Nella rassegna stampa di oggi:
1) LA CEI CHIEDE “IMPEGNI CONCRETI” AL GOVERNO - Su agenda bioetica, crescita demografica, federalismo solidale e sviluppo del Sud di Antonio Gaspari (ZENIT.org)
2) MONS. FISICHELLA: IL “BENE COMUNE” È SCOMPARSO DALL'ORIZZONTE POLITICO - In un incontro a Pisa sull’enciclica sociale “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI di Aldo Ciappi
3) Servo di Dio François-Xavier Nguyen Van Thuân (1928-2002) - 04-10-2010 - di Omar Ebrahime dal sito http://www.vanthuanobservatory.org
4) Cinque domande a Berlusconi di Giorgio Vittadini - martedì 5 ottobre 2010 – il sussidiario.net
5) Avvenire.it, 5 ottobre 2010 - LA GIORNATA MONDIALE DELL'INSEGNANTE - Lo sguardo di un «prof» può regalare la felicità di Alessandro D'Avenia
6) Avati: sfido il cinema parlando di Alzheimer - «Solo l’amore argina questa malattia» DI GIACOMO VALLATI – Avvenire, 5 ottobre 2010
LA CEI CHIEDE “IMPEGNI CONCRETI” AL GOVERNO - Su agenda bioetica, crescita demografica, federalismo solidale e sviluppo del Sud di Antonio Gaspari (ZENIT.org)
ROMA, lunedì, 4 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Vanno bene l’agenda bioetica, la crescita demografica, il federalismo solidale, lo sviluppo del Sud, ma è ora che diventino “impegni concreti”. Così monsignor Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha risposto alle domande dei giornalisti, nel corso della consueta conferenza stampa di presentazione del comunicato finale del Consiglio episcopale permanente riunitosi a Roma dal 27 al 30 settembre.
Venerdì primo ottobre, rispondendo a ZENIT in merito all’agenda bioetica presentata dal governo e alle dichiarazioni del Premier sulla necessità di una crescita demografica, monsignor Crociata ha spiegato che “tutti gli sforzi in questa direzione sono benvenuti e salutati positivamente. Tutto ciò che va in questa direzione da chiunque e in tutte le parti venga compiuto non può che vederci apprezzare”.
“Quelli che definiamo valori irrinunciabili – ha affermato – costituiscono degli aspetti inseparabili gli uni dagli altri e sono a fondamento di una compiuta realizzazione della persona nei suoi rapporti e nelle esigenze della convivenza con gli altri sul piano sociale”:
Per questo motivo, ha aggiunto, “la difesa di questi valori che riguardano la persona e la vita è apprezzata da chiunque venga”.
Il Segretario generale della CEI ha però precisato che “i propositi e gli impegni manifestati sono certamente apprezzati e vanno incoraggiati affinché diventino operosità concreta”.
“I Vescovi italiani – ha illustrato monsignor Crociata - ascoltano la gente, seguono da vicino le persone, le famiglie e i gruppi che testimoniano la stessa preoccupazione”, e rilevano la necessità di “fare attenzione alle esigenze reali e concrete” della gente, che “si sono moltiplicate negli ultimi tempi e si manifestano sotto forma di disagio, di emarginazione e di veri e propri drammi personali e sociali”.
Per questi motivi, ha sottolineato, “la Chiesa ha a cuore la situazione del Paese ed esprime e conferma la volontà di reciproca collaborazione con lo Stato per il bene del Paese stesso” ribadendo “l’attesa della gente che si operi per affrontare i problemi concreti di ogni giorno delle famiglie, del lavoro e delle diverse persone con diverse esigenze”.
In merito, invece, al giudizio della CEI su una riforma federalista, monsignor Crociata ha risposto a ZENIT che “i Vescovi hanno costantemente espresso un giudizio non negativo sul processo in corso, ma sottolineando che tale federalismo ha l’esigenza di essere solidale e di salvaguardare l’unità del Paese”.
Circa “l’attenzione al Sud”, il Segretario della CEI ha aggiunto che “tale esigenza deve tenere presente da un lato il valore della solidarietà nazionale e dall’altro la responsabilità delle stesse regioni del Sud, che sono chiamate a coinvolgersi e a farsi carico dell’impegno di crescita e sviluppo”.
In merito alle tante domande su come la Chiesa italiana sta affrontando la scoperta degli abusi sessuale, monsignor Crociata ha precisato che le autorità ecclesiastiche stanno seguendo la via della ‘purificazione’ e del ‘rigore’ indicata dal Pontefice Benedetto XVI, con “massima attenzione alle richieste delle vittime alle quali si deve vicinanza e rispetto; l’accertamento tempestivo delle responsabilità; l’allontanamento anche cautelativo dai luoghi e dagli incarichi di chi sia coinvolto; l’avvio in tempi rapidi del procedimento canonico nei loro riguardi; nessun ostacolo al procedimento civile”.
L’episcopato italiano ha inolte avviato “un forte impegno nel discernimento vocazionale e nella formazione al sacerdozio e alla vita religiosa” e monsignor Crociata ha rassicurato il popolo cattolico perchè non risultino flessioni nella percentuale di cittadini che scelgono di destinare alla Chiesa cattolica l’8 per mille.
Circa i festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, il Segretario della CEI ha ricordato che “i cattolici hanno contribuito in maniera rilevante alla crescita e all’unità del Paese molto prima della firma del Concordato del 1929” e ha concluso: “la riflessione storica ha mostrato come la presenza dei cattolici in Italia è stata un fattore decisivo per la crescita del Paese e per la sua unità”.
MONS. FISICHELLA: IL “BENE COMUNE” È SCOMPARSO DALL'ORIZZONTE POLITICO - In un incontro a Pisa sull’enciclica sociale “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI di Aldo Ciappi
PISA, lunedì, 4 ottobre 2010 (ZENIT.org).- La nozione di “bene comune” è scomparsa dall'orizzonte politico. E' quanto ha detto mons. Rino Fisichella, Presidente del neo costituito Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, intervenendo il 2 ottobre, presso l’aula magna del Polo Didattico “Carmignani” dell’Università degli Studi di Pisa, a un incontro sull’enciclica sociale “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI.
All'incontro, organizzato dall’Ufficio per la Pastorale del Lavoro dell’Arcidiocesi di Pisa, erano presenti in veste di relatori, oltre a mons. Fisichella, anche due deputati cattolici, Enrico Letta e Maurizio Lupi, impegnati in opposti schieramenti politici (PD il primo e PDL il secondo), i quali hanno parlato ad un centinaio di presenti, tra cui monsignor Giovanni Paolo Benotto, Arcivescovo di Pisa, e diverse autorità civili.
Mons. Fisichella ha sottolineato la drammaticità della crisi che riguarda l’intera società umana a cui il Papa, con questa enciclica, ha voluto indirizzare un alto messaggio con al centro l’affermazione della “verità” come presupposto imprescindibile di ogni autentica azione “caritatevole” (“solo nella verità la carità risplende”; par. 3): verità sull’uomo e sulla sua dignità; verità sul lavoro, sul mercato, sullo “sviluppo”, che deve essere “integrale”, richiamando concetti già presenti in precedenti encicliche (tra cui la Populorum Progressio di Paolo VI°) aggiornati però alla luce di recenti fenomeni come la globalizzazione delle relazioni economico-sociali e delle comunicazioni, la caduta delle ideologie con il loro tragico bilancio storico, l’enorme sviluppo delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche.
In questo contesto, ha proseguito mons. Fisichella, il Papa ha voluto richiamare l’attenzione sulla centralità delle istanze etiche che devono sempre guidare l’ azione umana in ogni campo: nella ricerca scientifica come nelle sue applicazioni; nelle relazioni economico-sociali come nel mercato e nella finanza. Il primato, dunque, alla tutela della vita e della dignità umana come metro di giudizio di un autentico sviluppo.
Un altro fondamentale messaggio del Papa nell’enciclica – sempre secondo Fisichella - è rappresentato da quel binomio inscindibile “libertà-responsabilità” che caratterizza l’agire umano: la prima, come presupposto ineliminabile della seconda; la seconda come naturale proiezione dell’estrinsecarsi della prima. Concetto che, invece, l’uomo moderno sembra aver smarrito, preso com’è dalla ricerca di una malintesa libertà, come sinonimo di “autonomia”, nel suo significato proprio di “legge a se stessa”, che pertanto non dovrebbe rendere conto a nessuno, non solo a Dio, ma neppure al prossimo e alla comunità.
Questa crisi, prima di tutto culturale e antropologica, si riflette in ogni campo e quindi anche in quello politico-legislativo, dal cui orizzonte è sparita la nozione di “bene comune” per far posto all’ affermazione di figure giuridiche nuove sulla spinta di tendenze e costumi diffusi senza che ci si ponga il problema delle loro negative ricadute sulla società, se è vero, come è vero, che le leggi producono mentalità (si pensi, per esempio all’introduzione dell’obbligo del casco).
Ciò – ha proseguito Fisichella - ricorda molto il Re Mida che voleva che tutto si piegasse alla sua volontà, trasformandosi in oro ciò che toccava, ma che alla fine, proprio per questo, perse tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere.
Ogni diritto individuale, dunque, per essere autentico non dovrebbe mai perdere di vista la rete delle relazioni sociali in cui esso va ad inserirsi e che reclama altrettanti doveri; all’esercizio di ogni diritto si accompagna di regola una qualche “responsabilità”. Senza di ciò e senza una scala di valori coerente non vi può essere alcuna progettualità nella politica.
Quindi - secondo il presule - è necessario promuovere una politica che si proponga di produrre “cultura”: far diventare “cultura” l’ azione legislativa. Nei prossimi 20 anni, che si voglia o no, ha detto Fisichella, l’azione legislativa dovrà occuparsi delle grandi questioni della bioetica che, come Presidente emerito della Pontifica Accademia della Vita, lo stesso ha avuto modo di conoscere da vicino.
La scoperta della genetica e le nuove applicazioni delle tecniche bio-mediche hanno consentito grandi progressi ma allo stesso tempo hanno posto nuove ed angoscianti questioni: come si affronterà il problema della compravendita degli organi? Come si potrà evitare la programmazione di esseri umani di cui già oggi, in vitro, potrebbe determinarsi il sesso? Quali leggi dovrà darsi uno Stato per evitare derive facilmente immaginabili? Si dovrà prendere a misura soltanto la volontà legislativa espressa dall’autorità dello Stato sovrano, quale che essa sia? Questa è la provocazione.
La politica deve tornare ad avere il primato sull’economia, sulla finanza, sulla tecnologia; deve recuperare la sua capacità di orientamento sulla società anche alla luce dell’apporto che la Chiesa offre attraverso la formulazione di un nuovo “umanesimo” nel quale il bene dell’uomo deve tornare al centro di ogni realtà che lo circonda, non circoscritto, però, alla sua dimensione biologica, bensì aperto al trascendente, ossia a quella dimensione che dà pieno significato alle domande sul senso della vita che ciascuno di noi si pone.
Di seguito hanno preso la parola i due politici, entrambi facenti parte dell’intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, i quali hanno dato atto come, pur appartenendo a diversa area politica ma condividendo lo spirito e gli insegnamenti dell’enciclica e più in generale della dottrina sociale della Chiesa, sia possibile svolgere un lavoro comune e raggiungere importanti obiettivi (come, per esempio, il sostegno del 5 per mille alle associazioni non profit), di aiuto concreto alla società e alle sue articolazioni. Questo a condizione che si recuperi il significato alto della politica come servizio reso alla comunità e lontano dagli interessi individuali o di partito.
Ha concluso di nuovo mons. Fisichella richiamando due passaggi chiave nell’enciclica. Da un lato, la constatazione di come “oggi il mondo soffre per la mancanza di pensiero”. Riferito al mondo della politica, esso manca di “progettualità”, di “cultura”, e una nuova classe politica di cattolici è sollecitata dal Papa a dare uno specifico contributo in questo senso. Tuttavia, se può accettarsi una frammentazione della presenza cattolica nelle varie formazioni partitiche, ciò che non è accettabile e rappresenta una vera e propria tragedia è la “diaspora culturale” dei cattolici impegnati in politica.
La politica non deve ridursi a gossip né a personalismi. I problemi da affrontare sono molteplici e urgenti; si pensi, per esempio, al crollo delle nascite in questi ultimi decenni. Se non si interviene subito con politiche adeguate non esiste futuro per questo paese. Questo è uno dei frutti della “carenza di pensiero”.
Il secondo passaggio sottolineato da mons. Fisichella riguarda il richiamo ad una ricerca costante del bene comune che, per il cristiano, costituisce “la via istituzionale o possiamo dire politica della carità” (par. 7) ed il bene comune di una società non può prescindere dal bene della famiglia. E’ da condividere, secondo il presule, il giudizio di alcuni economisti e banchieri che hanno affermato che l’attuale crisi economica è frutto anche della grave crisi della famiglia che ha portato al collasso demografico.
Non vi potrà essere futuro per questo paese, dunque, se si non porrà al centro della politica la tutela della famiglia che è l’unica istituzione che può garantire, con l’insostituibile opera educativa dei genitori, alle generazioni future la trasmissione di quel patrimonio culturale che abbiamo ereditato. A questa importante missione sono chiamati i cattolici impegnati in politica.
Alla fine, il saluto ed il ringraziamento ai relatori e ai partecipanti di mons. Benotto, il quale ha ricordato come la stessa figura di S. Ranieri, uno dei primi santi laici della storia della Chiesa, di cui Pisa celebra quest’anno l’ 850° anniversario della morte, può a buon titolo essere presa quale fulgido esempio di operatore di concordia sociale in un tempo in cui la potente città marinara era lacerata anch’essa al suo interno da forti contrasti politici.
Servo di Dio François-Xavier Nguyen Van Thuân (1928-2002) - 04-10-2010 - di Omar Ebrahime dal sito http://www.vanthuanobservatory.org
Una vita eroica
François Xavier Nguyen Van Thuân (il nome Thuân letteralmente significa “che è in armonia con la volontà (di Dio)” nasce il 17 aprile 1928 nella cittadina di Hue da una famiglia di ‘mandarini’, ovvero alti dignitari dell'impero vietnamita, di salde radici cattoliche e patriottiche, con una folta schiera di martiri e confessori della Fede alle spalle. Si pensi solo che nel 1885 tutti gli abitanti del villaggio di sua madre erano stati bruciati vivi all'interno della chiesa parrocchiale in quanto seguaci di Cristo, eccetto suo nonno che a quel tempo studiava in Malesia. E, prima ancora, tra il 1698 al 1885, la storia di famiglia registra diversi atti di persecuzione religiosa verso i suoi antenati paterni. Il suo bisnonno paterno, in particolare, insieme con gli altri familiari, era stato forzatamente assegnato a una famiglia non cristiana di proposito, in modo che perdesse la fede. Egli stesso era solito raccontare questa vicenda al giovane François Xavier quando questi era piccolo. Narrava il bisnonno che, ogni giorno, all'età di 15 anni, faceva a piedi oltre 30 chilometri per portare a suo padre, che era recluso in prigione solo perché cristiano praticante, un po’ di riso e di sale.
Sua nonna invece, ogni sera, dopo le preghiere della famiglia, era solita recitare con trasporto il rosario per i sacerdoti, per le loro vocazioni e per la loro santità. Non sapeva né leggere né scrivere ma aveva una fede incrollabile. Da lei il giovane François apprenderà a vedere le vicende umane secondo lo sguardo misericordioso di Dio, leggendo anche gli eventi più misteriosi (e apparentemente contraddittori del suo tempo) alla luce della provvidenza divina.
Ma la figura fondamentale per la sua prima educazione cristiana e per l'iniziazione ai sacramenti è la madre Hiep. Ogni sera prima di andare a letto gli insegna le storie della Bibbia e si sofferma sulle testimonianze dei martiri, specialmente dei suoi antenati. Il piccolo François familiarizza così subito con il martirio: ai suoi occhi gli appare non come un fatto leggendario o come un mito d’altri tempi che si perde nei meandri della memoria ma qualcosa di profondamente reale ed è orgoglioso di aver avuto una famiglia con tanti testimoni della fede, usque ad efusionem sanguinis. La madre, poi, gli parla tanto anche di santa Teresina di Gesù Bambino (1873-1997) che resterà, con il martire messicano Miguel Pro (1891-1927), il suo patrono (e grande apostolo dell'Asia) Francesco Saverio (1506-1552) e il Curato d'Ars (1786-1859), una delle figure più amate dal futuro sacerdote. Soprattutto, la madre gli insegna a pregare. Così a 3 anni possiede già familiarità con le prime preghiere e a soli 8 anni il piccolo manifesta una viva devozione per la Madonna[1], che in seguito lo sorreggerà nei momenti più bui della vita. Nell’agosto 1941, all'età di 13 anni, interiormente già certo di una vocazione precocissima, entra nel seminario minore di An Ninh. I suoi insegnanti sono missionari francesi e sacerdoti vietnamiti da cui trae luminosi esempi di bontà, di pietà e di santità. Lui risponde con entusiasmo e arriva in breve tempo ad essere uno studente modello in grado di parlare fluidamente sei lingue: cinese, inglese, latino, francese, italiano e spagnolo.
L'11 giugno 1953, a 25 anni, dopo altri anni trascorsi al seminario maggiore di Phu Xuan a Hue per formarsi, viene ordinato sacerdote. Dopo appena tre mesi di servizio in una parrocchia però, gli viene diagnosticata una tubercolosi in uno stadio avanzato, che rende necessaria l'asportazione di gran parte del polmone destro. La diagnosi è grave e l'intervento si preannuncia delicato. Poco prima dell’intervento i chirurghi dell’ospedale militare francese di Saigon, dove viene ricoverato, fanno effettuare un’ultima radiografia del suo torace. Con grande sorpresa constatano tuttavia che il polmone destro è improvvisamente e completamente guarito, senza recare alcuna traccia di malattia, in modo inspiegabile per la scienza. Per il giovane sacerdote è veramente un miracolo e una prima testimonianza della sollecitudine del Signore per la sua vocazione.
Viene quindi inviato a Roma dove consegue il dottorato in diritto canonico alla Pontificia Università Urbaniana. Al termine degli studi rientra in patria e inizia a lavorare come docente presso il seminario minore a Hue, di cui nel 1960 viene eletto Rettore.
Il 1 novembre 1963 il Vietnam del Sud è vittima di un colpo di Stato. Il presidente Diem (zio di Van Thuân e da questi molto stimato come grande figura, uomo di profonda saggezza e notevole cultura) viene rovesciato dai suoi stessi generali. Diem e altri due zii di Van Thuân che si erano spesi a lungo per il bene del Paese e la libertà del Vietnam vengono assassinati con un colpo di pistola alla nuca. Il cuore del giovane sacerdote non può trattenere il risentimento e anche la rabbia per quelle morti ingiuste. Comprende allora di essere appena all'inizio del cammino spirituale, occorrerà ancora molto tempo perché riesca a perdonare completamente gli assassini dei suoi cari[2].
Nel giugno 1967, a sorpresa, viene nominato vescovo di Nha Trang[3]. Il suo impegno qui è molto intenso: consapevole della minaccia comunista che si profila all’orizzonte prepara il maggior numero di giovani al sacerdozio, quasi prevedendo la fine della libertà della Chiesa di lì a poco (come era già accaduto per il Vietnam del Nord e come in effetti puntualmente avverrà). In soli otto anni gli iscritti al seminario maggiore passano da 42 a 147, nel seminario minore da quasi 200 a più di 500. Ma si dedica anche all'educazione e alla formazione integrale dei laici (compito in cui crede molto), alla pastorale giovanile, a rafforzare e diffondere i Consigli parrocchiali presenti nella Diocesi.
Nel 1971 è nominato Consultore di quello che nel 1976 diventa l’attuale Pontificio Consiglio per i laici. In tale funzione si reca più volte a Roma, dove conosce un altro componente di quell’organismo, l’arcivescovo-metropolita di Cracovia, Karol Wojtyla, che in futuro avrà un ruolo importante nella sua vita (da Pontefice lo chiamerà tra l’altro alla Presidenza di un Pontificio Consiglio, gli affiderà la predicazione quaresimale degli Esercizi spirituali della Curia romana e al Papa, lo nominerà infine Cardinale)[4]. Il Pontificio Consiglio Cor Unum (il dicastero della Curia Romana che organizza e coordina le azioni umanitarie e caritative della Santa Sede in caso di crisi o emergenze internazionali), creato anch’esso nel 1971 da Paolo VI, s’impegna invece in questi anni nel Vietnam del Sud cercando di sostenere l’azione del COREV, un organismo locale creato con l’obiettivo di supportare la ricostruzione del Paese (l’acronimo sta per Cooperazione per la ricostruzione del Vietnam). Il vescovo Van Thuân viene nominato vice presidente effettivo del COREV. Si trova allora a dirigere un'opera immensa: aiutare gli oltre 4 milioni di persone sfollate a causa di 28 anni di guerra in Vietnam. Per due anni lavora ogni giorno (più di quattordici ore al giorno!) fin sull’orlo dell’esaurimento per reinsediare gli sfollati, nutrire gli affamati, alloggiare i profughi, acquistare le sementi e gli attrezzi agricoli a loro necessari per rifarsi una vita. Dimostra in quest’occasione grandi capacità: i villaggi finanziati dalla COREV a cui dà vita saranno un vero e proprio ‘successo umanitario’ secondo il giudizio dei principali osservatori internazionali presenti sul posto.
Il 30 aprile 1975, però, come egli stesso temeva da tempo, le truppe comuniste del Nord (i cosiddetti ‘Vietcong’) conquistano la capitale Saigon, che diventerà da ora in poi Ho-Chi- Minh, per Van Thuân è l'inizio del periodo più drammatico della sua vita. E' stato da poco nominato arcivescovo di Vadesi e coadiutore di Saigon da Papa Paolo VI (24 aprile) quando il 15 agosto viene convocato nel palazzo presidenziale e subito arrestato e incarcerato con l'accusa di essere un infiltrato di un governo straniero e nemico della rivoluzione comunista (“agente in un complotto tra il Vaticano e gli imperialisti” [gli Stati Uniti]), in realtà perché nipote dell’ex presidente del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem e figura ecclesiastica di crescente influsso sociale. Il suo motto episcopale è “Gaudium et spes” (Gioia e speranza). Il suo programma pastorale, conformemente alle indicazioni della nota Costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) di cui studia a lungo i documenti è quindi “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Resterà in carcere per 13 anni (fino al 1988), di cui nove in completo isolamento, senza mai essere processato.
Costretto agli arresti domiciliari nella casa parrocchiale di Cay Vong, all'interno della sua vecchia diocesi di Nha-Trang, nel mese di ottobre dello stesso anno inizia a scrivere una serie di messaggi alla comunità cristiana di cui continua a sentirsi pastore, guida e primo responsabile, sperando in cuor suo che possano giungere a destinazione. Grazie a Quang, un bambino di 7 anni, che gli procura di nascosto dei fogli di carta sui cui scrivere i suoi pensieri, il progetto potrà realizzarsi. Lo stesso bambino, di nascosto delle autorità, s'incarica infatti di portare i messaggi a casa in modo che i suoi fratelli e sorelle possano ricopiare quei testi e diffonderli a loro volta. Da qui nasce il suo primo libro intitolato: Il cammino della speranza[5]. Lo stesso accadrà più tardi, nel 1980, quando nella residenza obbligatoria di Giangxà, situata nel Vietnam del Nord, scriverà, sempre di notte e in segreto, il suo secondo libro: Il cammino della speranza alla luce della Parola di Dio e del Concilio Vaticano II e quindi il terzo: I pellegrini del cammino della speranza.
Il 19 marzo 1976 viene trasferito al campo di prigionia di Phu Khanh e rinchiuso in una cella angusta senza finestre. Inizia l'incubo peggiore: nessuno può avvicinarsi a lui e nessuno parla con lui, neanche le guardie. Ben presto l’isolamento totale produce l’effetto desiderato dagli aguzzini: privato di qualunque segno di presenza umana, Van Thuân comincia ad avere terrore del vuoto e del silenzio attorno a lui. I carcerieri usano anche l’oscurità per tormentarlo. Senza ragione, la fioca lampadina della cella viene spenta per giorni di seguito e il povero prigioniero non sa quando sia giorno o notte. Passa così periodi interminabili: a volte gli sembra di non esistere più nel mondo dei viventi. Giunge infine l’estate e la cella, infuocata come una fornace, comincia a emanare odori insopportabili a causa della vicina latrina. Van Thuân si stende allora sul pavimento sudicio e pone il volto vicino allo spazio vuoto sotto la porta per cercare di respirare un po’ d’aria mossa, ma riesce solo a sentire l’orribile fetore …. In uno stato di profonda prostrazione, alcuni giorni non riesce a ricordare neppure il Pater Noster o l’Ave Maria, gli sembra di impazzire. L’unico sollievo, ironia della sorte, è quando vengono a prelevarlo per gli interrogatori. Il fatto di vedere delle altre persone, di poter parlare, lo conforta.
Da Saigon viene poi trasferito in catene a Nha Trang, quindi al campo di rieducazione di Vinh-Quang, sulle montagne. Passa momenti durissimi, come un viaggio su una nave con 1500 prigionieri affamati e disperati.
Poi il lungo isolamento, durato nove anni. Ci sono due guardie soltanto per lui e ne seguono ogni movimento. In carcere non può portare con sé la Bibbia. Allora pensa di raccogliere tutti i pezzetti di carta che trova e riesce a comporre un minuscolo libro sul quale trascrive più di 300 frasi del Vangelo che ricorda a memoria. Per tutti questi lunghi anni l’unico suo sostentamento è la Santa Messa[6]: la celebrerà ogni giorno servendosi del palmo della mano a far da calice, con tre gocce di vino e una goccia d’acqua[7]. Il vino era riuscito ad averlo, è il caso di dire ‘provvidenzialmente’, in modo incredibile. Appena arrestato, gli avevano permesso di scrivere una lettera per chiedere ai suoi parenti più stretti le cose necessarie. Domandò allora un po’ di medicina per digerire. I famigliari compresero il significato vero della richiesta e gli mandarono una bottiglietta con il vino della Messa e l’etichetta: “medicina contro il mal di stomaco”. Le briciole di pane consacrato le conserverà in pacchetti di sigarette che gli altri prigionieri cattolici riusciranno poi a portare nelle loro celle in modo che tutti potessero avere Gesù Eucarestia in mezzo a loro …. La notte, quando possibile, riesce così addirittura ad organizzare dei veri e propri turni di adorazione davanti all'Eucarestia[8].
Si trova sempre in isolamento ad Hanoi quando un ufficiale della polizia gli porta un piccolo pesce che lui avrebbe dovuto cucinare. Il pesce era avvolto in due pagine dell'Osservatore Romano, che la polizia usava requisire quando arrivava per posta. Non credendo ai suoi occhi (la vendita e la diffusione del giornale della Santa Sede erano appunto vietati in Vietnam), senza farsi notare, Van Thuân lava bene quei due fogli e li fa asciugare al sole, conservandoli quasi come una reliquia. Nell’isolamento della prigione, quelle due pagine diventano per lui un segno di unione con Roma, la cattedra di Pietro e il suo Magistero, che tanto ama. La speranza e la forza che riesce a trasmettere, nonostante tutto, agli altri prigionieri nei rari posti in cui non è in isolamento fa sì che lo spostino continuamente. Una volta si ritrova in carcere con un colonnello comunista che deve scontare una piccola pena e che in realtà ha il compito di spiarlo. Il colonnello, colpito anche lui dalla sofferenza, ma anche dal coraggio di quest’uomo in cui tutto parla di Dio, passa qualche informazione alle autorità comuniste ma allo stesso tempo fa amicizia con Van Thuân e lo avverte dei pericoli in cui può incorrere.
Durante l'isolamento è solito celebrare la Santa Messa intorno alle 3 del pomeriggio, l’ora di Gesù sulla croce. Tutto da solo, canta la messa in latino, in francese e in vietnamita. Cantava anche gli inni come il Te Deum, il Pange Lingua, il Veni Creator Spiritus. Le guardie che lo ascoltano esterrefatte ne restano affascinate e gli chiedono di insegnare loro il Veni Creator Spiritus
La sua bontà instancabile, il suo amore anche e soprattutto per i nemici, colpiscono tutti ovunque si trova. Sulle montagne di Vinh Phù, nella prigione di Vinh Quang, una volta chiede a una guardia il permesso di tagliare un pezzetto di legno a forma di croce. La guardia lo accontenta. In un’altra prigione chiede un pezzo di filo elettrico. Temendo che volesse suicidarsi, l’agente si spaventa ma Van Thuân gli spiega che vuole semplicemente fare una catenella per portare la sua croce. Dopo tre giorni la guardia ricompare con un paio di pinze e insieme compongono una catenella. Da quella croce e da quella catena Van Thuân non si separa più. Le porta sempre al collo, anche dopo la sua liberazione, che avviene il 21 novembre 1998, festa della presentazione di Maria Santissima al tempio (Van Thuân era convinto che la sua liberazione fosse stata un ‘dono’ speciale della Vergine, “la Madonna mi ha liberato”[9], come disse egli stesso).
Espulso dal suo Paese è costretto all’esilio forzato a Roma. Qui si trasferisce dal 1991 mentre la sua nomina a cardinale avviene nel Concistoro del 2001 (il 21 febbraio). Dal 24 giugno 1998 è Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace (di cui era vicepresidente fin dall'aprile 1994). Nel marzo del 2000, anno del Grande Giubileo, viene chiamato da Giovanni Paolo II a predicare gli Esercizi spirituali di Quaresima al Papa e alla Curia romana: è il primo vescovo asiatico a ricevere questo onore nella storia della Chiesa[10]. Muore a Roma il 16 settembre del 2002 al termine di una lunga e dolorosa malattia in cui ha dovuto affrontare anche una rara forma di cancro: ha 74 anni. A cinque anni dalla morte, il 17 settembre 2007 presso la Congregazione per le cause dei Santi è iniziata la causa di beatificazione.
Al servizio della Dottrina sociale della Chiesa
Proprio presso il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace matura delle convinzioni che nel suo cuore alimenta da tempo come ad esempio quella relativa ad incentivare maggiormente la formazione del laicato per stimolare un autentico rinnovamento della Chiesa: a lui si deve il progetto di pubblicazione del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa dedicato personalmente a Giovanni Paolo II, una delle sue più profonde intuizioni e ancora oggi una bussola imprescindibile per orientare cristianamente la vita pubblica nelle società occidentali sempre più secolarizzate[11]. La Chiesa, per il Cardinale, conformemente al comando del Signore del Vangelo, è chiamata ad annunciare la Buona Novella a tutte le Nazioni, motivo per cui a essa spetta, per diritto naturale, uno spazio di libertà di espressione e quindi di annuncio che non può essere ristretto da nessuno. Van Thuân, che aveva passato 13 anni della sua vita nelle durissime prigioni di un regime comunista, liberticida e ateo[12], guarderebbe probabilmente con stupore agli odierni dibattiti sull'opportunità o meno della Chiesa (e dei singoli Episcopati nazionali) di intervenire nell'agone del dibattito pubblico manifestando preoccupazione (o soddisfazione) per l'approvazione o la cassazione di una legge o di un progetto di legge. La Chiesa, in quanto agenzia (anche sociale) che promuove il bene dell'uomo è evidentemente interessata alle sorti dei popoli e al loro sviluppo (materiale e morale) fin dalle origini, non da oggi, per cui sarebbe assurdo, ad esempio, negarle il diritto di pubblica espressione per una (malintesa) rivendicazione di laicità. Allo stesso modo, forte è in Van Thuân l'esigenza di formulare una ‘spiritualità politica’ che guardi alle necessità concrete dell'uomo nel quotidiano e non si chiuda nelle sacrestie. Per la famiglia in cui era vissuto «era una cosa scontata il fatto che i cristiani facessero della volontà di Dio il fondamento del pensiero e dell'azione in politica»[13]. Scendendo nell'agone politico, entrando nel mondo del lavoro, insegnando nella scuola e nell'università il cristiano è chiamato a plasmare il mondo secondo il lievito del Vangelo, rispettando certamente la natura propria dei singoli spazi (e quindi, ad esempio, nelle democrazie moderne rispettando la Costituzione, le leggi e o fondamenti dello Stato di diritto) ma senza per questo ‘perdere il sapore’ per restare nel lessico evangelico (cfr. Mt 5, 13-15). Rispettare l’altro non significa quindi ‘silenziare’ o ‘censurare’ il Vangelo, magari nei suoi aspetti più scomodi, ma al contrario presentare l’annuncio liberatore della Buona Novella nel modo e con i mezzi più opportuni che, se a volte possono avvalersi anche del silenzio, altre volte possono richiedere però il grido e anzi la rivendicazione pubblica per il primato della Parola di Dio, l'unica che libera e fa risplendere quella legge morale naturale che il Creatore stesso ha inscritto in ogni uomo.
Uomo di pace, anzi vero e proprio apostolo di pace per tutti i suoi settantaquattro anni di vita, il Cardinale Van Thuân è convinto che la vera pace può venire solo da Dio, come frutto del suo Amore per noi. In questo senso il nemico della pace è anzitutto un nemico di Dio e, in secondo luogo, un nemico dell’uomo. Chi attenta alla pace, attenta alla Verità rivelata che è anzitutto armonia, bellezza (nelle meravigliose vestigia artistiche, architettoniche e non, di Roma, ad esempio, egli - restandone colpito ogni volta di più - vedeva quasi un riflesso della bellezza del Cielo), contemplazione e mistero. Le guerre, le ingiustizie e le oppressioni contro l’uomo sono a ben vedere nient’altro che ribellioni al disegno di amore eterno del Creatore e al suo progetto di vocazione sull’uomo. Si tratta di un aspetto fondamentale per comprendere il contributo del Servo di Dio allo sviluppo della Dottrina sociale della Chiesa. Anche in carcere, Van Thuân non smetterà mai di sollecitare il suo prossimo (si trattasse anche dei suoi persecutori) a interrogarsi sul senso della vita perché resta convinto che la domanda sul senso dell’esistenza sia una domanda ineludibile e costituisca una caratteristica dell’essere umano in ogni angolo del pianeta. Le ideologie moderne e le loro utopie distruttrici, che egli visse e patì in prima persona, non possono mai cancellare, per quanto si sforzino, le domande e i desideri di felicità e pienezza che abitano il cuore di ogni uomo. Anche in chi pecca e persevera nel peccato, resta comunque un fondo (per quanto piccolo) di speranza. E’ la voce della coscienza, specchio di Dio, che lo richiama ad alzare gli occhi al Cielo e che non si stanca mai di ripetere: la tua vita vale di più di questo. Così - e letteralmente, senza esagerare - molte persone che ebbero la grazia di conoscerlo, nelle situazioni più inimmaginabili, cambiarono davvero la loro vita. Quell’uomo in catene, senza affetti personali, povero e sofferente nel fisico, era felice. Come quando gli chiesero cosa provasse una volta uscito dal carcere, se adesso fosse veramente felice. «Ma io ero già felice!»[14], rispose egli senza esitazione. E’ lo stile sempre autentico, eppure oggettivamente vertiginoso agli occhi del mondo, dei Santi che testimoniano spontaneamente l’amore di Dio perché lo vivono in prima persona. La società umana quindi, e anzitutto la comunità politica che la governa, per Van Thuân non deve mai espungere la domanda di senso dalla propria prospettiva e dal proprio dibattito pubblico perché farebbe male anzitutto a se stessa[15]. Nel Vangelo e nella Parola di Dio si legge la vocazione di ogni uomo, oggi, non soltanto 2000 anni fa, perché – veramente – solo Cristo sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo.
Da questa prospettiva non è sbagliato affermare che la vita del Servo di Dio vietnamita fu, nel senso più pieno del termine, Dottrina sociale in azione[16]. Van Thuân intende infatti la Dottrina sociale della Chiesa non come una teoria (o un insieme di teorie, o al più di generiche esortazioni agli uomini di buona volontà) ma come un progetto esigente di verità sull’uomo, anzitutto da vivere, testimoniare e trasmettere. La Dottrina sociale non è un libro (né tantomeno un convegno) ma una missione da svolgere, a cui tutti siamo chiamati, ognuno secondo la propria vocazione particolare, per il bene dell’umanità e al servizio di Dio. Essa comprende ogni aspetto della vita sociale appunto perché l’uomo è chiamato (secondo il senso ora illustrato) a vivere in società, contribuendo a santificarla e santificandosi egli stesso: si tratta pertanto di una visione integrale (e non settoriale) che prende in esame l’agire umano in ogni suo aspetto e ne valuta le conseguenze alla luce della retta ragione, del diritto naturale e certamente anche del Vangelo. Per questo la Dottrina sociale è parte integrante, per non dire essenziale, del Magistero e dell’insegnamento della Chiesa nel suo insieme. Il Cardinale Van Thuân (che pure si è occupato a lungo anche di ‘aspetti economici’, come il debito dei Paesi in via di sviluppo, le crisi finanziarie e la globalizzazione commerciale dei mercati) non ha mai limitato - fedele all’insegnamento della Cattedra di Pietro, d’altronde - la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa alla mera ‘questione sociale’, come abitualmente la intendono i mezzi di comunicazione laici. O meglio, quella che molti definiscono la cosiddetta ‘questione sociale’ va letta e interpretata ben oltre i confini degli eventuali dibattiti sui livelli di ricchezza o povertà economica dei singoli Paesi, o delle singole società, per abbracciare invece l’intero complesso della ricca vicenda umana: diritti umani e libertà (in primis la libertà religiosa), pace e sviluppo morale, fede e vocazione.
Il Vangelo, insomma, fa parte della quotidianità dell'uomo e della sua fatica: quell'uomo che, per utilizzare le parole del Papa Giovanni Paolo II, a lui particolarmente caro, in Encicliche fondamentali per il suo pontificato come Redemptor hominis (1979) e Centesimus annus (1991) è “la via della Chiesa”. Alla Chiesa interessa l'uomo perché Cristo si è rivelato a ogni uomo e si è immolato per ogni uomo. L'antropocentrismo cristiano, contrariamente ad altri che si sono avvicendati nella storia, pone al centro l'uomo perché vuol glorificare Dio e, viceversa, proprio glorificando Dio eleva l'uomo. Alcuni sociologi della religione di cultura anglosassone descrivono questo rapporto tipico ed originalissimo del Cristianesimo in modo forse eccessivamente pragmatico ma non per questo errato: essere cristiano conviene all'uomo. Nel senso che l'antropologia cristiana ha tutto quel che serve per essere felici, anche restando dei semplici laici vivendo e lavorando nel mondo. D'altronde, Cristo stesso, non ha forse lavorato per gran parte della sua vita? La Dottrina sociale della Chiesa non è dunque altro che il Vangelo sociale, intendendo con questa espressione anzitutto gli aspetti pubblici e comunitari della Rivelazione cristiana. Dio si è incarnato per salvare certamente ogni singolo individuo, ma gli individui vivono geograficamente e storicamente all'interno di popoli, non sopra degli eremi ognuno per conto suo. Le espressioni più belle e commoventi di amore dell'Antico Testamento hanno per oggetto il Signore che parla al Suo popolo, che educa il Suo popolo, che vuol liberare il Suo popolo. Analogamente, una delle volte in cui Gesù piange più amaramente è per i peccati della gente di Gerusalemme, che tanto amava. Questo insegnamento ha conseguenze molto feconde per la vita associata: implica, ad esempio, che gli uomini politici tengano presente Dio nelle loro decisioni. Diversi biografi di Van Thuân mettono in luce il fatto che il grande Cardinale avesse un'idea altamente nobile della politica, sostenendo che «quando Dio è presente nelle decisioni politiche e la volontà del Signore convalida gli sforzi politici di un Paese, ne risultano grandi benefici per esso per i suoi cittadini»[17]. Ne era così convinto da presentare una sorta di “Beatitudini per gli uomini politici”, che rese famose a Milano in una Messa per l'anniversario della morte di Amintore Fanfani (1908-1999), già presidente del Consiglio e più volte ministro in Italia tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Si tratta di una dettagliata serie di esortazioni indirizzate alla coscienza dell'uomo politico nella certezza che, prima che al popolo o al parlamento, egli dovrà rispondere del suo operato davanti a Dio:
“Beato l'uomo politico che comprende il suo ruolo nel mondo.
Beato l'uomo politico che è personalmente esempio di credibilità.
Beato l'uomo politico che opera per il bene comune e non per i suoi interessi personali.
Beato l'uomo politico che è coerente con se stesso, con la propria fede e che mantiene le
promesse elettorali.
Beato l'uomo politico che opera per l'unità e fa di Gesù il fulcro della sua difesa.
Beato l'uomo politico che opera per cambiamenti radicali, che rifiuta di chiamare bene il
male e che ha il Vangelo come guida.
Beato l'uomo politico che ascolta il popolo prima, durante e dopo le elezioni, e che ascolta
sempre Dio nella preghiera.
Beato l'uomo politico che non teme la verità o i mezzi d'informazione, poiché nell'ora del
giudizio dovrà rispondere a Dio solo e non alle folle o ai mezzi d'informazione”.
Espressioni forti come «rifiutar[si] di chiamare bene il male» riportano ai grandi profeti dell'umanità che solitamente passano inascoltati perché esigono pubblicamente il rispetto di verità eterne (che non dipendono dal giudizio dei parlamenti ad esempio) e non si arrendono alle opinioni del momento che vanno per la maggiore nel mondo. Il regnante Pontefice ha ripreso più volte questa espressione con particolare riferimento al delitto di aborto legalizzato dalle società occidentali che uccide quanto di più innocente possa esistere, ma in Van Thuân la denuncia del male non è minore perché se grande è la misericordia divina di cui l'uomo può essere certo, altrettanto grande deve essere lo sforzo per farne la volontà e non incorrere nel castigo finale. Si vede così come amore di Dio e amore del prossimo vadano insieme in modo e che non può compiersi l'uno senza compiere anche l'altro. Chi ama Dio è chiamato a rispettare dunque la dignità della persona umana (quale originalissima imago Dei) e l'inviolabilità della vita offerta dal Creatore. D'altra parte, il popolo che fa la volontà di Dio ha davanti a sé un futuro luminoso perché può essere certo di ricevere la benedizione del Signore. Possono sembrare forse discorsi legati a una Cristianità che non c'è più o, anche (se si vuole), a una certa tradizione spirituale tipica della terra di origine del grande Cardinale in cui il destino delle comunità terrene è legato in uno stretto rapporto con l'osservanza del Decalogo divino. Ma Van Thuân non ha mai avuto paura delle sfide della modernità in quanto tale. Era anzi convinto che la Chiesa dovesse prepararsi adeguatamente e studiare con attenzione le grandi questioni che emergevano all'orizzonte tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo: la globalizzazione, lo sviluppo tecnologico, il terrorismo, il nuovo ordine geopolitico internazionale. Perché la Chiesa, da sempre, possiede la risposta a tutte le domande dell'umanità: Cristo, che rimane l'unica risposta, perché unica verità, ieri, oggi e sempre. Si spiega così il suo grandioso coraggio (altrimenti inspiegabile secondo criteri di giudizio meramente umani) e il suo abbandono[18] a quel martirio silenzioso che ha contraddistinto la sua vita di sofferenza e in cui tuttavia non ha mai perso quella fondamentale virtù che è la speranza[19]. La sua figura resta per questo ‘segno di contraddizione’ anche per i nostri tempi post-moderni, e forse anche ‘ultra-moderni’, in cui, ad uno sguardo superficiale, la scienza e la tecnica sembrerebbero aver risolto (o apprestarsi a risolvere) ogni problema dell'umanità.
La lezione di Van Thuân è che il martirio non scompare dall'esistenza umana, neanche oggi, e questo anzitutto nel suo amato Paese. Ma neanche se si riuscissero a risolvere, per assurdo, tutti i problemi politici, economici o sanitari della terra le cose cambierebbero. Perché rimarrebbero ancora il peccato, la morte, il dolore, la sofferenza, l'enigma della vita in quanto tale che sfugge alle ermeneutiche razionaliste o riduzioniste del senso. Rimarrebbe, direbbe forse Van Thuân citando quel San Paolo di cui pure aveva imparato a memoria intere Lettere, il Mysterium iniquitatis, il mistero del male che rende ragione dei limiti dell'uomo, come dimostra ampiamente, fra l'altro, il fatto storico che ogni volta che ha cercato di costruire delle 'società perfette', 'indipendenti da Dio' o senza-Dio, l'uomo è riuscito a combinare soltanto catastrofi. E' stato giustamente osservato che il XX secolo è stato il secolo dei martiri: considerando lo sviluppo del Cristianesimo dal Venerdì Santo ad oggi, in nessun altra epoca della storia sono morti ammazzati così tanti cristiani come nel '900. Se si considerano i cristiani morti nel XX secolo per la loro fede si raggiunge una cifra di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri 19 secoli messi insieme. Tra questi, molti amici, familiari e confratelli vietnamiti del Servo di Dio Van Thuân. E, contemporaneamente, il '900, inaugurato nel mito del progresso e della felicità sulla terra, è stato anche il primo vero secolo in cui Dio è stato cacciato pubblicamente e ripetutamente dal palcoscenico della storia. Le due grandi ideologie sanguinarie, comunismo e nazismo, hanno in comune il fatto di aver iniziato la lotta contro Dio buttando i crocifissi giù dalle aule dei luoghi pubblici, come scuole e tribunali di giustizia, per esercitare finalmente una cultura e una giustizia totalmente senza Dio.
Molti nel mondo hanno creduto, talvolta con estrema ingenuità, di costruire davvero il Paradiso nella loro Patria. Il risultato sono stati i lager e i gulag, genocidi e pulizie etniche, stupri di massa e odi razziali. All'inizio e alla fine del “secolo del martirio”, come lo ha chiamato lo stesso Giovanni Paolo II, due genocidi cristiani: quello ai danni del popolo armeno e quello ai danni del popolo sudanese. Com'è stato possibile tutto ciò? Storici e filosofi da anni si affaticano sulle risposte da dare elaborando complicati ragionamenti e astruse argomentazioni. Il Cardinale Van Thuân forse, da parte sua, avrebbe guardato negli occhi i suoi interlocutori, con quello sguardo di umiltà e di amore con cui aveva convertito molti suoi carcerieri e avrebbe risposto semplicemente indicando il Cielo: perché hanno dimenticato Dio - avrebbe risposto - e il suo sacrificio di amore. Il giorno del suo funerale Giovanni Paolo II lo salutò così, come si salutano gli uomini che fanno la storia, quelli che lasciano un mondo migliore di come l'avevano trovato: «Nel porgere l'ultimo saluto a questo eroico araldo del Vangelo di Cristo, ringraziamo il Signore per averci dato in lui un esempio luminoso di coerenza cristiana fino al martirio. Ha affermato di sé con impressionante semplicità: ‘Nell’abisso delle mie sofferenze non ho mai cessato di amare tutti, non ho escluso nessuno dal mio cuore’. Egli ci lascia, ma resta il suo esempio. La fede ci assicura che non è morto, ma è entrato nel giorno eterno che non conosce tramonto».
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Bibliografia
G. Crepaldi, Omelia in occasione del primo anniversario della morte del Cardinale François-Xavier Nguyen Van Thuan, Roma 2003.
A. M. Sicari, L’undicesimo libro dei ritratti dei Santi, Jaca Book, Roma 2009.
A. Valle, Il Cardinale Van Thuan. La forza della speranza, Cantagalli, Siena 2009
A. N. Van Chau, Il miracolo della speranza. Il cardinale François-Xavier Nguyen Van Thuân apostolo di pace, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004.
F. X. Nguyen Van Thuân, La speranza non delude, Città Nuova, Roma 1997.
Id., Testimoni della speranza. Esercizi spirituali tenuti alla presenza di Sua Santità Giovanni Paolo II, Città Nuova, Roma 2000.
Id., Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002.
Id., Il cammino della speranza. Testimoniare con gioia l’appartenenza a Cristo, Città Nuova, Roma 2001
Id., Preghiere di speranza. Tredici anni in carcere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007.
Id., Spera in Dio!, Città Nuova, Roma 2008.
Id., Scoprite la gioia della speranza, Art, Roma 2009.
[1] Come ebbe a dichiarare lui stesso: «Mia madre instillò nel mio cuore questo amore per Maria quando ero ancora un bambino» in A. N. Van Chau, Il miracolo della speranza. Il cardinale François-Xavier Nguyen Van Thuan apostolo di pace, Cinisello Balsamo 2004, pag. 55. Da grande, poi, all'interno delle sue abitazioni porterà sempre un'immagine della Madonna di Fatima, dove si recherà più volte come pellegrino. La scoperta degli scritti mariani di San Luigi Maria Grigion de Montfort (1673-1716), in particolare il Trattato della vera devozione a Maria, ne farà infine a tutti gli effetti un convinto apostolo della devozione mariana, come via preferenziale di avvicinamento a Gesù, in tutto il mondo.
[2] L’aiuteranno su questa via l'esempio encomiabile della madre, che affida gli assassini dei fratelli alla misericordia del Padre celeste e la meditazione assidua sulla morte del gesuita messicano padre Pro che, poco prima di morire, pronunciò parole di sincero perdono verso i suoi carnefici.
[3] In questi anni resta molto colpito dai drammi delle guerre e delle violenze sociali che si consumano senza soluzione di continuità in patria e all'estero. Ne ricava una lezione sulla fragilità dei sogni e la vanità delle imprese umane. Sul proprio anello episcopale fa così incidere le celebri parole della mistica carmelitana spagnola Santa Teresa d'Avila (1515-1582): “Todo pasa” (Tutto passa).
[4] Di lui il Papa, elogiandolo come un vero confessore della Fede dei tempi moderni, aveva poi parlato espressamente nel suo libro, Alzatevi, andiamo!, Milano 2004. Il regnante Pontefice, Benedetto XVI, lo cita invece due volte, prendendolo ad esempio come uomo di preghiera e speranza, nell’Enciclica sulla speranza cristiana, Spe Salvi, Roma 2007.
[5] F. X. Nguhen Van Thuân, Il cammino della speranza. Testimoniare con gioia l’appartenenza a Cristo, Roma 2001. Sarà tradotto in dodici lingue.
[6] “La mia sola forza è l'Eucaristia”, dirà una volta libero a chi gli chiedeva ragione di come avesse fatto a sopravvivere a una simile odissea: meditazioni ricorrenti sul tema si possono trovare in F. X. Nguyen Van Thuân, Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede, Cinisello Balsamo 2002.
[7] Con le parole di Mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste e Presidente dell'Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina Sociale della Chiesa, «l'amore donava una spiccata tonalità eucaristica alla sua spiritualità». Cfr. G. Crepaldi, Omelia in occasione del primo anniversario della morte del Card. François-Xavier Nguyen Van Thuân, 16 settembre 2003, Roma.
[8] Cfr. le commoventi riflessioni che sviluppa a tal proposito padre Antonio Maria Sicari nel suo profilo dedicato in A. M. Sicari, L’undicesimo libro dei ritratti dei Santi, Roma 2009.
[9] Cfr. A. Valle, Il Cardinale Van Thuân. La forza della speranza, Siena 2009, pp. 28-29.
[10] Le riflessioni sono state poi pubblicate in F. X. Nguyen Van Thuân, Testimoni della speranza. Esercizi spirituali tenuti alla presenza di Sua Santità Giovanni Paolo II, Roma 2000.
[11] Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
[12] Contro il comunismo e le sue ingiustizie Van Thuân si batté fin da quando fu nominato giovane vescovo: non celò mai «la sua opposizione alle menzogne e agli errori del comunismo e alcune sue lettere pastorali contenevano vigorose condanne del marxismo». Cit. in A. N. Van Chau, op. cit., p. 207.
[13] A. N. Van Chau, Il miracolo della speranza. Il cardinale François-Xavier Nguyen Van Thuan apostolo di pace, Cinisello Balsamo 2004, p. 30.
[14] Cfr. A. M. Sicari, op. cit., pag. 334.
[15] Ne dà una straordinaria descrizione il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa nella Parte Prima, vedi in particolare il capitolo Primo (“La persona umana nel disegno di amore di Dio”), cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, op. cit., pagg. 33-45.
[16] Mons. Crepaldi, precedentemente citato, in un’omelia sul Servo di Dio afferma giustamente che per Van Thuân «rimanere nel Signore non è ozio né passività. È un'azione, un atto d’amore per Dio». Cfr. G. Crepaldi, Omelia in occasione del primo anniversario della morte del Card. François-Xavier Nguyen Van Thuân, 16 settembre 2003, Roma.
[17] Così in A. N. Van Chau, op. cit., p. 306.
[18] Racconta a tal proposito mons. Crepaldi che fu a lungo suo collaboratore presso il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: «Quando, nel disbrigo delle pratiche e delle attività del Dicastero, insorgevano problemi o intervenivano difficoltà ardue da risolvere e governare, il Cardinale era solito rassicurarmi esclamando, con evangelica semplicità: "Non si preoccupi, il Signore ci salva!". Non fuggiva dalle sue responsabilità, ma riportava tutto sotto la prospettiva giusta della volontà misericordiosa di Dio e del Suo amore provvidente. Quella sua esclamazione rivelava la qualità spirituale della vita interiore del Cardinale e costituisce la chiave per penetrare il mistero della sua anima. Tutto è nelle mani di Dio e tutto va posto nelle sue mani, senza resistenze e con assoluta fiducia». Cfr. G. Crepaldi, Omelia in occasione del primo anniversario della morte del Card. François-Xavier Nguyen Van Thuân, 16 settembre 2003, Roma.
[19] Su questo aspetto in particolare cfr. F. X. Nguyen Van Thuân, Preghiere di speranza. Tredici anni in carcere, Cinisello Balsamo 2007.
Cinque domande a Berlusconi di Giorgio Vittadini - martedì 5 ottobre 2010 – il sussidiario.net
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La fiducia ottenuta in Parlamento da Silvio Berlusconi ha consentito al Governo di assorbire il trauma della scissione di Futuro e libertà e ha permesso di allontanare, come era nell’auspicio dei più e come necessita il Paese, almeno per il momento, la prospettiva delle elezioni anticipate. Nello stesso tempo, ha però riattualizzato l’eterna domanda che accompagna i governi a matrice berlusconiana: il premier e il governo vorranno attuare il programma per cui sono stati eletti?
La domanda risuona particolarmente attuale perché il programma dei 5 punti, e alcune sottolineature in particolare, risultano di grande interesse per chi non fa della libertà uno slogan vuoto, ma la intende come libertà di costruire per il bene comune secondo i reali bisogni della gente, non mercificati, non dialettizzati come nei talk show, non banalizzati in un moralismo distruttivo “grillino”, “dipietrista” e di cattolici sottomessi a radicalismo chic.
Il premier ha parlato di quoziente familiare, di sussidiarietà e di federalismo fiscale, ha sottolineato i temi della libertà di educazione e della scuola, ha ricordato le infrastrutture necessarie per ammodernare il Paese. Si è preso l’impegno per interventi che sosterranno le grandi imprese di costruzione e daranno lavoro; ha sottolineato il ruolo fondamentale del Parlamento lasciando le porte aperte alla mediazione e ai contributi delle forze della coalizione e anche dell’opposizione; ha detto di voler fondare la nuova azione di governo sui programmi, senza dare alcuno spazio a rancori.
É un piano importante e condivisibile che, per essere attuato, però, chiede, su molti punti, una forte inversione di tendenza rispetto al passato. In questo Governo, come nei precedenti del centrodestra, la principale misura fiscale è stata l’abolizione dell’Ici, ma non gli sgravi per le famiglie. Riguardo all’istruzione non è stato mosso un dito per favorire l’effettiva parità delle istituzioni educative non statali, per renderle concorrenziali con le strutture pubbliche e vantaggiose per i conti dello Stato (anzi per due volte, nelle bozze di finanziaria 2008 e 2009, erano stati tagliati i finanziamenti per centinaia di milioni di euro alle scuole libere, ripristinati soltanto grazie a una forte mobilitazione di famiglie, politici e istituzioni). Di sussidiarietà, se non in alcuni interventi sul mercato del lavoro nel Libro Bianco del ministro Sacconi e in alcune enunciazioni ancora da attuare nel federalismo fiscale, non se ne è vista molta (per usare un eufemismo).
Per ciò che concerne le imprese, a fronte di molti proclami, hanno latitato gli interventi a favore della miriade di piccole e medie imprese, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema economico, sono stati solo annunciati provvedimenti per sburocratizzare le procedure, mentre, il provvedimento per il made in Italy si è inceppato a Bruxelles. E per le infrastrutture vige la confusione: i “no-TAV” imperversano in Val di Susa e non si ha ben chiaro se sia prioritario il secondo binario su gran parte della rete ferroviaria o un faraonico ponte di Messina.
Ottenuta la fiducia, è giunto (di nuovo) il tempo per il Cavaliere di onorare gli impegni presi. Le incertezze precedenti non sono certo casuali. Piuttosto dipendono dall’impreparazione e dalla grave ambiguità culturale di parte della coalizione che, non solo nella componente finiana, è di fatto su posizioni radicali di destra, lontane da uno sguardo realista a ciò che capita nella vita sociale ed economica; dall’indecisione con cui sono condotte battaglie continuamente annunciate, come la riforma di una giustizia, inefficiente e pachidermica, lontana dalle esigenze della gente e inquinata da settori della magistratura ridotti a ideologica parte politica.
La domanda che si impone è: se non lo ha fatto finora, Berlusconi, attuerà, nel tempo che gli rimane, il programma che si è prefisso? La strada per farlo è approfondire la teoria e perseguire la prassi della “Big society” che si fonda su libertà e sussidiarietà e che è il programma attuato, con grande consenso popolare, in certe Regioni (vedi Lombardia) e che è divenuto il programma innovativo di David Cameron. Il premier deve accettare che un partito e una coalizione che si ispirano alla libertà non possono essere né onnivori, né di plastica, ma devono allearsi con chi esprime le energie più vitali, più originali e più radicate nella realtà sociale del nostro Paese e da sempre hanno come obiettivo il bene comune: tutte quelle realtà della società civile che ancora rappresentano lo zoccolo duro, positivo dell’Italia. A queste condizioni, ma solo a queste, si può evitare un altrimenti inevitabile declino.
Avvenire.it, 5 ottobre 2010 - LA GIORNATA MONDIALE DELL'INSEGNANTE - Lo sguardo di un «prof» può regalare la felicità di Alessandro D'Avenia
Un rabbino dice che quando un uomo arriva nell’altro mondo gli viene domandato: «Chi è stato il tuo maestro e cosa hai appreso da lui?». Chi insegna, dice. Chi dice, mostra. "Dire" deriva dal greco "mostrare", "indicare". Ciascun uomo parlando è maestro. La parola è strumento pedagogico per eccellenza. Non esiste disciplina senza maestri e discepoli: la conoscenza è trasmissione. Anche Dio nel farsi uomo ha scelto l’identità sociale di falegname prima (imparando da un padre) e di maestro dopo (dicendo il Padre).
La giornata mondiale dell’insegnante è la giornata mondiale di chiunque usi la parola per indicare il mondo a qualcun altro: dai genitori al passante che risponde ad una domanda (sarà per questo che ci dispiace così tanto quando non sappiamo esaudire una richiesta di informazioni stradali?). Le cose stanno così perché la struttura stessa del mondo è pedagogica: mostra senza costringere. Pedagogo è colui che guida il bambino, il ragazzo verso se stesso. Agli occhi del Creatore siamo bambini guidati a se stessi e di riflesso a lui, che ha ripetuto spesso che solo i bambini accedono. Se questo è vero, se il Creatore è anche il Bene onnipotente, la struttura stessa del mondo è una continua pedagogia pratica che ci conduce a ciò che – sembra assurdo – resistiamo a fare di più: vivere. Sono venuto perchè abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, diceva Gesù. Vivere è perdere la paura. Il principio di opposizione alla struttura pedagogica del mondo è la nostra resistenza ad amare e ad essere amati. Pur avendone un bisogno primordiale, resistiamo. Resistiamo ad essere amati per paura che chi ci ha dato la vita non sia Padre ma tiranno, pronto a strapparci ciò che abbiamo (il servo che riceve un solo talento ha paura di un "padrone" che miete dove non ha seminato). Sospettiamo del padre e quindi sospettiamo della libertà.<+corsivo_bandiera> Liberus <+tondo_bandiera>in latino vuol dire figlio: senza libertà non si vive, ma solo da figli si è liberi. Resistiamo ad amare, perché il senso dell’amore è dono di sé, e questo richiede un’uscita continua da sé, per fare degli altri il centro dell’universo anziché di noi stessi. Ma questo fa paura perché richiede creatività e sforzo quotidiani. In entrambi i casi è la paura che ci frena o vince. Ma la realtà – l’amore che per l’universo si squaderna direbbe Dante – sembra fatta per abbattere il muro di paura. «Dio è iconoclasta», diceva Lewis nel "Diario di un dolore": spezza tutte le immagini finte, gli idoli che costruiamo e imbrigliano la nostra capacità di amare ed essere amati. A noi resta la libertà di scegliere se arrenderci all’amore o no, se muoverci verso il polo della paternità o rintanarci in quello della solitudine.
Il maestro, dopo e insieme ai genitori, partecipa alla struttura pedagogica del mondo più di chiunque altro. Il professore è chiamato ad essere in una stessa persona padre e madre. Quando un papà lancia il bimbo in aria, la mamma preoccupata chiede al marito di metterlo giù. La madre tiene il figlio ancorato a terra, lo protegge, il padre lo lancia nel futuro, nell’ignoto, spingendolo a credere nelle proprie capacità. Solo questo sguardo duplice rende i ragazzi capaci di stare al mondo essendo se stessi: comprensione e sfida, attenzione e slancio.
Quando il mio professore di lettere mi prestò la sua edizione del poeta da lui preferito dicendomi «questo tu lo puoi capire», accelerava la mia percezione della struttura paterna e materna della realtà e quindi della libertà. Vedeva una mia qualità ancora tenue e la incoraggiava riponendo in essa una fiducia maggiore di quello che in quel momento valeva. Quel libro mi obbligò a scoprire la bellezza della poesia senza obbligarmi. Faceva nascere la libertà di impegnarmi da un surplus di fiducia, che nello stesso atto mi comprendeva e mi lanciava nel futuro. Madre e padre insieme.
Ogni professore, che lo voglia o no, è chiamato a porre questo sguardo sul proprio alunno. Gli psicologi lo chiamano effetto Pigmalione, il famoso sculture mitico che creò una donna tanto bella da innamorarsene e da costringerla a diventare di carne e ossa, tale era il suo amore. È ormai assodato che uno studente "non amato" dal suo professore andrà male, indipendentemente dalle sue capacità. Insegnare è mettersi al servizio di ciò che di più vitale ha un essere umano, conservare e proteggere il nocciolo più intimo di una persona. Un insegnamento scadente, una pedagogia improvvisata, uno stile di istruzione cinico nei suoi obiettivi puramente utilitari, sono rovinosi, distruggono la speranza alle radici, sono un assassinio. I genitori sono, con il loro amore unito, la grande risorsa pedagogica del mondo. I professori partecipano a questa pedagogia per privilegio e alleanza. Il loro sguardo può contribuire a trasformare una statua in un uomo, a rendere un ragazzo libero di essere se stesso. Felice.
Avati: sfido il cinema parlando di Alzheimer - «Solo l’amore argina questa malattia» DI GIACOMO VALLATI – Avvenire, 5 ottobre 2010
Capita spesso, è anzi ormai una routine retorica, che un regista dichiari di amare un proprio film. Ma è assolutamente insolito che dimostri d’amarlo con l’accoratezza disarmante con cui Pupi Avati ama Una sconfinata giovinezza. Forse acuita dal rimpianto per la nota esclusione dal concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia («Nel frattempo metabolizzata», assicura lui), l’emozione che il film suscita è, infatti, pari solo a quella che il regista stesso prova nel parlarne. Il tema – la devastazione dell’alzheimer, sofferto dal protagonista Fabrizio Bentivoglio, ma lenito in seno ad un solido amore coniugale dalla moglie Francesca Neri – giustifica del resto la commozione; «anche se abbiamo cercato di evitarne le insidie più sdrucciolevoli – avverte Avati – In quasi ogni sequenza avremmo potuto far piangere. Col pudore dei sentimenti abbiamo evitato invece la speculazione delle lacrime». Ma ciò che soprattutto conquista in un film asciutto quanto struggente (interpretato anche da Lino Capolicchio e Serena Grandi; da venerdì su 200 schermi) è il coraggio con cui squaderna a cuore aperto «due temi praticamente 'out' dal nostro cinema. E non solo da quello. La sofferenza. E l’amore coniugale. Il tutto all’interno della prima, vera storia d’amore che io abbia mai raccontato». E perché Avati ha avuto tanto coraggio? «Perché c’è una sorta di contenzioso, aperto fra me e la mia infanzia – spiega – L’impressione colpevole di averla vissuta troppo precipitosamente, nell’ansia di fuggirla. Oggi che sono anziano, con la regressione tipica dell’età, quasi sgomitando si risveglia in me il bambino di otto, dieci anni che ero, e che credevo d’aver tacitato per sempre. Nell’alzheimer c’è una regressione analoga: l’ho verificato in mio suocero, che pure, una volta ammalatosi ha recuperato tutto il candore e l’innocenza del bambino che era stato. E questo mi ha incuriosito». Il progressivo scivolare del protagonista nella malattia, infatti, segna da una parte la sublimazione dell’amore di sua moglie, «che diventa amore tutto a lettere maiuscole, giacché lei decide di seguire lui nella sua regressione, e per questo il suo diventa un amore quasi materno».
Dall’altra la riconquista di quella «sconfinata giovinezza» («meglio ancora: infanzia») che è la dimensione di pace cui il protagonista poeticamente approda. «E a cui tendono tutti i vecchi, alzheimer o no – considera il regista – Forse perché è l’età più vicina a quell’“altrove” misterioso da cui tutti veniamo. E a quel “ritorno a casa” cui tutti siamo destinati».
Intessuto come sempre, nell’opera di Avati, da mille suggestioni autobiografiche,
Una sconfinata giovinezza non sarà probabilmente «un film da folle oceaniche. Lo so benissimo. Come so benissimo che attirerà soprattutto coloro che vivono in maniera più o meno diretta quella che è chiamata 'la malattia dei parenti', più ancora che dei malati stessi. Per questo non volevo aggiungere disperazione alla disperazione. Ma sommessamente dire: quest’esperienza può far parte della nostra vita. E, sia pure soffrendola, possiamo viverla».