Salmo 81, "movebuntur omnia fundamenta terrae" (Sal 81,5), vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza.
E poi il Salmo dice: "Alzati, Signore, e giudica la terra" (Sal 81,8). Così diciamo anche noi al Signore: "Alzati in questo momento, prendi la terra tra le tue mani, proteggi la tua Chiesa, proteggi l'umanità, proteggi la terra". E affidiamoci di nuovo alla Madre di Dio, a Maria, e preghiamo: "Tu, la grande credente, tu che hai aperto la terra al cielo, aiutaci, apri anche oggi le porte, perché sia vincitrice la verità, la volontà di Dio, che è il vero bene, la vera salvezza del mondo". Amen
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


S.E. Card. Carlo Caffarra - "Le dieci parole dell’alleanza". Piccola catechesi sui dieci comandamenti - Parrocchia S. Maria della Misericordia, 7 ottobre 2010


1.      "Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto" [Es 7,16]. È con queste parole che Mosè inizia il suo "combattimento" contro il Faraone. Egli chiede in nome di Dio la libertà per poter rendere culto al Signore.

Esiste dunque una correlazione fra la liberazione dal giogo faraonico e il culto dovuto al Signore. L’una, per così dire, è condizione dell’altro.

C’è un aspetto o un particolare in questo inizio dello scontro Faraone-Mosè. Il Faraone cerca un compromesso, dopo il flagello delle piaghe. Concede, ma solo agli uomini; in seguito concede di partire anche alle donne e ai bambini, ma non di portare il proprio bestiame. Mosè però rifiuta ogni compromesso, perché è consapevole che il culto dovuto a Dio non è regolato dall’uomo, ma da Dio stesso. L’uomo non rende culto a Dio secondo le proprie regole e secondo le sue misure: è Dio che stabilisce come deve essere onorato. L’atto liturgico non è un atto di cui l’uomo possa disporre a piacimento.

Alla fine, sappiamo, il Faraone cede e, dopo tre mesi di peregrinazione nel deserto il popolo di Israele arriva al deserto del Sinai [Es 19,1], e Dio scende sulla vetta del monte e pronuncia le Dieci Parole [i dieci comandamenti] nel contesto della stipulazione di un patto, di un’alleanza fra Dio e il popolo, che stabilisce anche minuziose regole liturgiche.

Se riflettiamo attentamente noi vediamo in questo evento del Sinai la compresenza di tre grandezze o realtà: il culto, la regola fondamentale della vita espressa in dieci formulazioni, un ordinamento giuridico [cfr. per es. tutto il cap. 21]. Usando un vocabolario più vicino al nostro diremmo: nell’evento del Sinai sono compresenti liturgia, etica e diritto.

Questa compresenza è ricca di significato. Cerchiamo di capirla nelle sue linee essenziali.

Dio chiede di essere onorato non solo con e nell’atto liturgico, ma con e nella nostra vita. Egli pertanto proprio nel contesto liturgico istruisce l’uomo circa il modo giusto, retto di vivere una vita buona: l’uomo onora Dio con una vita santa. I profeti di Israele hanno con forza insuperabile condannato e combattuto l’idea che si possa onorare Dio coi soli sacrifici, permettendosi poi nella vita di ogni giorno di opprimere l’orfano e la vedova, di non rendere giustizia al povero. Anzi, nella coscienza di Israele, soprattutto dopo la distruzione del Tempio che aveva reso impossibile il culto, ed anche a causa del confronto che avviene soprattutto ad Alessandria, della comunità giudaica colla critica greca al culto, si fa strada la convinzione di un "culto razionale". Esso consiste in una vita vissuta secondo ragione. Non possiamo per ora approfondire questo tema, molto suggestivo.

Dunque nello stesso atto liturgico con cui il popolo rende a Dio il culto dovuto. Questi istruisce l’uomo su come vivere perché tutta la sua vita sia un culto gradito. Le Dieci Parole sono questa istruzione.

Prima di procedere oltre, devo ora fare una riflessione. Nella prospettiva dell’Alleanza, nella prospettiva biblica l’agire moralmente retto non è pensato e vissuto come una semplice esigenza della natura umana, così come l’azione ingiusta non è pensata e vissuta semplicemente come un tradimento della propria umanità. Il male morale è fare "ciò che non piace agli occhi del Signore"; è "abbandonare la via, i comandi del Signore". Il contesto liturgico in cui Dio dice all’uomo le Dieci Parole, significa che nelle scelte dell’uomo entra in gioco il suo rapporto con Dio. L’idea di un’etica autonoma in questo senso è del tutto sconosciuta alla tradizione ebraico-cristiana. Il che è come dire: il fondamento ultimo della distinzione fra bene e male è Dio stesso e la sua santità.

Quanto ho detto finora è espresso mirabilmente in un testo assai noto di S. Ireneo: "La gloria di Dio è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio" [Adv Haereses IV, 20,7]. "La vita stessa dell’uomo, l’uomo che vive rettamente, è la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve a questo: a consentire tale sguardo e a donare così quella vita, che diventa gloria per Dio" [J. Ratzinger, Opera Omnia 11, Teologia della liturgia, LEV 2010, 31].

Se, alla fine, può non essere difficile cogliere, nel contesto dell’Alleanza, la correlazione liturgia – Dieci Parole [ethos], risulta a noi ben più difficile cogliere la ragione profonda della presenza in questo contesto anche dell’ordinamento giuridico.

Nel discorso che il Santo Padre ha tenuto il 17 settembre alla Westminster Hall, ha detto: "Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia". E poco oltre: "La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche".

In queste parole del S. Padre noi scopriamo la ragione ed il significato permanente di ciò che è accaduto al Sinai. Certamente, e la proposta cristiana ha lavorato in questo senso, l’intreccio liturgia-ethos da una parte e diritto dall’altra deve essere sciolto. E la distinzione netta fra reato e peccato è un dato definitivamente guadagnato nella coscienza occidentale. Ma le parole del S. Padre che ho sopra citato, ci invitano a riflettere che un ordinamento giuridico che si sradichi completamente dall’ordinamento etico non può non divenire mero esercizio di potere [quod principi placuit legis vigorem habet] ed offrire il fianco all’ingiustizia mascherata di legalità. Ed ugualmente, l’esclusione di ogni riferimento a Dio pone l’uomo nella condizione … di chi soffre il mal di mare anche in terra ferma. L’adorazione di Dio è il principale scudo della dignità dell’uomo; la liturgia è il luogo in cui l’uomo prende coscienza della sua dignità.

Concludo questo primo punto della mia riflessione. Che cosa, in sostanza, ho cercato di dirvi? Il dono delle Dieci Parole, fatto nel contesto liturgico della statuizione dell’Alleanza, dice che è il rapporto con Dio la chiave di volta di tutto l’arco dell’esistenza; e che quando questo rapporto viene negato o comunque ignorato, è l’intera esistenza umana a disgregarsi.

2.      La fede cristiana ha portato il senso delle Dieci Parole alla sua pienezza.

Nel discorso del monte Gesù riprende tre delle Dieci Parole: la quinta "non uccidere" [Mt 5,21-26]; la sesta "non commettere adulterio" [ibid. 5,27-28]; l’ottava "non giurare il falso" [ibid, 5,31-32]. Sono cioè richiamate le Parole che difendono i beni umani fondamentali: la vita, il matrimonio, la fiducia sociale. Ovviamente questa di Gesù non era una scelta escludente ma esemplificativa.

Ma la ripresa viene fatta per semplificare una grande affermazione di Gesù: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" [ibid. 20]. Gesù precedentemente aveva parlato di un "compimento" della Legge, delle Dieci Parole in primo luogo.

"Dare compimento" significa attuare le divine Parole secondo l’intenzione, la misura di Dio. È questa modalità di osservare le Dieci Parole – secondo l’intenzione e la misura divina – che costituisce quella giustizia voluta nell’uomo dal divino Legislatore. Che cosa ciò significhi, viene esemplificato dalla interpretazione che Gesù dà delle tre Parole circa l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza.

Le Dieci Parole diventano interiori all’uomo e raggiungono il suo cuore, il suo desiderio ed il movente del fondo del suo agire. Si tratta di rigorizzazione? Si tratta di alleggerimento? L’alternativa ci porta fuori strada. È "portare a termine" un "movimento di significato" già presente nella prima Alleanza del Sinai. Il nuovo ethos ci fa contemporaneamente entrare nella profondità delle Dieci Parole e scendere nell’interno, nel cuore dell’uomo chiamato alla "giustizia superiore".

Questo si realizza storicamente nel contesto della stipulazione della nuova ed eterna Alleanza, che accade sulla Croce, di cui l’Eucaristia è il memoriale perpetuo.

Partiamo ancora dalla prima Alleanza, quella del Sinai nel contesto della quale Dio dice al popolo le Dieci Parole. La stipulazione dell’Alleanza sinaitica non si limita al fatto che Dio parla al popolo, e questi ascolta: non è semplicemente un dialogo. Essa istituisce una misteriosa "consanguineità" fra il popolo e Dio: è questa il nucleo essenziale dell’Alleanza. È una reciproca appartenenza. La formula sintetica dell’Alleanza è: "io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo".

Quando Gesù istituisce l’Eucaristia parla del suo Sangue come del "Sangue dell’Alleanza nuova" [cfr. Lc 22,20]. S. Paolo riferisce le parole di Gesù [è la testimonianza più antica] nel modo seguente: "questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue" [1Cor 11,25].

È nel contesto della stipulazione della nuova Alleanza, anticipata nell’istituzione dell’Eucaristia, che Dio in Gesù dona la nuova Legge: la nuova Legge della carità.

La promulgazione della nuova Legge avviene secondo l’evangelo di Giovanni attraverso un gesto che ha dell’incredibile: Gesù lava i piedi agli apostoli [cfr. Gv 13,3-17].

I Padri della Chiesa commentando questo racconto, dicono che essa ha il carattere di un sacramento e di un esempio.

Parlando di "sacramento" non intendono ciò che noi oggi intendiamo quando diciamo "i sette sacramenti". Con quella parola intendono denotare l’intero mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione nel grembo di Maria alla risurrezione. La lavanda dei piedi – pensano i Padri – è una metafora sintetica e perfetta di tutto il mistero di Cristo. In che senso? Nel senso che nella sua incarnazione, morte e risurrezione la persona umana è lavata: è risanata, trasformata e santificata così che può "avere parte con Cristo" [ibid. 8].

Ma quel gesto è anche un esempio. Trasformati e santificati senza nessun nostro merito, diventiamo capaci e quindi responsabili di un nuovo modo di vivere e di agire. Quale? lo stesso che la lavanda dei piedi voleva mostrare. Al termine del racconto della lavanda dei piedi Gesù pertanto dice agli apostoli e a tutti noi: "vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi gli uni gli altri" [Gv 13,34].

La nuova Alleanza nel sangue di Cristo e la nuova Legge si muove tutta su questo "come io – così voi". Ciò che lega i due poli è l’atto redentivo di Cristo che trasforma radicalmente l’uomo mediante il dono dello Spirito. Nuova Alleanza, nuova persona umana, nuova legge. Tutto questo accade ogni volta che celebriamo l’Eucaristia.

Ritorniamo ora al discorso del monte. Nella luce della verità eucaristica ne abbiamo finalmente la vera e più profonda comprensione.

L’interpretazione che Gesù dà delle Dieci Parole non si muove secondo una dialettica di rigorizzazione. Ma indica la via della nostra piena assimilazione a Lui; ci istruisce circa il modo di vivere una vita coerente coll’Alleanza Nuova eucaristicamente partecipata.

L’apostolo Paolo esprime tutto questo in modo sintetico: "chi ama il suo simile ha adempiuto la legge … l’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore" [Rom 13,8-10]. L’apostolo usa la stessa parola, al sostantivo, che Gesù nel discorso del monte aveva usato come verbo [cfr. Mt 5,17]: pleroma, peróo. L’amore realizza la misura intera delle Dieci Parole.

Ma non si tratta della enunciazione di una verità etica astratta. Un esegeta contemporaneo scrive: "Se il Cristo è il fine della legge, l’obiettivo verso il quale puntava la storia della salvezza, allora l’amore, che lo ha mosso nella sua intera esistenza e attività salvifica (8,35), può essere definito il compimento della legge stessa. Essa diventa, in tal modo, la norma della condotta cristiana, e se praticato adeguatamente – consegue tutto ciò che la legge propugnava e perseguiva"[J. Fitzmeyer, Lettera ai Romani, Piemme 1999, 805].

Lo stesso pensiero lo ritroviamo nella lettera ai Galati: "tutta la legge … trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso" [5,14]. Siamo stati inseriti e siamo [eucaristicamente] inseriti nell’amore, nella capacità di amare di Cristo. Egli è la pienezza della Legge. Noi, in Lui, siamo capaci di realizzare pienamente le Dieci Parole perché siamo resi capaci di amare.

Concludo questo secondo punto. Attraverso la celebrazione dell’Eucaristia entriamo nella Nuova ed Eterna Alleanza stipulata nel sangue di Cristo. Dentro ad essa ci è donata la Nuova Legge: la partecipazione alla stessa carità di Cristo. Ed è in forza di questa partecipazione che realizzo in maniera compiuta le Dieci Parole.

3.      Faccio due riflessioni conclusive. Il tempo ormai non mi consente di svilupparle come meriterebbero.

La prima. Al Sinai nasce un popolo: il popolo di Israele. Esso, mediante le Dieci Parole, comprende che la libertà di cui il Signore gli aveva fatto dono, doveva essere una libertà condivisa. Le Dieci Parole erano le esigenze di una libertà veramente condivisa.

Il testo paolino della lettera ai Galati sopra citato si pone nel contesto di una profonda concezione della libertà. "La libertà del cristiano … non si vede attuata là ove egli è padrone di se stesso e del suo mondo, ma, ove, dimentico di sé e abbandonando se stesso, egli è a disposizione di Dio e degli altri uomini. Sono prigioniero e schiavo se sono vincolato a me stesso" [H. Schlier, Lettera ai Galati, Paideia, Brescia 1966, 252]. Nella Nuova ed Eterna Alleanza le Dieci Parole diventano pienamente ciò che fin dal principio intendevano essere: il codice della libertà condivisa.

La seconda. La riflessione che la teologia cristiana dai Padri in poi ha compiuto sulle Dieci Parole, ha compreso sempre più profondamente che esse esprimevano una verità circa il bene della persona, che anche la ragione poteva conoscere. Esprimevano esigenze inscritte nella natura della persona umana.

Da questa comprensione, la modernità concluse alla fine che queste esigenze non avevano bisogno per giustificarsi di nessun riferimento e fondamento trascendente. Esse valgono "anche se Dio non ci fosse".

Questa espulsione della giustificazione teologica ha avuto come oggetto una vera e propria devastazione nella comprensione etica dell’uomo. Si è spezzata la connessione fra l’originaria rivelazione che Dio fa di se stesso e l’inclinazione naturale a fare il bene ed evitare il male.

È oggi uno dei compiti essenziali della Chiesa rieducare l’uomo a scoprire Dio nella profondità della sua coscienza. È stato questo il grande carisma del b. J.H. Newman: farci riscoprire il legame originario fra l’io e la verità, passando fra la Scilli di un io senza verità [relativismo] e la Cariddi di una verità senza io [scientismo.] Ma questo tema esigerebbe una riflessione assai prolungata.


Santa Teresa d’Avila ed il demonio di Don Marcello Stanzione dal sito http://www.pontifex.roma.it/
Teresa d’Avila nacque in Spagna nel 1515 e morì ad Alba de Tormes il 4 ottobre 1582. Paolo VI la proclamò dottore della Chiesa. Consideriamo ora come si inseriscono gli Angeli eletti e quelli decaduti nel contesto della complessa esistenza di S.Teresa d’Avila, nelle sue vicende umane, nel suo cammino interiore, nelle sue esperienze mistiche. Le fonti, che ci offrono notizie a riguardo, sono gli scritti della Santa, soprattutto l’autobiografia in cui elle descrive le sue visioni soprannaturali di Angeli e di demoni; e il “Cammino di perfezione” dove, in numerose pagine, mette in guardia  specialmente le persone religiose, contro le tentazioni e i tranelli del demonio, specificandoli e dando opportuni consigli pratici. Nella “Vita” S.Teresa ricorda che, in un periodo di dubbi interiori nel timore di non essere nella volontà di Dio, di non camminare nella verità “prendevo per protettori alcuni Santi, perché mi liberassero dal demonio; facevo novene, mi raccomandavo a S.Ilarione (un eremita leggendario del Monte Carmelo, sec. IV) e a San Michele Arcangelo, che invocavo con rinnovata devozione…”. In Spagna, S.Michele, il debellatore di Satana, il protettore della cristianità, era venerato da molto tempo:  nel sec. XII l’Arcangelo guerriero era apparso durante l’assedio di Saragozza da parte di Alfonso d’Aragona, ritenuto il liberatore della città dagli Arabi. Con questa peculiare caratteristica di vincitore nelle battaglie della fede contro il demonio, lo prega S.Teresa.

Nella sua vita sono numerose  le apparizioni demoniache, a cui ella si oppone facendo segni di croce e aspergendo il luogo dintorno con l’acqua santa, che porta sempre con sé anche nei suoi viaggi spostandosi da un punto all’altro della Spagna per fondare i monasteri della Riforma. Per favorire la sua orazione apostolica ed accrescere il suo desiderio di cooperare alla salvezza delle anime, il Signore concede alla Santa visioni mistiche che hanno per oggetto ora l’inferno, “il luogo che i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati” (se non si fosse convertita); ora lo scempio che i demoni fanno sui peccatori in vita. A questo proposito leggiamo una pagina significativa dell’autobiografia Teresiana, scritta con tanta immediatezza da rendere visibile la scena raccapricciante che la Santa presenta con abbondanza di dettagli:

“Un giorno, mentre andavo a comunicarmi vidi… due demoni di un aspetto abominevole. Mi pareva che le corna cingessero la gola del povero sacerdote e vidi il mio Signore fra quelle mani nell’ostia che egli si preparava a darmi, segno evidente che erano mani di uno che lo offendeva: capiì che quell’anima si trovava in peccato mortale. Come poter dire, Signor mio, l’orrore di vedere la vostra bellezza in mezzo a così abominevoli  figure? I demoni stavano innanzi a voi come sbigottiti e tremanti ed era evidente che sarebbero fuggiti volentieri, se voi li aveste lasciati andar via. Ne ebbi tale turbamento che non so come potei comunicarmi e rimasi in gran timore ritenendo che, se si trattava di una visione proveniente da Dio, egli non avrebbe permesso che io vedessi lo stato peccaminosi di quell’anima. Ma il Signore stesso mi disse di pregare per lui, aggiungendo che l’aveva permesso per farmi conoscere il valore delle parole della consacrazione, in virtù delle quali Dio è lì presente, per quanto possa essere indegno il sacerdote che le preannuncia e per mostrarmi la sua grande bontà nel porsi fra le mani di un suo nemico, pur di operare il mio bene e quello di tutti. Mi resi conto allora di quanto i sacerdoti siano obbligati più degli altri ad essere virtuosi, di come sia atroce ricevere indegnamente questo santissimo sacramento e di quanto potere abbia il demonio su un’anima in peccato mortale. Ne trassi gran vantaggio e più chiara conoscenza di ciò che dovevo a Dio. Sia Egli benedetto per sempre”. Assai più interessante delle apparizioni diaboliche, e soprattutto più utile e sempre attuale, è la minuta descrizione Teresiana delle tentazioni, della guerra accanita che gli Spiriti maligni fanno alle anime di vita interiore. La Santa afferma:”(il demonio) vede che (contro di esse) gli sono necessarie armi nuove. Io nella mia miseria mi sono difesa assai male, pertanto vorrei che le mie sorelle imparassero dal mio esempio”. Considera quindi dettagliatamente le “molte furberie del demonio” suggerendo gli opportuni rimedi. E’ un insegnamento prezioso, perennemente valido per chi vuole battere il cammino della santità. Questi deve anzitutto tenere presente che “l’avversario cerca di nuocerci con tutti i mezzi dovunque può – scrive S.Teresa – E siccome egli non disarma mai, non dobbiamo disarmare neanche noi”. Al principio della vita di perfezione, il demonio cerca di allontanare l’anima dall’intimo colloquio con Dio, col pretesto della sua indegnità; oppure le fa desiderare gusti e consolazioni, procurandoglieli egli stesso, perché cada nella vanità. Bisogna opporsi con l’umiltà, seguire la via della croce e non desiderare altro. Quando viene una grande brama di vedere Dio, se è promossa dal Signore, comporta luce, discrezione ed equilibrio; un desiderio sfrenato, invece, è favorito dal demonio. La pace è generalmente un segno della presenza dello Spirito buono; ma vi è anche una falsa pace, quella di chi, pur essendo invischiato in peccati gravi, vive molto tranquillo, senza che gli rimorda la coscienza. Questa pace, sentenzia S. Teresa, “è indizio che egli e il demonio sono amici”. La Santa mette infine in guardia contro le doti e le parole di adulazione. Se vi dicono che siete santa opponetevi con una guerra interiore: “guadagnerete in umiltà e il demonio che vi sta spiando resterà umiliato”. Riguardo alla paura che possono incutere gli angeli delle tenebre, Santa Teresa scrive: “Se il Signore è così potente, come io vedo e so, se i demoni sono i suoi schiavi – e di ciò non si può dubitare, perché è verità di fede – essendo i servi di questo Re e Signore, che male possono essi farmi? Perché io non debbo aver forza di combattere contro tutto l’inferno?... (Ho ora) un tale dominio su di essi, dono certamente del Signore, da non dar loro ormai più importanza che se fossero mosche. Mi sembra che siano così codardi che, vedendosi disprezzati, restano senza forza… Piacesse a Dio che può venirci maggior danno da un peccato veniale che da tutto l’inferno messo insieme, perché è proprio così”. Chi cammina nel timore e nell’amore del Signore non può temere nulla dai demoni. E conclude: “Non capisco la paura di chi grida: Demonio ! demonio ! mentre potremmo dire: Dio ! Dio ! e far tremare tutti gli spiriti maligni. Si, perché sappiamo ormai che non possono muoversi se il Signore non lo permette”. S.Teresa parla degli Angeli eletti solo in riferimento alle sue visioni mistiche, in tre passi della sua autobiografia e in un brano delle “Relazioni” scritte per i suoi confessori. Dice che gli Spiriti celesti le si presentano “spesso”, ma non le dicono mai i loro nomi, e che “c’è tanta differenza tra l’uno e l’altro di essi”. “ Salvo caso raro” non le si mostrano “in forma corporea” ma li vede intellettualmente. Lo stesso ella afferma del demonio: “Poche volte l’ho visto assumere una figura;  molte invece senza alcuna figura…(vedo) chiaramente la presenza di qualcuno, pur mancando la figura”.


Via i bambini dalla TV!? - October 11th, 2010 di Carlo Bellieni – dal sito http://carlobellieni.com/
“Chi ha incastrato Peter Pan?” è una delle tante trasmissioni di bambini alla ribalta. Fa il pari con quella di Gerry Scotti (“Io canto”) e della Clerici (“Ti lascio una canzone”) e ci fanno rimpiangere i tempi della TV dei ragazzi, quando i bambini avevano solo un’ora il pomeriggio di Tv (ma avevano disposizione gli alberi della campagna ed erano padroni di giocare a palla nei vicoli), quando potevano vedere carosello (che ben separava il messaggio pubblicitario negli ultimi secondi dal cartone animato) e al massimo erano protagonisti dello Zecchino d’Oro con Richetto, Mago Zurlì e topo Gigio dove si potevano permettere di essere stonati.

Sono tutti belli, bellini, alcuni anche bellissimi, tutti pettinati alla moda, con gel i maschi e forse con trucco le femmine e vestiti come il babbo e la mamma. Insomma, tutti bambini “da pubblicità”, come si dice oggi, e la dice lunga. Già, perché il dramma è che in TV vanno solo i bambini bellissimi e questo messaggio viene diretto già ai piccolissimi: se non sei bello o almeno truccato da bello è meglio che non ti fai vedere. E passa dentro i giovani cervellini, veicolato dal fatto che è il messaggio per il quale vivono anche le loro mamme e i loro babbi, affascinati da “Uomini e Donne” o bombardati da corpi fotoshoppati, labbra siliconate e facce di gomma.

Non vediamo bambini “brutti” e tantomeno vediamo bambini “grassi”, semplicemente perché “non devono esistere” nella società postmoderna che selezione la perfezione prima della nascita. Assurdo sarebbe pensare di vedere bambini malati o disabili, tranne che nelle trasmissioni strappalacrime: e si assiste alla dicotomia: bambini belli per divertire, bambini brutti per commuovere: entrambi per fare share, e dunque utili alla TV.

Anche Gambadilegno, della banda Disney, ha perso la gamba di legno (e non si capisce più perché il personaggio si chiami così), perché faceva “orrore” vedere una persona con disabilità? Potranno dire che non volevano associare la disabilità alla cattiveria, ma ora Gambadilegno è “buono”, e questo ragionamento non tiene. Per i bambini solo i corpi anoressici delle Bratz o delle Witch, ragazze con gambe lunghissime e senza pancia, proprio quello che serve per creare complessi a tutte le bambine (e alle mamme) di questo mondo. Addirittura troviamo i bambini coinvolti in una sezione riservata certo, ma comunque coinvolti come apprendisti giocatori, nel “Mercante in Fiera”, gioco sì, ma gioco in cui si “tenta la fortuna”, e in un periodo in cui si sente con incalzante frequenza di gente che si rovina per il gioco, forse sarebbe bene dare altri esempi perlomeno ai più piccoli. E ancor più inquietante, la pubblicità nei programmi per bambini; e non ci vengano a dire che sono tutelati perché in piccolo c’è scritto “pubblicità” sullo schermo: non sanno leggere!

E non ci dicano neanche che se vogliono cambiare hanno il telecomando: chi conosce i bambini sa che spesso sono attratti più dalla pubblicità (studiata proprio con colori e suoni adatti a soggiogare) che dal programma di fondo. Insomma: la TV ci pensi bene, rifletta dove porta i bambini; e i responsabili delle TV si mettano una mano sulla coscienza.


lunedì 11 ottobre 2010 - L’astrofisico Penrose, ex collega di Hawking: «il multiverso non ha superato Dio». – dal sito http://dallaragioneallafede.blogspot.com

Ha fatto notizia in tutto il mondo quando Stephen Hawking ha annunciato che la M-teoria della cosmologia lo ha portato a concludere che può non essere stato Dio a creare l'universo. Ma uno dei più importanti fisici e matematici europei, Sir Roger Penrose, professore all'Università di Oxford e collaboratore per anni di Hawking nello sviluppo della teoria del Big Bang, lo ha smentito a proposito della teoria della "non esistenza di Dio". Sabato 25 settembre, Penrose ha descritto il nuovo libro di Hawking, The Grand Design, come "ingannevole", aggiungendo che la M-teoria, che Hawking utilizza per dimostrare l'inutilità di Dio, «non è nemmeno una teoria, non è scienza ma insieme di speranze, di idee e aspirazioni». L'Indipendent Catholic News riporta che Penrose ha dialogato di questo nel programma radiofonico tenuto da Alister McGrath, ex ateo, scienziato e professore di teologia presso il Kings College di Londra. Il celebre fisico ha continuato: «Il libro di Hawking è fuorviante, ti dà l'impressione che esista una teoria che riesca a spiegare tutto, ma questa non è nemmeno una teoria. Non è per nulla dimostrato che l'Universo si sia creato dal nulla». Fra tutti gli scienziati che sono intervenuti per opporsi all'opinione di Hawking (ne abbiamo raccolti alcuni in questo dossier), Penrose, come ex collega che ha lavorato a stretto contatto con Hawking, è forse quello con il profilo più alto. Egli ha concluso: «Il multi-verso non ha superato Dio».

Questo è il video della trasmissione:
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Dg_95wZZFr4]



IlGiornale - articolo di martedì 12 ottobre 2010 - L’inedito di Andrea Tornielli - Pio XII intervenne nel tentativo di salvare i tre carabinieri che il 25 luglio 1943 arrestarono Benito Mussolini…
Pio XII intervenne nel tentativo di salvare i tre carabinieri che il 25 luglio 1943 arrestarono Benito Mussolini infilandolo dentro un’ambulanza. Un’episodio inedito, documentato ora dalle carte dell’archivio privato di Elena Hoehn, una donna tedesca sposa di un imprenditore italiano, nella cui abitazione il colonnello Giovanni Frignani, il maggiore Ugo de Carolis e il capitano Raffaele Aversa si erano rifugiati dopo l’arrivo delle truppe hitleriane a Roma. L’intervento del Pontefice non avrebbe però sortito alcun effetto perché i tre ufficiali, dopo l’attentato di via Rasella, sarebbero stati assassinati nella disumana rappresaglia della Fosse Ardeatine. A scoprire il documento è stato il professor Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all’università Gugliemo Marconi di Roma (vaticanfiles.splinder.com).
È il 22 febbraio 1944 quando Elena Hoehn scrive una missiva a Papa Pacelli, parlandogli della «sventurata sorte» dei tre. La donna implora il Papa di intervenire presso il Feldmaresciallo Kesselring. I nomi degli ufficiali coinvolti nell’arresto del Duce, poi liberato a metà settembre dalla sua prigione a Campo Imperatore, erano finiti nella lista nera della Gestapo. La caccia è spietata. Frignani, De Carolis e Aversa, a Roma, si danno alla macchia e collaborano alla lotta di liberazione nel Fronte Clandestino di Resistenza dei carabinieri, in contatto con la Resistenza romana. È Frignani a essere ospitato in casa della signora Hoehn, in un’ala segreta della loro abitazione nella capitale. L’ufficiale ha con sé documenti importanti, tra i quali le copie del diario di Claretta Petacci che erano state inizialmente sotterrate nel giardino del Comando dei carabinieri ai Parioli. Nonostante sia ricercato dalla Gestapo, Frignani incontra i vecchi collaboratori nell’appartamento romano e paga cara l’imprudenza: il 23 gennaio 1944 viene arrestato insieme a De Carolis e ad Aversa, i documenti - compreso il diario della Petacci - sono sequestrati. Sfugge alla cattura solo il marito di Elena Hoen, assente in quel momento. La donna viene rilasciata il giorno dopo, mentre i tre carabinieri sono rinchiusi e torturati nella tristemente nota prigione di via Tasso. Elena, in contatto con il salvatoriano padre Pancrazio Pfeiffer, una sorta di Schindler cattolico, si rivolge dunque a Pio XII. E il 7 marzo 1944 riceve la risposta da parte del Sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Nel documento (protocollo n. 75619/S) si legge: «Per venerata disposizione di Sua Santità, ripetuti passi sono stati fatti nel senso da Lei desiderato e non si mancherà di seguire la pratica, per quanto è possibile nelle presenti difficili circostanze». Montini conclude con l’auspicio che i passi vaticani possano ottenere l’effetto sperato.
Padre Pfaiffer si sarebbe più volte informato sulla sorte del colonnello Frignani, riuscendo anche con uno stratagemma a favorire le comunicazioni tra il prigioniero e la moglie, grazie a dischetti di carta incollati sul fondo di un thermos. Ma nel momento in cui sembrava che il passo del Papa avesse ottenuto l’effetto sperato, il 23 marzo arriva la notizia dell’attentato di via Rasella. Per ordine di Berlino le SS decidono di uccidere dieci prigionieri italiani per ciascuno dei 32 tedeschi morti nell’attentato partigiano. Anche i carabinieri che avevano arrestato Mussolini sono tra le vittime trucidate il 24 marzo 1944.


Avvenire.it, 12 ottobre 2010 - Dal relativismo al benessere narciso - Per non piegarci all'impero e alla vana chiacchiera di Pierangelo Sequeri

Il discorso del Papa sulle piaghe della civiltà odierna fende la chiacchiera insopportabile dei nostri giorni spenti, e va esattamente a segno. Un lampo, da Occidente a Oriente, è stato. Esatto come un laser.

Quelli che vogliono veramente misurarsi con il carattere distruttivo dell’epoca devono fronteggiare i giochi delle potenze mondane, in cui la morte è al lavoro. Questa falsa religione dell’odio e dell’oppio, distribuita ovunque, vede ora nel cristianesimo – non senza ragione – il luogo inespugnabile del suo smascheramento. L’unico rimasto, forse, nella cultura planetaria.

Le potenze mondane hanno contaminato la cultura razionale e la cultura etnica, indissolubilmente, perché lavorino, anche inconsapevolmente, in favore della rassegnazione ai dogmi del nuovo Impero: «I capitalismi finanziari anonimi», «la maschera del terrorismo fondamentalista», «la droga, bestia feroce», «le ideologie contro il matrimonio e la castità». Prendi la diversità delle culture e delle religioni, che riconduce ogni ingiustizia e avvilimento dell’umano alla coltivazione di legittime differenze. Quale diritto umano sarà custodito, e da chi, se l’ultima parola è consegnata al rispetto delle regole di ciascuna tribù? Oppure, prendi l’imperativo del progresso e della crescita. Se non accumuliamo ricchezza, distribuiremo povertà, dicono i saggi. E quando succede il contrario?

Intanto accumuliamo disonesta e «anonima» ricchezza e insegniamo a vendere anche l’anima. È così che diffondiamo il benessere? Un diritto, certo. E quando non hai più neppure l’anima da vendere, e ti sei fumato tutto? Prendi il relativismo dell’etica, per il quale ognuno risponde solo alla sua coscienza e dimmi tu che cosa ne sarà dell’amore e di tutte le altre cose in cui dobbiamo rispondere ad altri – e di altri. La religione della coscienza autistica può anche essere una religione di prepotenti e di vigliacchi.

Questa falsa religione dell’Impero del benessere narciso e della competizione etnica, ai cuccioli, ormai, va direttamente in vena. Vi sembra all’altezza di questa offensiva planetaria l’aria fritta delle nostre considerazioni sull’universo giovanile, sulla scuola, sul tempo libero, sull’inibizione e la disinibizione, la coscienza del problema, l’educazione al dubbio e alla creatività, e tutte le altre banalità sull’essere se stessi, volersi bene, e stare bene con se medesimi?

Nel tempo dei padri e delle madri del cristianesimo, si moriva, pur di non riconoscere all’Imperatore l’adorazione che si deve solo al Dio vero. Il Papa ha formulato il suo inventario nel luogo forse più giusto della Chiesa. Lo ha indicato ai capi, ai fratelli e alle sorelle delle Chiese del Medio Oriente. Eredi delle comunità paoline e giovannee. Piccole e vulnerabili comunità dove si scaricano – forse proprio a motivo dei nostri peccati – le contraddizioni della ragione secolare post-cristiana e i terribili sommovimenti del sacro pre-cristiano e non-cristiano. Piccole comunità, prese letteralmente "in mezzo", fra le parti alla deriva di grandi continenti, di grandi civiltà, e persino di grandi religioni. Una storia di acqua zampillante e di sangue versato si ripete, lì, sin dall’inizio.

Il cristianesimo, proprio lì, la prima volta, traforò letteralmente gli Imperi, che tengono interi popoli in ostaggio. Non è un caso se il Papa affida a loro – affinché noi intendiamo – l’esatto discernimento delle icone della Bestia, che pianta ormai i suoi falsi idoli dovunque. Leviamoci in piedi, in silenzio, con deferenza e rispetto, di fronte a loro. E impariamo come si battono i testimoni del Dio vero – i martiri cristiani – con la Bestia che divora i figli. Il resto sono chiacchiere, da far ricadere ogni giorno, implacabilmente, su loro stesse. Devono cadere, fino a che non se le comprerà più nessuno.


L’anno di Leone XIII. L’enciclica "Diuturnum": non c’è autorità se non da Dio pubblicata da Massimo Introvigne il giorno martedì 12 ottobre 2010

Proseguiamo la nostra celebrazione dell’anno di Leone XIII (1810-1903), raccomandata da Benedetto XVI nel duecentesimo anniversario della nascita del suo predecessore, studiando una sua enciclica fondamentale per la vita politica, la Diuturnum.
Diuturnum illud bellum, «quella lunga guerra» che il laicismo ha mosso alla Chiesa, ha condotto alla dissoluzione della società e alla crisi sociale: terrorismo, rivolte, sedizioni imperversano per l’Europa. La religione forniva «alla cosa pubblica solidi fondamenti di stabilità e di ordine»; combattuta la religione, si è compromessa la pace sociale. Dopo aver esposto nell’enciclica Arcanum Divinae Sapientiae la dottrina cattolica sul matrimonio e la famiglia, nell’enciclica Diuturnum, del 29 giugno 1881, Leone XIII esamina il secondo di quei fondamenti della società di cui farà l’elenco nella Quod apostolici muneris: l’autorità.
La prima parte dell’enciclica espone la dottrina cattolica sull’origine dell’autorità. La seconda esamina i fondamenti e i limiti dell’obbligo morale di obbedire all’autorità.

1. Origine dell’autorità
«In qualunque società e comunità umana è necessario vi siano alcuni che comandano, affinché la società non si sfasci». Per la dottrina cattolica l’autorità «deriva da Dio», autore della natura umana, «come dal suo naturale e necessario principio». Dio, creando l’uomo, lo ha fatto sociale, cioè destinato a vivere in società. Ma non c’è società senza autorità, quindi Dio, volendo la natura umana sociale, ha voluto l’autorità. La tesi cattolica sull’origine dell’autorità, così sinteticamente enunciata, si contrappone alla tesi secondo cui «ogni potere viene dal popolo».
Dopo avere enunciato la tesi, Leone XIII ne precisa la natura dottrinale e mette in luce come essa non implichi una scelta preferenziale, o obbligata, fra le varie possibili forme di governo. In primo luogo, afferma il Pontefice, chi detiene l’autorità può essere eletto «per volontà e deliberazione della moltitudine, senza che a ciò sia contraria o ripugni la dottrina cattolica». Dire che l’autorità «deriva da Dio» non significa dire che l’elezione popolare sia un modo per principio illecito di scegliere chi deve esercitare l’autorità; purché sia chiaro che con l’elezione «non si dà l’autorità, ma si stabilisce da chi dev’essere amministrata». L’autorità rimane sempre un elemento naturale, voluto da Dio autore della natura; l’elezione non crea l’autorità ma sceglie chi deve esercitarla.
In secondo luogo, aggiunge Leone XIII, la dottrina sull’origine dell’autorità esposta nell’enciclica non «fa questione dei modi del pubblico reggimento». La Chiesa, tramite questa dottrina, non esprime una preferenza fra le forme di governo legittime – monarchia, aristocrazia e democrazia, secondo la classica tripartizione che risale ad Aristotele (384-322 a.C.) –, anzi le ammette tutte, purché siano ordinate al bene comune, convengano «all’indole dei popoli» cui sono applicate e alle «istituzioni e costumi dei loro maggiori». Il fatto che l’autorità in concreto sia esercitata da uno (monarchia), da alcuni (aristocrazia) o dalla maggioranza (democrazia) non ne modifica la natura: l’autorità deriva sempre da Dio, anche se diverse sono le modalità con cui sono designati coloro che dovranno esercitarla.
Dopo avere enunciato la tesi sull’origine dell’autorità, Leone XIII ne espone le prove, ricavate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione, in particolare dai Padri della Chiesa, e dalla filosofia. Nella Scrittura già l’Antico Testamento insegna che l’autorità deriva da Dio: «per me i re regnano» (Pv 8, 15); «date ascolto, voi che reggete le nazioni [...] poiché da Dio vi è data la potestà» (Sp 6, 3-4). Gesù Cristo ristabilisce questa verità originaria, che gli uomini avevano a poco a poco dimenticato, come emerge dalla sua risposta a Pilato, che gli aveva chiesto: «Non sai che io ho l’autorità di farti morire o di liberarti?». Gesù risponde: «Non avresti autorità alcuna contro di me, se ciò non ti fosse dato dall’Alto» (Gv 19, 11). La dottrina è sintetizzata da san Paolo, quando afferma nella lettera ai Romani: «non vi è potestà se non da Dio» (Rm 13, 1).
I Padri della Chiesa – sant’Agostino (354-430) nel De civitate Dei, san Giovanni Crisostomo (347-407), san Gregorio Magno (540-604) – confermano questo insegnamento. «Che alcuni comandino e altri siano soggetti – scrive san Giovanni Crisostomo – e che tutto non vada a caso e in disordine [...] dico essere opera della divina Sapienza» (Commento all’Epistola ai Romani, omelia 23, n. 1).
Anche a quelli «che hanno per duce la sola ragione», aggiunge Leone XIII, la verità della dottrina non può non imporsi. L’uomo per natura è animale sociale, come si ricava dal linguaggio, che è evidentemente ordinato alla comunicazione con gli altri. Se l’uomo fosse destinato a vivere da solo, non avrebbe bisogno del linguaggio. Si ricava pure dall’innata tendenza dell’anima alla socialità e dalla stessa struttura dei bisogni umani. L’uomo ha continuamente bisogno degli altri; il piccolo d’uomo – a differenza dei cuccioli degli animali, e secondo un argomento che Leone XIII mutua probabilmente dal sociologo Frédéric Le Play (1806-1882) – per lunghi anni non è autonomo e non può sopravvivere senza l’aiuto altrui. Se l’uomo è sociale per natura, ne segue il carattere naturale anche dell’autorità: poiché non vi può essere società senza autorità, persone diverse non possono raggiungere il bene comune senza che qualcuno ne coordini le volontà.
Si può anche andare oltre e dimostrare, con argomenti di ragione, che l’autorità deve avere un certo carattere «sacro». Se così non fosse, non potrebbe obbligare i cittadini a obbedire, perché il valore della libertà della persona umana sarebbe prevalente e precedente rispetto a ogni coercizione. Nessun uomo potrebbe «legare la libera volontà degli altri»; questo potere appartiene solo a Dio, fondamento dell’autorità nella società, così come Dio è il fondamento dell’autorità dei sacerdoti nella Chiesa e dei genitori nella famiglia.
L’opinione contraria, che il Pontefice prende in esame, è quella secondo cui «ogni potere viene dal popolo», e chi esercita il potere lo esercita in nome e per delega del popolo. La versione «filosofica» più raffinata di questa affermazione è la teoria del contratto sociale secondo cui «ciascun uomo cedette una parte del suo diritto, e volontariamente tutti si dettero in potere di colui nel quale fosse accumulata la somma dei loro diritti». La teoria del contratto sociale, nelle sue varie versioni – autoritaria con Thomas Hobbes (1588-1679), democratica con John Locke (1632-1704) – immagina che ogni uomo, agli albori della società, si sia spogliato di una parte o percentuale dei suoi diritti e libertà. La somma di tutte queste parti volontariamente conferite dai cittadini sarebbe poi stata consegnata a qualcuno perché esercitasse l’autorità. Questa teoria, secondo Leone XIII, rappresenta un «grave errore»: «l’idea del contratto sociale è infatti qualche cosa di manifestamente fantastico e fittizio».
Inoltre, la teoria del contratto sociale misconosce che gli uomini «sono portati dalla natura alla socievole comunanza»: che cosa farebbero se non avessero deciso di partecipare all’accordo del contratto sociale? Starebbero da soli? Se la risposta è che da soli non potrebbero vivere, ne consegue che alla base del riunirsi in società degli uomini, e quindi dell’autorità, non c’è un patto o un contratto, ma la natura umana. Infine, secondo Leone XIII, la teoria del contratto sociale non dà all’autorità quella «forza, dignità, stabilità» che sono necessarie per assicurare la pace sociale.

2. Obbedienza all’autorità
Obbedire all’autorità e alle leggi è un obbligo di coscienza fissato dal testo fondamentale di san Paolo nella Lettera ai Romani 13, 1-5: «Ogni anima sia soggetta alle autorità, poiché non vi è potere se non da Dio, e tutto ciò che è, è ordinato da Dio. Pertanto chi resiste al potere resiste all’ordine di Dio. E quelli che resistono si comprano la loro condanna [...]. Siate dunque necessariamente soggetti, non solo per timore ma anche per coscienza».
L’obbligo di obbedire all’autorità e alle sue leggi non è, tuttavia, incondizionato e senza limite. Esiste un caso in cui è lecito «non obbedire, se cioè si pretenda qualche cosa che ripugna apertamente al diritto naturale e divino». In questo caso «è necessario obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). L’autorità del resto non è vera autorità ed «è nulla, quando non vi è giustizia».
Il conflitto fra la coscienza e l’autorità, che qualche volta può imporre ai cittadini di rifiutare l’obbedienza, non si porrebbe se chi esercita l’autorità la esercitasse in spirito di servizio e tenendo conto della legge di Dio. Perché «si mantenga la giustizia importa grandemente che coloro i quali amministrano la città intendano che il potere di governare non è dato per loro privato vantaggio, e che l’amministrazione della cosa pubblica si deve condurre al vantaggio di quelli che sono affidati a essa, non già di quelli a cui essa è affidata». È l’autorità intesa come privilegio, e non come servizio, senza coscienza dei gravissimi obblighi che comporta, quella che rischia di violare la giustizia.
Nella sua storia, la Chiesa ha anzitutto chiarito il suo atteggiamento nei confronti del potere non cristiano degli imperatori romani. Non è sufficiente che un potere non sia cristiano perché sia immediatamente lecito disubbidire a tutte le sue leggi. Anche l’autorità esercitata da non cristiani deriva da Dio: i cristiani dell’Impero romano, riconoscendolo, erano «esemplarmente osservanti delle leggi» e anzi, secondo l’espressione di Tertulliano (ca. 155-230), «i migliori e più sicuri amici dell’Impero». Leone XIII combatte qui il mito, smentito da tanti storici autorevoli ma ancora tenacemente diffuso, dei cristiani rivoluzionari ed eversori dell’autorità dell’Impero romano. Al contrario, i cristiani erano «esemplarmente» rispettosi della legge, delle gerarchie e delle strutture dell’Impero, finché queste non entravano in conflitto con la legge di Dio. Quando invece le leggi imponevano «di apostatare dalla fede cristiana, o di mancare in qualsiasi altro modo al loro dovere», allora i cristiani «vollero piuttosto dispiacere agli uomini che a Dio». Ma anche in quel caso – non ricorrendo le condizioni per la rivolta armata, che la dottrina sociale della Chiesa giudica lecita, ma solo a determinate e precise condizioni – i cristiani non si diedero a tumulti, anzi coraggiosamente affrontarono il martirio.
Successivamente, nei confronti del potere diventato cristiano, la Chiesa ha insistito «molto di più» sul dovere di obbedienza, e ha anzi conferito un carattere sacro all’autorità attraverso un sacramentale, l’unzione dei re. La consacrazione dei re mediante l’unzione, su cui storici del secolo XX come Marc Bloch (1886-1944) scriveranno pagine importanti, rappresenta non soltanto la pubblica dichiarazione da parte della Chiesa che l’autorità dei re è di origine divina, ma anche il riconoscimento da parte di chi deve esercitare l’autorità dei gravi obblighi verso Dio che questa comporta. E «le cose rimasero quiete e assai prospere finché fra le due potestà (autorità civile e Chiesa) durò concorde amicizia»: la società poté perfino «risorgere alla speranza della cristiana grandezza».
Dopo la fine della civiltà cristiana del Medioevo, i moderni hanno inventato un «diritto nuovo», con le dottrine della sovranità popolare e del contratto sociale, negando l’origine naturale e divina dell’autorità, e così scalzandone il fondamento. I primi fra coloro che hanno negato la derivazione dell’autorità da Dio furono i teorici dell’assolutismo, che credevano di esaltare l’autorità dei principi svincolandola da qualunque limite, compreso il limite rappresentato dalla legge di Dio. Ma questi teorici, mentre pensavano d’innalzare un monumento all’autorità dei principi, ne preparavano in realtà la rovina, con la crisi della nozione stessa di autorità, ridotta a un’opera fatta dagli uomini e che quindi gli uomini possono disfare.
Leone XIII rintraccia l’origine di questi errori nelle dottrine politiche della Riforma protestante, non a caso subito accompagnata da «tumulti», rivolte e guerre civili, e ne indica – con uno schema chiaramente mutuato dalla scuola contro-rivoluzionaria – lo sviluppo coerente attraverso l’Illuminismo fino alla negazione del principio di autorità da parte del «comunismo, socialismo e nichilismo, quasi morte della civile società». In questa enciclica Leone XIII ha presente il momento di distruzione sociale del comunismo, che è quello all’opera ai suoi tempi. In epoche successive, dopo avere distrutto e avere scalzato i fondamenti della nozione «borghese» di autorità, il comunismo ricostruirà un’autorità, detta «proletaria», che si rivelerà ben più ferrea delle forme precedenti e anzi totalitaria.
Al suo tempo, rileva il Pontefice, si vive in una situazione di crisi di autorità. Le parole di Leone XIII sono attuali ancora oggi: anzi, mai come oggi il principio di autorità è stato messo in crisi, discusso e perfino ridicolizzato. Sia pure in forme diverse anche oggi, come ai tempi di Leone XIII, il terrorismo – che l’enciclica menziona – costituisce una grave sfida all’autorità dello Stato. Di fronte a questa crisi – si chiede il Pontefice – quali sono i rimedi? Gli Stati pensano di frenare il terrorismo e i tumulti «con la severità delle pene», talora «giustamente». Tuttavia il timore non basta e non può bastare. San Tommaso d’Aquino (1225-1274), ricorda Leone XIII, insegna che il timore delle pene «è debole fondamento, poiché quelli che sono sottomessi per timore, se corre un’occasione nella quale possano sperare l’impunità contro coloro che presiedono, insorgono tanto più ardentemente, quanto più contro voglia, per solo timore, erano tenuti a freno».
È quella che la moderna teoria politica chiamerebbe necessità del consenso: la paura dell’intervento del poliziotto o del carabiniere – che pure è un elemento necessario dell’ordine sociale – normalmente non può bastare da sola a far rispettare le leggi. «Dal troppo timore – continua san Tommaso – molti cadono nella disperazione, e la disperazione spinge a tutti i più audaci attentati» (De regimine principum, 1.1, c.10). «Pertanto è necessario trovare una più alta ed efficace ragione di obbedire», che non sia il mero timore delle pene, e questa dev’essere la coscienza: «non solo per timore, ma anche per coscienza», come già insegnava san Paolo. La coscienza, poi, «può essere massimamente ottenuta dalla religione», che spinge a obbedire all’autorità «non soltanto con l’ossequio, ma altresì con la benevolenza e la carità».
I Papi, ricorda Leone XIII, hanno sempre esortato gli Stati a favorire la libertà della Chiesa, nell’interesse non soltanto della Chiesa ma degli Stati stessi. La dottrina sociale cristiana, ribadisce il Pontefice, ha sempre riconosciuto che «le cose che si riferiscono all’ordine civile appartengono alla podestà degli Stati»: senza confusione fra Stato e Chiesa, ma anche senza accettare la separazione, insegnando l’ideale della collaborazione e della «concordia» fra i due poteri. Così pure la Chiesa si è sempre opposta alle prevaricazioni e agli eccessi dell’autorità: mai è stata «nemica dell’onesta libertà» e «detestò sempre il dominio della tirannia».
Oggi ancora – così si conclude l’enciclica – il Papa esorta la Chiesa a ribadire incessantemente questi insegnamenti, perché «siano a tutti presenti e diligentemente praticati nella vita», e a pregare Dio per la pace sociale nella verità e nella giustizia.

3. Leone XIII e il Catechismo della Chiesa Cattolica

Una riprova significativa del fatto che le encicliche non «scadono» e che l’insegnamento di Leone XIII è vivo e vitale ancora oggi è l’influsso decisivo dell’enciclica Diuturnum, esplicitamente citata, sul Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992. La parte dedicata all’autorità del Catechismo è, nella sostanza, un compendio di questa enciclica.
Ne riportiamo alcuni brani, che corrispondono ai numeri 1898-1903: «[1898] Ogni comunità umana ha bisogno di un’autorità che la regga. Tale autorità trova il proprio fondamento nella natura umana. È necessaria all’unità della comunità civica. Suo compito è quello di assicurare, per quanto possibile, il bene comune della società. [1899] L’autorità, esigita dall’ordine morale, viene da Dio: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna” (Rm 13, 1-2). [1900] Il dovere di obbedienza impone a tutti di tributare all’autorità gli onori che ad essa sono dovuti e di circondare di rispetto e, secondo il loro merito, di gratitudine e benevolenza le persone che ne esercitano l’ufficio. […] [1901] Se l’autorità rimanda ad un ordine prestabilito da Dio, “la determinazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini” (Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 74). La diversità dei regimi politici è moralmente ammissibile, purché essi concorrano al bene legittimo delle comunità che li adottano. I regimi la cui natura è contraria alla legge naturale, all’ordine pubblico e ai fondamentali diritti delle persone, non possono realizzare il bene comune delle nazioni alle quali essi si sono imposti. [1902] L’autorità non trae da se stessa la propria legittimità morale. […] [1903] […] Se accade che i governanti emanino leggi ingiuste o prendano misure contrarie all’ordine morale, tali disposizioni non sono obbliganti per le coscienze» (Catechismo della Chiesa Cattolica , nn. 1898-1903).


Avvenire.it, 12 ottobre 2010 – INEDITI - Il samizdat di Simenon di Roberto Festorazzi
Interminabili giornate di coda per acquistare un libro diverso dal Capitale di Marx o da altri testi di catechesi bolscevica. Per un lettore che abbia oggi meno di trent’anni, e non abbia visto, almeno in televisione, le file di moscoviti davanti ai negozi di Stato, per comprare la carne o il caffè, è difficile credere che nei Paesi del cosiddetto socialismo reale anche la cultura, bene del popolo per eccellenza, fosse una merce rara tale da essere conquistata soltanto al prezzo di immani sacrifici.

Un documento straordinario e inedito, uno scambio di lettere tra il grande scrittore Georges Simenon e il suo agente russo, spiega meglio di ogni altra cosa quanto odioso fosse il sistema sovietico per un cittadino che non appartenesse alla nomenklatura di partito. Il breve carteggio, intercorso nell’agosto- settembre del 1983, ossia sei anni prima della caduta del Muro di Berlino che fece implodere in Europa le tirannidi dell’Est, è in possesso del più grande collezionista al mondo dell’opera di Simenon, l’uomo d’affari genovese Romolo Ansaldi.

L’agente letterario che rappresentava gli interessi editoriali dello scrittore, tra i più tradotti al mondo, era monsieur Glasov, con studio al numero 18 di Prospettiva Tichkoretsky, a Leningrado. Mentre il sistema sovietico era in uno stato preagonico – nell’inesorabile processo di mummificazione del regime, durante il breve passaggio da Breznev a Cernenko –, nell’attuale San Pietroburgo, la città che fu culla della rivoluzione d’Ottobre, tutto stava collassando. Glasov così scrive a Simenon: «A titolo di curiosità, vi segnalo che acquistare le edizioni russe dei suoi libri è praticamente impossibile (si deve pagare 5-6 volte il prezzo dagli speculatori)».

La lunga e dettagliata lettera dell’agente a Leningrado documenta quanto scandaloso fosse il calvario imposto ai lettori di testi la cui diffusione, ancorché formalmente non vietata, era tuttavia scoraggiata dallo Stato comunista. Così il dottor Glasov illustra la penosa sorte riservata agli estimatori di Simenon e del suo personaggio, il commissario parigino Jules Maigret: «Bisogna mettersi in coda un determinato giorno per iscriversi con il proprio numero d’ordine, assicurare la propria presenza per più giorni per dimostrare che non si è rinunciato e poi, un sabato, rifare la coda per 11-14 ore con venti chili di vecchi libri per ottenere un abbonamento che dà il diritto di acquistare un suo libro (o quello di un altro autore alla moda)».

Avete capito bene, non è uno scherzo, né un saggio di propaganda antisovietica d’altri tempi. Per poter comprare un romanzo di Simenon, nell’Unione Sovietica della dittatura del proletariato, il compagno Ivan doveva versare allo Stato, a titolo di obolo, venti chili di ciarpame marx-engelsiano. Una vera e propria permuta: in cambio una storia di Maigret, il povero cristo doveva svuotare soffitta e cantina, riempire il baule della scassatissima Zaz (sempre che ce l’avesse), recarsi al più vicino spaccio di libri statale, sorbirsi ore di coda per ritirare la sua tessera; l’indomani, e altri giorni seguenti, tornare sul posto per dimostrare che non si è cambiata idea; poi, il sabato, giorno di distribuzione dei volumi, stare in fila dall’alba al tramonto, con thermos e vodka per non restare congelati, nella speranza di ottenere una copia forse neppure nuova di zecca. A meno che, naturalmente, uno non volesse rivolgersi al mercato nero dove, come informa lo stesso agente di Leningrado, era possibile recepire l’agognato libro a 5-6 volte il suo prezzo. Una follia, per chi – ed era la norma – faticava a racimolare qualche spicciolo per andare a pattinare allo stadio del ghiaccio. Così, pochi "eroi" della cultura – gli strati sociali rimasti criticamente più attivi – erano votati ad affrontare il calvario. Ecco la conclusione di Glasov: «La gente diventa pazza per acquistare dei libri e crearsi una propria biblioteca, ed è capace di trascorrere la notte in coda per ottenere l’abbonamento che dà diritto a comprare il libro agognato».

Nell’era dei bookstore, e degli scempi di intere librerie che, a disdoro degli eredi di tanti cari estinti, finiscono pressappoco in discarica, tutto questo sembra davvero incredibile. Illuminante è, del resto, la risposta dell’ottantenne Simenon, parimenti inedita, datata 30 settembre 1983: «Caro monsieur Glasov, sono rimasto molto colpito dalla sua lettera. Sono desolato di dover apprendere che è così difficile procurarsi i miei libri nel suo Paese, ma comprendo». Poi, il soprassalto di orgoglio del grande scrittore, felice di poter sottolineare che i suoi lettori sovietici appartenevano a un’élite temprata ai più duri sacrifici: «I miei lettori russi sono dunque i più coraggiosi». Ma nella missiva dell’agente letterario vi è dell’altro. Il dottor Glasov («dato l’interesse che dimostrate per la diffusione delle sue opere nell’Urss») informa il papà di Maigret che, ad onta del brutale trattamento riservato ai lettori di opere "non raccomandate" dal regime, i suoi libri erano stampati in molte copie. Una raccolta di racconti del "ciclo americano" di Simenon, come Luci nella notte, La pallina nera, Maigret a New York e Maigret dal giudice, aveva avuto una tiratura di centomila copie, mentre un’edizione scolastica del romanzo breve Maigret dal ministro, era stata stampata in quarantamila esemplari. Ma il successo commerciale, nella sterminata platea dei lettori russi, fu per Simenon soltanto postumo. Il grande scrittore di origine belga si spense infatti il 4 settembre del fatale 1989. Ma, quei pochi, tenaci che avevano sfidato l’ostracismo dei regimi rossi, proprio grazie a quelle letture "occidentali", erano stati probabilmente le avanguardie del processo di abbattimento della dittatura. Tra i calcinacci del Muro di Berlino, insomma, si agitò l’ombra di un picconatore illustre quanto occulto: il commissario Maigret.