Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL PAPA: L'UMANITÀ È UNA FAMIGLIA, E IL MIGRANTE NE FA PARTE - Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
2) Il messaggio del Papa per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2011 - Tutti hanno diritto a emigrare e a usufruire dei beni della terra (©L'Osservatore Romano - 27 ottobre 2010)
3) Troppa Caritas, poca Veritas - di Michael Novak © Copyright Liberal, 26 ottobre 2010
4) 26/10/2010 – INDIA - Responsabile di una scuola cattolica picchiato da 500 indù davanti alle telecamere di Nirmala Carvalho
5) Paolucci, G. - Immigrazione. Un problema o una risorsa? La sfida della convivenza nel segno dell’identità arricchita - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Edizioni Viverein - 96 pagine, 5 euro
6) I barbari non hanno distrutto tutto...- Scritto da David il 26/10/10 - Roger Scruton di Emanuele Boffi da http://www.fattisentire.org/
7) Scuola - Il caso della Spagna: solo la libertà di scelta migliora l'istruzione. - 26-10-2010 - di Javier Restán (ilsussidiario.net)
8) 26/10/2010 - Bolivia: veto del governo all'articolo che legalizza i rapporti sessuali a 12 anni - Vatican Radio - All the contents on this site are copyrighted ©.
9) PiùVoce.net 21 Ottobre 2010 - Come potenziare il circuito virtuoso tra società civile e coscienza del credente - L`AFASIA SUI VALORI NON S`ADDICE AI CATTOLICI di Paola Ricci Sindoni
10) La rivoluzione dei santi Lorenzo Albacete - mercoledì 27 ottobre 2010 – il sussidiario.net
11) I cristiani e l'immigrazione Di Francesco Agnoli del 26/10/2010, in Politica, da http://www.libertaepersona.org )
12) IL DRAMMA DI SARAH, LA SPERANZA DELL’ «ORCHESTRA SPARAGNINA» - Il vuoto o la vicinanza Un bivio per i nostri ragazzi - Mentre loro imparavano a cantare, lei doveva imparare troppo in fretta a morire. Non è, poi, lontano Corigliano d’Otranto da Avetrana. Pezzi di terra dura di DAVIDE RONDONI– Avvenire, 27 ottobre 2010
13) E D I TO R I A L E - LA CONFUTAZIONE DEI VOLTI DELL’ATEISMO - MARIO IANNACCONE – Avvenire, 27 ottobre 2010
IL PAPA: L'UMANITÀ È UNA FAMIGLIA, E IL MIGRANTE NE FA PARTE - Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 26 ottobre 2010 (ZENIT.org).- L'accoglienza del migrante deve collocarsi nella prospettiva dell'appartenenza di tutte le persone a una stessa famiglia umana, con i propri diritti e doveri, afferma il Papa.
“Una sola famiglia umana” è proprio il titolo del Messaggio che Papa Benedetto XVI ha scritto in occasione della prossima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato – il 16 gennaio 2011 –, reso noto questo martedì durante una conferenza stampa da monsignor Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
Il Pontefice sottolinea l'importanza di questa prospettiva di famiglia al momento di affrontare le questioni collegate alle migrazioni.
“Tutti fanno parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa”, ricorda il Messaggio.
Il tema scelto quest'anno, spiega il Pontefice, allude a “una sola famiglia di fratelli e sorelle in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali, dove anche le persone di varie religioni sono spinte al dialogo, perché si possa trovare una serena e fruttuosa convivenza nel rispetto delle legittime differenze”.
Gli uomini sono fratelli perché “hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra” e perché “hanno anche un solo fine ultimo, Dio”.
Per la Chiesa, le migrazioni rappresentano “un segno eloquente dei nostri tempi, che porta in maggiore evidenza la vocazione dell'umanità a formare una sola famiglia, e, al tempo stesso, le difficoltà che, invece di unirla, la dividono e la lacerano”.
Molti “devono affrontare la difficile esperienza della migrazione, nelle sue diverse espressioni: interne o internazionali, permanenti o stagionali, economiche o politiche, volontarie o forzate”.
In alcuni casi, poi, “la partenza dal proprio Paese è spinta da diverse forme di persecuzione, così che la fuga diventa necessaria”.
Il Papa aggiunge che il fenomeno stesso della globalizzazione, “caratteristico della nostra epoca, non è solo un processo socio-economico, ma comporta anche un'umanità che diviene sempre più interconnessa, superando confini geografici e culturali”.
La fraternità umana “è l'esperienza, a volte sorprendente, di una relazione che accomuna, di un legame profondo con l'altro, differente da me, basato sul semplice fatto di essere uomini”.
“Assunta e vissuta responsabilmente, essa alimenta una vita di comunione e condivisione con tutti, in particolare con i migranti; sostiene la donazione di sé agli altri, al loro bene, al bene di tutti, nella comunità politica locale, nazionale e mondiale”.
Diritti e doveri
Per questo, la Chiesa riconosce il diritto di emigrare “ad ogni uomo, nel duplice aspetto di possibilità di uscire dal proprio Paese e possibilità di entrare in un altro alla ricerca di migliori condizioni di vita”.
Al contempo, la Chiesa ammette che i Paesi “hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana”.
“Si tratterà allora di coniugare l'accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti”, specifica il Papa.
Benedetto XVI invita a considerare in particolare la situazione dei rifugiati e degli altri migranti forzati, soprattutto di coloro che “fuggono da violenze e persecuzioni”.
“Quanti sono forzati a lasciare le loro case o la loro terra saranno aiutati a trovare un luogo dove vivere in pace e sicurezza, dove lavorare e assumere i diritti e doveri esistenti nel Paese che li accoglie, contribuendo al bene comune, senza dimenticare la dimensione religiosa della vita”, sottolinea.
Un altro gruppo al quale il Papa dedica la sua attenzione è quello degli studenti che vanno in altri Paesi, “una categoria anche socialmente rilevante in prospettiva del loro rientro, come futuri dirigenti, nei Paesi di origine”.
“Nella scuola e nell'università si forma la cultura delle nuove generazioni: da queste istituzioni dipende in larga misura la loro capacità di guardare all'umanità come ad una famiglia chiamata ad essere unita nella diversità”, conclude.
Il messaggio del Papa per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2011 - Tutti hanno diritto a emigrare e a usufruire dei beni della terra (©L'Osservatore Romano - 27 ottobre 2010)
I migranti e le popolazioni locali che li accolgono fanno parte di "una sola famiglia" e hanno lo stesso diritto a usufruire dei beni della terra. Lo scrive Benedetto XVI nel messaggio per la prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebrerà il 16 gennaio 2011.
Cari Fratelli e Sorelle,
la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato offre l'opportunità, per tutta la Chiesa, di riflettere su un tema legato al crescente fenomeno della migrazione, di pregare affinché i cuori si aprano all'accoglienza cristiana e di operare perché crescano nel mondo la giustizia e la carità, colonne per la costruzione di una pace autentica e duratura. "Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13, 34) è l'invito che il Signore ci rivolge con forza e ci rinnova costantemente: se il Padre ci chiama ad essere figli amati nel suo Figlio prediletto, ci chiama anche a riconoscerci tutti come fratelli in Cristo.
Da questo legame profondo tra tutti gli esseri umani nasce il tema che ho scelto quest'anno per la nostra riflessione: "Una sola famiglia umana", una sola famiglia di fratelli e sorelle in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali, dove anche le persone di varie religioni sono spinte al dialogo, perché si possa trovare una serena e fruttuosa convivenza nel rispetto delle legittime differenze. Il Concilio Vaticano ii afferma che "tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra (cfr. At 17, 26); essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti" (Dich. Nostra aetate, 1). Così, noi "non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 6).
La strada è la stessa, quella della vita, ma le situazioni che attraversiamo in questo percorso sono diverse: molti devono affrontare la difficile esperienza della migrazione, nelle sue diverse espressioni: interne o internazionali, permanenti o stagionali, economiche o politiche, volontarie o forzate. In vari casi la partenza dal proprio Paese è spinta da diverse forme di persecuzione, così che la fuga diventa necessaria. Il fenomeno stesso della globalizzazione, poi, caratteristico della nostra epoca, non è solo un processo socio-economico, ma comporta anche "un'umanità che diviene sempre più interconnessa", superando confini geografici e culturali. A questo proposito, la Chiesa non cessa di ricordare che il senso profondo di questo processo epocale e il suo criterio etico fondamentale sono dati proprio dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene (cfr. Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 42). Tutti, dunque, fanno parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione.
"In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio" (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 7). È questa la prospettiva con cui guardare anche la realtà delle migrazioni. Infatti, come già osservava il Servo di Dio Paolo VI, "la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli" è causa profonda del sottosviluppo (Enc. Populorum progressio, 66) e - possiamo aggiungere - incide fortemente sul fenomeno migratorio. La fraternità umana è l'esperienza, a volte sorprendente, di una relazione che accomuna, di un legame profondo con l'altro, differente da me, basato sul semplice fatto di essere uomini. Assunta e vissuta responsabilmente, essa alimenta una vita di comunione e condivisione con tutti, in particolare con i migranti; sostiene la donazione di sé agli altri, al loro bene, al bene di tutti, nella comunità politica locale, nazionale e mondiale.
Il Venerabile Giovanni Paolo II, in occasione di questa stessa Giornata celebrata nel 2001, sottolineò che "(il bene comune universale) abbraccia l'intera famiglia dei popoli, al di sopra di ogni egoismo nazionalista. È in questo contesto che va considerato il diritto ad emigrare. La Chiesa lo riconosce ad ogni uomo, nel duplice aspetto di possibilità di uscire dal proprio Paese e possibilità di entrare in un altro alla ricerca di migliori condizioni di vita" (Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 2001, 3; cfr. Giovanni XXIII, Enc. Mater et Magistra, 30; Paolo VI, Enc. Octogesima adveniens, 17). Al tempo stesso, gli Stati hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. Gli immigrati, inoltre, hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l'identità nazionale. "Si tratterà allora di coniugare l'accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001, 13).
In questo contesto, la presenza della Chiesa, quale popolo di Dio in cammino nella storia in mezzo a tutti gli altri popoli, è fonte di fiducia e di speranza. La Chiesa, infatti, è "in Cristo sacramento, ossia segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (Conc. Ecum. Vat. ii, Cost. dogm. Lumen gentium, 1); e, grazie all'azione in essa dello Spirito Santo, "gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani" (Idem, Cost. past. Gaudium et spes, 38). È in modo particolare la santa Eucaristia a costi tuire, nel cuore della Chiesa, una sorgente inesauribile di comunione per l'intera umanità. Grazie ad essa, il Popolo di Dio abbraccia "ogni nazione, tribù, popolo e lingua" (Ap 7, 9) non con una sorta di potere sacro, ma con il superiore servizio della carità. In effetti, l'esercizio della carità, specialmente verso i più poveri e deboli, è criterio che prova l'autenticità delle celebrazioni eucaristiche (cfr. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mane nobiscum Domine, 28).
Alla luce del tema "Una sola famiglia umana", va considerata specificamente la situazione dei rifugiati e degli altri migranti forzati, che sono una parte rilevante del fenomeno migratorio. Nei confronti di queste persone, che fuggono da violenze e persecuzioni, la Comunità internazionale ha assunto impegni precisi. Il rispetto dei loro diritti, come pure delle giuste preoccupazioni per la sicurezza e la coesione sociale, favoriscono una convivenza stabile ed armoniosa.
Anche nel caso dei migranti forzati la solidarietà si alimenta alla "riserva" di amore che nasce dal considerarci una sola famiglia umana e, per i fedeli cattolici, membri del Corpo Mistico di Cristo: ci troviamo infatti a dipendere gli uni dagli altri, tutti responsabili dei fratelli e delle sorelle in umanità e, per chi crede, nella fede. Come già ebbi occasione di dire, "accogliere i rifugiati e dare loro ospitalità è per tutti un doveroso gesto di umana solidarietà, affinché essi non si sentano isolati a causa dell'intolleranza e del disinteresse" (Udienza Generale del 20 giugno 2007: Insegnamenti ii, 1 [2007], 1158). Ciò significa che quanti sono forzati a lasciare le loro case o la loro terra saranno aiutati a trovare un luogo dove vivere in pace e sicurezza, dove lavorare e assumere i diritti e doveri esistenti nel Paese che li accoglie, contribuendo al bene comune, senza dimenticare la dimensione religiosa della vita.
Un particolare pensiero, sempre accompagnato dalla preghiera, vorrei rivolgere infine agli studenti esteri e internazionali, che pure sono una realtà in crescita all'interno del grande fenomeno migratorio. Si tratta di una categoria anche socialmente rilevante in prospettiva del loro rientro, come futuri dirigenti, nei Paesi di origine. Essi costituiscono dei "ponti" culturali ed economici tra questi Paesi e quelli di accoglienza, e tutto ciò va proprio nella direzione di formare "una sola famiglia umana". È questa convinzione che deve sostenere l'impegno a favore degli studenti esteri e accompagnare l'attenzione per i loro problemi concreti, quali le ristrettezze economiche o il disagio di sentirsi soli nell'affrontare un ambiente sociale e universitario molto diverso, come pure le difficoltà di inserimento. A questo proposito, mi piace ricordare che "appartenere ad una comunità universitaria (...) significa stare nel crocevia delle culture che hanno plasmato il mondo moderno" (Giovanni Paolo II, Ai Vescovi Statunitensi delle Provincie ecclesiastiche di Chicago, Indianapolis e Milwaukee in visita "ad limina", 30 maggio 1998, 6: Insegnamenti xxi, 1 [1998], 1116). Nella scuola e nell'università si forma la cultura delle nuove generazioni: da queste istituzioni dipende in larga misura la loro capacità di guardare all'umanità come ad una famiglia chiamata ad essere unita nella diversità.
Cari fratelli e sorelle, il mondo dei migranti è vasto e diversificato. Conosce esperienze meravigliose e promettenti, come pure, purtroppo, tante altre drammatiche e indegne dell'uomo e di società che si dicono civili. Per la Chiesa, questa realtà costituisce un segno eloquente dei nostri tempi, che porta in maggiore evidenza la vocazione dell'umanità a formare una sola famiglia, e, al tempo stesso, le difficoltà che, invece di unirla, la dividono e la lacerano. Non perdiamo la speranza, e preghiamo insieme Dio, Padre di tutti, perché ci aiuti ad essere, ciascuno in prima persona, uomini e donne capaci di relazioni fraterne; e, sul piano sociale, politico ed istituzionale, si accrescano la comprensione e la stima reciproca tra i popoli e le culture. Con questi auspici, invocando l'intercessione di Maria Santissima Stella maris, invio di cuore a tutti la Benedizione Apostolica, in modo speciale ai migranti ed ai rifugiati e a quanti operano in questo importante ambito.
Da Castel Gandolfo, 27 settembre 2010
Troppa Caritas, poca Veritas - di Michael Novak © Copyright Liberal, 26 ottobre 2010
Non è un segreto che, all'incirca nell'ultimo ventennio, il Cattolicesimo statunitense sia stato segnato da una spaccatura sempre più aspra tra due grandi fazioni sui temi dell'economia politica. Alcuni propendono a sinistra, altri a destra. Alcuni preferiscono un approccio stile Reaganomics all'economia politica e si rallegrano del boom durato circa trent'anni. Altri prediligono un approccio stile Clintonomics (che in pratica somigliava molto alla Reaganomics), mentre altri si rivelano fautori di un'impostazione più significativamente guidata da ed incentrata sullo stato, sulla scorta della Obamanomics.
Nella sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, Benedetto XVI sottolinea che la Chiesa non dovrebbe essere intesa né come detentrice di una particolare ideologia circa l'economia politica né come desiderosa di imporre soluzioni pratiche specifiche per singoli paesi o regioni. Egli non intende pronunciarsi sul disaccordo in economia politica tra cattolici o esponenti di altro credo.
Al contrario, il suo obiettivo è porre gli interrogativi sull'economia politica in un contesto più ampio, teologico e filosofico, affrontando questioni quali il ruolo della caritas nella teologia, e profondi concetti quali il bene comune, la persona e la comunità umana nella filosofia. Inoltre, nelle sue concrete discussioni riguardanti gli attuali scenari, quasi sempre Benedetto sembra accordare un punto alla sinistra, solitamente radicata nella Populorum Progressio (1967); egli la riprende o la qualifica descrivendo gli insegnamenti appresi tra il 1967 ed il 1991, come avvenuto in Centesimus Annus. La sua pratica segue le intenzioni. Egli consente ad entrambi i cavalli di correre, senza scegliere con quale dei due schierarsi. In un certo senso, tale apertura mentale sembra lasciare perplessi molti lettori, e fa apparire questo particolare scritto di Benedetto XVI come insolitamente blaterante ed opaco. Spesso esso sembra dirigersi in due direzioni contemporaneamente. Alcune frasi sono praticamente impossibili da analizzare in termini pratici: cosa mai significa ciò in pratica? Tale rifiuto di concentrarsi sull'ideologia racchiude una grande forza che compensa la sopraccitata debolezza. La sua forza sta nell'elevare la mente ad altre dimensioni della verità, ed evitare battibecchi che appartengono più alla Città dell'Uomo che alla Città di Dio. Ad esempio, tale più alta prospettiva consente al Papa di collegare il vangelo di vita a quello sociale, per così dire. Ciò è assolutamente sensato dal punto di vista pratico. Ad esempio, negli Stati Uniti circa 50 milioni di interruzioni di gravidanza sono state effettuate dal 1973. Se a quelle bambine e bambini fosse stato consentito di vivere, milioni di loro farebbero ora parte della forza lavoro, aiutando con i propri contributi previdenziali a sanare il deficit nei nostri programmi di previdenza sociale. Le politiche concernenti l'inizio della vita condizionano profondamente lo stato sociale man mano che la popolazione invecchia. L'Europa, con il suo fallimento nel mantenere la popolazione ad un adeguato livello di crescita, o persino di semplice ricambio generazionale, sta condannando il proprio stato sociale ad una morte accelerata.
Vi propongo qui di seguito uno dei miei passaggi pratici preferiti di questa enciclica. Le frasi ricordano più il lessico burocratico che il linguaggio pastorale profondo e caldo con cui Benedetto è solito esporre le questioni. Tuttavia, esse rafforzano alcune delle più importanti conquiste del pensiero sociale cattolico degli ultimi 115 anni: «Considerando la reciprocità come il fulcro di ciò che sarà un essere umano, la sussidiarietà rappresenta il più efficace antidoto contro ogni forma di stato sociale omnicomprensivo. È in grado di tenere in considerazione sia della molteplice articolazione dei piani - e pertanto della pluralità dei soggetti - così come del coordinamento di tali piani. Di qui il principio di sussidiarietà si adatta in special modo a gestire la globalizzazione e a dirigerla in direzione di un autentico sviluppo umano. Al fine di non generare un pericoloso potere universale di natura tirannica, la governance della globalizzazione deve essere informata dalla sussidiarietà, articolata su piani diversi e com- prendenti livelli differenti che possano operare insieme. La globalizzazione richiede certamente autorità, nella misura in cui essa pone il problema del bene comune globale che necessita di essere perseguito.Tale autorità, comunque, deve essere organizzata in modo sussidiario e stratificato, se si vuole che non infranga la libertà e che assicuri risultati efficaci in termini pratici». (57) All'interno di questa sezione, ed in molte altre parti dell'enciclica, inizia ad emergere uno schema in virtù del quale Benedetto XVI solleva un punto importante per la sinistra politico-economica, per poi qualificarlo in termini altrettanto importanti per le politiche economiche del centro e centro-destra. Ad esempio, riguardo il suo interesse ad aiutare lo stato sociale, il Santo Padre avverte in primis che «le nazioni più sviluppate economicamente dovrebbero fare tutto ciò in loro potere per allocare più grandi porzioni del proprio prodotto interno lordo agli aiuti per lo sviluppo, rispettando così gli obblighi che in tal senso la comunità internazionale si è assunta».
Egli quindi inserisce immediatamente tale suggerimento all'interno dei limiti della sussidiarietà e della responsabilità personale: «Un modo per fare ciò è rivedere i programmi di assistenza sociale interna e le politiche di welfare, applicando il principio di sussidiarietà e creando migliori sistemi di welfare integrato, con la partecipazione attiva di individui privati e della società civile». (60) Come per il governo globale, vediamo Benedetto XVI invocare ancora una vera autorità politica mondiale: «Per gestire l'economia globale; per ravvivare le economia colpite dalla crisi; per evitare qualsiasi deterioramento dell'attuale crisi ed il più grande squilibrio che ciò comporterebbe; per portare avanti un disarmo integrale e tempestivo, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la tutela dell'ambiente e per regolare le migrazioni: per tutto questo, vi è urgente bisogno di una vera autorità politica mondiale, come il mio predecessore Beato Giovanni XXIII indicò alcuni anni or sono».
Ma egli è rapido nel definire tale autorità in termini di moderazione e di aderenza al nucleo dei principi del pensiero sociale cattolico: «Tale autorità dovrebbe essere regolata per legge, per osservare coerentemente i principi di sussidiarietà e solidarietà, per cercare di generare il bene comune, e per sancire un impegno al fine di assicurare un autentico ed integrale sviluppo umano ispirato dai valori della carità nella verità». (67) Per quanto mi riguarda, tuttavia, preferisco la parte iniziale della Caritas. Quand'ero giovane, desideravo scrivere un libro sulla centralità della peculiare forma di amore di Dio, chiamata caritas in luogo del più comune e concreto amor, nell'architettura della teologia di Tommaso d'Aquino. Adoravo il suo breve trattato sulla carità (la purtroppo scadente traduzione inglese di caritas) e spesso ho organizzato seminari al riguardo. Negli ultimi anni, spinto in parte dalle sfide del mio amico ed a volte sparring partner David Schindler del John Paul II Institute di Washington, ho sviluppato a partire dal concetto di caritas le fondamenta della mia idea di democrazia, capitalismo (o, meglio detto, l'economia creativa o inventiva), e della Repubblica delle Virtù. Poiché per lungo tempo ho tentato di indirizzare l'insegnamento sociale cattolico in tale direzione, il vedere Benedetto XVI scrivere della caritas in maniera così bella mi riempie di immensa soddisfazione. Vi è però da dire con tutta sincerità che se sottoponessimo ogni frase di Caritas in Veritate ad analisi alla luce della verità empirica circa gli eventi nel campo dell'economia politica dal 1967, scopriremmo quanto essa non sia così colma di veritas quanto di caritas. Ad esempio, ai benefici per i poveri raggiunti attraverso la diffusione dell'impresa economica e dei mercati (capitalismo è per alcuni un termine troppo spiacevole da utilizzare) dovrebbe essere dedicata un'attenzione decisamente maggiore. Nel 1970, ad esempio, l'aspettativa di vita media per uomini e donne in Bangladesh era di 44,6 anni, ma dal 2005 era cresciuta a 63. Pensate a quale gioia e quale vigore una tale accresciuta longevità comporta per i singoli nuclei famigliari. Similmente, il tasso di mortalità infantile (numero di decessi per ogni 1.000 nascite) in Bangladesh nel 1970 era 152, o il 15,2%. Dal 2005 tale media era stata ridotta a solo 57,2, o a poco meno del 6%. Di nuovo, quale dolore viene evitato a madri e padri, e cosa ciò determina. Vi è sicuramente molto altro da fare al fine di innalzare gli standard sanitari dei cittadini bengalesi. Ma i progressi compiuti solo negli ultimi trent'anni risultano senza precedenti nella storia mondiale.Vi sono molte altre omissioni di fatti, insinuazioni discutibili, ed errori non intenzionali sparsi per questa enciclica. Il lavoro di redazione si è rivelato alquanto impreciso. Ogni deficienza di veritas nuoce alla caritas. Questo è il meraviglioso e potente collegamento dell'enciclica.
Molti all'interno del Vaticano hanno attribuito la recente turbolenza economica all'"avidità". Che prove possono essere addotte a giustificazione di ciò? I più astuti analisti riconoscono senza dubbio come l'attuale "crisi"abbia avuto inizio nel settore finanziario, ed all'interno di tale settore più precisamente nel mercato immobiliare, ed all'interno di questo campo nei due istituti di credito appartenenti a e garantiti dal governo, conosciuti universalmente come Fannie Mae e Freddy Mac. Queste due entità quasi-governative, guidate dal Congresso statunitense, sono da sole responsabili di aver concesso più della metà di tutti i mutui sulla casa negli Stati Uniti, e tutti virtualmente sottocosto. Hanno avuto un ammirevole obiettivo per vent'anni: garantire la proprietà della casa a quanta più povera gente possibile. In realtà, un partito al Congresso spinse le banche ed altri investitori a modificare le proprie politiche e procedure bancarie: concedere prestiti senza garantire la capacità dei proprietari di case di pagare le rate mensili del mutuo, ed offrire loro prestiti al più basso tasso d'interesse possibile, quasi vicino allo 0%. Ciò equivaleva a gettare benzina sul fuoco delle pratiche bancarie, e molti dei miei colleghi presso l'American Enterprise Institute iniziarono a prevedere una catastrofe finanziarie per tale settore del sistema finanziario almeno quindici anni or sono, in un flusso costante di pubblicazioni. Il colpevole partito al Congresso rifiutò di dare retta a tali avvertimenti, e fece ostinatamente resistenza all'adozione di misure di controllo su Fannie Mae e Freddy Mac che li avrebbero ricondotti sulla strada delle buone pratiche bancarie. È seguito il disastro, come previsto. Ammettiamo che le motivazioni del partito colpevole fossero pure, persino nobili - aiutare gli indigenti. (Naturalmente, essi avevano anche più veniali ragioni di potere politico). Ma i modi e gli strumenti scelti si sono rivelati estremamente distruttivi. Si generò una smania di redistribuzione, di nuovi benefici per i più poveri, di intervento governativo nella lunga, sobria tradizione di pratiche bancarie inculcateci tempo addietro dai nostri progenitori puritani che minava il sistema degli investitori detentori di pacchetti azionari sui mutui immobiliari; solitamente una delle forme più sicure di investimento, fonte di ritorni economici costanti mese dopo mese. Un "pacchetto" dopo l'altro che includeva cattivi mutui è crollato, e nessuno sapeva più di quali pacchetti ci si potesse fidare. Emerge quindi la vecchia tendenza a vedere l'economia contemporanea come particolarmente soggetta all'"avidità". Due o tre dei primi papi medievali sono spesso stati accusati di essere tra gli uomini più avidi della storia dell'umanità. L'avidità è universale, e presente in ogni epoca, spesso in forma virulenta. Max Weber, il grande sociologo dell'economia, presentò argomentazioni atte a dimostrare che il capitalismo è tra tutti i sistemi economici umani quello che meno genera avidità, non il contrario. Una ragione è data dal fatto che esso offre ai ricchi uomini di successo la possibilità di mettere a rischio una volta ancora tutto il proprio capitale, al fine di investire in nuove imprese. I capitalisti non accumulano la propria ricchezza. La investono. E questi investimenti creano nuove industrie, nuove tecnologie, nuovo lavoro e nuova ricchezza. Nei fatti, i sistemi capitalisti producono più nuova ricchezza in virtù del proprio metodo di "redistribuzione" di qualsiasi altro sistema. Essi risollevano i poveri in quantità ampia - più di mezzo miliardo di esseri umani in Cina ed India solo nel corso degli ultimi trent'anni. In effetti, gli Stati Uniti erano un paese "sottosviluppato" meno di due secoli fa, fino a che la scelta di creare una repubblica commerciale (invece di una repubblica aristocratica) fu portata avanti con coerenza.
Ovunque è sorto il capitalismo, la carestie tra le genti sono scomparse, mentre un tempo erano endemiche ogni vent'anni o giù di lì in molte delle maggiori città del mondo. Similmente, piaghe ed epidemie diffuse sono state in alcuni casi eliminate, in altri contenute, e virtualmente in ogni caso sono state le fonti dei nuovi vaccini e di altri metodi preventivi che presto le avrebbero arginate. Ciò che rende il capitalismo vero capitalismo è la sua inventiva, la sua creatività, il suo know-how (come esplicitato dalla Centesimus Annus #32). Non molti anni fa, una signora in età avanzata fu ritrovata morta nella propria casa in Lousiana. Negli armadi attorno a lei, nella credenza e nel suo cassettone, furono rinvenute decine di certificati di possesso di titoli ed obbligazioni. Venne fuori che sulla carta la signora era estremamente ricca. Tuttavia ritrovando i certificati, i testimoni non pensarono alla donna come ad un Re Mida, un'avara, bramosa e cupida. Al contrario, pensavano fosse un po'"matta" poiché non aveva reinvestito i titoli ma ne aveva fatto dei materiali creativi. Il capitalismo ha reso l'avara obsoleta. Blaise Pascal ebbe a scrivere che il primo obbligo dell'azione morale è pensare chiaramente. Più veritas, per favore!
26/10/2010 – INDIA - Responsabile di una scuola cattolica picchiato da 500 indù davanti alle telecamere di Nirmala Carvalho
Fratel Philip, dell’Holy Cross, è stato sequestrato e picchiato perfino dall’ispettore di polizia. È accusato di molestie verso le studentesse della scuola, ma secondo il suo superiore e le autorità della scuola egli è innocente. Chi lo ha colpito, l’ha minacciato di morte se osa sviluppare di più la scuola e se non permette ai proprietari di un tempio indù di requisire un terreno della scuola per far passare una strada.
Bangalore (AsiaNews) – Rapito da un autobus, trascinato a scuola davanti a circa 500 persone – molti con indosso la sciarpa color zafferano – picchiato fino a sfigurarlo, mentre tre telecamere dei canali del Karnataka filmavano l’assalto. Fra chi lo colpiva, anche B N Gopalakrishna, l’ispettore di polizia di Whitefield (un’area vicino a Bangalore), sempre sotto l’occhio delle telecamere.
È accaduto a fratel Philip Noronha (v. foto), dell’istituto dell’Holy Cross, vice-direttore della Holy Cross School di Whitefield. Secondo i picchiatori fr. Philip avrebbe usato un linguaggio scurrile e fatto avances alle ragazze della scuola.
Il superiore provinciale dell’Holy Cross, Sesuraj S, interrogato da AsiaNews, afferma che il suo confratello “è totalmente innocente” e accusa alcuni che hanno guidato la folla e pianificato l’assalto di avere altri fini: sequestrare alcune proprietà della scuola e distruggere il suo buon nome.
Il mattino del 23 ottobre, fr. Philip era su un pullman di linea, diretto da Whitefield a Bangalore. A un certo punto, nella zona di Big Bazar sulla Old Madras Road, un pullmino blocca l’autobus e sequestra il fratello, riportandolo a scuola. Lungo la strada cominciano a picchiarlo accusandolo di molestie e di linguaggio sconveniente. Secondo Sesuraj, alcuni dei picchiatori lo hanno minacciato, esigendo che “la scuola blocchi restauri e ampliamenti in corso e che un problema di terre sia risolto a loro favore”.
All’arrivo a scuola vi sono circa 500 persone in subbuglio e diversi cameramen di alcuni canali televisi in lingua kannada (lingua ufficiale del Karnataka). Mentre questi filmano, fr. Philip viene trascinato nel suo ufficio e picchiato in modo indiscriminato dalla folla.
Fr. Philip è ora ricoverato all’ospedale Vaidehi a Whitefield ed è sotto shock. Ha la faccia tumefatta e non riesce a parlare e mangiare. Da parte sua, la polizia ha accettato solo a fatica la denuncia sporta dalle autorità della scuola.
Secondo le prime ipotesi, tutto il piano è stato architettato dai genitori di due studenti della 10ma classe. Uno di loro è responsabile di una scuola vicina, anche se ha voluto che sua figlia andasse alla Holy Cross School.
Fr. Philip, nella sua denuncia, cita il nome di MG Reddy. “Mentre andavamo nel pullmino – recita la denuncia – MG Reddy e altri tre hanno minacciato di uccidermi se io mi interesso troppo all’andamento della scuola. Egli mi ha anche minacciato di eliminarmi se io mi interesso troppo alle questioni di terreni che vi sono a scuola e che io ho bloccato”.
Proprio affianco alla scuola sta sorgendo un tempio indù e i proprietari hanno richiesto da tempo di rilevare una parte del terreno della scuola per farci passare una strada che porta al tempio. Fr. Philip, da quando è stato nominato superiore della comunità dell’Holy Cross nella scuola, ha escluso ogni idea di cessione del terreno.
Paolucci, G. - Immigrazione. Un problema o una risorsa? La sfida della convivenza nel segno dell’identità arricchita - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - Edizioni Viverein - 96 pagine, 5 euro
Sono più di cinque milioni gli stranieri che vivono stabilmente in Italia. E’ una piccola componente di un flusso migratorio che a livello mondiale, secondo le stime delle Nazioni Unite, arriverà a fine anno a quota 214 milioni. Ma è una grande sfida che il nostro Paese deve gestire con lungimiranza, se si vuole che quello che da molti viene considerato solo “un problema” diventi una risorsa. In una breve e intensa trattazione di 90 pagine, Giorgio Paolucci – caoporedattore del quotidiano Avvenire, che da anni si occupa dell’argomento – fornisce numeri e valutazioni sulle numerose tematiche collegate all’immigrazione: il lavoro, la casa, la scuola, la famiglia, il dialogo religioso, la cooperazione allo sviluppo, la criminalità, la cittadinanza, le modifiche da apportare all’attuale normativa. Il libro si lascia alle spalle sia le immagini stereotipate e spesso strumentali fornite dai media, sia i luoghi comuni generati dall’intolleran¬za o, all’opposto, dal buonismo. Ne esce una fotografia ravvicinata di un fenomeno irreversibile e pervasivo, che deve essere governato in maniera realistica e lungimirante e chiama in causa le responsabilità delle istituzioni statali, degli enti locali, del mondo politico, della Chiesa, dell’intera società, degli immigrati stessi.
In particolare, annota l’autore, “il generoso impegno per la tutela delle condizioni dei migranti, che vede impegnate molte realtà del mondo cattolico, si deve coniugare con il compito precipuo della Chiesa: l’annuncio del Vangelo a tutti gli uomini, la capacità – per dirla con le parole della Prima lettera di San Pietro – di ‘essere sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi’. Una malintesa interpretazione di tale compito ha talvolta indotto a identificare l’evangelizzazione con l’aiuto materiale ai migranti, con il conseguente rischio di ridurre la Chiesa a una sorta di grande agenzia umanitaria. Ma la sua ragion d’essere e la sua missione, che certo non dimentica le necessità concrete, vanno ben al di là di esse”. “Il rischio di trasformare l’esercizio della carità in un anonimo supermercato della solidarietà, anche al di là delle intenzioni di chi generosamente opera nella trincea dell’accoglienza, è sempre in agguato – sottolinea Paolucci - e può essere scongiurato esercitando la necessaria vigilanza affinché le ragioni della fede possano essere sempre testimoniate con coraggio e limpidezza verso ogni uomo”.
Nel libro vengono analizzati i limiti dei modelli di integrazione finora adottati in Europa: l’assimilazionismo, che ha trovato il suo campo d’azione soprattutto in Francia e considera l’immigrato come una persona da omologare, relegando alla sfera privata i valori etici e religiosi e sostanzialmente neutralizzando il contributo che può portare alla costruzione di una “casa comune”; il multiculturalismo (realizzato soprattutto in Gran Bretagna e Olanda) che nel segno di una concezione relativista ha portato alla formazione di microcosmi etnici, “pezzi” di società parallele e autoreferenziali con rapporti forti al loro interno ma deboli con il resto del Paese. Facendo tesoro dei limiti evidenziati da questi due modelli, l’autore presenta alcune proposte per costruire una “via italiana all’integrazione” che può nascere dalla riconquistata consapevolezza dei fondamenti della nostra storia e dei valori che fondano la nostra società, e insieme dall’apertura al contributo dei popoli che vogliono mettere radici in terra italiana. Una ricetta che l’autore chiama “identità arricchita” e che si profila come un’interessante ipotesi di lavoro su un terreno controverso e scottante.
I barbari non hanno distrutto tutto...- Scritto da David il 26/10/10 - Roger Scruton di Emanuele Boffi da http://www.fattisentire.org/
L’Occidente si può ricostruire. Per il «filosofo più influente al mondo» nella nostra civiltà il rancore ormai ha preso il posto della fede, «ma i barbari non hanno ancora distrutto tutto. La pietas ci salverà»
A chi gli chiede di rispondere all’accusa di essere un «reazionario», risponde: «Sì, sono un reazionario. Nel senso che reagisco a ciò che vedo». Roger Scruton coltiva il sano pessimismo dei bastian contrari e l’irriducibile speranza degli architetti medioevali che, anche in tempi di barbarie, sanno dove andare a porre la pietra angolare dei loro pensieri. Giornalista, scrittore, filosofo, insegna all’Institute for the Psychological Sciences della Virginia. è conosciuto come l’ispiratore del thatcherismo, anche se la definizione può essere presa per buona solo a patto di non cristallizzarla in schemi impermeabili all’imprevisto di nuove intuizioni.
E' l’autore della Guida filosofica per tipi intelligenti e del Manifesto dei conservatori, scrive di vino sul The New Statesman e dei temi più disparati sull’American Spectator. Quello che per il New Yorker è «il più influente filosofo al mondo» ama la musica (è compositore), l’architettura (ma non le archistar) e la caccia alla volpe, Thomas Stearns Eliot e Dante Alighieri. è stato in Italia nel maggio 2006, invitato da Tempi per una serie di incontri con Giuliano Ferrara. Vita e Pensiero ha da poco pubblicato La cultura conta. Fede e sentimento in un mondo sotto assedio, brillante omaggio funebre alla cultura, dimensione ormai sconosciuta in tempi di basso impero. Eppure Scruton, anche quando s’ostina a pestare il mortaio sull’insensatezza degli idoli moderni, non si sofferma mai alla sterile elegia del passato. è per questo che, proprio al termine dell’ultimo libro si trova il capitolo “Raggi di speranza”, in cui il filosofo inglese elenca le persone e i gruppi di persone che hanno saputo nell’ultimo mezzo secolo del Novecento «rigettare il nichilismo dominante»: «Giovanni Paolo II, il movimento giovanile di Comunione e Liberazione, fondato in Italia da don Luigi Giussani, correnti filosofiche tipo quella promossa da René Girard in Francia, da Jan Patocˇka in Europa Centrale, da Czeslaw Milosz in Polonia e Aleksandr Solzenicyn in Russia».
Come il suo adorato Eliot, Scruton si rammarica che il mondo moderno non ci permetta più di «prendere una parola e da essa estrarne il mondo», ma che, al contrario, le parole siano usate per occultare. Celare il reale per «nasconderne il significato» al fine di imporre nuove eresie, «cioè verità esasperate in menzogne». Un suo maestro, Thomas Masaryk, negli anni Trenta, previde un futuro in cui «ogni fede sarebbe stata messa in dubbio, ogni moralità relativizzata, ogni appagamento annientato». E, aggiunge Scruton a Tempi, «certamente abbiamo fatto molta strada in quella direzione. Ma non siamo ancora arrivati a quel punto, e l’umanità nel passato è spesso tornata indietro dall’orlo del baratro, come ha fatto alla fine dei Secoli Bui».
Nichilismo a luci rosse
Eppure i segnali che giungono, in particolare dal Vecchio Continente, sembrano indicare che il piede che franerà nell’abisso è stato levato. Nella sua Inghilterra – dove, ebbe a dire, ormai «Dio è uno straniero, un immigrato clandestino» – Sky Real Lives ha mandato in onda il suicidio di Craig Ewert, malato di Sla. Il suicidio uscito dalla sfera della disfatta e della ribellione privata si è trasformato in show, documentario, reality. Per Scruton, in storie come questa, c’è «il potenziale per una sorta di pornografia della morte. I cuori delle persone saranno induriti dalle immagini del suicidio al punto che nessuno reagirà nemmeno se il suicidio è manifestamente assistito, e nemmeno quando quel che è presentato come “suicidio” non lo è affatto, ma è piuttosto il frutto di una manipolazione o di un inganno».
Così come è una frode quella spacciata dal sito internet del quotidiano francese Liberation che ha scelto di ospitare un “Osservatorio sull’eterosessualità”. Sulle istanze omosessuali – «è l’ortodossia della nuova ummah dei disaffezionati» – Scruton puntò l’indice contro «la filosofia contemporanea che ha ridotto il problema della morale sessuale a quello dei diritti. Viviamo in un tempo esposto alla causa.
Scuola - Il caso della Spagna: solo la libertà di scelta migliora l'istruzione. - 26-10-2010 - di Javier Restán (ilsussidiario.net)
A dispetto delle classiche interpretazioni ottimistiche alle quali ormai siamo stati abituati da Rodríguez Zapatero, i rapporti dell’Ocse (come l’ultimo Education at a glance) e le statistiche nazionali continuano a mostrare le gravi limitazioni del sistema educativo spagnolo. Allo stesso modo, il “buonismo” dei membri del governo socialista e l’attivismo con cui il ministro dell’Educazione, Ángel Gabilondo, copre la sua impotenza, non impediscono che la sensazione generale nei confronti dell’educazione spagnola sia la sfiducia.
Quest’estate era Lucía Figar, Assessore all’educazione della Regione di Madrid, regione governata dal Partito Popolare, che al Meeting di Rimini affermava che “la pessima situazione dell’educazione spagnola è conseguenza della visione che ha ispirato venticinque anni di leggi educative”. Un giudizio negativo che non migliorava, quando, sempre in quell’occasione sosteneva che “quella tendenza è stata corretta in quasi tutti i paesi europei tranne che in Spagna, dove si è purtroppo incrementata”.
In effetti, tutte le leggi educative della democrazia spagnola dopo Franco sono state leggi socialiste con un sostrato culturale comune: un modello pedagogico “comprensivo” e costruttivista vincolato a una sfiducia nei confronti dell’idea e della pratica della libertà di educazione. Leggi, con una grande carica ideologica orientate a un chiaro cambiamento di mentalità.
Il risultato di questa legislazione è stato una forte decrescita dei risultati del sistema, l’adattamento dei professori e degli alunni ai minimi richiesti, una mancanza di aspettative del sistema scolastico riguardo le possibilità dei bambini e dei giovani. È successo, insomma, che si è degradata l’idea dell’apprendimento come obiettivo della scuola.
Questa deriva ideologica dell’educazione ha colpito l’apprendimento delle capacità basiche ed elementari che dovrebbero essere acquisite nel periodo dell’educazione elementare: leggere, scrivere e fare computi matematici basici. D’altro canto, siamo spettatori di un impoverimento sempre più grande riguardo i contenuti culturali minimi nelle medie. Tutto ciò costituisce, com’è evidente, un vero problema per il futuro del nostro paese.
L’educazione spagnola è stata contagiata da questa grave malattia che consiste nella difficoltà a trasmettere i contenuti fondamentali della propria tradizione e della propria cultura. L’ideologia delle leggi educative e di molti professori e maestri mette in luce un malessere nei confronti del proprio passato e, di conseguenza, una grande difficoltà nel momento di trasmettere i contenuti della nostra tradizione e la nostra storia.
Un chiarissimo esempio non solo del persistere di questa malattia, ma addirittura del suo peggioramento sono le nuove materie introdotte nel curricolo scolastico dall’attuale governo socialista: Scienze del mondo contemporaneo e Educazione alla cittadinanza (ambedue brevi e di forte tendenza all’addottrinamento), e tutto ciò a spese di un approfondimento solido della tradizione letteraria, filosofica, storica, scientifica e religiosa spagnola, europea e mondiale.
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I patti costituzionali raggiunti nel periodo della Transizione spagnola, gli anni di passaggio dal periodo franchista alla democrazia a fine degli anni '70, favorirono il sistema dei cosiddetti conciertos educativos tramite i quali la Pubblica amministrazione finanzia nella totalità i centri educativi privati che lo richiedono e che così accettano di sottomettersi a una determinata normativa in materia, tra le altre cose, di scolarizzazione e finanziamenti.
Al di là dei numerosi difetti inerenti a questo sistema (eccessivo controllo statale, centri educativi sottomessi alle Amministrazioni educative, progressiva assimilazione del settore privato alla cultura “statalista”) è vero che i finanziamenti educativi hanno garantito un ampio spazio di libertà. Queste scuole oltre a essere molto richieste dai genitori sono ritenute molto prestigiose. Tutto ciò ha dato loro uno status di qualità indiscutibile.
In questo momento le scuole statali rappresentano il 67% del totale, le scuole private “parificate” un 27% e le scuole completamente private (quelle che non hanno nessun tipo di aiuto statale) un 6%. Nonostante tutto ciò sono poche le Regioni che hanno dato impulso all’iniziativa sociale in materia educativa negli ultimi vent’anni. L’eccezione, com’è confermato anche da molti rapporti, è la Regione di Madrid, dove la creazione di scuole e quindi la pluralità di offerta educativa è cresciuta enormemente negli ultimi anni.
Va tenuto conto del fatto che le ideologie comprensiviste e costruttiviste hanno fatto danni molto più gravi alla scuola statale che a quella sostenuta dall’iniziativa sociale. Quest’ultima ha avuto sempre margini maggiori di flessibilità che le hanno permesso di evitare alcuni degli aspetti più nocivi propri di queste ideologie pedagogiche. Lì si trova una delle chiavi per migliorare la scuola statale nel futuro più immediato: introdurre maggiore libertà educativa.
Sebbene ci sia la mancanza di una legge educativa che permetta maggiore libertà a livello nazionale, bisogna tener conto che in Spagna la gestione in materia di politiche educative è completamente decentralizzata nelle Regione. Tant’è che è sempre più difficile parlare di un “sistema educativo spagnolo” perché le facilitazioni alle scuole private, le politiche di valutazione e un’alta percentuale dei contenuti del percorso accademico (45%) dipendono direttamente dalla regione dove l’alunno studia.
È in ragione di tutto ciò che le politiche educative spagnole devono essere affrontate in modo prioritario nell’ambito regionale. Ma in quale direzione? Una cosa è chiara: non nella direzione intrapresa fino a questo momento. Come dicevamo prima, la strada che si sta percorrendo in Spagna in materia educativa è completamente sbagliata: abbiamo un sistema eccessivamente focalizzato nel controllo procedimentale, che ha trascurato la valutazione dei risultati e il loro miglioramento. Un percorso alternativo e molto più interessante potrebbe essere da una parte molta più autonomia e libertà per le scuole dal punto di vista formale e culturale (procedimenti, organizzazione, metodologia e, senz’altro, progetto educativo proprio) e, dall’altra, un rigoroso controllo dei risultati accademici da parte delle Amministrazioni.
Potremmo proporre in questi termini le linee generali per una nuova politica educativa: più libertà per lo sviluppo di progetti educativi propri e differenziati, sostenimento dell’implicazione delle famiglie nell’educazione, autonomia delle scuole, un percorso di studi di base con esigenze più alte e un sistema di valutazione generale con risultati pubblici. Questi possono essere, a mio parere e in linea di massima, i punti essenziali per un miglioramento globale dell’educazione spagnola, e non solo. Immersi come siamo in una mentalità statalistica, se vogliamo affrontare riforme di questo tipo ci vorrà, senz’altro, molto coraggio.
26/10/2010 - Bolivia: veto del governo all'articolo che legalizza i rapporti sessuali a 12 anni - Vatican Radio - All the contents on this site are copyrighted ©.
Álvaro García Linera, Presidente ad interim della Bolivia, nel corso di una conferenza stampa ha annunciato la decisione del governo di porre il veto sull'articolo 15 della discussa legge sulla salute sessuale e riproduttiva che depenalizza i rapporti sessuali dai 12 anni sino alla maggiore età (18 anni). In concreto, la legge non è stata promulgata ed è stata invece rinviata all'Assemblea nazionale che ora dovrà rivedere l'articolo che ha suscitato molte polemiche e una ferma condanna della Chiesa cattolica. Garcia Linera, in questi giorni con funzioni di presidente essendo Evo Morales in viaggio in Iran, ha affermato - riferisce l'Ansa - che ''un governo democratico deve stare attento a raccogliere le critiche'', ma ha anche definito ''ipocriti, farisei e demagoghi'' quelli che non hanno apprezzato la norma in questione. Il governante ha poi aggiunto: ''Sebbene lo Stato debba sanzionare chi commetta delitti, non è suo compito regolare le relazioni sessuali''. Intanto, ha precisato García Linera, "mentre si discute e si approva una versione definitiva della legge 497, in questa materia resta vigente l'articolo 308 del Codice penale che vieta i rapporti sessuali prima della maggiore età". La posizione assunta del governo boliviano, nelle ultime ore, sembrava quasi scontata poiché poche volte - dal giorno della sua elezione - il Presidente Evo Morales si era trovato ad una così vasta, ampia e trasversale protesta, in particolare proprio da parte dei quei settori sociali che lo sostengono, fra cui le etnie aborigine del Paese. D'altra parte Garcia Linera ha anche anticipato l'intenzione del governo di chiedere al Parlamento un indurimento delle pene per le persone colpevoli di atti di pedofilia e parlando specificamente dei membri del clero che si sono macchiati con questo reato, ha aggiunto che in questi casi la realtà è più grave poiché si "abusa della fiducia spirituale". (L.B.)
PiùVoce.net 21 Ottobre 2010 - Come potenziare il circuito virtuoso tra società civile e coscienza del credente - L`AFASIA SUI VALORI NON S`ADDICE AI CATTOLICI di Paola Ricci Sindoni
Non è facile cogliere subito la densità e le implicazioni pratiche di quell’espressione, molto citata, di Benedetto XVI, secondo cui: “ La questione sociale è divenuta radicalmente questione antropologica” (Caritas in veritate, 75). Infatti – a ben vedere – la questione sociale riguarda soprattutto la pluralità delle manifestazioni umane in ambito pubblico, mentre la questione antropologica attiene alla dimensione singola dell’uomo che, pur vivendo in differenti contesti, risponde alla sua personale coscienza mediante atti e comportamenti che lo qualificano come persona morale.
Ci ha pensato il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua Prolusione alla 46° Settimana Sociale ad offrire ad una folta ed attenta platea alcune coordinate per meglio interpretare in concreto le ragioni di quell’espressione. Non basta infatti constatare che ogni emergenza sociale ha come riferimento essenziale una personale visione dell’uomo e della sua vicenda storica. Occorre ulteriormente argomentare la questione, come ha fatto il cardinale, indicando il surplus di valore antropologico che la Rivelazione cristiana garantisce, quando vede l’uomo come apertura ontologica alla Trascendenza e come costitutivamente disponibile alla relazione intersoggettiva.
Quando – ad esempio – il credente esprime una ragionevole e coerente attenzione alla vita nel rispetto assoluto di tutte le sue fasi, dal concepimento sino alla sua fine naturale, è in grado di insinuare dentro il vivere civile una forza innovativa e trasformatrice di impensabile valore. Al contrario, quando la società si dimostra indifferente, se non ostile, alla cura dei viventi, specie nei momenti di maggiore fragilità, si espone al rischio di nichilismo pratico, con effetti negativi che si ripercuotono all’interno di tutto il tessuto sociale. Anche uno sguardo attento alla famiglia, concepita come preziosa cellula del vivere sociale, costituisce un antidoto efficace all’attuale disfacimento dei legami affettivi.
Parte da qui l’urgenza di potenziare un circuito virtuoso tra società civile e coscienza del credente, convinto quest’ultimo che le ragioni del suo credere, lungi dal doversi rinchiudere nelle pareti del privato, devono cercare nella pratica pubblica la diffusione di valori condivisibili per tutti. I cattolici italiani non possono contentarsi – ha continuato Bagnasco – di esprimere soltanto in modo testimoniale l’adesione a un universo di valori, se non quando li praticano dentro gli affari della città con un impegno politico sempre più esigente. Da qui l’affondo della relazione: “Aspettarsi che i cattolici si limitino al servizio della carità perché questa è un fronte che raccoglie consensi e facili intese, chiedendo invece l’afasia convinta o tattica su altri versanti divisivi e quindi inopportuni, significherebbe tradire il Vangelo e quindi Dio e l’uomo”.
Che espressione forte e coraggiosa! Che lezione per quanti, impegnati da cattolici in politica, esprimono timidamente la propria appartenenza ecclesiale, salvo poi adattarsi rapidamente alla dinamiche distorte del potere! I cattolici in politica – sembra di capire – non possono più permettersi di cadere nella trappola di quanti pretendono da loro equidistanza dalla fede e dalla Chiesa, in nome di una distorta concezione della laicità (che spesso prende la forma del laicismo). Né possono più scolorire la loro appartenenza ecclesiale allineandosi alle logiche delle strategie politiche decise da pochi.
Impresa certo difficile, ma necessaria per quanti sanno di essere, alla sequela dell’unico Maestro, “sale della terra e luce del mondo” (Mt 5, 13-14), come ha ribadito il cardinale, mostrando anche questa volta di saper coniugare l’altezza della prospettiva credente con l’ampiezza della visione del nostro presente.
La rivoluzione dei santi Lorenzo Albacete - mercoledì 27 ottobre 2010 – il sussidiario.net
Quando leggerete questo editoriale mancherà circa una settimana alle elezioni di mezza legislatura negli Stati Uniti. Poi ci sarà l’esplosione di esperti, osservatori, analisti, giornalisti e via dicendo, che inizieranno a discutere i risultati. Subito dopo ci sarà qualche altra cosa che attirerà l’attenzione della nazione. Che riesca a sopravvivere la maggioranza Democratica progressista, o che sia spazzata via dai candidati Repubblicani saliti per tempo sul carrozzone del Tea Party, le domande rilevanti poste durante la campagna elettorale rimarranno senza risposta. E il futuro sarà determinato dalla distribuzione del potere tra i vincitori.
Solo i santi e chi persevera nella ricerca della santità continueranno a sollevare domande e a offrire alla società i frutti creativi delle intuizioni rese possibili dalla fede. Solo i santi continueranno a “marching on”, ad andare avanti.
Mi è stato detto da una fonte attendibile che quando Papa Giovanni Paolo II visitò Cuba, Fidel Castro gli chiese di far rinascere nei giovani dell’isola la volontà di servire il Paese. Castro disse al Papa che erano proprio i giovani cattolici ispirati dal Papa che per la maggior parte si mostravano entusiasti di lavorare in favore della giustizia sociale, e sembra che citasse la Gioventù Cattolica e le figlie di Madre Teresa. Per questo sperava che la visita del Papa avrebbe risvegliato lo spirito rivoluzionario della gioventù cubana. Giovanni Paolo II rispose che la gioventù non aveva bisogno di un rinnovato spirito rivoluzionario, bensì di incontrare, credere e rimanere unita a Gesù Cristo. Questo è il modo in cui la Chiesa, la comunione dei santi, contribuisce alla ricerca della giustizia sociale.
Non so cosa abbia pensato Castro della risposta del Papa, ma so quanto sia difficile per molti, progressisti o conservatori, comunisti o capitalisti, socialisti o liberisti, accettare quanto affermato da Papa Giovanni Paolo II.
Questa è stata la questione al cuore del dibattito sulla Teologia della liberazione, cioè se la fede sorgesse dall’azione o piuttosto l’azione fosse guidata dalla fede, se il primato fosse della ortoprassi o della ortodossia. Papa Giovanni Paolo (aiutato dall’allora Cardinal Ratzinger, che sostenne il peso maggiore della battaglia) respinse il primato dell’ortoprassi. Questo non significa, però, che fosse in favore del primato dell’ortodossia intesa come corretta formulazione di dottrine astratte. Per lui, l’ortoprassi era una forma di moralismo, ma l’ortodossia era una visione della realtà resa possibile dall’incontro con la gloria di Cristo.
A mio parere, la migliore formulazione data da Giovanni Paolo II della questione è il suo dramma “Fratello di nostro Dio”, in cui racconta la storia di Adam Chmielowski, un patriota polacco, intellettuale, politico e pittore, nato il 20 agosto del 1845 e morto il giorno di Natale del 1916.
I cristiani e l'immigrazione Di Francesco Agnoli del 26/10/2010, in Politica, da http://www.libertaepersona.org )
A me sembra che la situazione dell’Europa di oggi assomigli terribilmente a quella della fine dell’Impero romano. Una grandezza passata, circondata di rovine. Una civiltà si dissolve piano piano, senza neppure accorgersene. Si canta e si balla, come sul Titanic, senza comprendere cosa stia per accadere.
L’impero romano crollò anzitutto per motivi interni: la corruzione, la disgregazione familiare, laborto di massa che portò ad una crisi demografica devastante. Popoli senza terra si accorsero di poter entrare, come la lama nel burro, in un Impero senza popolo, che spesso era stato costretto a chiamarli per primo, avendo bisogno di braccia e di giovani soldati.
Nacque così il periodo più difficile del Medioevo, quello dei primi secoli dopo il 476 d.C: i germani erano veramente dei barbari, con usanze e costumi feroci. Praticavano la faida, l’ordalia, veneravano dei guerrieri, adoravano serpenti ed alberi, praticavano il sacrificio umano… Ad accoglierli, però, non ci fu soltanto un impero in decadenza: di fronte a sé i barbari trovarono anche la cultura latina e soprattutto, il cristianesimo in espansione. Successe così che i vinti riuscirono, con la loro superiorità, a conquistare piano piano, dopo anni e anni di asprezze, guerre, povertà, i vincitori. Col tempo, soprattutto grazie a papi, santi e ad alcune donne, come Clotilde e Teodolinda, i barbari si convertirono alla Chiesa e alla latinità.
Carlo Magno è un esempio di tutto ciò: figlio dei dominatori, rifondò l’Impero, dandogli anche una struttura culturale e religiosa. L’Europa dopo il Mille, quella delle cattedrali, dei Comuni, di Dante, di Giotto, delle università e degli ospedali, sorse dunque dopo secoli in cui una idea forte, quella cristiana, si era affermata e aveva permesso un lento amalgamarsi di popoli e di culture.
Ma oggi? Mentre gli italiani e gli europei non hanno più figli, mentre la famiglia occidentale vive una crisi terribile, popoli stranieri spingono sui confini, in cerca della nostra ricchezza, dietro la quale, però, non vi è più nulla. Di fronte a questa massa di immigrati che avanza vi sono varie posizioni possibili. Anzitutto c’è quella culturalmente dominante, sostenuta dalla sinistra.
Secondo questa visione l’immigrazione di massa è di per sé un bene: non bisogna allarmarsi, prendere provvedimenti di alcun genere. Nell’ideologia di sinistra, che odia la mentalità cristiana, tutte le altre culture sono ben accette e relativisticamente eguali. “Accogliere” significherebbe lavorare per la società multietnica, senza scorgere in essa alcuna problematicità. Questa visione è il cavallo di Troia dell’Europa: gli islamici di oggi, o gli slavi dei paesi ex comunisti, non sono fortunati come i Germani di un tempo. Di fronte a sé non trovano nulla, e certamente non saranno mai attratti dalla nostra cultura, così decadente e così priva di identità. In quanto nemica dell’identità storica e religiosa dell’Europa, la sinistra prepara un futuro di ghetti e di conflitti sociali, perché è impossibile che popoli tanto diversi, in un’epoca di migrazioni così imponenti, si possano incontrare in nome del niente. L’ideologia sinistra dell’eguaglianza, infatti, non fonda nulla: è la stessa che ha permesso a Stalin di sterminare i propri compatrioti russi, al cinese Mao i cinesi, a Pol Pot i suoi fratelli cambogiani…
La risposta cristiana al problema dell’immigrazione è assai diversa. Essa presuppone anzitutto uno sguardo realistico: occorre che lo Stato tuteli anzitutto i propri cittadini, e che non confonda l’accoglienza con la concessione di una licenza deprecabile. All’epoca dell’Impero in fiamme S.Agostino invitava gli africani del suo tempo ad accogliere coloro che scappavano dal nord dell’Impero, fraternamente. Chiedeva loro di essere fratelli dello straniero, chiedeva sacrifici materiali (che oggi non sappiamo più fare), ma non di sacrificare la propria fede e la propria cultura (cosa che oggi abbiamo già fatto). Agostino invitava a riconoscere in ogni uomo una creatura di Dio, dotata di anima immortale: è solo questo sguardo, infatti, non quello materialista di derivazione comunista o liberale, che può farci vedere uno straniero, anche importuno, non solo come un nemico.
Solo questo sguardo genera una accoglienza che non sia semplicemente un “entra pure, tanto il paese è grande e difficilmente toccherà a me occuparmi dei casi tuoi”, ma qualcosa di più profondo, e quindi di più veramente significativo. A me sembra che di fronte al dramma dell’immigrazione la Chiesa dovrebbe provvedere a nuovi missionari, che sappiano le lingue degli immigrati e che vadano loro incontro, per sovvenire ai loro bisogni materiali ma anche spirituali. Solo santi missionari possono essere oggi, come furono in passato, capaci di permettere che l’immigrazione di popoli diventi incontro e non solamente scontro. Se questa è la missione dei credenti, non deve però esserci nessun sovrapposizione tra la carità dei singoli e il ruolo dello Stato.
A Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, sostengono sempre, anche a sproposito, personalità di sinistra. Per cui la piantino di definire “anticristiani”, quando torna comodo, governi che semplicemente cercano di compiere il loro dovere, regolando un fenomeno, quello immigratorio, che di per sé è sempre drammatico, per chi arriva in una nuova terra, ma anche per chi accoglie. Il nemico più feroce dell’Europa, l’Attila di oggi: l’idea relativista e il mito multiculturale, cioè il principio secondo cui rinunciare a ciò che è per noi essenziale sia il presupposto per incontrare gli altri. Il Foglio, 21/10/2010
IL DRAMMA DI SARAH, LA SPERANZA DELL’ «ORCHESTRA SPARAGNINA» - Il vuoto o la vicinanza Un bivio per i nostri ragazzi - Mentre loro imparavano a cantare, lei doveva imparare troppo in fretta a morire. Non è, poi, lontano Corigliano d’Otranto da Avetrana. Pezzi di terra dura di DAVIDE RONDONI– Avvenire, 27 ottobre 2010
Mentre loro imparavano a cantare, lei doveva imparare troppo in fretta a morire. Non è, poi, lontano Corigliano d’Otranto da Avetrana. Pezzi di terra dura. Ma un posto è divenuto tristemente noto per l’omicidio e il buio che ci sta dietro e dentro, quel buio che ora i media tendono con pasto infame a moltiplicare. L’altro posto invece è stato protagonista qualche giorno fa su un altro palco, diverso da quelli luccicosi e freddissimi delle tv. Un gruppo di ragazzi di Corigliano infatti stava sul palco dell’Auditorium della Musica di Roma, insieme al maestro Ambrogio Sparagna, noto cultore e musico delle tradizioni italiane, l’uomo che ha reinventato la taranta e tanti altri canti popolari nostri.
L’auditorium era tutto esaurito per un appuntamento della Ottobrata romana che il maestro dedica alla riscoperta delle canzoni italiane. E quei ragazzi portati fin lì per esibirsi, dopo aver lavorato con i loro insegnanti coordinati da Sparagna, riscoprendo il grico, la lingua che da quelle parti è sedimento e gloria di qualcosa di remoto e di futuro, ecco quei ragazzi erano uguali a lei che fu Sarah, ragazzina simbolo di una provincia italica che ha voglia di esser protagonista, di svelarsi, di esistere. Ma loro hanno incontrato degli adulti disposti a compromettersi con loro, adulti vicini come gli insegnanti, e poi un maestro, uno che poteva anche non farlo, che non ha bisogno di farlo se non per comunicare una positività che gli brucia le vene, lo fa cantare e gli fa amare il passato come il futuro.
La differenza sta qui. Nell’aver i nostri ragazzi davanti degli adulti interessati a loro oppure no, o interessati a trarne solo profitto di vario genere. Quanti adulti lucrano sui ragazzini?
Inventando per loro marchingegni e mode, roba che fa mercato certo, ma anche fa vuoto. Quanti adulti siedono in consigli di amministrazione che ingrassano sui consumi inebetiti di ragazzini a cui rari adulti si accostano con la pazienza e la passione di trasmettere qualcosa per cui valga la pena vivere? L’alternativa andata in scena tra i grandi palchi televisivi pieni di parole e di niente e il palco pieno di musica e di cuore è l’alternativa di sempre. Da un lato il vuoto che inghiotte, dall’altra la pazienza che valorizza.
L’hanno chiamata «orchestra sparagnina», come piccolo simpatico omaggio al loro maestro. Un gesto di gratitudine per un adulto che si implica con dei ragazzi e sceglie di farlo indicando una postività dell’essere protagonisti. Non l’inseguimento delle luci della ribalta, ma lo scavo dentro di sé e dentro la propria storia e tradizione per avere più forte il senso e la pietà per quel che siamo e dovremo essere. Di Sarah e del suo strazio continueranno a parlare straziandola ancora adulti a cui non interessa niente dei ragazzini. Usano lei ancora per fare audience per i loro programmi. Usano i ragazzini per fare audience, per farli sembrare cantanti in miniatura, in una 'pedofilia' dell’immagine che fa ribrezzo, e usano i ragazzini per riempirsi le tasche. Buttano i riflettori su di loro per succhiare loro l’anima e i soldi. Di questi altri, invece, contenti d’aver cantato, dei ragazzi di Corigliano noi vogliamo parlare e degli adulti che li stanno accompagnando.
Perché indicare la strada da riprendere sempre è il modo migliore, l’unico vero modo per stare di fronte anche alle tragedie, per onorarne le vittime e per non lasciar spazio al nostro borghessissimo, comodo e mostruoso spirito che orrendo si commuove tanto e poi lascia tutto come prima…
E D I TO R I A L E - LA CONFUTAZIONE DEI VOLTI DELL’ATEISMO - MARIO IANNACCONE – Avvenire, 27 ottobre 2010
Il primo, Piergiorgio Odifreddi, è impegnato nella polemica anticristiana con un piglio sarcastico e argomenti degni delle scuole di propaganda positivista del Secondo Impero. Il secondo, Corrado Augias, ha uno stile più soffice quando discute di cristianesimo e cristianità, di Gesù e Chiesa, nelle mille occasioni in cui gli è concesso farlo; tiene in mano gli occhiali, il volto reclinato, un dito a segnare la pagina di un libro testé letto, lo sguardo pensoso. Sembra un uomo alla ricerca e ostenta sempre un invidiabile garbo. Il terzo, Vito Mancuso, ha un’aria mite e intelligente ed è, addirittura, docente di Teologia moderna e contemporanea. Definisce il senso complessivo del suo lavoro come una «rigorosa teologia laica», un «vero e proprio discorso su Dio», ma tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia, suoi principali interlocutori. È certamente il più attrezzato dei tre, quello che d’istinto solleva più simpatie. Sono personaggi diversissimi ma Vincenzo Vitale non ha dubbi: sono, tutti, «volti dell’ateismo» come scrive nel libro intitolato, appunto, «Volti dell’ateismo. Mancuso, Augias, Odifreddi. Alla ricerca della ragione perduta» (Sugarco Edizioni). Dove s’incarica di confutare gli errori metodologici, teologici, teoretici, epistemologici di questi scrittori di libri di successo e attivi divulgatori la cui polemica vuole essere distruttiva (Odifreddi) o riparativa (Augias) o ricostruttiva (Mancuso). La parte dedicata ad Augias («Corrado Augias: ovvero della profanazione ideologica») mira a dimostrare come tale autore sia ideologicamente accecato e i suoi libri siano pieni di grossolani errori. Quanto ad Odifreddi («Piergiorgio Odifreddi ovvero del nulla») il titolo dice già molto e non occorre dilungarsi oltre. «Vito Mancuso: dell’eresia spiegata al popolo» è invece la sezione dedicata al 'teologo laico' di Carate Brianza, colui che si è dato l’incarico, addirittura, di «rifondare» la teologia. Vitale rileva quelle che ritiene possibili eresie: la negazione che l’anima umana sia creata da Dio; la negazione del peccato originale; la negazione della resurrezione; la negazione della possibilità della dannazione. Perché Mancuso è - spiega Vitale - un docente di teologia ma «non un teologo», e i suoi libri un «pastiche» fra fisica, metafisica, storia e teologia. Egli, che vuole essere rifondatore della teologia, rifiuta il modo proprio di procedere di tale disciplina oltre a negarne le basi rivelate. Con quel loro tono superiore, sprezzante, Mancuso, Augias e Odifreddi sono anche 'nuovi' gnostici del genere descritto ieri su queste pagine da Roberto Timossi. Il loro relativismo che dichiara disincanto verso dogmi e verità rivelate riafferma però altri dogmi proclamandoli indubitabili e indiscutibili. Gli errori sui quali Vitale si concentra sono prima di tutto razionali perché, come scrive Antonio Socci nella prefazione, il libro «è anzitutto una brillante e affascinante apologia della razionalità». Dal momento che Mancuso, in particolare, pubblica i suoi libri «nella speranza di venire confutato» e che qualora sia convinto ad accettare di nuovo le verità dogmatiche della Chiesa, ne sarà «riconoscente», Vitale ci prova, «in tutta umiltà, a meritarsi la sua riconoscenza, confutandolo». Il guanto è, amabilmente, lanciato.