Nella rassegna stampa di oggi:
1) Maria a Medjugorje - Messaggio del 25 novembre 2008 - Cari figli, anche oggi vi invito in questo tempo di grazia a pregare affinché il piccolo Gesù possa nascere nel vostro cuore. Lui che è la sola pace doni attraverso di voi la pace al mondo intero. Per questo, figlioli, pregate senza sosta per questo mondo turbolento senza speranza affinché voi diventiate testimoni della pace per tutti. Sia la speranza a scorrere nei vostri cuori come un fiume di grazia. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Il samurai con la croce. Dagli atti dei martiri del Giappone - Il 24 novembre ne sono stati proclamati beati altri 188, tutti uccisi per la fede. Il mistero del cristianesimo nel paese del sol levante, più volte perseguitato ma sempre rinato, anche dalle prove più dure, di Sandro Magister
3) CLAMOROSA RIVELAZIONE DI MONSIGNOR DE Magistris - Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede» - «Il fondatore del Partito Comunista ricevette i sacramenti cristiani sul punto di morte» - CorSera 25-11-2008
4) Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi - Lettera d Papa Benedetto XVI al sen. Marcello Pera
5) Messaggio del Papa per la seduta pubblica delle Pontificie Accademie - "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto"
6) Incarnare la Misericordia con i cerebropatici e le loro famiglie - ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di suor Graziella Bazzo EAM, del “Centro Speranza” di Fratta Todina (PG).
7) Vittorio Messori: la storia di una conversione - Una vita per rendere ragione della fede - di Antonio Gaspari
8) 25/11/2008 12:38 – ASIA - Uscire dalla crisi: le inutili soluzioni di destra e di sinistra - di Maurizio d'Orlando - Non si vuol comprendere che questa del 2008 è una crisi più grave e diversa da quella del ’29. Le soluzioni trovate finora sono a beneficio del mondo bancario, ma non servono a produrre ricchezza. C’è il rischio di ridurre il dollaro a carta straccia.
9) 26/11/2008 08:46 – THAILANDIA - “Battaglia finale” a Bangkok: aeroporto occupato e 7 feriti - Da stamane i dimostranti anti-governo occupano anche la torre di controllo. Circa 80 voli hanno subito cancellazioni o ritardi; metà dei voli cancellati. Bombe contro i manifestanti hanno provocato 7 feriti.
10) Cento anni fa nasceva Sofia Vanni Rovighi - La filosofia non deve preoccuparsi di essere originale - Il 25 novembre, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, si svolge la giornata di studio "La filosofia nella ricerca e nell'insegnamento di Sofia Vanni Rovighi" organizzata in occasione del centenario della nascita della studiosa. Pubblichiamo un estratto di una delle relazioni, di Michele Lenoci, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
11) A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
12) A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
13) COLLETTA/ Quel filo rosso che lega Thais, Vanina e Martha - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
14) Il non profit esce dalla “precarietà” - Maurizio Lupi - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
15) COLLETTA/ Dal Brasile l’esperienza del CREN: quando il problema alimentare genera un’opera educativa - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
16) ELUANA/ Carter Snead (Usa): il caso Englaro? Un'altra Terri Schiavo - INT. Carter Snead - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
17) EVENTI/ Comunicare il "dono" come fattore per comprendere la nostra identità - Gianfranco Dalmasso - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
18) LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA - SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - MARINA CORRADI, Avvenire, 26 novembre 2008
19) POLEMICHE CULTURALI - il caso - I ricordi del prelato De Magistris riaprono una vicenda già emersa nel 1977: il fondatore del Pci, ricoverato in clinica a Roma, prima di morire avrebbe baciato una statuetta di Gesù Bambino. - Storici ed esperti si dividono sulla questione - Gramsci cristiano, il mistero è aperto, DI ROBERTO BERETTA, Avvenire, 26 novembre 2008
Il samurai con la croce. Dagli atti dei martiri del Giappone - Il 24 novembre ne sono stati proclamati beati altri 188, tutti uccisi per la fede. Il mistero del cristianesimo nel paese del sol levante, più volte perseguitato ma sempre rinato, anche dalle prove più dure, di Sandro Magister
ROMA, 26 novembre 2008 – Un samurai che porta la croce non è un'immagine consueta. Ma vi furono anche questi fra i 188 martiri giapponesi del XVII secolo che due giorni fa sono stati proclamati beati a Nagasaki. Vi furono dei nobili, dei sacerdoti, quattro, e un religioso. La maggior parte erano però cristiani comuni: contadini, donne, ragazzi sotto i vent'anni, bambini anche piccoli, intere famiglie. Tutti uccisi per non aver abiurato la fede cristiana.
La beatificazione "padre Pietro Kibe e i suoi 187 compagni" – come detto nel titolo della cerimonia – è la prima mai celebrata in Giappone. I nuovi beati si aggiungono ai 42 santi e ai 395 beati giapponesi, tutti martiri, già elevati agli altari da Pio IX in poi.
I nuovi beati furono martirizzati tra il 1603 e il 1639. A quell'epoca in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti, con san Francesco Saverio, e poi anche dai francescani.
All'iniziale fioritura del cristianesimo seguirono terribili persecuzioni. Molti furono uccisi con inaudite crudeltà che non risparmiarono donne e bambini. Oltre che dalle uccisioni, la comunità cattolica fu falcidiata dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. Eppure non fu annientata. Una parte si celò nella clandestinità e mantenne viva la fede trasmettendola dai genitori ai figli per due secoli, pur senza vescovi, preti e sacramenti. Si racconta che il venerdì santo del 1865 ben diecimila di questi "kakure kirisitan", cristiani nascosti, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki agli stupiti missionari che avevano da poco riavuto accesso in Giappone.
Come già tre secoli prima, ai primi del Novecento Nagasaki tornò ad essere la città a più forte presenza cattolica del Giappone. Alla vigilia della seconda guerra mondiale due su tre dei cattolici giapponesi vivevano a Nagasaki. Ma nel 1945 subirono una nuova, terribile falcidia. Questa volta non per una persecuzione, ma per la bomba atomica che fu sganciata proprio sulla loro città.
Oggi i cattolici giapponesi sono poco più di mezzo milione. Una piccola porzione in rapporto a una popolazione di 126 milioni. Ma rispettati e influenti, anche grazie a una fitta rete di loro scuole e università. E se ai giapponesi di nascita si sommano gli immigrati da altri paesi dell'Asia, il numero dei cattolici raddoppia e supera il milione.
"Non credo però che il criterio delle statistiche sia il migliore per giudicare il valore di una Chiesa", ha detto il cardinale Pietro Seichi Shirayanagi, arcivescovo emerito di Tokyo, in un'intervista ad "Asia News" alla vigilia della beatificazione dei 188 martiri.
Quello della difficile penetrazione del cattolicesimo non solo in Giappone ma nell'intera Asia è un problema che preoccupa da molto tempo la Chiesa.
Tra i gesuiti, ad esempio, all'indomani della seconda guerra mondiale c'era la convinzione che il Giappone fosse terreno fertile di una grande espansione missionaria. Per questo inviarono in quel paese persone di prim'ordine. L'attuale superiore generale della Compagnia di Gesù, Adolfo Nicolás, 71 anni, ha vissuto in Estremo Oriente dal 1964, prevalentemente a Tokyo, come insegnante di teologia alla Sophia University, come provinciale dei gesuiti del Giappone e da ultimo, tra il 2004 e il 2007, come moderatore della conferenza dei gesuiti dell’Asia Orientale e Oceania. Oltre allo spagnolo, all'italiano, all'inglese e al francese, parla correntemente il giapponese. Anche padre Pedro Arrupe, generale dei gesuiti tra il 1965 e il 1983, passò molti anni in Giappone. E così padre Giuseppe Pittau, che fu reggente della Compagnia.
La beatificazione dei 188 martiri ha comunque richiamato l'attenzione dell'intero Giappone sulla presenza in esso di quel "piccolo gregge" che è la Chiesa cattolica. La vicenda del loro martirio per la fede in Cristo è stata conosciuta da un pubblico molto ampio. Ed è una vicenda che per molti aspetti ricorda gli atti dei martiri dei primi secoli cristiani, nella Roma imperiale.
"Semen est sanguis christianorum", il sangue dei martiri è una semina efficace, scrisse Tertulliano all'inizio del III secolo. Ecco qui di seguito come un missionario del Pontificio Istituto delle Missioni Estere, padre Mark Tardiff, ha raccordato il martirio dei 188 nuovi beati giapponesi a quello dei martiri della prima cristianità, in una nota scritta per "Asia News":
Come i martiri dei primi secoli, di Mark Tardiff
Le storie dei martiri giapponesi che sono stati beatificati il 24 novembre risalgono a un periodo di 400 anni fa. A leggere però le loro storie sembra di ritornare ancora più indietro, agli atti dei martiri della prima Chiesa.
Il samurai Zaisho Shichiemon fu battezzato il 22 luglio del 1608. Egli prese il nome di Leone, quello del grande papa che fermò le invasioni dei barbari. La sua storia, però ricorda molto più da vicino il percorso di san Giustino, il martire che dopo aver trovato la Verità, non volle più rinnegarla. Hangou Mitsuhisa, il signore feudale sotto di cui Zaisho serviva, aveva proibito ai suoi di diventare cristiani. Il sacerdote a cui Zaisho chiese il battesimo glielo fece presente, ricordandogli che egli avrebbe potuto essere punito o perfino ucciso. “Lo so – egli rispose – ma io ho compreso che la salvezza sta nell’insegnamento di Gesù e nessuno potrà separarmi da Lui”.
Come nel caso di molti martiri, non si trattava solo di una convinzione mentale, ma di un rapporto mistico. Un giorno Zaisho confessò a un suo amico: “Non capisco come, ma ormai io mi scopro sempre a pensare a Dio”. Arrestato, gli fu ordinato di rinunciare alla fede. La sua risposta fu: “In qualunque altra cosa io obbedirei, ma non posso accettare alcun ordine che si opponga alla mia salvezza eterna”. Al mattino del 17 novembre 1608, quattro mesi dopo il suo battesimo, fu giustiziato nella strada davanti alla sua casa.
San Francesco Saverio giunse in Giappone nel 1549, iniziando la predicazione di Cristo nel paese del sol levante. Dopo 60 anni lo Shogun, il capo militare del Giappone, scatenò una persecuzione contro la giovane Chiesa che può rivaleggiare in furia con quella dell’imperatore Diocleziano, agli inizi del IV secolo. Donne e bambini furono presi nel turbine. Le loro storie ricordano quelle di Perpetua e Felicita, o di sant’Agnese.
Il 9 dicembre 1603, Agnese Takeda assistette alla decapitazione di suo marito. Piena di riverenza e amore, raccolse la sua testa e la strinse al petto. Le cronache dicono che a quella vista, non solo la folla, ma perfino i carnefici si commossero. La separazione della coppia fu breve perché Agnese fu martirizzata poco dopo, lo stesso giorno.
Nel 1619 Tecla Hashimoto, che aspettava il suo quarto figlio, fu legata a una croce assieme alle altre figlie, di cui una aveva solo 3 anni, e tutte furono bruciate vive. Mentre le fiamme si alzavano attorno a loro, la sua figlia di 13 anni gridò: “Mamma, non riesco a vedere più nulla!”. La madre rispose: “Non temere. Fra poco vedrai tutto con chiarezza”.
Pietro Kibe, che dà il titolo liturgico a questo gruppo di martiri, ha una storia avventurosa, che ricorda quella di san Cipriano. Da seminarista, nel 1614 fu esiliato a Macao, come tutti i missionari stranieri presenti in Giappone. Il suo ardente desiderio fu quello di diventare prete e tornare fra il suo popolo. Così nel 1618 egli lasciò Macao su una nave e arrivò fino a Goa, in India. Da lì egli viaggiò da solo attraversando quelli che oggi sono il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, la Giordania e arrivò fino in Terra Santa. Dopo uan visita ai luoghi santi, giunse nel 1620 a Roma. Ordinato sacerdote, si preparò al ritorno in Giappone. Intanto però lo Shogun aveva chiuso l'ingresso nel paese a tutti, con l'eccezione di pochi olandesi strettamente controllati..
Padre Pietro riuscì ugualmente a rientrare in segreto in Giappone, vivendo come clandestino e celebrando i sacramenti con i cristiani di nascosto. Nel 1633, avendo saputo che un missionario, padre Fereira, aveva ceduto all'apostasia, scese dalle montagne e andò a incontrarlo. “Padre – gli disse – andiamo insieme alla stazione della polizia militare. Lei ritratta la sua apostasia e poi moriremo insieme”. Padre Fereira rifiutò. Dopo di che padre Pietro si spostò nel nordest di Honshu, l’isola maggiore del Giappone. La polizia riuscì a catturarlo nel 1639 e lo trascinò a Edo, l'attuale Tokyo, dove per farlo rinunciare alla fede venne torturato con crudeltà, e infine fu ucciso.
Nei martiri giapponesi del XVII secolo e in quelli dei primi secoli brilla lo stesso potere di Cristo: vi è la stessa chiara coscienza, la stessa indomabile convinzione nel rifiutare di rinunciare alla fede, lo stesso spirito gioioso in mezzo alle crudeli sofferenze, la stessa forza sovrumana, segno che un Altro soffriva in loro. I tormenti e la morte non li hanno travolti. Essi sono stati uccisi, ma hanno vinto.
CLAMOROSA RIVELAZIONE DI MONSIGNOR DE Magistris - Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede» - «Il fondatore del Partito Comunista ricevette i sacramenti cristiani sul punto di morte» - CorSera 25-11-2008
ROMA - «Gramsci morì con i sacramenti. E chiese alle suore che lo assistevano di poter baciare un' immagine del Bambino Gesù». Lo ha affermato l'arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, intervenuto alla presentazione del nuovo catalogo dei santini che si è tenuta alla Radio Vaticana.
LA CHIESA E IL PCI - «Questo fatto - ha sottolineato il presule sardo - nel mondo della "falce e martello" preferiscono tacerlo, ma è proprio così e il mio grande conterraneo aveva conservato fin da ragazzo un'immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù che era venerata nella sua casa natale». Finora del riavvicinamento al cattolicesimo di Gramsci si era parlato solo a livello di voci, mai confermate. De Magistris, che in passato è stato tra i responsabili del Tribunale vaticano della Penitenzieria Apostolica (dicastero preposto alle indulgenze, ai perdoni e a controversie interne), ha invece fornito più di un dettaglio sulla vicenda. «Il mio conterraneo, Gramsci - ha detto il presule, che è attualmente in pensione - aveva nella sua stanza l'immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l'immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: "Perché non me l'avete portato?" Gli portarono allora l'immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò». «Gramsci - ha sottolineato De Magistris - è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci perseguita. Il Signore non si rassegna a perderci», ha commentato ancora l'esponente vaticano.
Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi - Lettera d Papa Benedetto XVI al sen. Marcello Pera
Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI
23 novembre 2008
Messaggio del Papa per la seduta pubblica delle Pontificie Accademie - "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto"
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 25 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre ha inviato questo martedì mattina al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, e ai partecipanti alla XIII seduta pubblica delle Pontificie Accademie sul tema: "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto".
* * *
Al venerato Fratello
Mons. Gianfranco Ravasi
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Mi è gradito inviare a Lei ed al Consiglio di Coordinamento delle Pontificie Accademie il mio cordiale saluto in occasione dell’annuale Seduta pubblica, appuntamento tradizionale per dare risalto alle attività promosse con impegno e generosa dedizione da ciascuna Accademia, e momento di incontro e di condivisione tra Istituzioni diverse animate da un obiettivo comune: servire la persona umana, per farne risaltare lo splendore e le responsabilità, l'armonia e la missione. Sono lieto di estendere il mio saluto ai Signori Cardinali, ai Vescovi, ai Sacerdoti, ai Signori Ambasciatori ed ai Rappresentanti di ogni Pontificia Accademia riuniti per questo atto solenne e familiare.
Per questa Tredicesima Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie la Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, che organizza quest'anno l'evento, ha scelto come tema: Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto, un argomento quanto mai significativo per approfondire il rapporto o, meglio, il dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza ed agire umano, dialogo tanto necessario quanto talvolta dimenticato o eluso.
La necessità e l'urgenza di un rinnovato dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza, verità e bontà, ci vengono riproposte non solo dall'attuale dibattito culturale ed artistico, ma anche dalla realtà quotidiana. A diversi livelli, infatti, emerge drammaticamente la scissione, e talvolta il contrasto tra le due dimensioni, quella della ricerca della bellezza, compresa però riduttivamente come forma esteriore, come apparenza da perseguire a tutti i costi, e quella della verità e bontà delle azioni che si compiono per realizzare una certa finalità. Infatti, una ricerca della bellezza che fosse estranea o avulsa dall'umana ricerca della verità e della bontà si trasformerebbe, come purtroppo succede, in mero estetismo, e, soprattutto per i più giovani, in un itinerario che sfocia nell'effimero, nell'apparire banale e superficiale o addirittura in una fuga verso paradisi artificiali, che mascherano e nascondono il vuoto e l'inconsistenza interiore. Tale apparente e superficiale ricerca non avrebbe certo un afflato universale, ma risulterebbe inevitabilmente del tutto soggettiva, se non addirittura individualistica, per terminare talvolta persino nell'incomunicabilità.
Ho sottolineato più volte la necessità e l'impegno di un allargamento degli orizzonti della ragione, ed in questa prospettiva bisogna tornare a comprendere anche l'intima connessione che lega la ricerca della bellezza con la ricerca della verità e della bontà. Una ragione che volesse spogliarsi della bellezza risulterebbe dimezzata, come anche una bellezza priva di ragione si ridurrebbe ad una maschera vuota ed illusoria. Nell'incontro col Clero della Diocesi di Bressanone, lo scorso 6 agosto, dialogando proprio sul rapporto tra bellezza e ragione, facevo notare che dobbiamo mirare ad una ragione molto ampliata, nella quale cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. Se questo impegno è valido per tutti, lo è ancor di più per il credente, per il discepolo di Cristo, chiamato dal Signore a "rendere ragione" a tutti della bellezza e della verità della propria fede. Ce lo ricorda il Vangelo di Matteo, in cui leggiamo l'appello rivolto da Gesù ai suoi discepoli: "Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,16). Va notato che nel testo greco si parla di kalà erga, di opere belle e buone allo stesso tempo, perché la bellezza delle opere manifesta ed esprime, in una sintesi eccellente, la bontà e la verità profonda del gesto, come pure la coerenza e la santità di chi lo compie. La bellezza delle opere di cui ci parla il Vangelo rimanda oltre, ad un’altra bellezza, verità e bontà che soltanto in Dio hanno la loro perfezione e la loro sorgente ultima.
La nostra testimonianza, allora, deve nutrirsi di questa bellezza, il nostro annuncio del Vangelo deve essere percepito nella sua bellezza e novità, e per questo è necessario saper comunicare con il linguaggio delle immagini e dei simboli; la nostra missione quotidiana deve diventare eloquente trasparenza della bellezza dell'amore di Dio per raggiungere efficacemente i nostri contemporanei, spesso distratti e assorbiti da un clima culturale non sempre propenso ad accogliere una bellezza in piena armonia con la verità e la bontà, ma pur sempre desiderosi e nostalgici di una bellezza autentica, non superficiale ed effimera.
Questo è emerso anche durante il recente Sinodo dei Vescovi, convocato per riflettere sul tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Diversi interventi hanno evidenziato il valore perenne di una "bella testimonianza" per l'annuncio del Vangelo, sottolineando l'importanza del saper leggere e scrutare la bellezza delle opere d'arte, ispirate dalla fede e promosse dai credenti, per scoprirvi un singolare itinerario che avvicina a Dio e alla sua Parola.
Nel Messaggio conclusivo, poi, rivolto dai Padri Sinodali a tutti i credenti, si ribadisce la bontà e l'efficacia della via pulchritudinis, uno dei possibili itinerari, forse quello più attraente ed affascinante, per comprendere e raggiungere Dio. Nello stesso documento si ricorda la Lettera agli Artisti del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, che invitava a riflettere sull'intimo e fecondo dialogo tra la Sacra Scrittura e le diverse forme artistiche, da cui sono scaturiti innumerevoli capolavori. In questa occasione vorrei suggerire di riprendere in mano quella Lettera, a dieci anni dalla sua pubblicazione, per farne oggetto di una rinnovata riflessione sull'arte, sulla creatività degli artisti, e sul fecondo quanto problematico dialogo tra questi e la fede cristiana, vissuta nella comunità dei credenti. Mi rivolgo particolarmente a voi, cari Accademici ed Artisti, perché è proprio questo il vostro compito, la vostra missione: suscitare meraviglia e desiderio del bello, formare la sensibilità degli animi e alimentare la passione per tutto ciò che è autentica espressione del genio umano e riflesso della Bellezza divina.
Cari fratelli e sorelle, il Premio delle Pontificie Accademie, istituito dal mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, ha una sua peculiare finalità: suscitare nuovi talenti in vari campi del sapere ed incoraggiare l'impegno di giovani studiosi, artisti ed istituzioni che dedicano le loro attività alla promozione dell'umanesimo cristiano. Accogliendo, pertanto, la proposta formulata dal Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, in questa solenne Seduta Pubblica sono veramente lieto che venga assegnato il Premio delle Pontificie Accademie al Dott. Daniele Piccini, distintosi per il suo impegno sia nello studio critico della poesia e della letteratura - particolarmente di quella italiana delle origini e del Rinascimento - sia per la sua militanza attiva in campo poetico, espressa in alcune significative raccolte.
Sono, inoltre, contento che quale segno di apprezzamento e di incoraggiamento, si offra una Medaglia del Pontificato al Dott. Giulio Catelli, giovane pittore, per la sua ricerca artistica, apprezzata già dalla critica d'arte; nonché alla Fondazione Stauròs Italiana, Onlus, per la realizzazione del Museo d'Arte Sacra Contemporanea e per l'organizzazione della Biennale d'Arte Sacra, appuntamento ormai tradizionale per gli artisti che si impegnano nel settore dell'Arte Sacra.
Vorrei infine manifestare a tutti gli Accademici, e specialmente ai Membri delle Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, il mio vivo apprezzamento per l'attività svolta, ed esprimere l'augurio di un impegno appassionato e creativo, soprattutto in campo artistico, per promuovere nelle culture contemporanee un nuovo umanesimo cristiano, che sappia percorrere con chiarezza e decisione la via dell'autentica bellezza. Con tali sentimenti, affido ciascuno di voi, come pure la vostra preziosa opera di studio e di ricerca creativa, alla materna protezione della Vergine Maria, che con tutta la Chiesa invochiamo come Tota Pulchra, la Tutta bella, e di cuore imparto a Lei, Signor Presidente, ed a tutti i presenti una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 24 Novembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Incarnare la Misericordia con i cerebropatici e le loro famiglie - ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di suor Graziella Bazzo EAM, del “Centro Speranza” di Fratta Todina (PG).
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"Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me." (Mt 25,40)
La Parola di Dio è sempre per noi vitale, la sentiamo come Parola di vita.
Infatti, l’invito a stare sempre dalla parte dei piccoli, che si traduce in una accoglienza verso chi è emarginato viene trasformata in "preferenza", che sta evangelicamente nel prediligere, innanzitutto i deboli, i poveri, gli umili, i sofferenti, i più bisognosi.
Attingendo forza da queste parole possiamo dire che "il servizio più alto che si può dare a una persona è di farla diventare ciò che è: " è il servizio per eccellenza".
Noi possiamo diventare quello che siamo perché siamo inseriti in un progetto di vita.
E’ dell’uomo che, per diventare quello che deve essere, ha bisogno di un altro essere umano che si inserisca nel suo divenire.
Per questo Convegno, che celebra il 75° anno di Fondazione della nostra Congregazione delle Ancelle dell’Amore Misericordioso, mi è stato proposto un intervento volto a raccontare e a testimoniare l’esperienza che quotidianamente ci vede coinvolti.
Mi riferisco alla realtà del "Centro Speranza", un servizio sia diurno che ambulatoriale riabilitativo rivolto a bambini, ragazzi e adulti cerebropatici insufficienti mentali di grado lieve, grave e gravissimo e che mira ad aiutarli nel dare senso e significato alla propria esistenza.
Una realtà, per quello che mi riguarda, che io vivo da 15 anni. Questa esperienza di "Vita per la vita" ci ha spinto e spronate comunitariamente, verso una migliore accoglienza e comprensione delle persone cerebropatiche e delle loro famiglie.
Esperienza che, quotidianamente, ravviva la passione e l’impegno necessario per conoscere e per interiorizzare quegli atteggiamenti, quei gesti, quelle linee educative e pedagogiche che favoriscono e promuovono un’accoglienza rispettosa della diversità.
Cercherò ora di percorrere con voi un breve excursus storico in riferimento alla nascita e allo sviluppo del Centro Speranza. Penso che sia importante ripensare e rileggere la storia di una esistenza riconoscendo quanto il Signore ama le sue creature e cerca in tutti i modi di averne cura affinché "la Sua opera sia espressione del Suo Amore".
Di seguito metterò in rilievo i principi ispiratori di questa opera e alcune caratteristiche corrispondenti.
Excursus storico
La nostra Madre Fondatrice, Madre Speranza, nel corso della sua vita, esprimeva il desiderio di realizzare, proprio nella casa di Fratta Todina, un Centro per accogliere bambini cerebropatici e al tempo stesso sostenere le loro famiglie. Lei stessa incoraggiava le suore a portare avanti questo Progetto, che vedeva come espressione della volontà di Dio.
Questa idea della Madre si è andata rafforzando con gli anni grazie alla conoscenza di Vittorina Gementi, insegnante e pedagogista, e della sua imponente opera realizzata a Mantova.
I primi incontri tra le suore e Vittorina sono avvenuti a Collevalenza e da subito si è instaurata una stima reciproca e profonda. Nell’ottobre del 1976 furono inviate, due suore neo-professe, a prestare servizio presso la Casa del Sole, a Mantova, per fare esperienza e per conoscere i principi del Trattamento Pedagogico Globale.
Il desiderio della Madre inizia così la via della realizzazione e nel corso di questi anni, tutti noi, abbiamo assistito ad una evoluzione e ad un recipimento sul significato che lei stessa intendeva e voleva dare: "l’amore incondizionato" per chi si trova nel bisogno, per chi soffre.
Nei confronti di queste persone, la Madre si è posta sempre con un’ atteggiamento interiore di chi offre l’aiuto: la com-prensione: capacità di allargare la mente in un nuovo modo di intendere, quello evangelico; la com-passione:capacità di allargare il cuore, accogliendo l’amore divino e donandolo; la com-mozione:capacità di muoversi verso il fratello nel bisogno e quindi la messa in atto concreta delle opere di misericordia. In una accezione più ampia mi piace mettere in rilievo l’aspetto della Misericordia e dell’Amore per l’essere umano che la Madre conteneva in sé perché "lei aveva hambre (= fame) della felicità altrui".
Infatti, da lì a pochi anni iniziarono ad arrivare a Fratta Todina i primi bambini con cerebropatie più o meno gravi, le cui famiglie, dopo essersi rivolte inutilmente ai servizi di assistenza dell’U.L.S.S., chiedevano alle suore un aiuto per accogliere i propri figli.
La Comunità religiosa concretizzando l’idea di Madre Speranza creò a Fratta Todina, presso il Palazzo Altieri, un Centro Diurno per bambini, ragazzi cerebropatici gravi e gravissimi, ispirandosi ed applicando i principi del Trattamento Pedagogico Globale.
Certamente si può dire che uno dei protagonisti di questa opera nascente è Dio, Padre Misericordioso, che sente l’urgenza di riversare tutta la sua infinita tenerezza sui "suoi figli prediletti": i bambini cerebrolesi.
Il Centro Speranza dunque, trae il suo principio ispiratore nel dare "Dignità e diritti alla persona disabile".
Così nel settembre del 1984, il Centro ha iniziato ufficialmente la sua attività: con la presenza di tre bambini, anche se il riconoscimento della Regione era ancora lontano.
Nel giugno del 1988 si è giunti al riconoscimento e all’autorizzazione da parte della Regione. Dopo poco più di un anno la Convenzione con l’U.L.S.S. Media Valle del Tevere di Marsciano.
Nel corso dei primi anni, proprio grazie all’interessamento economico della Congregazione, le attività del Centro si andavano potenziando con rapidità.
La ristrutturazione del Palazzo Altieri con l’ampliamento di numerosi spazi ha permesso l’implementazione e la diversificazione dei servizi e delle proposte (attività occupazionale con laboratori di ceramica, falegnameria, cucina, parrucchieria, ecc.. e la realizzazione della piscina: vasca terapeutica) da offrire ai bambini, ragazzi disabili e alle loro famiglie.
Così, nel corso dei suoi 21 anni di vita il Centro Speranza ha visto aumentare il numero dei suoi utenti…, e attualmente il Centro offre un servizio diurno e ambulatoriale con trattamenti riabilitativi a cento tra bambini e ragazzi con disabilità.
Giorno dopo giorno, noi suore e i laici che collaborano con noi, attualmente sono 37 ( un medico Direttore Sanitario, neurologo, educatori professionali, tecnici della riabilitazione, ecc), abbiamo iniziato a condividere, attraverso un cammino comune, una esperienza che è stata ed è certamente professionale ma anche esistenziale e spirituale.
Principi ispiratori del Centro Speranza
Ora vorrei esporre i principi - valori fondamentali che hanno sotteso da sempre l’operato di questo Centro e questi sono:
Il valore dell’uomo, della vita umana, il rispetto della dignità dell’altro come essere umano indipendentemente dalla sua condizione. La scientificità Il valore della famiglia
Il principio ispiratore che ha promosso questo servizio è il concetto di "VALORE PRIMARIO DELLA PERSONA UMANA" e quindi il dovere di contribuire all’arricchimento ed alla pienezza del suo sviluppo con "GIUSTIZIA E CARITA’ EVANGELICA, SCIENZA E TECNICA".
Pertanto il primo punto da mettere in rilievo è il valore dell’ uomo, esso trova la sua connessione in una antropologia profondamente cristiana che vede la persona, anche quando risulta essere menomata sia nella psiche che nel corpo, come persona, soggetto con piena dignità portatore egli stesso di diritti sacri e inalienabili.
L’essere umano, infatti, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge la sua vita e dalle capacità che può esprimere, possiede una Dignità e un Valore Unico, soprattutto in una società come la nostra dove: l’apparire, l’estetismo, l’efficientismo, l’avere e il possedere rischiano di far crollare l’uomo nella più profonda disperazione ed emarginazione esistenziale.
Le persone cerebrolese, nel nostro mondo efficientistico, sono considerate povere, non in termine evangelico, ma perché non hanno gli strumenti umani per correre e competere con chi usa la vita per possedere, per apparire, per fare.
Ma la novità del Vangelo rivela il valore unico e inestimabile di queste creature: Gesù li proclama "beati" perché il Padre, riserva loro un amore preferenziale e gratuito, un’attenzione e una tenerezza speciale. Se questo è l’amore di Dio per loro, quanto deve cambiare il nostro modo di pensare e di guardare a loro, il nostro atteggiamento concreto verso le loro famiglie!
La loro presenza al Centro Speranza e nella nostra comunità, tiene viva una visione della vita umana che spesso ci sfugge: "la vita come dono gratuito, come gioia di amare e di essere amati". Un’ amore che è espressione di tenerezza, accoglienza, pazienza, lealtà, condivisione, benevolenza e rispetto inteso come il volere che l’altro viva il suo essere in pienezza. Infine, la serenità interiore capace di contagiare chi li avvicina.
Vorrei a questo proposito citare ciò che Vittorina Gementi affermava: "…..Credo che molte opere di Dio non si manifestino nelle nostre comunità ecclesiali proprio perché non abbiamo la presenza preziosa di questi fratelli scelti e prediletti da Dio".
Dunque, tutto questo ci conduce al concetto di Umanità, di pienezza, di dignità dell’individuo anche se disabile che impone a tutti di avvicinarsi all’uomo non per "dare" (atteggiamento assistenziale) ma per "amare" (atteggiamento dialogico).
La sofferenza più grande del bambino cerebropatico, come di ogni persona, è di sentirsi escluso, senza valore e non amato. E’ attraverso l’amore che egli comincia a scoprire a poco a poco di avere un valore, un ruolo, di essere amato e quindi amabile.
A questo punto vorrei fare una brevissima parentesi: nel cuore di ognuno si trova sempre un angolo riservato ai ricordi, alle esperienze che hanno lasciato in noi una traccia. Ciò che mi rimase impresso di Vittorina Gementi ed improntò in seguito la mia vita a livello professionale, fu quel suo modo di "guardare", di considerare i bambini: l’accento era posto sulle risorse del bimbo e non sui suoi aspetti carenziali; vorrei dire anzi che l’impostazione era: "considerare il bambino come risorsa ed occasione di crescita (umana, esperienziale, affettiva, educativa e spirituale ….) per se stesso e per noi.
Questa considerazione ci può condurre ad una ulteriore riflessione.
Il "guardare negli occhi" chi abbiamo di fronte, qualsiasi sia la condizione in cui egli si dovesse trovare, è un primo ed semplice gesto di prossimità che ci apre alla possibilità di riconoscerlo simile e al tempo stesso "altro" da noi. Il guardare come gesto implica una intenzionalità ed è diverso da un vedere che non sempre arriva a muovere la volontà, il cuore. Anche per la nostra Madre era chiaro che l’attenzione va rivolta a tutto l’uomo, per partecipare, con lui, a quella sua particolare situazione: "Se vi capita di trovarvi con una persona oppressa dal dolore fisico o morale, non cercate di soccorrerlo o fargli un’esortazione senza prima aver rivolto uno sguardo di compassione". In termini pedagogici e perché no, spirituali, possiamo parlare di esperienza empatica che fa "allargare la propria esperienza così che sia in grado di accogliere l’esperienza dell’altro".
Edith Stein riconosce nell’empatia la capacità "nell’interessarmi veramente dell’altro, del suo valore, della sua persona", è "atto d’amore".
Mi sembra necessario sottolineare il secondo principio che ho citato inizialmente e che appare fondamentale e guida il nostro agire all’interno del Centro: la scientificità.
Essa si pone come strumento del sapere e del progresso in funzione del bene dell’uomo e ciò implica professionalità. Non vuoto e asettico tecnicismo o prestazione, ma come strumento privilegiato del servizio per essere più vicini all’uomo nella sua condizione di bisogno e di sofferenza.
Vorrei ora evidenziare un altro aspetto: il valore della famiglia che per noi riveste notevole importanza. Il Centro intende farsi carico, non solo della disabilità in quanto tale, ma anche della sofferenza personale e familiare che l’accompagna.
Non possiamo pensare di aiutare il bambino cerebroleso a crescere se non teniamo conto che esso esiste non come individuo isolato, ma come realtà inscindibile dai suoi genitori.
In questa ottica la famiglia gioca un ruolo importante, infatti, se educare significa valorizzare e rendere significativa l’esistenza di ogni bambino, l’educazione non può prescindere dalla famiglia che rappresenta il nucleo primario dei valori dell’esistenza.
Pertanto, non basta nei confronti della famiglia un atteggiamento di disponibilità, ma è necessario un coinvolgimento profondo che deve partire dalla conoscenza di quali sono stati e sono i problemi che la famiglia vive, le sue angosce, le sue difficoltà, ma soprattutto capire i tentativi che la famiglia attua per affrontare questo grave problema.
E’ evidente: il cammino che i genitori devono compiere è un cammino molto difficile e difficilmente riusciranno a compierlo da soli.
E’ prima di tutto il cammino della presa di coscienza della realtà del figlio; è il cammino dell’accettazione vera del figlio; è il cammino della comprensione di quali sono i suoi reali bisogni; è il cammino della fiducia verso una struttura che si affianca a loro, con competenza, rispetto, pazienza, attesa, nel processo di crescita del proprio figlio.
Il Centro per sostenere e aiutare la famiglia in questo cammino si avvale di diversi strumenti ad esempio colloqui con il medico, colloqui con l’assistente sociale, colloqui con altre figure professionali presenti all’interno del servizio. Inoltre sono previste riunioni di equipe periodiche, di gruppi di auto-aiuto e iniziative aggregative (Festa della Famiglia, Festa del Natale, Camminata della Speranza).
Sono tutti questi momenti che consentono da una parte di far incontrare i genitori fra di loro, favorendo così un passaggio di esperienze, ma anche momenti di condivisione, affinché essi possano trovare fra di loro un aiuto. Dall’altra parte, queste esperienze, si collocano nella prospettiva di rendere il bambino con disabilità e la sua famiglia presenti nel territorio.
Negli anni si è constatato, come queste opportunità favoriscano conoscenza e riflessione conducendo a forme di rinnovata "sensibilità" affettivo-relazionale, promuovendo un nuovo senso esistenziale e una qualità della vita della persona disabile e dei suoi genitori.
La "missione" specifica del "Centro Speranza" è, oggi, tutelare la dignità e migliorare la qualità della vita – prevalentemente attraverso interventi di riabilitazione, sanitaria e sociale – delle persone con disabilità (specie in età evolutiva) e delle loro famiglie.
Per questo, due atteggiamenti risultano portanti: quello dell’accoglienza e quello della valorizzazione della vita in tutte le sue espressioni.
L’accoglienza intesa come desiderio e impegno di far sentire a proprio agio chi frequenta il Centro o chi, per qualsiasi ragione ad esso accede; e come autentico impegno che si esprime come disponibilità interiore verso l’altro e come gesto concreto di benevolenza e di ascolto.
La valorizzazione della vita in tutte le sue espressioni impegna, invece, ciascuno a scoprire ciò che veramente conta in tutti coloro che avvicina. Questo favorisce a far crescere in ogni persona la consapevolezza di quanto vale, in quanto oggetto di amore personale e particolare di Dio.
Pertanto le caratteristiche corrispondenti a tali principi sono:
-- Essere espressione dell’amore e della tenerezza di Dio che non abbandona mai le sue creature, privilegiando i più poveri ("Gesù ama svisceratamente l’uomo, altrettanto dobbiamo fare noi […] L’uomo, il più miserabile e perfino il più abbandonato è amato con immensa tenerezza da Gesù, che gli è Padre e tenera Madre" – Madre Speranza).
-- Promuovere un servizio di qualità, inteso soprattutto come attenzione ai bisogni più profondi e veri della persona ("Le nostre opere coniugando evangelizzazione e promozione umana, devono testimoniare la nostra stima e rispetto per la dignità di ciascuna persona e la nostra costante sollecitudine per la sua crescita integrale" – Cost. Congregazione E.A.M.).
-- Infondere tra operatori e volontari la collaborazione e la condivisione, nello stile di servizio alla persona dello spirito cristiano, anche qualora non ne condividessero le motivazioni di fede.
-- Essere portatori di speranza cristiana verso le persone particolarmente provate, come i genitori e i loro figli disabili ("Tutto il nostro agire deve essere improntato ad una grande speranza e dobbiamo proporla a tutti…" – Cost. Congregazione E.A.M.).
Vittorio Messori: la storia di una conversione - Una vita per rendere ragione della fede - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 25 novembre 2008 (ZENIT.org).- Storia singolare quella dello scrittore Vittorio Messori. Autore di best seller venduti in milioni di copie in tutto il mondo. Unico ad aver pubblicato un libro-intervista con il Pontefice Giovanni Paolo II (“Varcare le soglie della speranza”) e aver intervistato il Cardinale Joseph Ratzinger (“Rapporto sulla Fede”), divenuto in seguito Papa.
Solamente “Varcare le soglie della speranza” ha venduto più di 20 milioni di copie ed è stato tradotto in 53 lingue.
Eppure fino a 23 anni Messori non era affatto cattolico. La famiglia agnostica se non anticlericale, cresciuto ed educato con una cultura razionalista indifferente verso il mistero religioso e ostile alla sola idea che possa esistere Dio. Studente universitario seguace dei maestri del laicismo come Norberto Bobbio e Galante Garrone. Giornalista de “la Stampa”.
Era l’estate del 1964, a Torino, quando già si intravedevano i primi fuochi dell’imminente ‘68, con gli studenti universitari che si nutrivano di Sigmund Freud, Karl Marx, Wilhelm Reich, e il mondo cattolico si dibatteva nei problemi del dopo Concilio Vaticano II, fu in questo contesto che Messori incontrò quel Cristo che gli ha cambiato la vita.
La storia del figlio di un falegname di Nazareth che diceva di essere il figlio di Dio e che innocente morì sulla Croce, è entrata così profondamente nella vita di quello studente universitario, che il primo libro che pubblicò “Ipotesi su Gesù” è diventato un best seller internazionale.
A raccontare la conversione, le vicende, le esperienze, i pensieri di un cattolico senza fronzoli, apologetico con ragione, solido e realista, è stato il vaticanista Andrea Tornielli, che è riuscito nell’impresa di intervistare Vittorio Messori nel libro “Perché Credo. Una vita per rendere ragione della fede”, appena pubblicato da Piemme.
In questo dialogo asciutto ed essenziale, Messori racconta che nessuno credeva nel successo del libro “Ipotesi su Gesù”. In molti cercarono di convincerlo a fare altro. Gli anticlericali lo osteggiavano, ma anche i cattolici erano scettici.
I religiosi della ‘Sei’, i suoi primi editori, erano certi che il libro sarebbe stato un flop editoriale, e per questo lo tennero in un cassetto per più di un anno e nella prima edizione lo stamparono in tremila copie.
Oggi quel libro ha superato un milione di copie vendute, è stato tradotto in trenta - quaranta lingue, e nonostante sia stato scritto a metà degli anni Settanta vende ancora 20-30.000 copie all’anno.
Messori spiega però che il merito non è suo, è la vicenda del Cristo che interroga ancora l’umanità.
Un Cristo che continua a far discutere come dimostra il recente divieto in Spagna di esporre i crocefissi nelle aule scolastiche.
"Non mi scandalizzo né mi straccio le vesti per ciò che è accaduto in Spagna – ha commentato a ZENIT Vittorio Messori –, perché sono convinto che un po’ di difficoltà e di ostilità fa bene al cristianesimo, fa risvegliare, fa prendere coscienza della propria identità”.
“La storia lo insegna: le persecuzioni sono state occasioni perché i cristiani si moltiplicassero", ha poi spiegato.
Nell’introduzione al volume Tornielli precisa che Messori “ha scritto il libro che non trovava”.
Messori non cercava “analisi sulla società, sulla povertà materiale e sulle sue cause, sull’impegno politico e sociale dei cattolici, sull’applicazione delle scienze umane al cristianesimo”.
Lo scrittore convertito cercava risposte alle domande: “Che cosa c’è di vero in questa storia, in questo racconto, che da duemila anni riecheggia nel mondo? Gesù Cristo è davvero il figlio di Dio? È davvero lui il Messia atteso da Israele, annunciato dalle profezie? E, soprattutto, è davvero risorto?”.
Ma soprattutto, Messori cercava delle certezze sulla storicità di quell’uomo venuto al mondo in un villaggio sperduto dell’Impero romano che ha cambiato la storia dell’umanità con la rivoluzione dell’amore caritatevole.
Nel libro Messori racconta la sua conversione che era stata preceduta, da un fatto straordinario, una telefonata di uno zio materno morto giovane per un ictus cerebrale. Lo scrittore è persona razionale ed è certo di non aver sognato né di aver sofferto di allucinazioni.
Poi nel luglio e agosto del 1964, mentre lavorava come centralinista all’allora compagnia telefonica Stipel, trovò per caso una copia del Vangelo. Leggendolo avidamente accadde un fenomeno che Messori descrive come una "Luce esplosa all'improvviso", un “incontro misterioso” quasi fisico con Gesù.
Il noto scrittore si descrive come un “emiliano terragno” con nessuna vocazione alla vita mistica e ascetica, eppure narra che in quei due mesi visse immerso “in una esperienza mistica” che non avrebbe mai immaginato, né conosciuto. Una situazione di luce piena “con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza”. Verità che “mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi”.
Nell’introduzione Tornielli sostiene che Vittorio Messori “è una figura atipica nel panorama ecclesiale e culturale di oggi. Non ha peli sulla lingua, né parla l’ ‘ecclesialese’, cioè
quel tipico linguaggio autoreferenziale, spesso stereotipato e tanto più ripetitivo quanto meno agganciato alla reale esperienza umana. E non lo si può facilmente arruolare o collocare in questo o quello schieramento. Non è un tradizionalista, non è un moralista né un teocon”.
Tornielli racconta che Messori ha un solo, grande rammarico: “constatare ogni giorno che la ‘conversione della mente’ – che fu, ed è, totale – troppo spesso non si sia accompagnata alla ‘conversione del cuore’. E che, dunque, debba unirsi al lamento del ‘suo’ Blaise Pascal: ‘Quanta distanza c’è, in me cristiano, tra il pensiero e la vita!’”.
25/11/2008 12:38 – ASIA - Uscire dalla crisi: le inutili soluzioni di destra e di sinistra - di Maurizio d'Orlando - Non si vuol comprendere che questa del 2008 è una crisi più grave e diversa da quella del ’29. Le soluzioni trovate finora sono a beneficio del mondo bancario, ma non servono a produrre ricchezza. C’è il rischio di ridurre il dollaro a carta straccia.
Milano (AsiaNews) - Fra la crisi attuale e quella del ’29 vi sono caratteristiche molto simili. Nel cercare una soluzione alla crisi, politici ed economisti di schieramento opposto vanno maturando un consenso “bipartisan”, che è quello di evitare di commettere gli stessi errori compiuti quasi 80 anni fa, dopo il crollo di Wall Street. L’illusione, un po’ consolatoria, è di sapere sulla base della lezione del passato che cosa in teoria c’è da fare. Si dimentica, però, che fra il ’29 e il 2008 vi sono anche significative differenze. Ad esempio, la circolazione monetaria, sia interna che internazionale, non ha più alcun riferimento alla parità aurea. Inoltre l’attuale crisi è molto più estesa e profonda di quella del ’29[1]. Ipotizzare quindi delle soluzioni che ricalchino quelle tratte dalle passate esperienze non servirà a molto. Anzi, le soluzioni ispirate al passato rischiano di far precipitare l’economia in una spirale molto pericolosa.
Le soluzioni “di sinistra” e “di destra”
I vertici politici di tutto il mondo sembra non abbiano ancora compreso che i problemi odierni sono diversi da quelli del passato. In modi quasi imperturbabili ci ripropongono vecchie ricette, di “destra” e di “sinistra”, rimescolate insieme.
Su AsiaNews abbiamo già scritto su quanto è inutile e dannoso il piano “bipartisan” di Paulson[2]. C’è solo da aggiungere che da 700 esso è lievitato a 2 mila miliardi di dollari senza una specifica autorizzazione del Parlamento americano[3], con tanti saluti alla democrazia; la Fed si è perfino rifiutata di fornire dettagli su chi ne ha beneficiato, con tanti saluti alla trasparenza.
Inutili e dannosi, temiamo, risulteranno anche i provvedimenti preannunciati in molti paesi. Né ricette di “sinistra” - che agiscono sulla domanda - né ricette di “destra” - che agiscono sull’offerta – riusciranno a produrre risultati in termini di crescita economica. Finora a prevalere sembra siano soluzioni stataliste di “sinistra” – il modello keynesiano e del New Deal di Roosevelt – cioè il salvataggio statale di banche e grandi industrie – con l’intento dichiarato di risanarle e cederle poi ad investitori privati[4]. Questo tipo di programmi è in genere accompagnato da un forte incremento della spesa infrastrutturale – strade, porti, sostegno alle “nuove” fonti d’energia, come previsto nel programma annunciato da Obama – e da un calo dei tassi d’interesse stabilito a tavolino[5]. In particolare, quest’ultimo è un provvedimento all’apparenza popolare perché abbassa marginalmente il costo dei mutui. Chi, però, non ha introiti, perché ha perso il lavoro o aveva guadagni solo saltuari, non beneficia affatto di un calo dei tassi e questo vale anche per le imprese, che non hanno più ordinativi. Una riduzione dei tassi d’interesse oggi non riavvia la crescita economica e non produce nuova occupazione. Anzi, può avere un effetto deflattivo indesiderato di riduzione del circolante monetario. Infatti, i consumatori e le imprese che hanno mantenuto delle entrate sono già fortemente indebitati in tutte le maggiori economie del mondo – ed in particolare negli Stati Uniti – ed ogni riduzione dei tassi verrebbe impiegata nella riduzione del debito, non per maggiori consumi o investimenti. A beneficiarne in maniera unica o prevalente sono dunque banche e finanziarie che operano a “leva”[6]. Questo calo dei tassi, in assenza di impieghi produttivi, non garantisce una ripresa economica sana, ma proroga soltanto un benessere artificiale. Anche l’aumento della spesa pubblica per infrastrutture comporta conseguenze inflattive e quindi di una crescita drogata. Per quanto riguarda i salvataggi industriali, mantenere in vita produzioni obsolete e non remunerative solo per salvare posti di lavoro, amplifica nel tempo il problema perché incrementa il consumo di risorse che non sono state prodotte. L’assenza di una crescita reale non drogata o distorta dalla finanza è il problema, non la soluzione. Non è perciò una soluzione responsabile, mentre invece occorre ridurre un clima d’irresponsabilità diffusa. Il problema si pone poi in proporzioni smisurate in particolare nel caso dei salvataggi finanziari.
Anche per le ricette di “destra” oggi non ci sono reali prospettive di successo. Tali ricette prendono a modello lo stile reaganiano neo-liberista della curva di offerta, con tagli fiscali e privatizzazioni.
Per quanto riguarda i tagli alle imposte[7], negli Stati Uniti – ed in linea di massima anche in Europa – tale provvedimento oggi non produrrebbe risultati. Le tasse sono già state tagliate proprio fino al punto della curva di Laffer in cui non si producono riduzioni del gettito tributario[8]. Ulteriori tagli possono compromettere ancora di più i conti pubblici, già precari. Anche sul fronte delle privatizzazioni, nei paesi sviluppati è stato già fatto molto di quello che si poteva fare, seppure in certi casi piuttosto male.
Negli Stati Uniti un incremento della spesa pubblica nelle proporzioni necessarie non potrebbe essere finanziato né internamente - visto che il tasso di risparmio è nullo o negativo – né dall’estero – visto che il dollaro ha di fatto perso il suo ruolo di moneta di riserva. Anche in Europa ed in Giappone è difficile ipotizzare un incremento della spesa pubblica non inflattivo, in Europa per lo stato dei bilanci pubblici, in Giappone per la già abnorme bolla di massa monetaria, soprattutto in termini di M3. D’altro canto, anche il New Deal, a cui il piano di Obama si ispira, è stato un insuccesso: l’America si riprese dalla Grande Depressione degli anni Trenta solo con la 2a Guerra mondiale.
Alleggerire la difesa e la burocrazia
Certo, per liberare risorse da destinare allo sviluppo nei paesi sviluppati ci sarebbe da fare ancora qualcosa. Negli Stati Uniti, ad esempio, si potrebbe mettere sotto controllo la spesa per la difesa, la più alta del mondo, in cui oltre ad altre considerazioni, si annidano sprechi percentualmente anche colossali. In Europa ed in Giappone si potrebbe intervenire per modificare quelle strutture che dilapidano risorse e bloccano iniziative: un sistema burocratico soffocante, un complesso di grandi imprese che occupa ogni spazio e soffoca ogni dinamismo, la giungla legislativa che produce non solo sprechi, ma soprattutto distorsioni. Più in generale, occorre innalzare la produttività del sistema mediante l’innovazione di prodotto vera e funzionale a bisogni reali, e ciò è possibile soprattutto al di fuori di strutture di ricerca costose ed elefantiache. Occorre, soprattutto, riequilibrare il modello economico mediante un completo cambiamento di paradigma. È possibile sanando l’illegittimità sia del sistema monetario che delle istituzioni politiche per far crescere in maniera responsabile, senza ledere i diritti individuali di alcuno, coloro che ne sono ora esclusi.
Di tutto ciò però non si parla. Il concreto rischio è perciò che i provvedimenti adottati, o in procinto di essere adottati, sbilancino a tal punto i conti pubblici da tramutare l’iniziale gelata della deflazione monetaria in una fiammata di inflazione ustionante. Torna alla memoria il precedente storico che portò nel 1971 al definitivo sganciamento del dollaro da ogni tipo di convertibilità aurea. Fu il periodo della stagflazione, stagnazione economica, cioè una blanda forma di recessione, associata ad un’inflazione a due cifre.
La “convergenza” di vedute tra Bernanke, Governatore della Fed, il nuovo ministro designato delle finanze, Thimothy F. Geithner – che in questi anni ha guidato la Federal Reserve Bank di New York – ed il presidente eletto Obama potrebbero portare ad una combinazione simile, ma su una scala ben maggiore. Salvare le banche, il sistema finanziario e le grandi imprese ha un costo fuori ogni misura ed avrà conseguenze fatali per l’economia e tutta la nostra società. Se, come è stato annunciato - e come sembra probabile - questo è l’indirizzo politico, l’economia si avviterà su una spirale tragica. Il governo americano, seguito probabilmente da quello di molti altri paesi, decreterà l’incremento dell’emissione dei dollari in circolazione, aumentando a dismisura il debito pubblico. Il debito pubblico raggiungerà proporzioni tali da non poter essere pagato. Il governo americano dovrà decretare la propria insolvenza finanziaria e il dollaro non varrà più nulla e sarà demonetizzato.
[1] Solo il valore globale dei derivati finanziari è 1'000 volte il valore iniziale del piano Paulson ed è pari a circa quindici venti volte il PIL mondiale. Vedi Il piano Paulson: inutile e dannoso alla democrazia, in AsiaNews.it, 06/10/2008
[2] Vedi nota precedente e Quanto è profondo l’abisso del caos economico, sociale e politico - Asia News, in AsiaNews.it, 30/09/2008; ed inoltre I mutui “subprime” annunciano la più grande crisi finanziaria dopo il ‘29 in AsiaNews.it, 19/09/2007
[3] Vedi Bloomberg.com: Worldwide Fed Defies Transparency Aim in Refusal to Disclose, By Mark Pittman, Bob Ivry and Alison Fitzgerald, Bloomberg news, November 10, 2008
[4] Pochi lo ricordano, perché politicamente sconveniente, ma il New Deal ricalcò alcune precedenti iniziative di Mussolini. Ne è l’esempio l’IRI, Istituto Ricostruzione Industriale, un ente statale in cui confluirono le azioni di grandi banche imprese fallite. Anche le tante simili iniziative odierne nel mondo hanno perciò nel prototipo fascista un antecedente certo molto sgradevole in America. Per la sinistra è invece un precedente storico da censurare completamente.
[5] In molti casi, come ad esempio in Giappone negli scorsi decenni, i bassi tassi d’interesse sono arrivati a risultare addirittura negativi perché inferiori all’inflazione reale.
[6] Impiegano cioè risorse prese a prestito per un elevato multiplo del proprio capitale.
[7] Per la verità i tagli alle imposte come proposti da Obama sono concettualmente diversi da quelli reaganiani.
[8] L’economista Art Laffer riprese una ben nota legge dei manuali classici di Scienza delle Finanze. Il concetto è che esistono due aliquote d’imposta che forniscono il gettito tributario massimo, uno più elevato ed uno inferiore. Al di sopra di quest’ultimo ogni inasprimento fiscale è inutile e dannoso.
26/11/2008 08:46 – THAILANDIA - “Battaglia finale” a Bangkok: aeroporto occupato e 7 feriti - Da stamane i dimostranti anti-governo occupano anche la torre di controllo. Circa 80 voli hanno subito cancellazioni o ritardi; metà dei voli cancellati. Bombe contro i manifestanti hanno provocato 7 feriti.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – Centinaia di dimostranti anti-governo, tutti vestiti di giallo, controllano l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi, dove da stamane tutti i voli sono sospesi. Almeno 7 manifestanti sono stati feriti per alcune bombe scoppiate in aeroporto e in diversi punti della capitale.
Circa 3 mila passeggeri sono di fatto ostaggio nell’aeroporto, dato che tutte le strade d’accesso sono bloccate. I manifestanti sembrano avere perfino invaso la torre di controllo e esigono che i voli in atterraggio domandino loro il permesso. Serirat Prasutanon, direttore dell’aeroporto, dichiara che le operazioni “sono tutte bloccate” da stamattina e che 78 voli da e per Bangkok hanno subito cambiamenti. Metà dei voli sono stati cancellati.
L’occupazione dell’aeroporto è l’ultima mossa di una campagna del partito di opposizione, il Pad (People’s Alliance for Democracy), di far dimettere il governo che essi giudicano corrotto e “una marionetta” dell’ex premier Thaksin Shinawatra, allontanato dal potere con un colpo militare nel 2006 e oggi in esilio a Londra.
Secondo Petpong Kamchornkitkarn, portavoce dei servizi medici di emergenza, 2 persone sono state ferite per una bomba scoppiata all’aeroporto. Un’altra bomba è scoppiata contro i dimostranti al vecchio aeroporto di Don Mueang, ferendo altre 2 persone. Altre 3 sono rimaste ferite per lo scoppio di due bombe sulla strada per Don Mueang. È probabile che il primo ministro Somchai, di ritorno dal Perù, dove ha partecipato a un incontro dei Paesi dell’aera Asia-Pacifico, cerchi di atterrare proprio a Don Mueang.
A causa dei voli bloccati, migliaia di passeggeri hanno dormito in aeroporto, sulle panchine o sui nastri trasportatori dei bagagli. L’aeroporto di Suvarnabhumi accoglie 125 mila passeggeri al giorno.
Gli organizzatori della protesta definiscono questa occupazioni come “la battaglia finale” per far cadere il governo, che d’altronde è stato eletto in modo democratico. Il governo finora non ha chiesto l’intervento dell’esercito, né dichiarato alcun stato di emergenza.
Cento anni fa nasceva Sofia Vanni Rovighi - La filosofia non deve preoccuparsi di essere originale - Il 25 novembre, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, si svolge la giornata di studio "La filosofia nella ricerca e nell'insegnamento di Sofia Vanni Rovighi" organizzata in occasione del centenario della nascita della studiosa. Pubblichiamo un estratto di una delle relazioni, di Michele Lenoci, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
Potrebbe apparire sorprendente che una studiosa, la quale ha rivolto agli autori medioevali un'attenzione privilegiata, trovando in essi risposte persuasive per i problemi fondamentali dell'esistenza umana, si sia poi impegnata, per tutto l'arco della sua esistenza, con interesse e simpatia, nei confronti di un pensiero come quello contemporaneo, almeno apparentemente così lontano, nell'impostazione e nelle soluzioni, dalla filosofia dell'età di mezzo. E, a differenza di molti studiosi di ispirazione cattolica, Sofia Vanni Rovighi non ha mai riservato alla filosofia contemporanea una considerazione esclusivamente critica e demolitrice, mirante a sottolinearne o l'apparente superficialità delle soluzioni rispetto alla profonda solidità delle indagini medioevali o la chiusura, spesso preconcetta e prevenuta, nei riguardi di ogni dimensione trascendente l'esperienza o la limitatezza dello sguardo di contro all'ampiezza della prospettiva classica: le demonizzazioni non appartenevano al suo stile, sempre critico e sorvegliato, così come non amava quelle considerazioni epocali o quegli anticipi di giudizio universale che, attraverso giustapposizioni ardite, o più spesso arbitrarie, e confusioni perniciose, pretendono di esprimere valutazioni obiettive e severe condanne, ma in effetti manifestano solo pregiudizi eguali e contrari a quelli propri delle concezioni così duramente criticate. Fedele allieva di Tommaso, la Vanni Rovighi amava distinguere e si è rivolta agli autori del suo tempo senza diffidenza e prevenzione, ma con uno spirito che ben viene chiarito in due notizie riguardanti la sua formazione e il suo percorso di ricerca, redatte a distanza di quasi trent'anni l'una dall'altra, rispettivamente nel 1951 e nel 1980. Nella prima scrive: "Formatasi allo studio della scolastica e della filosofia medioevale alla scuola di A. Masnovo, S. Vanni Rovighi si propose, in sede storica, di approfondire lo studio della filosofia medioevale, e in sede teoretica di esaminare se ed entro quali limiti le teorie fondamentali della filosofia tradizionale rispondano ai problemi posti dal pensiero moderno e contemporaneo". A questo scopo, iniziato tra il 1931 e il 1932 lo studio di Husserl, si reca a Friburgo nel 1932, dove nel semestre estivo segue le lezioni di Heidegger, mentre nel semestre estivo del 1938 ascolta alcune lezioni di Nicolai Hartmann a Berlino. Nel secondo documento afferma: "Ero persuasa che un modesto studioso di filosofia dovesse fare innanzi tutto un paziente lavoro storico, ma i miei interessi erano per la filosofia, e poiché (lo confesso come una mancanza) ero allergica all'attualismo gentiliano che dominava allora la cultura filosofica italiana, cercai di guardare fuori d'Italia". Dagli studi così intrapresi, in particolare dalla lettura delle Logiche Untersuchungen di Husserl, si conferma nella persuasione che "i problemi della scolastica non erano affatto morti ma rinascevano, sia pure sotto diversa forma e in altro contesto, nella storia della filosofia". Questi passi sono illuminanti per diversi aspetti: innanzi tutto, attestano che, anche qui sulle orme del suo Tommaso, la Vanni ritiene che Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum, e, quindi, si rivolge allo studio dei grandi maestri, anche contemporanei, per affrontare, prima o poi, alcune questioni filosofiche fondamentali, allo scopo di ricercare per esse risposte che, se certamente appaiono, e sono, sommesse, non per questo sono meno ferme e chiare. Inoltre, a differenza di altri studiosi formatisi all'Università Cattolica, come Gustavo Bontadini, non vede nella prospettiva neoidealistica di ispirazione gentiliana la via per condurre una ricerca filosofica che sia, insieme, rigorosa e adeguata alle effettive capacità dell'uomo, che rimangono pur sempre limitate e inficiate da molti condizionamenti. La Vanni, infatti, ritiene che la filosofia si costruisca procedendo dal basso, von unten, e, per questo motivo, non ama i sistemi che, muovendo dall'alto, von oben, pretendono di ingabbiare in uno schema, spesso artificioso e quindi coartante, la molteplicità differenziata del reale. Volendo presentare i temi che, in modo particolare, nella filosofia contemporanea, hanno interessato la Vanni Rovighi, possiamo indicare tre grandi aree: la teoria della conoscenza, la concezione dell'uomo e una concezione della filosofia mirante a chiarificare termini e concetti, allo scopo di rendere ogni discorso significante quanto più possibile chiaro e univoco. Le correnti più familiari sono la fenomenologia, soprattutto di Husserl, ma anche di molti dei suoi altri esponenti, come Scheler, Edith Stein, Hartmann, e nelle sue origini brentaniane; l'esistenzialismo di Heidegger e Sartre; il neopositivismo e la filosofia analitica. Si tratta di indirizzi assai diversi e, per certi aspetti, addirittura opposti, eppure coerenti con l'iniziale interesse rivolto, fin dagli anni giovanili, alla filosofia della scienza e all'ontologia. E per meglio comprendere questi autori, che già al loro primo comparire si impongono subito all'attenzione come particolarmente acuti e profondi, la Vanni approfondisce pure il contesto in cui essi si sono formati e dedica tempo e attenzione anche a quelle figure che uno sguardo superficiale può considerare minori o meno rilevanti, come Wundt, Lipps, Schuppe, Külpe, e poi Holt, il neorealismo americano, e così via. E, in Italia, valorizza e apprezza filosofi come Juvalta e Felice Balbo che possono apparire del tutto marginali. La ricerca dell'immediato non è, per la Vanni Rovighi, un compito banale e ripetitivo, poco consono alle profondità speculative che, secondo taluni, dovrebbero caratterizzare l'indagine filosofica; anzi, essa costituisce piuttosto la necessaria premessa che consente alle argomentazioni successive di non essere fondate sulla sabbia dei luoghi comuni e delle mode transeunti. "La filosofia non è altro, in fondo, che il mettere in chiaro certe verità primitive, direi, che tutti ammettono, ma che non hanno consapevolezza di ammettere". Si è detto che di Husserl la Vanni apprezza l'atteggiamento filosofico, con cui affronta le questioni in modo estremamente minuzioso, esaminando e discutendo le teorie contrastanti e le obiezioni possibili, allo scopo di arrivare alle "cose stesse", così come si offrono all'evidenza immediata. E qui facilmente viene riconosciuta un'affinità, che già Brentano, maestro di Husserl, aveva rilevata, con l'approccio tipico di Aristotele e di molte dispute e quaestiones medioevali. Ma allo scopo di una progressiva chiarificazione linguistica e concettuale la Vanni ritiene che un contributo sostanziale sia stato offerto dal neopositivismo e dalla filosofia analitica, nonostante molti loro eccessi e unilateralità di impostazione. Per costoro la filosofia non si chiede che cosa sia il reale, quale sia il fondo dell'essere, ma piuttosto che cosa si intenda propriamente dire con certe espressioni e, così facendo, si è spesso aiutati a scoprire pseudoproblemi che talora si sono insinuati in riflessioni filosofiche, alle quali la profondità viene accreditata solo in virtù della loro oscurità. I risultati conseguiti dai filosofi analitici nell'esame del linguaggio religioso e del linguaggio morale mostrano, secondo la Vanni, come una corretta adesione al dato consenta spesso di pervenire a conclusioni accettabili anche da parte di chi condivide un'altra prospettiva metafisica o etica. Parimenti, dalle riflessioni dedicate al principio di verificazione risulta qualcosa di inconfutabile, "perché una proposizione non ha significato se non hanno significato i termini dei quali è composta; ora un termine acquista significato o quando è definito o quando si mostra qualcosa a cui si applica quel termine". Poiché la definizione di un termine è la riconduzione a termini già noti, alla fine bisogna pervenire a qualcosa di dato, di presente o di sperimentato. D'altro lato, se il neopositivista fosse coerente, dovrebbe, secondo la Vanni Rovighi, delineare una teoria della conoscenza per determinare che cosa si intende per "dato", "verifica", "esperienza", cosa che invece non fa, limitandosi a una pregiudiziale avversione nei confronti di ogni discorso che, anche solo lontanamente, appaia metafisico. D'altronde, proprio a questo proposito la Vanni Rovighi sviluppa una riflessione che le era molto cara: "Le critiche neopositivistiche e analitiche ci rendono il prezioso servizio di richiamarci alla coscienza dei nostri limiti, di invitarci a riflettere sulle considerazioni razionali per avviare alla conoscenza di Dio, e a renderle sempre più criticamente fondate. Ma ci invitano anche a un'altra riflessione. È curioso vedere come questa critica neopositivistica, che dovrebbe essere la più flemmatica, per così dire, sia invece spesso così fortemente animata da toni emotivi. (...) Perché loro sono così aggressivi quando si tratta di Dio? (...) Vorrei riflettere sull'aspetto di difesa che può avere quella aggressività. Se l'affermazione dell'esistenza di Dio non ha, per neopositivisti e analisti, significato teoretico, essa ha un significato pratico: significa ai loro occhi una volontà di potenza, la volontà di imporre il proprio credo con la forza. E possiamo dire che i credenti siano stati e siano sempre immuni da volontà di potenza? Da un punto di vista pratico credo dunque che dalle critiche neopositivistiche dobbiamo imparare a non cercar di imporre la nostra fede in Dio con la forza, o la suggestione, o la retorica, ma piuttosto a testimoniarla". La Vanni Rovighi è riuscita a trarre illuminanti interpretazioni dai pensatori contemporanei, facendoli meglio comprendere e valorizzandone l'apporto teoretico, grazie a una lettura sempre rigorosa, che li ha accostati direttamente nelle loro opere, collocandoli minuziosamente nel loro contesto storico, in modo che le loro proposte diventassero il più possibile perspicue e, quindi, comprensibili: giacché, per la Vanni, la chiarezza non è, come forse taluni ritengono, l'elegante succedaneo della mancanza di originalità, ma testimonia l'onestà professionale e umana di chi, pur sapendo che il mistero ci avvolge e ci abbraccia, sa anche che l'attività razionale deve esplicitare l'implicito, eliminare gli equivoci e ridurre le ambiguità, giacché la filosofia è ricerca appassionata della verità, più che preoccupazione dell'originalità; non è tanto la creazione geniale di un singolo pensatore, quanto un'opera collettiva alla quale il singolo pensatore deve portare il suo modesto, ma indispensabile contributo.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
A che cosa "serve" la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi... a che serve? A che "mi" serve? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: "La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l'amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi". Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell'"interiorità" autoreferenziale. L'aveva intuito anche Clemente Rebora, poeta convertito e poi sacerdote e religioso: "Lungi da me la scappatoia dell'arte / per fuggir la stretta via che salva!". L'arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell'infinita vanità del tutto. Che farsene, dunque, di parole "scarse, e forse senza sole", come le definiva Sandro Penna, o di "qualche storta sillaba e secca come un ramo" (Eugenio Montale)? "Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo" aveva scritto il poeta e narratore statunitense Raymond Carver. La letteratura "serve" solo se ha a che fare, in un modo o nell'altro, con ciò che vogliamo veramente dalla vita, se entra in un rapporto forte e reale con la nostra esistenza concreta, le sue tensioni essenziali, i suoi desideri e i suoi significati. L'uomo fa sempre l'esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell'orizzonte delle cose manipolabili. Ecco allora emergere il significato dell'opera letteraria. Essa è "una sorta di strumento ottico", che consente al lettore di "sviluppare" ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. È questa, ad esempio, la convinzione radicale dello scrittore francese Marcel Proust. Il ruolo della lettura letteraria è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così essa diviene ingombra di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l'intelligenza non le ha "sviluppate". La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a che cosa "serve" la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato e a comprenderlo. Serve dunque, in poche parole, a fare veramente ed efficacemente esperienza della vita. Un'altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella "digestiva". Il suo modello è la ruminatio della mucca, come affermavano il monaco Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita Jean-Joseph Surin. Quest'ultimo a sua volta parla di "stomaco dell'anima". Michel De Certeau, gesuita anch'egli, ha addirittura indicato una vera e propria "fisiologia della lettura digestiva". Si può pure dire che la lettura sia uno "stomaco per digerire la realtà" (Pier Vittorio Tondelli). La letteratura è quel linguaggio capace di "trasformare in sé" il mondo e le esperienze: si tratta di una forma di assimilazione. Ecco: la letteratura serve a dire la nostra presenza nel mondo, a "digerirla" e assimilarla, a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto. Serve dunque a interpretarla, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Scrivere poesie, romanzi, racconti, persino fiabe è in se stesso un atto di decifrazione del mondo in cui si vive. Chi legge viene in contatto con questo lavoro di decifrazione, ed è egli stesso coinvolto in questo compito. Viene come "contagiato" a vivere lo stesso processo, sollecitato a guardare la realtà, anche quella personale, con occhi più acuti alla ricerca di simboli, valori, significati. E questo si può certamente definire un lavoro di discernimento culturale. Possiamo definire il discernimento culturale come la capacità critica di leggere la realtà (personale e sociale) e la cultura che essa incarna, cogliendo atteggiamenti profondi, significati, tensioni fondamentali. Per usare l'immagine di Marcel Proust già prima illustrata, il discernimento è la camera oscura che permette di sviluppare le lastre fotografiche che altrimenti rimarrebbero nere: è la vita che prende coscienza di se stessa, di ciò che è e del suo mistero. Insomma è vero ciò che ha scritto René Latourelle alla voce Letteratura del suo Dizionario di Teologia Fondamentale: "La letteratura scaturisce dalla persona in ciò che questa ha di più irriducibile, nel suo mistero. È la vita che prende coscienza di se stessa quando raggiunge la pienezza di espressione, facendo appello a tutte le risorse del linguaggio". Quando questo discernimento è operato alla luce del Vangelo, allora si può parlare distintamente di un discernimento culturale evangelico. Esso cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme "già" piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. Nel discernimento culturale cristiano non si tratta mai di scegliere o Dio o il mondo, ma piuttosto di cercare e riconoscere Dio nel mondo, che lavora per portarlo al compimento. Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti aveva scritto che la poesia "scopre gli abissi che abitano l'uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli". A questi abissi la letteratura è dunque "via di accesso": la letteratura e le arti "cercano di esprimere l'indole propria dell'uomo" e "di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità" (Gaudium et spes, 62). La letteratura, infatti, prende spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali, l'azione, il lavoro, l'amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita, anche dall'incredulità scettica. Tutta la letteratura degna di questo nome, per la sua propria indole, non spiega ma "dispiega" la vita, acuisce la percezione, scopre abissi, rivela dinamiche interiori e profonde. È, in un certo senso, un concentrato di vita. Persino quando un poeta vuol dire che l'uomo è un assurdo, se il suo modo di porre la questione è radicale, può servire a scuotere le coscienze e interrogarle sul significato del vivere. Così la lettura di certa letteratura dell'assurdo può trasformarsi in un pungolo in grado di scuotere il lettore che non si pone domande, che non ascolta e non fa silenzio, che non percepisce la sua radicale condizione di essere bisognoso di salvezza, perché si considera già sazio e soddisfatto. Si possono leggere, ad esempio, queste righe dello scrittore svedese Stig Dagerman: "Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa". Queste parole, sebbene possano apparire come la mera negazione di una fede vissuta, sanno parlare molto bene dell'uomo, essere incompiuto in attesa di una consolazione che egli non può darsi da se stesso. Persino la letteratura dell'assurdo può lavorare spiritualmente sul lettore, scuotendolo dalle sue false certezze e apparenze. È la stessa dinamica che può innescarsi leggendo, ad esempio, una celebre poesia di un altro celebre svedese, il poeta Pär Lagerkvist: "Uno sconosciuto è il mio amico, / uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?". Qui il senso di nostalgia e di assenza tende a trasformarsi nel calco vuoto di una presenza misteriosa che si desidera in modo inquieto e struggente. A questo punto però cambiano i parametri valutativi della "religiosità" di un'opera letteraria. Non sono i contenuti religiosi che la rendono tale. L'opera è religiosa se essa "stimola" nel lettore l'esperienza religiosa della trascendenza e della salvezza o il suo desiderio. Quando si legge, il campo della nostra esperienza si amplia perché "viviamo" cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell'uomo e anche la capacità di discernere le emozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere. Aumenta la capacità di cercare e trovare Dio in tutte le cose, persino nel "territorio del diavolo", come scriveva Flannery O'Connor. Anzi - è sempre la O'Connor a scrivere - "spesso la natura della grazia si può spiegare solo descrivendone l'assenza".
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
Nel dialogo fra scienza e teologia - La verità non richiede salti di frontiera - "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei. Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea" è il titolo del convegno - organizzato dalla Finmeccanica in occasione del 60 ° anniversario della sua fondazione - che si svolgerà mercoledì 26 novembre presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Anticipiamo l'intervento del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di Gianfranco Ravasi, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
Tanti sono i sentieri che intercorrono tra le due cittadelle, non opposte ma distinte, della scienza e della teologia. Ne vogliamo ora imboccare uno solo che ruota attorno a una questione imponente a livello ideale e pratico, quella del rapporto con la verità. Il filosofo greco Protagora (v secolo prima dell'era cristiana) aveva proclamato la convinzione che "l'uomo è la misura di tutte le cose", in pratica è al tempo stesso il giocatore e l'arbitro nella partita della vita: non c'è una verità assoluta che ci precede, ma è il singolo o il gruppo a determinarla nelle situazioni concrete e mutevoli e secondo gli interessi o i vantaggi contingenti. È quello che potremmo classificare come "soggettivismo" o, per usare un termine caro a Papa Benedetto XVI, come "relativismo". L'impostazione classica del rapporto con la verità è, però, stata molto differente. La potremmo formulare con un aforisma dei Minima moralia (1951) di Theodor Adorno: "La verità non la si ha, ma vi si è, come per la felicità". Già nell'Uomo senza qualità (1930-43) Robert Musil affermava: "La verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, bensì un mare sconfinato in cui ci si immerge". Il vero è visto, dunque, come un primum assoluto che ci precede e verso il quale la ricerca dell'uomo tende. La ragione ha intrinsecamente bisogno di questo nutrimento per il suo stesso esercizio, come in modo altamente simbolico ricordava il Fedro platonico: "Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo" (248 b-c). Nella concezione filosofica greca, infatti, come l'eunomía, cioè la legge buona e giusta, è la stella polare che incarna il riferimento capitale della giustizia "oggettiva" in sé stante, fonte della norma etica, così l'alètheia antecede come meta di orientamento l'attività dell'intelletto, rendendo la filosofia nella sua intima essenza ricerca e servizio della verità che la trascende e ne costituisce l'oggetto. Potremmo, perciò, affermare che nella concezione classica l'amore per la verità è il paradigma stesso della ricerca filosofica ed è quindi anche il metro della stessa scientificità. La nuda veritas - per usare la famosa espressione delle Odi di Orazio (i, 24, 7) - è l'unica autorità che va rispettata e accolta.
Questa interpretazione ha retto per secoli non solo il pensiero cristiano ma anche l'investigazione di ogni disciplina, sulla scia del famoso appello agostiniano: Intellectum valde ama (Epistulae, 120, 3, 13), ama molto l'intelligenza la cui missione radicale è appunto quella di conoscere la verità. E "la ricerca della verità - come ricordava Giovanni Paolo II nel suo discorso per il centenario della nascita di Einstein (1979) - è il compito fondamentale della scienza" stessa, proprio perché, continuava il Papa nell'enciclica Fides et ratio (n. 25), riprendendo il celebre passo d'apertura della Metafisica di Aristotele, "tutti gli uomini desiderano sapere e oggetto proprio di questo desiderio è la verità". La modernità, però, ha impresso a questa concezione una netta torsione proponendo una visione quasi totalmente alternativa. Il percorso ha avuto i suoi prodromi ideali con Thomas Hobbes allorché nel suo Leviatano (c. xXVI) aveva formulato uno dei principi decisivi del positivismo legislativo: auctoritas non veritas facit legem. Per quanto riguardava il diritto, quindi, alla verità intrinseca dell'eunomía si opponeva l'autorità civile o religiosa che poteva sancire norme e progetti prescindendo dalla verità superiore. In sintesi, secondo il filosofo inglese del Seicento, "la pretesa di possedere la verità e il diritto di imporla, deve essere esclusa dalla politica e lo stabilire leggi e regole che governano i comportamenti, dovrebbe essere riservato non a coloro che conoscono la "verità", soggetta alle interpretazioni individuali o collettive, ma all'autorità indipendente e incontestabile" (così Davis Gress nel saggio Peace and Survival del 1985). Questa prospettiva si è allargata progressivamente alla stessa filosofia e alla scienza ed è dilagata ai nostri giorni, mettendo profondamente in crisi la funzione della verità. Anzi, si è divenuti sempre più convinti che la verità non solo non va ricercata né obbedita ma che deve essere accantonata e relegata ai margini di una corretta epistemologia. Illuminante è l'asserto che Patricia Smith Churchland in un articolo apparso nel 1987 sul The Journal of Philosophy ha imposto alla sua concezione della scientificità: Truth, whatever that is, definitely takes the hindmost, la verità, qualunque essa sia, deve occupare chiaramente non più il primo posto di riferimento, ma dev'essere relegata nelle retrovie, come retroguardia e zavorra del pensiero. Non è mancato il passo successivo di chi ha esorcizzato il concetto stesso di verità ritenendolo persino nocivo. Sappiamo che il famoso detto di Cristo "La verità vi farà liberi" (Giovanni, 8, 32) ha di per sé come soggetto una particolare accezione di "verità", cioè la rivelazione divina offerta dal Figlio; tuttavia la frase è stata assunta nella storia della tradizione come un'esaltazione della funzione liberatoria e liberatrice della verità. Ebbene, ammiccando proprio alla frase giovannea, Sandra Harding in un suo scritto del 1991 (Whose Science? Whose Knowledge? Thinking from Women's Lives) giunge invece alla sua negazione assoluta, dichiarando che "la verità, qualunque essa sia, non ci farà liberi". Ma è noto che già Michel Foucault a più riprese nei suoi scritti aveva percepito la verità come un grave pericolo dell'intelletto e non certo come una dotazione positiva, incline com'è a essere esclusiva, impositiva, schiavizzante. È in questo particolare e inedito contesto che si colloca non solo l'affermazione di Benedetto XVI secondo cui "l'èthos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità", ma anche l'intera impostazione del suo discorso di Ratisbona, così come non pochi spunti del discorso del 17 gennaio 2008 per l'università "La Sapienza" di Roma. La sua è la proposta di restituire alla verità la propria missione intrinseca, formativa e normativa, il suo primato che non è di dominio ma di liberazione, la sua presenza che non è tirannica ma illuminante. Naturalmente questo è possibile solo con un'inversione di tendenza, come già era suggerito da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio (n. 83): "È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante". E già nel 1984, in occasione della consegna del "Premio Internazionale Paolo VI" a Hans Urs von Balthasar, lo stesso Pontefice aveva ribadito che "amare la verità vuol dire non servirsene, ma servirla; cercarla per se stessa, non piegarla alle proprie utilità e convenienze". Ovviamente questo atteggiamento è indispensabile alla teologia, ma deve ritornare a insediarsi anche nella scienza, superando quella concezione riduttiva secondo la quale essa tende a comprimersi nel perimetro della tecnica, amputando qualsiasi domanda ultima, evitando gli orizzonti teorici fondanti, accontentandosi della mera applicabilità o delle ridondanze esclusivamente etico-sociali. È, al riguardo, significativo quanto già lo stesso Giovanni Paolo II aveva indicato nel discorso tenuto a scienziati e studenti nella cattedrale di Colonia nel 1980 in un passo che ben rifletteva e registrava l'attuale temperie scientifica. "Se la scienza è intesa essenzialmente come "un fatto tecnico", allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico. Come "conoscenza" ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l'oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto". Benedetto XVI procede ulteriormente ricordando che il concetto stesso di verità deve essere assunto nella sua massima espansione, superando "la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento" e dischiudendosi alla verità tutta intera: "In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze". Una visione più piena che non impone salti di frontiera, confondendo i modi specifici e gli statuti propri di ogni disciplina ma ne costituisce il dialogo fecondo e gli incroci positivi, essendo tutte le autentiche ricerche in cammino verso la verità che rende autenticamente liberi.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
COLLETTA/ Quel filo rosso che lega Thais, Vanina e Martha - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Per la prima volta ho aiutato qualcuno, io che sono stato sempre abituato ad essere aiutato», questo pensiero di uno studente indios brasiliano esprime non solo il sentimento dei suoi compagni, ma quello di gran parte di coloro che, lo scorso 8 novembre, hanno partecipato alla giornata della Colletta Alimentare tenutasi in tre grandi paesi del sud America; Brasile, Paraguay e Argentina. Un evento che in pochi anni ha preso piede sulla scia dell'esperienza nata negli Stati Uniti e poi diffusasi in molti paesi europei, ma che continua a ingrandirsi come numero di volontari e come quantità di cibo raccolto per i più bisognosi.
Per chi ancora non lo conoscesse il Banco Alimentare è un'iniziativa sorta a Phoenix sul finire degli anni '60 che consiste nella raccolta e ridistribuzione di eccedenze alimentari con le prime Food Banks. Nel 1989 anche in Italia nacque la Fondazione Banco Alimentare, grazie all'intraprendenza dell'imprenditore Danilo Fossati, presidente della Star, e di monsignor Luigi Giussani. La Colletta Alimentare è un'iniziativa che si tiene una volta l'anno. È legata al Banco e consiste nel coinvolgere i cittadini chiedendo loro di aggiungere alla propria spesa, effettuata in supermercati convenzionati, prodotti alimentari da consegnare a volontari che a loro volta destinano ai meno fortunati.
Oggi nel nostro Paese sono 19 le associazioni e fondazioni del Banco Alimentare. Una crescita incessante che, come abbiamo detto, si sta sviluppando anche nella realtà sudamericana.
Brasile
«La Colletta nasce dalla nostra amicizia con i responsabili del Banco Alimentare in Italia. Cominciammo nel 2006, coinvolgendo la sola città di San Paolo. La prima edizione fece raccogliere più di 12 tonnellate di alimenti grazie al lavoro di 800 volontari». A raccontare quanto è successo in Brasile è Thais Cavalcanti, responsabile della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare del Paese. «Qui in Brasile non abbiamo un vero e proprio Banco Alimentare, facciamo soltanto la colletta. Il motivo risiede nel fatto che dal 2002, quando Lula è diventato Presidente, iniziative simili si sono moltiplicate a livello statale. In poche parole il capo del governo ha “rubato” l'idea politicizzandola e coinvolgendo province, prefetture e comuni. Abbiamo dunque un numero elevato di “banchi”. Ora come ora stiamo pensando seriamente se crearne uno privato di nostra gestione o piuttosto se realizzare una rete di contatti fra questi vari istituti». Ma la critica al governo di Thais non finisce qui. Infatti, racconta, l'attuazione di una politica che, anziché incentivare l'iniziativa dei privati, cerca di rispondere in prima persona ai bisogni della popolazione, favorisce una cultura statalista dagli esiti negativi.
Tornando a parlare dei risultati della Colletta, il tono si rasserena: «assistiamo a una crescita enorme. Basti pensare che nel 2007 le città coinvolte erano già 10 e che quest'anno sono salite a 17, per un totale di 58,1 tonnellate raccolte. La cosa più bella è che sono città di quasi tutte le regioni del Paese. Il tutto è stato possibilegrazie all'aiuto di circa 4.100 volontari». Non è poco in effetti. Anche se non sembrano mancare i problemi. «Soprattutto abbiamo problemi nella logistica. Il Brasile è un paese enorme, con infrastrutture ancora insufficienti. Per consegnare i pacchi da San Paolo a Manaus ci abbiamo impiegato circa 15 giorni».
Ma l'esperienza della colletta, dice Thais, è stata anche piena di eventi indimenticabili. In primo luogo il coinvolgimento di studenti indios di zootecnia. I quali, a quanto pare, hanno partecipato con grande entusiasmo. «Oggi ho ricevuto una lettera dalla scuola agricola che c'è nei pressi di Manaus. Gli studenti sono stati contentissimi di partecipare all'iniziativa, di aiutare qualcuno. Il loro popolo, infatti, è quasi sempre stato oggetto di aiuti da parte del governo e raramente ha preso parte a iniziative umanitarie. Lo stesso entusiasmo l'ho riscontrato fra gli studenti universitari di San Paolo. Uno di loro mi ha detto di essere felice di poter essere testimone di un segno di speranza nel mondo, dopo aver trascorso la propria esistenza fra immagini di diffusa indifferenza».
Argentina
Vanina Ubino è direttrice della Federazione Argentina del Banco Alimentare, oltre a esserne coordinatrice della rete nazionale. Anche lei parla di un'eccezionale crescita. Qui i Banchi Alimentari ci sono eccome. A partire dal 2000 sono 12 le sedi nazionali. Lo scorso 8 novembre la Colletta ha raccolto ben 71 tonnellate di generi alimentari, il doppio della precedente edizione. «È una realtà molto più piccola di quella italiana» commenta Vanina «ma la crescita è davvero impressionante, considerando che i dati sono aumentati del 100% in un solo anno». In effetti il lavoro è stato svolto alla perfezione considerando il fatto che hanno partecipato alla raccolta 18 città, 175 succursali e 18 catene di supermercati. La parte più difficile sembra essere stata quella del reclutamento dei volontari, 2.700. «Abbiamo aumentato la quantità rispetto allo scorso anno, ma stiamo comunque lavorando per averne di più». Parlando del governo la preoccupazione più grande di Vanina è quella di non ricalcare o sovrapporsi al lavoro dello Stato, il quale è molto impegnato nella lotta alla fame. «Questa colletta ha ricevuto un grande aiuto dalle aziende private nazionali e non. È poi accaduta una cosa straordinaria: due catene di supermercati (la Carrefour e una a gestione nazionale) si sono dichiarate entusiaste del lavoro del Banco Alimentare e hanno proposto di offrirci il proprio aiuto. In poche parole hanno “raddoppiato” la spesa effettuata dai privati cittadini offrendo gratuitamente un doppione del prodotto acquistato per essere donato al Banco».
Paraguay
«La Colletta Alimentare in Paraguay c'è dal 2005. Il tutto è nato dall'arrivo dei responsabili del Banco Alimentare italiani. Alcuni amici ed io abbiamo deciso di praticare questa iniziativa anche nel nostro Paese, l'abbiamo affrontata come una vera e propria sfida». A parlare è Martha Pena, fondatrice ed ex presidente (attualmente tesoriera) della Fondazione Banco Alimentare Paraguay. «Quest'anno direi che è andata piuttosto bene, considerando che siamo riusciti a raccogliere 46,6 tonnellate di alimenti, rispetto alle 44,18 della precedente edizione». Le città coinvolte in questa nazione sono otto. La cosa sorprendente è il reclutamento volontari. La giornata della colletta è infatti occasione di “alleanza” fra alcuni movimenti cattolici paraguayani, gli scout e la croce rossa. Il tutto per un totale di 1.200 persone.
A questi si sono aggiunti altri 200. E qui sta il fatto curioso, dal momento che sono tutti dipendenti di una banca nazionale, la Vision. «Con loro» spiega Martha «è nata un'amicizia fortissima. Hanno capito il senso profondo del gesto racchiuso nella raccolta. L'intera banca ha preso a cuore la nostra iniziativa».
I supermercati convenzionati sono 70. In Paraguay esiste una “camera” dei supermercati, che riunisce quasi tutti gli esercizi del Paese. «Il rapporto con la camera sta divenendo sempre più costruttivo». «E con il governo?» le chiediamo. «Qui esiste una “segreteria di Azione Sociale, il cui scopo principale non riguarda però l'alimentazione, ma punta fondamentalmente su educazione e prima abitazione per i meno abbienti. Agisce in questo senso soltanto in casi di emergenza e, quando se ne sono verificati, abbiamo sempre offerto il nostro contributo. Da qualche tempo però il rapporto con la segreteria si sta corroborando. Occorre capire che il Paraguay è davvero carente dal punto di vista dell'assistenza sociale. I poveri, l'educazione ai bambini e la cura degli anziani sarebbero davvero delle questioni drammatiche per la nazione, se non ci pensasse, come invece fortunatamente ci pensa, la Chiesa Cattolica».
Il non profit esce dalla “precarietà” - Maurizio Lupi - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
L’istituto del 5x1000 viene introdotto con la finanziaria del 2006 e riproposto nelle finanziarie successive. In pochi anni ha conquistato una popolarità inimmaginabile e questo grazie al fatto che rappresenta forse il più concreto strumento di applicazione del principio di sussidiarietà, principale esempio di libertà di scelta. Gli ingredienti che compongono il 5x1000 sono tutti “genuini” e di “prima scelta” ed è per questo che il risultato non è in discussione. Anzitutto il riconoscimento che il settore cosiddetto non profit è realmente caratterizzato da una “utilità pubblica”, dal fatto di adoperarsi per il perseguimento di un interesse generale. Ciascun cittadino italiano è perfettamente in grado di riconoscerlo, di giudicarlo e di premiarlo. Del resto lo fa quotidianamente, sostenendo con la propria attività o con il proprio contributo (in denaro o in prestazione di servizio volontario) le numerosissime realtà di terzo settore diffuse su tutto il territorio nazionale.
I dati sono ormai noti e non è questa la sede per ricordarli. Basti però pensare che, già dal primo anno di applicazione, circa il 60% dei contribuenti hanno voluto esprimere la propria scelta.
L’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà ha fatto sin dal primo momento del 5x1000 la propria bandiera, ritenendolo paradigmatico di una modalità di applicazione della sussidiarietà. Ora ciò che da tempo viene segnalato dall’Intergruppo come urgenza vede la luce con la presentazione di un provvedimento normativo che nei prossimi giorni sarà depositato presso la Camera dei Deputati. La raccolta di adesioni sarà estesa a tutti gli aderenti dell’Intergruppo (circa 320 tra Camera e Senato). Obiettivo del provvedimento: la stabilizzazione del 5x1000.
Ma verranno introdotte anche delle novità. Ai benefici del 5x1000 potranno concorrere gli enti non profit (Onlus, comprese quelle di diritto e quelle parziali; associazioni di promozione sociale iscritte agli albi nazionale e regionali di cui alla legge 383/00; associazioni e fondazioni riconosciute che operano nei settori di cui all’articolo 10, comma 1, lettera a) del DLgs 460/97; associazioni sportive dilettantistiche riconosciute dal Coni), gli enti di ricerca scientifica e università, gli enti di ricerca sanitaria.
Quanto poi alle modalità di accesso al beneficio per enti non profit, queste le caratteristiche:
- tutti gli enti interessati (comprese le associazioni sportive dilettantistiche per le quali attualmente vige l’iscrizione automatica da parte del Coni) devono presentare istanza di iscrizione all’elenco;
- l’iscrizione avviene in via telematica;
- la domanda in fase di prima iscrizione dovrà contenere tutti i dati relativi all’ente; per le iscrizioni successive dovrà esclusivamente essere confermata la volontà di iscrizione nell’elenco;
- le domande dovranno pervenire entro il 20 febbraio di ogni anno; l’Agenzia delle Entrate entro il 25 febbraio dovrà pubblicare l’elenco; gli errori di iscrizione saranno sanabili entro il 2 marzo; entro il 10 marzo di ogni anno l’elenco sarà pubblicato in forma definitiva;
- entro il 30 giugno del solo primo anno i legali rappresentanti dovranno presentare l’autocertificazione del possesso dei requisiti;
- per quanto riguarda gli altri elenchi (ricerca scientifica, università, ricerca sanitaria) non sarà consentita la presenza di un medesimo nominativo in più elenchi (es. ente di ricerca scientifica iscritto anche tra gli enti non profit)
Per quanto riguarda poi il riparto del 5x1000, rimane valido il sistema già adottato anche se vengono introdotti tempi certi per i versamenti che avvengano entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui è avvenuta la destinazione (in caso di ritardo verranno applicati gli interessi legali)
Inoltre, al solo fine di fornire alle persone fisiche che effettuano la scelta di destinazione del 5x1000 strumenti di trasparenza, gli enti destinatari di un importo di cinque per mille superiore a 50.000 euro sono tenuti alla pubblicazione del proprio bilancio/rendiconto relativo all’esercizio in cui hanno introitato le somme.
In conclusione, si prevede la riammissione per i soggetti esclusi dalla ripartizione del 5x1000 per gli esercizi antecedenti quello di entrata in vigore della presente norma a causa di errori formali (quali: mancata o tardiva presentazione dell’autocertificazione, certificazione presentata su modelli non conformi, carta di identità del legale rappresentante omessa o scaduta).
La stabilizzazione del 5x1000 dunque si candida ad essere uno dei provvedimenti più importanti della legislatura, perché il sostegno al non profit esce finalmente dalla “precarietà” nella quale è stato relegato fino ad ora. Per sostenerlo non è quindi necessario ricorrere a fantasiosi quanto artificiali strumenti di distribuzione delle risorse, ma è sufficiente dare la possibilità a ciascun contribuente di indicare chi ritiene debba essere premiato.
COLLETTA/ Dal Brasile l’esperienza del CREN: quando il problema alimentare genera un’opera educativa - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Proprio a novembre di quest’anno compie quindici anni l’esperienza straordinaria del CREN, Centro di Recupero e Educazione Nutrizionale, attivo nella città di San Paolo del Brasile. Un ente nato grazie al contributo del Ministero degli Esteri italiano e delle Tende AVSI, che si occupa della cura di molti bambini che vivono ai margini della grande metropoli brasiliana, cercando di risolvere i loro problemi nutrizionali grazie a un approccio eminentemente educativo. Un’opera il cui grande valore è stato riconosciuto a livello nazionale e internazionale: l’UNICEF ha riconosciuto il CREN come riferimento nazionale in Brasile per la cura della denutrizione infantile, e il presidente brasiliano Lula ha consegnato a quest’opera lo scorso 29 ottobre il premio ODB Brasile, per il contributo al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Gisela Solymos è direttrice del CREN, e a lei ilsussidiario.net ha chiesto di raccontare le caratteristiche salienti della loro opera.
Gisela, ci può spiegare innanzitutto qual è il contesto in cui vi trovate a lavorare, e quali sono le condizioni delle persone che assistete?
Bisogna innanzitutto sapere che il Brasile è un paese molto ricco ma che ha ancora al proprio interno tante disuguaglianze e tante ingiustizie: moltissime persone vivono in una situazione di estrema povertà. San Paolo, ad esempio, è la città più ricca del Brasile, con quasi 11 milioni di abitanti; di questi, però, 2 milioni vivono in favelas, ossia, come tutti sanno, in condizioni di vita veramente precarie. Perciò è molto elevato il numero di bambini denutriti o malnutriti, che hanno una cattiva alimentazione e che sono esposti a condizioni igieniche molto precarie: non hanno i servizi minimi, come fognature, raccolta dei rifiuti, acqua potabile etc. Perciò si ammalano facilmente, non riescono a mangiare in maniera corretta e non riescono a crescere come dovrebbero. Questo situazione genera conseguenze che segnano l’intera vita di questi bambini, sia per il fatto che hanno meno energia degli altri e perdono l’opportunità di imparare, sia per il fatto che quando diventeranno grandi avranno malattie che, paradossalmente, riguardano l’obesità, e i problemi annessi, come cardiopatie, diabete, ipertensione.
Il problema che vi trovate ad affrontare è dunque molto più complesso rispetto al semplice dar da mangiare.
Noi partiamo dalla constatazione che un bambino denutrito appartiene spesso a una famiglia ad alto rischio sociale, con problemi molto più gravi rispetto alle altre famiglie. Perciò, per curare veramente la malnutrizione, dobbiamo fare un lavoro sia col bambino, dandogli da mangiare, sia con la famiglia, che deve essere aiutata a riscoprire la dignità umana. Questo anche a livello civile, aiutandoli ad avere documenti, ad avere un lavoro, a imparare a mangiare usando bene dei pochi soldi che hanno. C’è tutto un lavoro educativo, nutrizionale e medico da fare con queste famiglie.
In che senso fate un lavoro educativo?
Facciamo un esempio molto concreto che riguarda proprio i bambini: ce ne sono alcuni cui non basta mettere davanti un piatto, perché semplicemente non mangiano, si rifiutano. Allora cerchiamo di fare dei giochi per far capire loro l’importanza del cibo, per far conoscere i vari tipi di alimenti, e quindi far venir voglia di scoprire e quasi di affezionarsi al cibo. In secondo luogo, poi, l’aspetto educativo riguarda moltissimo anche il rapporto con le famiglie: e la prima educazione è quella di far percepire loro che hanno in se stessi una dignità, che sono degli esseri umani. Loro infatti arrivano da noi ed è come se non si rendessero conto nemmeno di avere dei diritti. Per esempio: quello di iscrivere i loro figli a scuola è un diritto; ma basta che vadano dalla direttrice e che questa dica qualcosa che a loro non piace, e subito tolgono il bambino dalla scuola. Come se non fosse un loro diritto quello di avere certe cose dalla società. La prima cosa dunque è mettersi in rapporto con loro in modo che possano fare un’esperienza vera di compagnia e di umanità. Scoprirsi uomini e donne: a partire da questo poi tutte le altre cose si sistemano.
Come si svolge in concreto l’attività del CREN?
Il Cren è nato quindici anni fa, e si occupa da sempre dei diversi livelli di problemi di nutrizione dei bambini. C’è il livello più grave, in cui i bambini vengono ospitati in una struttura che è, esemplificando, un po’ come un asilo nido: i bambini stanno nella struttura dal lunedì al venerdì, e qui devono recuperare non solo il peso ma anche un’altezza adeguata per la loro età, perché l’altezza è il vero segno della loro salute. Mentre i bambini sono nella struttura, noi facciamo tutto un lavoro anche con le famiglie, con interventi domiciliari di carattere sociale e psicologico. Un secondo livello un po’ meno complesso è quello dell’ambulatorio, per i bambini meno gravi o per quelli che non possono venire tutti i giorni al nostro centro. Infine un terzo livello, che riguarda il lavoro con la comunità: andiamo cioè in giro per la città a cercare nuovi bambini denutriti. Dal momento che questi bambini si trovano in famiglie che vivono ai margini della società, essi non sono inseriti nei servizi sanitari e di educazione, e per trovarli dobbiamo cercarli in casa loro, nelle favelas. L’anno scorso abbiamo assistito direttamente 2.700 persone, mentre indirettamente, tramite i nostri corsi e le persone che lavorano con i bambini siamo arrivati a quasi 10 mila bambini.
Avete un aiuto dagli enti pubblici per svolgere la vostra attività?
All’inizio c’era una convenzione con la città di San Paolo, sul modello di quella che viene fatto con gli asili nido, grazie a una convenzione con l’assessorato all’Educazione della città di San Paolo. Ma in realtà questo non copriva le nostre esigenze, anche perché evidentemente il servizio che noi facciamo è nettamente diverso da quello di un normale asilo nido. Due anni fa, invece, siamo riusciti ad avere una convenzione con l’assessorato alla Salute. Fino a due anni fa, infatti, anche gli enti pubblici facevano fatica a capire che il problema della nutrizione a San Paolo è molto grave; noi siamo riusciti a convincerli della gravità del problema, e quindi ad avere questa convenzione. Al di là del coinvolgimento dell’ente pubblico, il nostro sostentamento viene dall’aiuto che vi viene fornito dall’AVSI.
Sabato prossimo, qui in Italia, ci sarà la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare; un’esperienza che pochi giorni fa è stata vissuta anche da voi in Brasile. Che importanza ha per voi il Banco Alimentare?
C’è un rapporto strettissimo con questa realtà. Qui in Brasile, come anche nel resto del mondo, i prezzi del cibo si stanno alzando e questo crea due tipi di problemi diversi: da una parte si aggrava il problema delle famiglie che hanno difficoltà ad acquistare i generi di prima necessità, e quindi continua a crescere il numero di poveri che hanno bisogno di realtà come la nostra; dall’altra parte aumenta il prezzo di quello che è il nostro strumento principale di lavoro, dal momento che noi dobbiamo innanzitutto, dal punto di vista concreto, alimentare i bambini. Quindi abbiamo fatto la Colletta insieme: siamo un ente assistito dal Banco, ma abbiamo al tempo stesso un rapporto stretto di amicizia con loro. Con la Fondazione Banco Alimentare non c’è solo un rapporto formale, ma è molto di più: un rapporto di amicizia e di scambio di esperienze.
ELUANA/ Carter Snead (Usa): il caso Englaro? Un'altra Terri Schiavo - INT. Carter Snead - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Carter Snead è professore di Diritto costituzionale nella Law School dell’Università di Notre Dame, negli Stati Uniti. Si è occupato del caso Terri Schiavo e dei complicati rapporti tra la scienza e il diritto con pubblicazioni sulle più prestigiose riviste giuridiche nord americane. Ilsussidiario.net ha parlato con lui della vicenda Englaro.
Professor Snead, lei conosce la vicenda di Eluana Englaro: cosa ne pensa?
Ho avuto modo di documentarmi sul caso, ma faccio fatica a capire su cosa si fonda esattamente il ragionamento di quei giudici che hanno disposto la sospensione della sua alimentazione. Negli Stati Uniti, ad esempio, per casi come quello di Eluana Englaro, è richiesto che vi sia una prova molto ben fondata. Quello che mi spaventò nel caso Terri Schiavo di alcuni anni fa fu che il giudizio della Corte fu approssimativo. I giudici, infatti, affermarono che si era innanzi a una “prova chiaramente convincente” che Terri Schiavo preferisse essere lasciata morire piuttosto che restare in quelle condizioni, ma la prova così chiara non c’era. Si trattava di dichiarazioni fatte molti anni prima del processo, e ricordate da poche persone.
Il caso ricorda molto da vicino il punto controverso della ricostruzione della volontà di Eluana.
C’erano tre testimoni soltanto, e ricordavano frasi dette molto tempo prima: la situazione era assolutamente simile a quella di Eluana Englaro. Lei capisce che tali dichiarazioni sono un po’ fragili come prove, e ho timore a pensare che sia sufficiente una cosa del genere per decidere della vita di una persona, la quale non può più esprimersi. Oltre tutto la legge della Florida, lo stato dove Terri Schiavo è morta, è chiara sul punto, ma i giudici, semplicemente, non la applicarono, fecero finta di niente.
Negli Stati Uniti avete una legge che prevede il testamento biologico?
No, la Florida non ha una legge che richiede il testamento biologico, però ha una legge molto ben articolata che stabilisce delle procedure per quei casi in cui una persona ha lasciato per iscritto le proprie volontà, come ad esempio a quali trattamenti medici desidera esser sottoposta e a quali no. Quella legge stabilisce anche in maniera chiara cosa si debba fare nel caso in cui una persona non possa più esprimersi sulle cure che è disposta a ricevere, o perché incosciente, o perché invalida, e non abbia lasciato nulla di scritto: il medico e il giudice possono ricostruire cosa voleva una persona attraverso testimonianze sullo stile di vita precedente e attraverso le testimonianze di dichiarazioni fatte in passato dal paziente. Su questi punti è chiara non solo la legge della Florida, ma ogni legge adottata nei diversi stati degli Usa; si tratta di una disciplina pressoché uniforme.
Allora che cosa tutela il malato da una ricostruzione arbitraria della volontà anteriore?
Tutte queste leggi prevedono che, nel caso non ci sia nulla di scritto, sia verificato uno standard altissimo della prova. La legge della Florida, quella applicabile al caso Terri Schiavo, dice espressamente che l’unico modo per interrompere un trattamento, se non vi è la prova scritta, è che ci sia una “prova chiara e convincente”, che è forse il più alto livello di standard richiesto per le prove nel diritto. Quella legge dice anche che ogni dichiarazione ambigua o poco chiara dev’essere interpretata a favore della vita. Una delle cose più tristi del caso di Terri Schiavo fu proprio la debolezza delle prove.
La Florida però ha una legge che regola questi aspetti; ma in Italia non è consentito risalire alla volontà di un paziente che non può esprimersi.
E su che base i giudici hanno stabilito l’interruzione dell’alimentazione? È sorprendente. Dovrebbe essere il legislatore a determinare i contorni di materie così delicate come la fine della vita e il testamento biologico. È veramente strano intervenire su un problema del genere in questo modo. Questo genere di abusi vengono determinati dalla generalizzazione del concetto di “diritto alla privacy”, o di “libertà”, che viene concepita in modo assoluto. Si opera estendendo tali categorie. Ad esempio, in ogni ordinamento la persona gode di un diritto generale a non essere toccata, e di un diritto a rifiutare un trattamento medico non voluto. Allora ci si può chiedere, come comportarsi nel caso in cui la persona non abbia più la coscienza o la capacità di esprimersi e di rifiutare un trattamento medico? La domanda è legittima, ma certe generalizzazioni non possono spingersi troppo in là: resta sempre, e ne ho già parlato, il problema delle prove.
Non è un problema di facile soluzione…
Bisogna, infatti, risalire a quello che veramente voleva la persona all’epoca in cui ha perso conoscenza. Purtroppo (come già nel caso Terri Schiavo) ho il presentimento che quello che è veramente successo nel caso di Eluana Englaro sia solo il pensiero dei giudici, i quali potrebbero aver fatto un ragionamento simile a questo: “la vita di questa persona è troppo menomata, quindi è senza significato, di conseguenza nessuna persona ragionevole potrebbe voler vivere in quelle condizioni, e quindi può essere lasciata morire”. Credo sia questo il vero ragionamento che sta dietro la decisione.
Su questo giornale la professoressa Violini in un suo precedente articolo sul caso di Eluana Englaro ha sottolineato un’importante anomalia. La Corte di Cassazione ha affermato che «la mera presenza in causa del curatore speciale (…) supera ogni problema di possibile conflitto tra la tutelata e il tutore». D’altra parte – dice la studiosa – “fin dall’inizio il curatore non ha fatto altro che sostenere appieno le scelte del tutore stesso, con ciò avallando l’immagine dell’esistenza di un solo interesse dell’interdetta, quello a veder conclusa la propria vicenda terrena tramite la sospensione di un “trattamento” a cui essa stessa non aveva consentito e a cui non avrebbe presumibilmente consentito, a detta dei giudici, se fosse stata cosciente”. Che ne pensa?
Il curatore non si è opposto? E su che base? Il curatore ha il dovere di agire “nel migliore interesse del paziente”. Com’è possibile che, dinanzi a delle prove scarse e frammentate come quelle della volontà di Eluana Englaro, il miglior interesse sia coinciso col lasciarla morire? Nel momento in cui un curatore, innanzi a prove incerte, smette di agire nel migliore interesse del paziente non so se debba essere revocato, però di sicuro non si può dire che stia agendo nel migliore interesse del paziente.
È possibile, com’è avvenuto nel caso Englaro, che una persona disponga della vita di un altra, e che i giudici possono dire che sia meglio che una persona amata e accudita, com’è Eluana Englaro nella clinica, venga lasciata morire?
Mi risulta che in questo caso il ricorso è stato presentato dal padre della paziente; è il padre, quindi, che ha deciso sulla qualità della vita della figlia. Questo è il giudizio più pericoloso che chiunque possa fare per qualsiasi altra persona. Dire: “la tua vita è così menomata, la tua qualità della vita è così bassa, che nella mia concezione di pietà è meglio che tu finisca la tua vita” è veramente pericoloso. È pericoloso innanzitutto perché non vengono impiegati dei criteri autentici. E poi, se uno mettesse altri criteri, come “vivere con handicap non è degno”, cosa succederebbe? Inoltre, se si continuano ad adottare questi standard di prova, in cui con prove e testimonianze scarse si decide della vita di un altro, il fatto è ancora più preoccupante. Infine, questo atteggiamento è pericoloso per lo Stato: in questo caso così drammatico una persona non ha espresso chiaramente la sua volontà di morire, e lo Stato è prevaricato dai suoi compiti di tutela solo perché un’altra persona dice: “Secondo me è meglio che quella persona non viva”. È una situazione pericolosa.
EVENTI/ Comunicare il "dono" come fattore per comprendere la nostra identità - Gianfranco Dalmasso - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il convegno promosso dalla Fondazione Pubblicità e Progresso e dall’Università Statale di Milano propone una questione, quella del dono, oggi variamente presente nei linguaggi della nostra società, anche con aspetti paradossali.
Da un lato viviamo in una mentalità individualistica, egoista e consumistica che ha pochi riscontri in altre epoche, dall’altro lato il dono è curiosamente presente nelle comunicazioni mediatiche ed anche nelle convinzioni etiche che diventano mentalità corrente. Siamo attorniati da appelli a donare: donare il sangue, donare per la fame nel mondo, donare per la ricerca ecc.
Sembra perciò molto opportuno porre degli interrogativi su che cosa sia il dono e su che cosa accada quando si doni o si pretenda donare. Tali questioni saranno affrontate in quattro giornate a partire dal 26 novembre da vari punti di vista: della filosofia, della psicologia, dell’economia, della comunicazione.
Che cosa significa donare? Consegnare qualcosa a qualcuno senza ricevere nulla in cambio? Ci sarebbe perciò un nesso essenziale fra il dono e il gratuito? Tuttavia il dono spesso si pone, e si è posto certamente in molte società antiche, come un modo più raffinato ed efficace di affermare un prestigio e un potere, mostrandosi superiori agli altri, talvolta fino all’umiliazione.
D’altra parte nella reciprocità, fosse anche solo immaginaria, del dare e del ricevere si gioca una questione cruciale per l’esistenza stessa ed il funzionamento dei legami. Se dare e ricevere sono gli aspetti istitutivi del dono allora, ed è su questo che verterà forse il principale interesse del convegno, si tratta di spostare l’attenzione dalle cose che si donano a chi è il donatore e a chi è il destinatario del dono.
Infatti nell’esperienza del donare io comunque suscito l’altro che è evocato e coinvolto nel mio gesto. Da un altro punto di vista non potrei donare se l’altro, amico o avversario o vicino, non mi suscitasse lui stesso, come movente del mio desiderio o della mia domanda.
Tali problemi sembrano diventare esplosivi se al posto della dinamica io-tu sostituiamo la dinamica di dare e ricevere come confronto e scambio fra soggetti che sono popoli, culture e confessioni religiose diverse.
L’esperienza della alterità sembra qui interpellare il soggetto nella concezione stessa della sua identità: identità per cui forse parole come dialogo, tolleranza, coesistenza sono inadeguate a descrivere un aspetto non proprio del dono, misterioso e attivo, che è all’opera e che spiazza i soggetti di questo non dominabile e ingestibile scambio.
LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA - SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - MARINA CORRADI, Avvenire, 26 novembre 2008
Di fronte all’ansia, che trapela ogni tanto in questo o quel Paese d’Europa, di eliminare il crocifisso dai luoghi pubblici – idea subito accolta da qualche intellettuale italiano con compiacimento, quasi fosse urgente liberare aule e ospedali da quelle mute effigi di un Uomo straziato – ci viene da fare una domanda, da avanzare un dubbio, diciamo, un po’ inquieto. Forse anche perché da giorni tv e stampa non parlano che di quella ragazza in stato vegetativo, e del fatto che si vuole staccare la sonda che la nutre e disseta.
Come una battaglia oscuramente simmetrica: il crocifisso è l’emblema della sofferenza del Dio fattosi uomo; il volto di Eluana Englaro, invisibile ma incombente nel dialogo di questi giorni, è un’icona della sofferenza degli uomini. Il crocifisso, e la donna immobile e inerme: come casualmente si combatte in due Paesi di forte tradizione cattolica perché l’uno, e l’altra, spariscano.
Ma dicevamo di un dubbio. Sappiamo bene che le civiltà antiche, non solo primitive ma anche progredite, eliminavano i figli imperfetti, e lasciavano moribondi e appestati al loro destino. Era questa, la norma fra gli uomini: vive il sano, il più forte, vive chi si può difendere. L’evento storico che capovolge lo sguardo sui sofferenti è il cristianesimo. È il Medioevo cristiano che inaugura in Occidente gli ospedali, e per primi quelli per i diseredati, per gli ' incurabili', nome che ancora adesso portano nelle nostre città alcuni istituti.
La domanda allora è: procedendo nella espulsione ideale di Cristo dalla nostra forma mentale, espulsione di cui la lotta al crocifisso è un simbolo, è prevedibile, oppure no, che anche lo sguardo verso i malati subisca una lenta ma inesorabile trasformazione? Madre Teresa a chi le chiedeva perché si portava a casa i moribondi di Calcutta rispondeva che era semplicemente perché in ognuno di loro riconosceva il volto di Cristo. L’origine della carità cristiana è questa: non buonismo, non un alato altruismo, ma il riconoscere, nella faccia dell’altro sofferente, Cristo. Ma, se questo nesso si affievolisce nella memoria, se addirittura quel silenzioso simbolo sui muri suscita insofferenza e ribellione, viene da chiedersi se la buona volontà, i ' valori', la umana solidarietà davvero basterebbero per continuare a praticare la carità ' inventata' dai cristiani. Se basterebbero, queste pur buone intenzioni, staccate dalla loro storica radice, a continuare a trattare come uomini anche i più vecchi, i dementi, i disabili storpiati da malattie inguaribili.
O forse invece il naturale istinto umano davanti alla sofferenza senza rimedio è quello del rifiuto, del non volere vedere, dell’eliminare ' per pietà'? Le civiltà antiche lasciavano indietro inguaribili e deformi, come zavorra che un’umanità efficiente non poteva portare con sé. Il cristianesimo ha introdotto un altro sguardo. È realistico pensare che il portato del cristianesimo possa sopravvivere ' senza' Cristo? Sappiamo che schiere di laici ottimisti diranno che certamente, che diamine, che i condivisi ' valori' di quel Dio ucciso non hanno alcun bisogno.
Quanto a noi, ricordiamo inquieti un verso di Eliot dei Cori da la Rocca: « Avete bisogno che vi si dica che persino modeste cognizioni / che vi permettono d’essere orgogliosi di una società educata / difficilmente sopravvivranno alla Fede cui devono il loro significato? » . Quel dubbio, già negli anni Trenta, come la percezione di una possibile alienata deriva. La profezia di un grande poeta avvertiva che tutto ciò che ci sembra acquisito, se perde la radice, può cominciare a tremare.
POLEMICHE CULTURALI - il caso - I ricordi del prelato De Magistris riaprono una vicenda già emersa nel 1977: il fondatore del Pci, ricoverato in clinica a Roma, prima di morire avrebbe baciato una statuetta di Gesù Bambino. - Storici ed esperti si dividono sulla questione - Gramsci cristiano, il mistero è aperto, DI ROBERTO BERETTA, Avvenire, 26 novembre 2008
Comunista «eretico» sì; ma fino al punto di passare al cristianesimo? Questo è la domanda che insorge alla notizia, riaffiorata ieri in un contesto estemporaneo, di una presunta «conversione » sul letto di morte di Antonio Gramsci.
La vicenda era già comparsa nel 1977, a 40 anni dalla morte dell’autore dei Quaderni dal carcere; ieri è stato monsignor Luigi De Magistris,
pro-penitenziere maggiore emerito, a ricordarla in una sala della Radio Vaticana a Roma nel corso della presentazione del primo «Catalogo internazionale dei santini»: «Il mio conterraneo Gramsci – ha detto l’anziano sacerdote – aveva nella sua stanza l’immagine di santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: 'Perché non me l’avete portato?'. Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò. Gramsci è morto con i sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia».
A parte qualche imprecisione – il bacio di un’immagine o forse di una statua non significa aver ricevuto i sacramenti –, la dichiarazione riprende quanto rivelato 30 anni or sono sulla rivista Studi sociali da padre
Giuseppe Della Vedova, come conferma oggi Giulio Andreotti per il quale la vicenda «non è una novità ». Don Della Vedova raccoglieva la testimonianza della zia suor Piera Collino, che prestava servizio nella clinica «Quisisana» di Roma dove il fondatore del Partito comunista trascorse l’ultimo anno di vita. Secondo quel testo il bacio alla statuetta avvenne però su pressione della superiora, anche se poi il ricoverato «quando lo ebbe tra le mani lo baciò con effusione». Secondo altre testimonianze, Gramsci si sarebbe poi raccomandato varie volte alle preghiere delle suore e avrebbe mostrato una «simpatia umana » verso una piccola statua di santa Teresa del Bambino Gesù, che «non volle che fosse tolta e nemmeno spostata» (e proprio questa circostanza non appare oggi casuale a don Gianni Baget Bozzo: «Santa Teresina era pronta a scambiare la sua fede per la conversione degli atei e sicuramente anche Gramsci ne conosceva la vita. La sua conversione quindi potrebbe essere inquadrata in quel forte desiderio di conversione dei non credenti espresso dalla santa»). Anche un’altra religiosa, la sarda suor Pinna – così scrive Luigi Nieddu
in un volume sull’«altro Gramsci », – avrebbe poi raccontato in diversa occasione a un gruppo di sacerdoti amici (tra cui monsignor De Magistris) una storia simile: durante le festività natalizie del 1937 le religiose della clinica portarono di stanza in stanza, «offrendola al bacio di quelli che vi si trovavano», una statua di Gesù Bambino. Tutti i ricoverati ricevettero la visita eccetto l’esponente comunista che però, saputo dell’esclusione, prima ne chiese i motivi, quindi «il signor Gramsci disse di voler vedere quella statuetta e quando l’ebbe di fronte la baciò con evidenti segni di commozione ».
Giuseppe Vacca,
presidente della Fondazione Istituto Gramsci e profondo conoscitore del filosofo marxista, accoglie la notizia con tranquillità: «La questione è molto semplice: esiste una documentazione precisa sulle ultime ore di Gramsci, la sua fine è narrata pochi giorni dopo l’evento in una lettera della cognata Tatiana Schucht,
che assisteva il degente. Esistono inoltre documenti di polizia, anch’essi pubblicati, nonché tra gli inediti altre due lettere di Tatiana: in nessuno di questi scritti esiste un accenno alla vicenda. Ed è difficile anche capire come potrebbe essere accaduto: Gramsci fu infatti colpito da ictus il 25 aprile, giorno in cui scadeva la sua condanna da parte del regime fascista, e non riprese conoscenza fino al 27, giorno della morte».
Tuttavia, sembra evidente che il fatto – se avvenne – accadde non in limine mortis, bensì qualche mese prima, durante la degenza dell’esponente politico; la cui stanza pare fosse proprio di fronte alla cappella. «Se ci sono nuovi documenti – riprende Vacca – ben vengano; ma queste voci da sole non costituiscono una prova sufficiente. Avendo pubblicato tutto il possibile di e su Gramsci, non mi sono mai imbattuto in testi che suffraghino un’eventuale conversione. Di fatto Gramsci non era credente e, dopo la cremazione, fu traslato al cimitero acattolico degli inglesi».
D’altra parte, è presumibile che un’eventuale «conversione» sarebbe stata tenuta nascosta dall’entourage del politico, del quale faceva parte anche l’economista
Piero Sraffa che nel 1977 smentì la notizia di un Gramsci «col capo cosparso di olio santo»: «Fui una delle ultimissime persone che lo videro vivo e non disse certamente nulla che facesse pensare a un’iniziativa del genere». Nella lettera alla sorella, moglie di Antonio rimasta a Mosca, Tatiana scrisse infatti: «Il medico fece capire alla suora che le condizione del malato erano disperate. Venne il prete, altre suore, ho dovuto protestare nel modo più veemente perché lasciassero tranquillo Antonio, mentre questi hanno voluto proseguire nel rivolgersi a lui per chiedergli se voleva questo, quell’altro…». Peraltro don Della Vedova si spinse fino a ipotizzare che il cappellano della clinica, don
Paolo Bornin, abbia amministrato l’olio degli infermi al moribondo approfittando di un’assenza della cognata, forse rispondendo a precedenti segnali «religiosi» di Gramsci. Non è l’unico mistero che circonda quelle ore, visto che in passato si ipotizzò persino il suicidio del politico sardo o la sua eliminazione da parte di agenti sovietici. Salvatore Mannuzzu, già deputato comunista e sardo come Gramsci, sembra stupito dalla nuova rivelazione: «Non mi risulta nulla e francamente, se l’episodio fosse vero (e la notizia è da vagliare con molto rigore), mi sorprenderebbe un poco; sarebbe infatti piuttosto imprevedibile rispetto alla conoscenza del personaggio e dei suoi scritti: la sua ideologia era profondamente materialista, fin nelle fibre. È anche strano che un fatto così eclatante su un personaggio come Gramsci sia rimasto nascosto». All’opposto su questo punto la pensa lo storico Daniele Veneruso: «Col cordone ideologico che aveva intorno, non deve stupire che nulla sia trapelato sinora. Tuttavia, se Gramsci ha sempre mostrato interesse per la religione e per il cattolicesimo, lo ha fatto soltanto dal punto di vista della secolarizzazione e della prassi, non della fede». Il rimbalzo delle opinioni prosegue. Per Giorgio Baratta, presidente della
International Gramsci Society Italia
e tra i massimi esperti sul fondatore del Pci, «la conversione è una vecchia storia mai provata». Lo slavista Vittorio Strada afferma invece che la notizia potrebbe aggiungere «un nuovo elemento alla sua immagine e, rispetto a quella costruita nei decenni passati dal Pci, ne accresce l’umanità. Certamente nell’opera di Gramsci vi era una religiosità laica mentre era assente qualsiasi freddezza ateistica». Anche per Giancarlo Lehner, autore di un recente libro su La famiglia Gramsci in Russia, pur se non esiste «alcuna prova scientificamente inconfutabile, tuttavia sul piano induttivo per me non sarebbe una grande sorpresa se Gramsci avesse abbracciato, non dico in punto di morte ma nell’ultima fase della sua vita, la fede cattolica. Come testimoniano le fonti, infatti, Antonio recupera via via tutti i grandi valori della tradizione cristiana e cattolica, in primo luogo la famiglia, poi l’amicizia, il valore della verità, la solidarietà».
Lehner: non sarebbe una sorpresa. Vacca: non ci sono conferme in merito.
Veneruso: se anche fosse vero, non l’avrebbero fatto trapelare. Strada: la notizia accresce la sua umanità
1) Maria a Medjugorje - Messaggio del 25 novembre 2008 - Cari figli, anche oggi vi invito in questo tempo di grazia a pregare affinché il piccolo Gesù possa nascere nel vostro cuore. Lui che è la sola pace doni attraverso di voi la pace al mondo intero. Per questo, figlioli, pregate senza sosta per questo mondo turbolento senza speranza affinché voi diventiate testimoni della pace per tutti. Sia la speranza a scorrere nei vostri cuori come un fiume di grazia. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
2) Il samurai con la croce. Dagli atti dei martiri del Giappone - Il 24 novembre ne sono stati proclamati beati altri 188, tutti uccisi per la fede. Il mistero del cristianesimo nel paese del sol levante, più volte perseguitato ma sempre rinato, anche dalle prove più dure, di Sandro Magister
3) CLAMOROSA RIVELAZIONE DI MONSIGNOR DE Magistris - Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede» - «Il fondatore del Partito Comunista ricevette i sacramenti cristiani sul punto di morte» - CorSera 25-11-2008
4) Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi - Lettera d Papa Benedetto XVI al sen. Marcello Pera
5) Messaggio del Papa per la seduta pubblica delle Pontificie Accademie - "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto"
6) Incarnare la Misericordia con i cerebropatici e le loro famiglie - ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di suor Graziella Bazzo EAM, del “Centro Speranza” di Fratta Todina (PG).
7) Vittorio Messori: la storia di una conversione - Una vita per rendere ragione della fede - di Antonio Gaspari
8) 25/11/2008 12:38 – ASIA - Uscire dalla crisi: le inutili soluzioni di destra e di sinistra - di Maurizio d'Orlando - Non si vuol comprendere che questa del 2008 è una crisi più grave e diversa da quella del ’29. Le soluzioni trovate finora sono a beneficio del mondo bancario, ma non servono a produrre ricchezza. C’è il rischio di ridurre il dollaro a carta straccia.
9) 26/11/2008 08:46 – THAILANDIA - “Battaglia finale” a Bangkok: aeroporto occupato e 7 feriti - Da stamane i dimostranti anti-governo occupano anche la torre di controllo. Circa 80 voli hanno subito cancellazioni o ritardi; metà dei voli cancellati. Bombe contro i manifestanti hanno provocato 7 feriti.
10) Cento anni fa nasceva Sofia Vanni Rovighi - La filosofia non deve preoccuparsi di essere originale - Il 25 novembre, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, si svolge la giornata di studio "La filosofia nella ricerca e nell'insegnamento di Sofia Vanni Rovighi" organizzata in occasione del centenario della nascita della studiosa. Pubblichiamo un estratto di una delle relazioni, di Michele Lenoci, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
11) A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
12) A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
13) COLLETTA/ Quel filo rosso che lega Thais, Vanina e Martha - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
14) Il non profit esce dalla “precarietà” - Maurizio Lupi - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
15) COLLETTA/ Dal Brasile l’esperienza del CREN: quando il problema alimentare genera un’opera educativa - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
16) ELUANA/ Carter Snead (Usa): il caso Englaro? Un'altra Terri Schiavo - INT. Carter Snead - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
17) EVENTI/ Comunicare il "dono" come fattore per comprendere la nostra identità - Gianfranco Dalmasso - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
18) LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA - SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - MARINA CORRADI, Avvenire, 26 novembre 2008
19) POLEMICHE CULTURALI - il caso - I ricordi del prelato De Magistris riaprono una vicenda già emersa nel 1977: il fondatore del Pci, ricoverato in clinica a Roma, prima di morire avrebbe baciato una statuetta di Gesù Bambino. - Storici ed esperti si dividono sulla questione - Gramsci cristiano, il mistero è aperto, DI ROBERTO BERETTA, Avvenire, 26 novembre 2008
Il samurai con la croce. Dagli atti dei martiri del Giappone - Il 24 novembre ne sono stati proclamati beati altri 188, tutti uccisi per la fede. Il mistero del cristianesimo nel paese del sol levante, più volte perseguitato ma sempre rinato, anche dalle prove più dure, di Sandro Magister
ROMA, 26 novembre 2008 – Un samurai che porta la croce non è un'immagine consueta. Ma vi furono anche questi fra i 188 martiri giapponesi del XVII secolo che due giorni fa sono stati proclamati beati a Nagasaki. Vi furono dei nobili, dei sacerdoti, quattro, e un religioso. La maggior parte erano però cristiani comuni: contadini, donne, ragazzi sotto i vent'anni, bambini anche piccoli, intere famiglie. Tutti uccisi per non aver abiurato la fede cristiana.
La beatificazione "padre Pietro Kibe e i suoi 187 compagni" – come detto nel titolo della cerimonia – è la prima mai celebrata in Giappone. I nuovi beati si aggiungono ai 42 santi e ai 395 beati giapponesi, tutti martiri, già elevati agli altari da Pio IX in poi.
I nuovi beati furono martirizzati tra il 1603 e il 1639. A quell'epoca in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti, con san Francesco Saverio, e poi anche dai francescani.
All'iniziale fioritura del cristianesimo seguirono terribili persecuzioni. Molti furono uccisi con inaudite crudeltà che non risparmiarono donne e bambini. Oltre che dalle uccisioni, la comunità cattolica fu falcidiata dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. Eppure non fu annientata. Una parte si celò nella clandestinità e mantenne viva la fede trasmettendola dai genitori ai figli per due secoli, pur senza vescovi, preti e sacramenti. Si racconta che il venerdì santo del 1865 ben diecimila di questi "kakure kirisitan", cristiani nascosti, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki agli stupiti missionari che avevano da poco riavuto accesso in Giappone.
Come già tre secoli prima, ai primi del Novecento Nagasaki tornò ad essere la città a più forte presenza cattolica del Giappone. Alla vigilia della seconda guerra mondiale due su tre dei cattolici giapponesi vivevano a Nagasaki. Ma nel 1945 subirono una nuova, terribile falcidia. Questa volta non per una persecuzione, ma per la bomba atomica che fu sganciata proprio sulla loro città.
Oggi i cattolici giapponesi sono poco più di mezzo milione. Una piccola porzione in rapporto a una popolazione di 126 milioni. Ma rispettati e influenti, anche grazie a una fitta rete di loro scuole e università. E se ai giapponesi di nascita si sommano gli immigrati da altri paesi dell'Asia, il numero dei cattolici raddoppia e supera il milione.
"Non credo però che il criterio delle statistiche sia il migliore per giudicare il valore di una Chiesa", ha detto il cardinale Pietro Seichi Shirayanagi, arcivescovo emerito di Tokyo, in un'intervista ad "Asia News" alla vigilia della beatificazione dei 188 martiri.
Quello della difficile penetrazione del cattolicesimo non solo in Giappone ma nell'intera Asia è un problema che preoccupa da molto tempo la Chiesa.
Tra i gesuiti, ad esempio, all'indomani della seconda guerra mondiale c'era la convinzione che il Giappone fosse terreno fertile di una grande espansione missionaria. Per questo inviarono in quel paese persone di prim'ordine. L'attuale superiore generale della Compagnia di Gesù, Adolfo Nicolás, 71 anni, ha vissuto in Estremo Oriente dal 1964, prevalentemente a Tokyo, come insegnante di teologia alla Sophia University, come provinciale dei gesuiti del Giappone e da ultimo, tra il 2004 e il 2007, come moderatore della conferenza dei gesuiti dell’Asia Orientale e Oceania. Oltre allo spagnolo, all'italiano, all'inglese e al francese, parla correntemente il giapponese. Anche padre Pedro Arrupe, generale dei gesuiti tra il 1965 e il 1983, passò molti anni in Giappone. E così padre Giuseppe Pittau, che fu reggente della Compagnia.
La beatificazione dei 188 martiri ha comunque richiamato l'attenzione dell'intero Giappone sulla presenza in esso di quel "piccolo gregge" che è la Chiesa cattolica. La vicenda del loro martirio per la fede in Cristo è stata conosciuta da un pubblico molto ampio. Ed è una vicenda che per molti aspetti ricorda gli atti dei martiri dei primi secoli cristiani, nella Roma imperiale.
"Semen est sanguis christianorum", il sangue dei martiri è una semina efficace, scrisse Tertulliano all'inizio del III secolo. Ecco qui di seguito come un missionario del Pontificio Istituto delle Missioni Estere, padre Mark Tardiff, ha raccordato il martirio dei 188 nuovi beati giapponesi a quello dei martiri della prima cristianità, in una nota scritta per "Asia News":
Come i martiri dei primi secoli, di Mark Tardiff
Le storie dei martiri giapponesi che sono stati beatificati il 24 novembre risalgono a un periodo di 400 anni fa. A leggere però le loro storie sembra di ritornare ancora più indietro, agli atti dei martiri della prima Chiesa.
Il samurai Zaisho Shichiemon fu battezzato il 22 luglio del 1608. Egli prese il nome di Leone, quello del grande papa che fermò le invasioni dei barbari. La sua storia, però ricorda molto più da vicino il percorso di san Giustino, il martire che dopo aver trovato la Verità, non volle più rinnegarla. Hangou Mitsuhisa, il signore feudale sotto di cui Zaisho serviva, aveva proibito ai suoi di diventare cristiani. Il sacerdote a cui Zaisho chiese il battesimo glielo fece presente, ricordandogli che egli avrebbe potuto essere punito o perfino ucciso. “Lo so – egli rispose – ma io ho compreso che la salvezza sta nell’insegnamento di Gesù e nessuno potrà separarmi da Lui”.
Come nel caso di molti martiri, non si trattava solo di una convinzione mentale, ma di un rapporto mistico. Un giorno Zaisho confessò a un suo amico: “Non capisco come, ma ormai io mi scopro sempre a pensare a Dio”. Arrestato, gli fu ordinato di rinunciare alla fede. La sua risposta fu: “In qualunque altra cosa io obbedirei, ma non posso accettare alcun ordine che si opponga alla mia salvezza eterna”. Al mattino del 17 novembre 1608, quattro mesi dopo il suo battesimo, fu giustiziato nella strada davanti alla sua casa.
San Francesco Saverio giunse in Giappone nel 1549, iniziando la predicazione di Cristo nel paese del sol levante. Dopo 60 anni lo Shogun, il capo militare del Giappone, scatenò una persecuzione contro la giovane Chiesa che può rivaleggiare in furia con quella dell’imperatore Diocleziano, agli inizi del IV secolo. Donne e bambini furono presi nel turbine. Le loro storie ricordano quelle di Perpetua e Felicita, o di sant’Agnese.
Il 9 dicembre 1603, Agnese Takeda assistette alla decapitazione di suo marito. Piena di riverenza e amore, raccolse la sua testa e la strinse al petto. Le cronache dicono che a quella vista, non solo la folla, ma perfino i carnefici si commossero. La separazione della coppia fu breve perché Agnese fu martirizzata poco dopo, lo stesso giorno.
Nel 1619 Tecla Hashimoto, che aspettava il suo quarto figlio, fu legata a una croce assieme alle altre figlie, di cui una aveva solo 3 anni, e tutte furono bruciate vive. Mentre le fiamme si alzavano attorno a loro, la sua figlia di 13 anni gridò: “Mamma, non riesco a vedere più nulla!”. La madre rispose: “Non temere. Fra poco vedrai tutto con chiarezza”.
Pietro Kibe, che dà il titolo liturgico a questo gruppo di martiri, ha una storia avventurosa, che ricorda quella di san Cipriano. Da seminarista, nel 1614 fu esiliato a Macao, come tutti i missionari stranieri presenti in Giappone. Il suo ardente desiderio fu quello di diventare prete e tornare fra il suo popolo. Così nel 1618 egli lasciò Macao su una nave e arrivò fino a Goa, in India. Da lì egli viaggiò da solo attraversando quelli che oggi sono il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, la Giordania e arrivò fino in Terra Santa. Dopo uan visita ai luoghi santi, giunse nel 1620 a Roma. Ordinato sacerdote, si preparò al ritorno in Giappone. Intanto però lo Shogun aveva chiuso l'ingresso nel paese a tutti, con l'eccezione di pochi olandesi strettamente controllati..
Padre Pietro riuscì ugualmente a rientrare in segreto in Giappone, vivendo come clandestino e celebrando i sacramenti con i cristiani di nascosto. Nel 1633, avendo saputo che un missionario, padre Fereira, aveva ceduto all'apostasia, scese dalle montagne e andò a incontrarlo. “Padre – gli disse – andiamo insieme alla stazione della polizia militare. Lei ritratta la sua apostasia e poi moriremo insieme”. Padre Fereira rifiutò. Dopo di che padre Pietro si spostò nel nordest di Honshu, l’isola maggiore del Giappone. La polizia riuscì a catturarlo nel 1639 e lo trascinò a Edo, l'attuale Tokyo, dove per farlo rinunciare alla fede venne torturato con crudeltà, e infine fu ucciso.
Nei martiri giapponesi del XVII secolo e in quelli dei primi secoli brilla lo stesso potere di Cristo: vi è la stessa chiara coscienza, la stessa indomabile convinzione nel rifiutare di rinunciare alla fede, lo stesso spirito gioioso in mezzo alle crudeli sofferenze, la stessa forza sovrumana, segno che un Altro soffriva in loro. I tormenti e la morte non li hanno travolti. Essi sono stati uccisi, ma hanno vinto.
CLAMOROSA RIVELAZIONE DI MONSIGNOR DE Magistris - Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede» - «Il fondatore del Partito Comunista ricevette i sacramenti cristiani sul punto di morte» - CorSera 25-11-2008
ROMA - «Gramsci morì con i sacramenti. E chiese alle suore che lo assistevano di poter baciare un' immagine del Bambino Gesù». Lo ha affermato l'arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, intervenuto alla presentazione del nuovo catalogo dei santini che si è tenuta alla Radio Vaticana.
LA CHIESA E IL PCI - «Questo fatto - ha sottolineato il presule sardo - nel mondo della "falce e martello" preferiscono tacerlo, ma è proprio così e il mio grande conterraneo aveva conservato fin da ragazzo un'immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù che era venerata nella sua casa natale». Finora del riavvicinamento al cattolicesimo di Gramsci si era parlato solo a livello di voci, mai confermate. De Magistris, che in passato è stato tra i responsabili del Tribunale vaticano della Penitenzieria Apostolica (dicastero preposto alle indulgenze, ai perdoni e a controversie interne), ha invece fornito più di un dettaglio sulla vicenda. «Il mio conterraneo, Gramsci - ha detto il presule, che è attualmente in pensione - aveva nella sua stanza l'immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l'immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: "Perché non me l'avete portato?" Gli portarono allora l'immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò». «Gramsci - ha sottolineato De Magistris - è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci perseguita. Il Signore non si rassegna a perderci», ha commentato ancora l'esponente vaticano.
Il dialogo tra le religioni non è possibile. La fede non si può mettere tra parentesi - Lettera d Papa Benedetto XVI al sen. Marcello Pera
Caro Senatore Pera, in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI
23 novembre 2008
Messaggio del Papa per la seduta pubblica delle Pontificie Accademie - "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto"
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 25 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre ha inviato questo martedì mattina al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, e ai partecipanti alla XIII seduta pubblica delle Pontificie Accademie sul tema: "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto".
* * *
Al venerato Fratello
Mons. Gianfranco Ravasi
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Mi è gradito inviare a Lei ed al Consiglio di Coordinamento delle Pontificie Accademie il mio cordiale saluto in occasione dell’annuale Seduta pubblica, appuntamento tradizionale per dare risalto alle attività promosse con impegno e generosa dedizione da ciascuna Accademia, e momento di incontro e di condivisione tra Istituzioni diverse animate da un obiettivo comune: servire la persona umana, per farne risaltare lo splendore e le responsabilità, l'armonia e la missione. Sono lieto di estendere il mio saluto ai Signori Cardinali, ai Vescovi, ai Sacerdoti, ai Signori Ambasciatori ed ai Rappresentanti di ogni Pontificia Accademia riuniti per questo atto solenne e familiare.
Per questa Tredicesima Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie la Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, che organizza quest'anno l'evento, ha scelto come tema: Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto, un argomento quanto mai significativo per approfondire il rapporto o, meglio, il dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza ed agire umano, dialogo tanto necessario quanto talvolta dimenticato o eluso.
La necessità e l'urgenza di un rinnovato dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza, verità e bontà, ci vengono riproposte non solo dall'attuale dibattito culturale ed artistico, ma anche dalla realtà quotidiana. A diversi livelli, infatti, emerge drammaticamente la scissione, e talvolta il contrasto tra le due dimensioni, quella della ricerca della bellezza, compresa però riduttivamente come forma esteriore, come apparenza da perseguire a tutti i costi, e quella della verità e bontà delle azioni che si compiono per realizzare una certa finalità. Infatti, una ricerca della bellezza che fosse estranea o avulsa dall'umana ricerca della verità e della bontà si trasformerebbe, come purtroppo succede, in mero estetismo, e, soprattutto per i più giovani, in un itinerario che sfocia nell'effimero, nell'apparire banale e superficiale o addirittura in una fuga verso paradisi artificiali, che mascherano e nascondono il vuoto e l'inconsistenza interiore. Tale apparente e superficiale ricerca non avrebbe certo un afflato universale, ma risulterebbe inevitabilmente del tutto soggettiva, se non addirittura individualistica, per terminare talvolta persino nell'incomunicabilità.
Ho sottolineato più volte la necessità e l'impegno di un allargamento degli orizzonti della ragione, ed in questa prospettiva bisogna tornare a comprendere anche l'intima connessione che lega la ricerca della bellezza con la ricerca della verità e della bontà. Una ragione che volesse spogliarsi della bellezza risulterebbe dimezzata, come anche una bellezza priva di ragione si ridurrebbe ad una maschera vuota ed illusoria. Nell'incontro col Clero della Diocesi di Bressanone, lo scorso 6 agosto, dialogando proprio sul rapporto tra bellezza e ragione, facevo notare che dobbiamo mirare ad una ragione molto ampliata, nella quale cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. Se questo impegno è valido per tutti, lo è ancor di più per il credente, per il discepolo di Cristo, chiamato dal Signore a "rendere ragione" a tutti della bellezza e della verità della propria fede. Ce lo ricorda il Vangelo di Matteo, in cui leggiamo l'appello rivolto da Gesù ai suoi discepoli: "Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,16). Va notato che nel testo greco si parla di kalà erga, di opere belle e buone allo stesso tempo, perché la bellezza delle opere manifesta ed esprime, in una sintesi eccellente, la bontà e la verità profonda del gesto, come pure la coerenza e la santità di chi lo compie. La bellezza delle opere di cui ci parla il Vangelo rimanda oltre, ad un’altra bellezza, verità e bontà che soltanto in Dio hanno la loro perfezione e la loro sorgente ultima.
La nostra testimonianza, allora, deve nutrirsi di questa bellezza, il nostro annuncio del Vangelo deve essere percepito nella sua bellezza e novità, e per questo è necessario saper comunicare con il linguaggio delle immagini e dei simboli; la nostra missione quotidiana deve diventare eloquente trasparenza della bellezza dell'amore di Dio per raggiungere efficacemente i nostri contemporanei, spesso distratti e assorbiti da un clima culturale non sempre propenso ad accogliere una bellezza in piena armonia con la verità e la bontà, ma pur sempre desiderosi e nostalgici di una bellezza autentica, non superficiale ed effimera.
Questo è emerso anche durante il recente Sinodo dei Vescovi, convocato per riflettere sul tema: "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Diversi interventi hanno evidenziato il valore perenne di una "bella testimonianza" per l'annuncio del Vangelo, sottolineando l'importanza del saper leggere e scrutare la bellezza delle opere d'arte, ispirate dalla fede e promosse dai credenti, per scoprirvi un singolare itinerario che avvicina a Dio e alla sua Parola.
Nel Messaggio conclusivo, poi, rivolto dai Padri Sinodali a tutti i credenti, si ribadisce la bontà e l'efficacia della via pulchritudinis, uno dei possibili itinerari, forse quello più attraente ed affascinante, per comprendere e raggiungere Dio. Nello stesso documento si ricorda la Lettera agli Artisti del mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, che invitava a riflettere sull'intimo e fecondo dialogo tra la Sacra Scrittura e le diverse forme artistiche, da cui sono scaturiti innumerevoli capolavori. In questa occasione vorrei suggerire di riprendere in mano quella Lettera, a dieci anni dalla sua pubblicazione, per farne oggetto di una rinnovata riflessione sull'arte, sulla creatività degli artisti, e sul fecondo quanto problematico dialogo tra questi e la fede cristiana, vissuta nella comunità dei credenti. Mi rivolgo particolarmente a voi, cari Accademici ed Artisti, perché è proprio questo il vostro compito, la vostra missione: suscitare meraviglia e desiderio del bello, formare la sensibilità degli animi e alimentare la passione per tutto ciò che è autentica espressione del genio umano e riflesso della Bellezza divina.
Cari fratelli e sorelle, il Premio delle Pontificie Accademie, istituito dal mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, ha una sua peculiare finalità: suscitare nuovi talenti in vari campi del sapere ed incoraggiare l'impegno di giovani studiosi, artisti ed istituzioni che dedicano le loro attività alla promozione dell'umanesimo cristiano. Accogliendo, pertanto, la proposta formulata dal Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, in questa solenne Seduta Pubblica sono veramente lieto che venga assegnato il Premio delle Pontificie Accademie al Dott. Daniele Piccini, distintosi per il suo impegno sia nello studio critico della poesia e della letteratura - particolarmente di quella italiana delle origini e del Rinascimento - sia per la sua militanza attiva in campo poetico, espressa in alcune significative raccolte.
Sono, inoltre, contento che quale segno di apprezzamento e di incoraggiamento, si offra una Medaglia del Pontificato al Dott. Giulio Catelli, giovane pittore, per la sua ricerca artistica, apprezzata già dalla critica d'arte; nonché alla Fondazione Stauròs Italiana, Onlus, per la realizzazione del Museo d'Arte Sacra Contemporanea e per l'organizzazione della Biennale d'Arte Sacra, appuntamento ormai tradizionale per gli artisti che si impegnano nel settore dell'Arte Sacra.
Vorrei infine manifestare a tutti gli Accademici, e specialmente ai Membri delle Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, il mio vivo apprezzamento per l'attività svolta, ed esprimere l'augurio di un impegno appassionato e creativo, soprattutto in campo artistico, per promuovere nelle culture contemporanee un nuovo umanesimo cristiano, che sappia percorrere con chiarezza e decisione la via dell'autentica bellezza. Con tali sentimenti, affido ciascuno di voi, come pure la vostra preziosa opera di studio e di ricerca creativa, alla materna protezione della Vergine Maria, che con tutta la Chiesa invochiamo come Tota Pulchra, la Tutta bella, e di cuore imparto a Lei, Signor Presidente, ed a tutti i presenti una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 24 Novembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Incarnare la Misericordia con i cerebropatici e le loro famiglie - ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di suor Graziella Bazzo EAM, del “Centro Speranza” di Fratta Todina (PG).
* * *
"Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me." (Mt 25,40)
La Parola di Dio è sempre per noi vitale, la sentiamo come Parola di vita.
Infatti, l’invito a stare sempre dalla parte dei piccoli, che si traduce in una accoglienza verso chi è emarginato viene trasformata in "preferenza", che sta evangelicamente nel prediligere, innanzitutto i deboli, i poveri, gli umili, i sofferenti, i più bisognosi.
Attingendo forza da queste parole possiamo dire che "il servizio più alto che si può dare a una persona è di farla diventare ciò che è: " è il servizio per eccellenza".
Noi possiamo diventare quello che siamo perché siamo inseriti in un progetto di vita.
E’ dell’uomo che, per diventare quello che deve essere, ha bisogno di un altro essere umano che si inserisca nel suo divenire.
Per questo Convegno, che celebra il 75° anno di Fondazione della nostra Congregazione delle Ancelle dell’Amore Misericordioso, mi è stato proposto un intervento volto a raccontare e a testimoniare l’esperienza che quotidianamente ci vede coinvolti.
Mi riferisco alla realtà del "Centro Speranza", un servizio sia diurno che ambulatoriale riabilitativo rivolto a bambini, ragazzi e adulti cerebropatici insufficienti mentali di grado lieve, grave e gravissimo e che mira ad aiutarli nel dare senso e significato alla propria esistenza.
Una realtà, per quello che mi riguarda, che io vivo da 15 anni. Questa esperienza di "Vita per la vita" ci ha spinto e spronate comunitariamente, verso una migliore accoglienza e comprensione delle persone cerebropatiche e delle loro famiglie.
Esperienza che, quotidianamente, ravviva la passione e l’impegno necessario per conoscere e per interiorizzare quegli atteggiamenti, quei gesti, quelle linee educative e pedagogiche che favoriscono e promuovono un’accoglienza rispettosa della diversità.
Cercherò ora di percorrere con voi un breve excursus storico in riferimento alla nascita e allo sviluppo del Centro Speranza. Penso che sia importante ripensare e rileggere la storia di una esistenza riconoscendo quanto il Signore ama le sue creature e cerca in tutti i modi di averne cura affinché "la Sua opera sia espressione del Suo Amore".
Di seguito metterò in rilievo i principi ispiratori di questa opera e alcune caratteristiche corrispondenti.
Excursus storico
La nostra Madre Fondatrice, Madre Speranza, nel corso della sua vita, esprimeva il desiderio di realizzare, proprio nella casa di Fratta Todina, un Centro per accogliere bambini cerebropatici e al tempo stesso sostenere le loro famiglie. Lei stessa incoraggiava le suore a portare avanti questo Progetto, che vedeva come espressione della volontà di Dio.
Questa idea della Madre si è andata rafforzando con gli anni grazie alla conoscenza di Vittorina Gementi, insegnante e pedagogista, e della sua imponente opera realizzata a Mantova.
I primi incontri tra le suore e Vittorina sono avvenuti a Collevalenza e da subito si è instaurata una stima reciproca e profonda. Nell’ottobre del 1976 furono inviate, due suore neo-professe, a prestare servizio presso la Casa del Sole, a Mantova, per fare esperienza e per conoscere i principi del Trattamento Pedagogico Globale.
Il desiderio della Madre inizia così la via della realizzazione e nel corso di questi anni, tutti noi, abbiamo assistito ad una evoluzione e ad un recipimento sul significato che lei stessa intendeva e voleva dare: "l’amore incondizionato" per chi si trova nel bisogno, per chi soffre.
Nei confronti di queste persone, la Madre si è posta sempre con un’ atteggiamento interiore di chi offre l’aiuto: la com-prensione: capacità di allargare la mente in un nuovo modo di intendere, quello evangelico; la com-passione:capacità di allargare il cuore, accogliendo l’amore divino e donandolo; la com-mozione:capacità di muoversi verso il fratello nel bisogno e quindi la messa in atto concreta delle opere di misericordia. In una accezione più ampia mi piace mettere in rilievo l’aspetto della Misericordia e dell’Amore per l’essere umano che la Madre conteneva in sé perché "lei aveva hambre (= fame) della felicità altrui".
Infatti, da lì a pochi anni iniziarono ad arrivare a Fratta Todina i primi bambini con cerebropatie più o meno gravi, le cui famiglie, dopo essersi rivolte inutilmente ai servizi di assistenza dell’U.L.S.S., chiedevano alle suore un aiuto per accogliere i propri figli.
La Comunità religiosa concretizzando l’idea di Madre Speranza creò a Fratta Todina, presso il Palazzo Altieri, un Centro Diurno per bambini, ragazzi cerebropatici gravi e gravissimi, ispirandosi ed applicando i principi del Trattamento Pedagogico Globale.
Certamente si può dire che uno dei protagonisti di questa opera nascente è Dio, Padre Misericordioso, che sente l’urgenza di riversare tutta la sua infinita tenerezza sui "suoi figli prediletti": i bambini cerebrolesi.
Il Centro Speranza dunque, trae il suo principio ispiratore nel dare "Dignità e diritti alla persona disabile".
Così nel settembre del 1984, il Centro ha iniziato ufficialmente la sua attività: con la presenza di tre bambini, anche se il riconoscimento della Regione era ancora lontano.
Nel giugno del 1988 si è giunti al riconoscimento e all’autorizzazione da parte della Regione. Dopo poco più di un anno la Convenzione con l’U.L.S.S. Media Valle del Tevere di Marsciano.
Nel corso dei primi anni, proprio grazie all’interessamento economico della Congregazione, le attività del Centro si andavano potenziando con rapidità.
La ristrutturazione del Palazzo Altieri con l’ampliamento di numerosi spazi ha permesso l’implementazione e la diversificazione dei servizi e delle proposte (attività occupazionale con laboratori di ceramica, falegnameria, cucina, parrucchieria, ecc.. e la realizzazione della piscina: vasca terapeutica) da offrire ai bambini, ragazzi disabili e alle loro famiglie.
Così, nel corso dei suoi 21 anni di vita il Centro Speranza ha visto aumentare il numero dei suoi utenti…, e attualmente il Centro offre un servizio diurno e ambulatoriale con trattamenti riabilitativi a cento tra bambini e ragazzi con disabilità.
Giorno dopo giorno, noi suore e i laici che collaborano con noi, attualmente sono 37 ( un medico Direttore Sanitario, neurologo, educatori professionali, tecnici della riabilitazione, ecc), abbiamo iniziato a condividere, attraverso un cammino comune, una esperienza che è stata ed è certamente professionale ma anche esistenziale e spirituale.
Principi ispiratori del Centro Speranza
Ora vorrei esporre i principi - valori fondamentali che hanno sotteso da sempre l’operato di questo Centro e questi sono:
Il valore dell’uomo, della vita umana, il rispetto della dignità dell’altro come essere umano indipendentemente dalla sua condizione. La scientificità Il valore della famiglia
Il principio ispiratore che ha promosso questo servizio è il concetto di "VALORE PRIMARIO DELLA PERSONA UMANA" e quindi il dovere di contribuire all’arricchimento ed alla pienezza del suo sviluppo con "GIUSTIZIA E CARITA’ EVANGELICA, SCIENZA E TECNICA".
Pertanto il primo punto da mettere in rilievo è il valore dell’ uomo, esso trova la sua connessione in una antropologia profondamente cristiana che vede la persona, anche quando risulta essere menomata sia nella psiche che nel corpo, come persona, soggetto con piena dignità portatore egli stesso di diritti sacri e inalienabili.
L’essere umano, infatti, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge la sua vita e dalle capacità che può esprimere, possiede una Dignità e un Valore Unico, soprattutto in una società come la nostra dove: l’apparire, l’estetismo, l’efficientismo, l’avere e il possedere rischiano di far crollare l’uomo nella più profonda disperazione ed emarginazione esistenziale.
Le persone cerebrolese, nel nostro mondo efficientistico, sono considerate povere, non in termine evangelico, ma perché non hanno gli strumenti umani per correre e competere con chi usa la vita per possedere, per apparire, per fare.
Ma la novità del Vangelo rivela il valore unico e inestimabile di queste creature: Gesù li proclama "beati" perché il Padre, riserva loro un amore preferenziale e gratuito, un’attenzione e una tenerezza speciale. Se questo è l’amore di Dio per loro, quanto deve cambiare il nostro modo di pensare e di guardare a loro, il nostro atteggiamento concreto verso le loro famiglie!
La loro presenza al Centro Speranza e nella nostra comunità, tiene viva una visione della vita umana che spesso ci sfugge: "la vita come dono gratuito, come gioia di amare e di essere amati". Un’ amore che è espressione di tenerezza, accoglienza, pazienza, lealtà, condivisione, benevolenza e rispetto inteso come il volere che l’altro viva il suo essere in pienezza. Infine, la serenità interiore capace di contagiare chi li avvicina.
Vorrei a questo proposito citare ciò che Vittorina Gementi affermava: "…..Credo che molte opere di Dio non si manifestino nelle nostre comunità ecclesiali proprio perché non abbiamo la presenza preziosa di questi fratelli scelti e prediletti da Dio".
Dunque, tutto questo ci conduce al concetto di Umanità, di pienezza, di dignità dell’individuo anche se disabile che impone a tutti di avvicinarsi all’uomo non per "dare" (atteggiamento assistenziale) ma per "amare" (atteggiamento dialogico).
La sofferenza più grande del bambino cerebropatico, come di ogni persona, è di sentirsi escluso, senza valore e non amato. E’ attraverso l’amore che egli comincia a scoprire a poco a poco di avere un valore, un ruolo, di essere amato e quindi amabile.
A questo punto vorrei fare una brevissima parentesi: nel cuore di ognuno si trova sempre un angolo riservato ai ricordi, alle esperienze che hanno lasciato in noi una traccia. Ciò che mi rimase impresso di Vittorina Gementi ed improntò in seguito la mia vita a livello professionale, fu quel suo modo di "guardare", di considerare i bambini: l’accento era posto sulle risorse del bimbo e non sui suoi aspetti carenziali; vorrei dire anzi che l’impostazione era: "considerare il bambino come risorsa ed occasione di crescita (umana, esperienziale, affettiva, educativa e spirituale ….) per se stesso e per noi.
Questa considerazione ci può condurre ad una ulteriore riflessione.
Il "guardare negli occhi" chi abbiamo di fronte, qualsiasi sia la condizione in cui egli si dovesse trovare, è un primo ed semplice gesto di prossimità che ci apre alla possibilità di riconoscerlo simile e al tempo stesso "altro" da noi. Il guardare come gesto implica una intenzionalità ed è diverso da un vedere che non sempre arriva a muovere la volontà, il cuore. Anche per la nostra Madre era chiaro che l’attenzione va rivolta a tutto l’uomo, per partecipare, con lui, a quella sua particolare situazione: "Se vi capita di trovarvi con una persona oppressa dal dolore fisico o morale, non cercate di soccorrerlo o fargli un’esortazione senza prima aver rivolto uno sguardo di compassione". In termini pedagogici e perché no, spirituali, possiamo parlare di esperienza empatica che fa "allargare la propria esperienza così che sia in grado di accogliere l’esperienza dell’altro".
Edith Stein riconosce nell’empatia la capacità "nell’interessarmi veramente dell’altro, del suo valore, della sua persona", è "atto d’amore".
Mi sembra necessario sottolineare il secondo principio che ho citato inizialmente e che appare fondamentale e guida il nostro agire all’interno del Centro: la scientificità.
Essa si pone come strumento del sapere e del progresso in funzione del bene dell’uomo e ciò implica professionalità. Non vuoto e asettico tecnicismo o prestazione, ma come strumento privilegiato del servizio per essere più vicini all’uomo nella sua condizione di bisogno e di sofferenza.
Vorrei ora evidenziare un altro aspetto: il valore della famiglia che per noi riveste notevole importanza. Il Centro intende farsi carico, non solo della disabilità in quanto tale, ma anche della sofferenza personale e familiare che l’accompagna.
Non possiamo pensare di aiutare il bambino cerebroleso a crescere se non teniamo conto che esso esiste non come individuo isolato, ma come realtà inscindibile dai suoi genitori.
In questa ottica la famiglia gioca un ruolo importante, infatti, se educare significa valorizzare e rendere significativa l’esistenza di ogni bambino, l’educazione non può prescindere dalla famiglia che rappresenta il nucleo primario dei valori dell’esistenza.
Pertanto, non basta nei confronti della famiglia un atteggiamento di disponibilità, ma è necessario un coinvolgimento profondo che deve partire dalla conoscenza di quali sono stati e sono i problemi che la famiglia vive, le sue angosce, le sue difficoltà, ma soprattutto capire i tentativi che la famiglia attua per affrontare questo grave problema.
E’ evidente: il cammino che i genitori devono compiere è un cammino molto difficile e difficilmente riusciranno a compierlo da soli.
E’ prima di tutto il cammino della presa di coscienza della realtà del figlio; è il cammino dell’accettazione vera del figlio; è il cammino della comprensione di quali sono i suoi reali bisogni; è il cammino della fiducia verso una struttura che si affianca a loro, con competenza, rispetto, pazienza, attesa, nel processo di crescita del proprio figlio.
Il Centro per sostenere e aiutare la famiglia in questo cammino si avvale di diversi strumenti ad esempio colloqui con il medico, colloqui con l’assistente sociale, colloqui con altre figure professionali presenti all’interno del servizio. Inoltre sono previste riunioni di equipe periodiche, di gruppi di auto-aiuto e iniziative aggregative (Festa della Famiglia, Festa del Natale, Camminata della Speranza).
Sono tutti questi momenti che consentono da una parte di far incontrare i genitori fra di loro, favorendo così un passaggio di esperienze, ma anche momenti di condivisione, affinché essi possano trovare fra di loro un aiuto. Dall’altra parte, queste esperienze, si collocano nella prospettiva di rendere il bambino con disabilità e la sua famiglia presenti nel territorio.
Negli anni si è constatato, come queste opportunità favoriscano conoscenza e riflessione conducendo a forme di rinnovata "sensibilità" affettivo-relazionale, promuovendo un nuovo senso esistenziale e una qualità della vita della persona disabile e dei suoi genitori.
La "missione" specifica del "Centro Speranza" è, oggi, tutelare la dignità e migliorare la qualità della vita – prevalentemente attraverso interventi di riabilitazione, sanitaria e sociale – delle persone con disabilità (specie in età evolutiva) e delle loro famiglie.
Per questo, due atteggiamenti risultano portanti: quello dell’accoglienza e quello della valorizzazione della vita in tutte le sue espressioni.
L’accoglienza intesa come desiderio e impegno di far sentire a proprio agio chi frequenta il Centro o chi, per qualsiasi ragione ad esso accede; e come autentico impegno che si esprime come disponibilità interiore verso l’altro e come gesto concreto di benevolenza e di ascolto.
La valorizzazione della vita in tutte le sue espressioni impegna, invece, ciascuno a scoprire ciò che veramente conta in tutti coloro che avvicina. Questo favorisce a far crescere in ogni persona la consapevolezza di quanto vale, in quanto oggetto di amore personale e particolare di Dio.
Pertanto le caratteristiche corrispondenti a tali principi sono:
-- Essere espressione dell’amore e della tenerezza di Dio che non abbandona mai le sue creature, privilegiando i più poveri ("Gesù ama svisceratamente l’uomo, altrettanto dobbiamo fare noi […] L’uomo, il più miserabile e perfino il più abbandonato è amato con immensa tenerezza da Gesù, che gli è Padre e tenera Madre" – Madre Speranza).
-- Promuovere un servizio di qualità, inteso soprattutto come attenzione ai bisogni più profondi e veri della persona ("Le nostre opere coniugando evangelizzazione e promozione umana, devono testimoniare la nostra stima e rispetto per la dignità di ciascuna persona e la nostra costante sollecitudine per la sua crescita integrale" – Cost. Congregazione E.A.M.).
-- Infondere tra operatori e volontari la collaborazione e la condivisione, nello stile di servizio alla persona dello spirito cristiano, anche qualora non ne condividessero le motivazioni di fede.
-- Essere portatori di speranza cristiana verso le persone particolarmente provate, come i genitori e i loro figli disabili ("Tutto il nostro agire deve essere improntato ad una grande speranza e dobbiamo proporla a tutti…" – Cost. Congregazione E.A.M.).
Vittorio Messori: la storia di una conversione - Una vita per rendere ragione della fede - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 25 novembre 2008 (ZENIT.org).- Storia singolare quella dello scrittore Vittorio Messori. Autore di best seller venduti in milioni di copie in tutto il mondo. Unico ad aver pubblicato un libro-intervista con il Pontefice Giovanni Paolo II (“Varcare le soglie della speranza”) e aver intervistato il Cardinale Joseph Ratzinger (“Rapporto sulla Fede”), divenuto in seguito Papa.
Solamente “Varcare le soglie della speranza” ha venduto più di 20 milioni di copie ed è stato tradotto in 53 lingue.
Eppure fino a 23 anni Messori non era affatto cattolico. La famiglia agnostica se non anticlericale, cresciuto ed educato con una cultura razionalista indifferente verso il mistero religioso e ostile alla sola idea che possa esistere Dio. Studente universitario seguace dei maestri del laicismo come Norberto Bobbio e Galante Garrone. Giornalista de “la Stampa”.
Era l’estate del 1964, a Torino, quando già si intravedevano i primi fuochi dell’imminente ‘68, con gli studenti universitari che si nutrivano di Sigmund Freud, Karl Marx, Wilhelm Reich, e il mondo cattolico si dibatteva nei problemi del dopo Concilio Vaticano II, fu in questo contesto che Messori incontrò quel Cristo che gli ha cambiato la vita.
La storia del figlio di un falegname di Nazareth che diceva di essere il figlio di Dio e che innocente morì sulla Croce, è entrata così profondamente nella vita di quello studente universitario, che il primo libro che pubblicò “Ipotesi su Gesù” è diventato un best seller internazionale.
A raccontare la conversione, le vicende, le esperienze, i pensieri di un cattolico senza fronzoli, apologetico con ragione, solido e realista, è stato il vaticanista Andrea Tornielli, che è riuscito nell’impresa di intervistare Vittorio Messori nel libro “Perché Credo. Una vita per rendere ragione della fede”, appena pubblicato da Piemme.
In questo dialogo asciutto ed essenziale, Messori racconta che nessuno credeva nel successo del libro “Ipotesi su Gesù”. In molti cercarono di convincerlo a fare altro. Gli anticlericali lo osteggiavano, ma anche i cattolici erano scettici.
I religiosi della ‘Sei’, i suoi primi editori, erano certi che il libro sarebbe stato un flop editoriale, e per questo lo tennero in un cassetto per più di un anno e nella prima edizione lo stamparono in tremila copie.
Oggi quel libro ha superato un milione di copie vendute, è stato tradotto in trenta - quaranta lingue, e nonostante sia stato scritto a metà degli anni Settanta vende ancora 20-30.000 copie all’anno.
Messori spiega però che il merito non è suo, è la vicenda del Cristo che interroga ancora l’umanità.
Un Cristo che continua a far discutere come dimostra il recente divieto in Spagna di esporre i crocefissi nelle aule scolastiche.
"Non mi scandalizzo né mi straccio le vesti per ciò che è accaduto in Spagna – ha commentato a ZENIT Vittorio Messori –, perché sono convinto che un po’ di difficoltà e di ostilità fa bene al cristianesimo, fa risvegliare, fa prendere coscienza della propria identità”.
“La storia lo insegna: le persecuzioni sono state occasioni perché i cristiani si moltiplicassero", ha poi spiegato.
Nell’introduzione al volume Tornielli precisa che Messori “ha scritto il libro che non trovava”.
Messori non cercava “analisi sulla società, sulla povertà materiale e sulle sue cause, sull’impegno politico e sociale dei cattolici, sull’applicazione delle scienze umane al cristianesimo”.
Lo scrittore convertito cercava risposte alle domande: “Che cosa c’è di vero in questa storia, in questo racconto, che da duemila anni riecheggia nel mondo? Gesù Cristo è davvero il figlio di Dio? È davvero lui il Messia atteso da Israele, annunciato dalle profezie? E, soprattutto, è davvero risorto?”.
Ma soprattutto, Messori cercava delle certezze sulla storicità di quell’uomo venuto al mondo in un villaggio sperduto dell’Impero romano che ha cambiato la storia dell’umanità con la rivoluzione dell’amore caritatevole.
Nel libro Messori racconta la sua conversione che era stata preceduta, da un fatto straordinario, una telefonata di uno zio materno morto giovane per un ictus cerebrale. Lo scrittore è persona razionale ed è certo di non aver sognato né di aver sofferto di allucinazioni.
Poi nel luglio e agosto del 1964, mentre lavorava come centralinista all’allora compagnia telefonica Stipel, trovò per caso una copia del Vangelo. Leggendolo avidamente accadde un fenomeno che Messori descrive come una "Luce esplosa all'improvviso", un “incontro misterioso” quasi fisico con Gesù.
Il noto scrittore si descrive come un “emiliano terragno” con nessuna vocazione alla vita mistica e ascetica, eppure narra che in quei due mesi visse immerso “in una esperienza mistica” che non avrebbe mai immaginato, né conosciuto. Una situazione di luce piena “con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza”. Verità che “mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi”.
Nell’introduzione Tornielli sostiene che Vittorio Messori “è una figura atipica nel panorama ecclesiale e culturale di oggi. Non ha peli sulla lingua, né parla l’ ‘ecclesialese’, cioè
quel tipico linguaggio autoreferenziale, spesso stereotipato e tanto più ripetitivo quanto meno agganciato alla reale esperienza umana. E non lo si può facilmente arruolare o collocare in questo o quello schieramento. Non è un tradizionalista, non è un moralista né un teocon”.
Tornielli racconta che Messori ha un solo, grande rammarico: “constatare ogni giorno che la ‘conversione della mente’ – che fu, ed è, totale – troppo spesso non si sia accompagnata alla ‘conversione del cuore’. E che, dunque, debba unirsi al lamento del ‘suo’ Blaise Pascal: ‘Quanta distanza c’è, in me cristiano, tra il pensiero e la vita!’”.
25/11/2008 12:38 – ASIA - Uscire dalla crisi: le inutili soluzioni di destra e di sinistra - di Maurizio d'Orlando - Non si vuol comprendere che questa del 2008 è una crisi più grave e diversa da quella del ’29. Le soluzioni trovate finora sono a beneficio del mondo bancario, ma non servono a produrre ricchezza. C’è il rischio di ridurre il dollaro a carta straccia.
Milano (AsiaNews) - Fra la crisi attuale e quella del ’29 vi sono caratteristiche molto simili. Nel cercare una soluzione alla crisi, politici ed economisti di schieramento opposto vanno maturando un consenso “bipartisan”, che è quello di evitare di commettere gli stessi errori compiuti quasi 80 anni fa, dopo il crollo di Wall Street. L’illusione, un po’ consolatoria, è di sapere sulla base della lezione del passato che cosa in teoria c’è da fare. Si dimentica, però, che fra il ’29 e il 2008 vi sono anche significative differenze. Ad esempio, la circolazione monetaria, sia interna che internazionale, non ha più alcun riferimento alla parità aurea. Inoltre l’attuale crisi è molto più estesa e profonda di quella del ’29[1]. Ipotizzare quindi delle soluzioni che ricalchino quelle tratte dalle passate esperienze non servirà a molto. Anzi, le soluzioni ispirate al passato rischiano di far precipitare l’economia in una spirale molto pericolosa.
Le soluzioni “di sinistra” e “di destra”
I vertici politici di tutto il mondo sembra non abbiano ancora compreso che i problemi odierni sono diversi da quelli del passato. In modi quasi imperturbabili ci ripropongono vecchie ricette, di “destra” e di “sinistra”, rimescolate insieme.
Su AsiaNews abbiamo già scritto su quanto è inutile e dannoso il piano “bipartisan” di Paulson[2]. C’è solo da aggiungere che da 700 esso è lievitato a 2 mila miliardi di dollari senza una specifica autorizzazione del Parlamento americano[3], con tanti saluti alla democrazia; la Fed si è perfino rifiutata di fornire dettagli su chi ne ha beneficiato, con tanti saluti alla trasparenza.
Inutili e dannosi, temiamo, risulteranno anche i provvedimenti preannunciati in molti paesi. Né ricette di “sinistra” - che agiscono sulla domanda - né ricette di “destra” - che agiscono sull’offerta – riusciranno a produrre risultati in termini di crescita economica. Finora a prevalere sembra siano soluzioni stataliste di “sinistra” – il modello keynesiano e del New Deal di Roosevelt – cioè il salvataggio statale di banche e grandi industrie – con l’intento dichiarato di risanarle e cederle poi ad investitori privati[4]. Questo tipo di programmi è in genere accompagnato da un forte incremento della spesa infrastrutturale – strade, porti, sostegno alle “nuove” fonti d’energia, come previsto nel programma annunciato da Obama – e da un calo dei tassi d’interesse stabilito a tavolino[5]. In particolare, quest’ultimo è un provvedimento all’apparenza popolare perché abbassa marginalmente il costo dei mutui. Chi, però, non ha introiti, perché ha perso il lavoro o aveva guadagni solo saltuari, non beneficia affatto di un calo dei tassi e questo vale anche per le imprese, che non hanno più ordinativi. Una riduzione dei tassi d’interesse oggi non riavvia la crescita economica e non produce nuova occupazione. Anzi, può avere un effetto deflattivo indesiderato di riduzione del circolante monetario. Infatti, i consumatori e le imprese che hanno mantenuto delle entrate sono già fortemente indebitati in tutte le maggiori economie del mondo – ed in particolare negli Stati Uniti – ed ogni riduzione dei tassi verrebbe impiegata nella riduzione del debito, non per maggiori consumi o investimenti. A beneficiarne in maniera unica o prevalente sono dunque banche e finanziarie che operano a “leva”[6]. Questo calo dei tassi, in assenza di impieghi produttivi, non garantisce una ripresa economica sana, ma proroga soltanto un benessere artificiale. Anche l’aumento della spesa pubblica per infrastrutture comporta conseguenze inflattive e quindi di una crescita drogata. Per quanto riguarda i salvataggi industriali, mantenere in vita produzioni obsolete e non remunerative solo per salvare posti di lavoro, amplifica nel tempo il problema perché incrementa il consumo di risorse che non sono state prodotte. L’assenza di una crescita reale non drogata o distorta dalla finanza è il problema, non la soluzione. Non è perciò una soluzione responsabile, mentre invece occorre ridurre un clima d’irresponsabilità diffusa. Il problema si pone poi in proporzioni smisurate in particolare nel caso dei salvataggi finanziari.
Anche per le ricette di “destra” oggi non ci sono reali prospettive di successo. Tali ricette prendono a modello lo stile reaganiano neo-liberista della curva di offerta, con tagli fiscali e privatizzazioni.
Per quanto riguarda i tagli alle imposte[7], negli Stati Uniti – ed in linea di massima anche in Europa – tale provvedimento oggi non produrrebbe risultati. Le tasse sono già state tagliate proprio fino al punto della curva di Laffer in cui non si producono riduzioni del gettito tributario[8]. Ulteriori tagli possono compromettere ancora di più i conti pubblici, già precari. Anche sul fronte delle privatizzazioni, nei paesi sviluppati è stato già fatto molto di quello che si poteva fare, seppure in certi casi piuttosto male.
Negli Stati Uniti un incremento della spesa pubblica nelle proporzioni necessarie non potrebbe essere finanziato né internamente - visto che il tasso di risparmio è nullo o negativo – né dall’estero – visto che il dollaro ha di fatto perso il suo ruolo di moneta di riserva. Anche in Europa ed in Giappone è difficile ipotizzare un incremento della spesa pubblica non inflattivo, in Europa per lo stato dei bilanci pubblici, in Giappone per la già abnorme bolla di massa monetaria, soprattutto in termini di M3. D’altro canto, anche il New Deal, a cui il piano di Obama si ispira, è stato un insuccesso: l’America si riprese dalla Grande Depressione degli anni Trenta solo con la 2a Guerra mondiale.
Alleggerire la difesa e la burocrazia
Certo, per liberare risorse da destinare allo sviluppo nei paesi sviluppati ci sarebbe da fare ancora qualcosa. Negli Stati Uniti, ad esempio, si potrebbe mettere sotto controllo la spesa per la difesa, la più alta del mondo, in cui oltre ad altre considerazioni, si annidano sprechi percentualmente anche colossali. In Europa ed in Giappone si potrebbe intervenire per modificare quelle strutture che dilapidano risorse e bloccano iniziative: un sistema burocratico soffocante, un complesso di grandi imprese che occupa ogni spazio e soffoca ogni dinamismo, la giungla legislativa che produce non solo sprechi, ma soprattutto distorsioni. Più in generale, occorre innalzare la produttività del sistema mediante l’innovazione di prodotto vera e funzionale a bisogni reali, e ciò è possibile soprattutto al di fuori di strutture di ricerca costose ed elefantiache. Occorre, soprattutto, riequilibrare il modello economico mediante un completo cambiamento di paradigma. È possibile sanando l’illegittimità sia del sistema monetario che delle istituzioni politiche per far crescere in maniera responsabile, senza ledere i diritti individuali di alcuno, coloro che ne sono ora esclusi.
Di tutto ciò però non si parla. Il concreto rischio è perciò che i provvedimenti adottati, o in procinto di essere adottati, sbilancino a tal punto i conti pubblici da tramutare l’iniziale gelata della deflazione monetaria in una fiammata di inflazione ustionante. Torna alla memoria il precedente storico che portò nel 1971 al definitivo sganciamento del dollaro da ogni tipo di convertibilità aurea. Fu il periodo della stagflazione, stagnazione economica, cioè una blanda forma di recessione, associata ad un’inflazione a due cifre.
La “convergenza” di vedute tra Bernanke, Governatore della Fed, il nuovo ministro designato delle finanze, Thimothy F. Geithner – che in questi anni ha guidato la Federal Reserve Bank di New York – ed il presidente eletto Obama potrebbero portare ad una combinazione simile, ma su una scala ben maggiore. Salvare le banche, il sistema finanziario e le grandi imprese ha un costo fuori ogni misura ed avrà conseguenze fatali per l’economia e tutta la nostra società. Se, come è stato annunciato - e come sembra probabile - questo è l’indirizzo politico, l’economia si avviterà su una spirale tragica. Il governo americano, seguito probabilmente da quello di molti altri paesi, decreterà l’incremento dell’emissione dei dollari in circolazione, aumentando a dismisura il debito pubblico. Il debito pubblico raggiungerà proporzioni tali da non poter essere pagato. Il governo americano dovrà decretare la propria insolvenza finanziaria e il dollaro non varrà più nulla e sarà demonetizzato.
[1] Solo il valore globale dei derivati finanziari è 1'000 volte il valore iniziale del piano Paulson ed è pari a circa quindici venti volte il PIL mondiale. Vedi Il piano Paulson: inutile e dannoso alla democrazia, in AsiaNews.it, 06/10/2008
[2] Vedi nota precedente e Quanto è profondo l’abisso del caos economico, sociale e politico - Asia News, in AsiaNews.it, 30/09/2008; ed inoltre I mutui “subprime” annunciano la più grande crisi finanziaria dopo il ‘29 in AsiaNews.it, 19/09/2007
[3] Vedi Bloomberg.com: Worldwide Fed Defies Transparency Aim in Refusal to Disclose, By Mark Pittman, Bob Ivry and Alison Fitzgerald, Bloomberg news, November 10, 2008
[4] Pochi lo ricordano, perché politicamente sconveniente, ma il New Deal ricalcò alcune precedenti iniziative di Mussolini. Ne è l’esempio l’IRI, Istituto Ricostruzione Industriale, un ente statale in cui confluirono le azioni di grandi banche imprese fallite. Anche le tante simili iniziative odierne nel mondo hanno perciò nel prototipo fascista un antecedente certo molto sgradevole in America. Per la sinistra è invece un precedente storico da censurare completamente.
[5] In molti casi, come ad esempio in Giappone negli scorsi decenni, i bassi tassi d’interesse sono arrivati a risultare addirittura negativi perché inferiori all’inflazione reale.
[6] Impiegano cioè risorse prese a prestito per un elevato multiplo del proprio capitale.
[7] Per la verità i tagli alle imposte come proposti da Obama sono concettualmente diversi da quelli reaganiani.
[8] L’economista Art Laffer riprese una ben nota legge dei manuali classici di Scienza delle Finanze. Il concetto è che esistono due aliquote d’imposta che forniscono il gettito tributario massimo, uno più elevato ed uno inferiore. Al di sopra di quest’ultimo ogni inasprimento fiscale è inutile e dannoso.
26/11/2008 08:46 – THAILANDIA - “Battaglia finale” a Bangkok: aeroporto occupato e 7 feriti - Da stamane i dimostranti anti-governo occupano anche la torre di controllo. Circa 80 voli hanno subito cancellazioni o ritardi; metà dei voli cancellati. Bombe contro i manifestanti hanno provocato 7 feriti.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – Centinaia di dimostranti anti-governo, tutti vestiti di giallo, controllano l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi, dove da stamane tutti i voli sono sospesi. Almeno 7 manifestanti sono stati feriti per alcune bombe scoppiate in aeroporto e in diversi punti della capitale.
Circa 3 mila passeggeri sono di fatto ostaggio nell’aeroporto, dato che tutte le strade d’accesso sono bloccate. I manifestanti sembrano avere perfino invaso la torre di controllo e esigono che i voli in atterraggio domandino loro il permesso. Serirat Prasutanon, direttore dell’aeroporto, dichiara che le operazioni “sono tutte bloccate” da stamattina e che 78 voli da e per Bangkok hanno subito cambiamenti. Metà dei voli sono stati cancellati.
L’occupazione dell’aeroporto è l’ultima mossa di una campagna del partito di opposizione, il Pad (People’s Alliance for Democracy), di far dimettere il governo che essi giudicano corrotto e “una marionetta” dell’ex premier Thaksin Shinawatra, allontanato dal potere con un colpo militare nel 2006 e oggi in esilio a Londra.
Secondo Petpong Kamchornkitkarn, portavoce dei servizi medici di emergenza, 2 persone sono state ferite per una bomba scoppiata all’aeroporto. Un’altra bomba è scoppiata contro i dimostranti al vecchio aeroporto di Don Mueang, ferendo altre 2 persone. Altre 3 sono rimaste ferite per lo scoppio di due bombe sulla strada per Don Mueang. È probabile che il primo ministro Somchai, di ritorno dal Perù, dove ha partecipato a un incontro dei Paesi dell’aera Asia-Pacifico, cerchi di atterrare proprio a Don Mueang.
A causa dei voli bloccati, migliaia di passeggeri hanno dormito in aeroporto, sulle panchine o sui nastri trasportatori dei bagagli. L’aeroporto di Suvarnabhumi accoglie 125 mila passeggeri al giorno.
Gli organizzatori della protesta definiscono questa occupazioni come “la battaglia finale” per far cadere il governo, che d’altronde è stato eletto in modo democratico. Il governo finora non ha chiesto l’intervento dell’esercito, né dichiarato alcun stato di emergenza.
Cento anni fa nasceva Sofia Vanni Rovighi - La filosofia non deve preoccuparsi di essere originale - Il 25 novembre, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, si svolge la giornata di studio "La filosofia nella ricerca e nell'insegnamento di Sofia Vanni Rovighi" organizzata in occasione del centenario della nascita della studiosa. Pubblichiamo un estratto di una delle relazioni, di Michele Lenoci, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
Potrebbe apparire sorprendente che una studiosa, la quale ha rivolto agli autori medioevali un'attenzione privilegiata, trovando in essi risposte persuasive per i problemi fondamentali dell'esistenza umana, si sia poi impegnata, per tutto l'arco della sua esistenza, con interesse e simpatia, nei confronti di un pensiero come quello contemporaneo, almeno apparentemente così lontano, nell'impostazione e nelle soluzioni, dalla filosofia dell'età di mezzo. E, a differenza di molti studiosi di ispirazione cattolica, Sofia Vanni Rovighi non ha mai riservato alla filosofia contemporanea una considerazione esclusivamente critica e demolitrice, mirante a sottolinearne o l'apparente superficialità delle soluzioni rispetto alla profonda solidità delle indagini medioevali o la chiusura, spesso preconcetta e prevenuta, nei riguardi di ogni dimensione trascendente l'esperienza o la limitatezza dello sguardo di contro all'ampiezza della prospettiva classica: le demonizzazioni non appartenevano al suo stile, sempre critico e sorvegliato, così come non amava quelle considerazioni epocali o quegli anticipi di giudizio universale che, attraverso giustapposizioni ardite, o più spesso arbitrarie, e confusioni perniciose, pretendono di esprimere valutazioni obiettive e severe condanne, ma in effetti manifestano solo pregiudizi eguali e contrari a quelli propri delle concezioni così duramente criticate. Fedele allieva di Tommaso, la Vanni Rovighi amava distinguere e si è rivolta agli autori del suo tempo senza diffidenza e prevenzione, ma con uno spirito che ben viene chiarito in due notizie riguardanti la sua formazione e il suo percorso di ricerca, redatte a distanza di quasi trent'anni l'una dall'altra, rispettivamente nel 1951 e nel 1980. Nella prima scrive: "Formatasi allo studio della scolastica e della filosofia medioevale alla scuola di A. Masnovo, S. Vanni Rovighi si propose, in sede storica, di approfondire lo studio della filosofia medioevale, e in sede teoretica di esaminare se ed entro quali limiti le teorie fondamentali della filosofia tradizionale rispondano ai problemi posti dal pensiero moderno e contemporaneo". A questo scopo, iniziato tra il 1931 e il 1932 lo studio di Husserl, si reca a Friburgo nel 1932, dove nel semestre estivo segue le lezioni di Heidegger, mentre nel semestre estivo del 1938 ascolta alcune lezioni di Nicolai Hartmann a Berlino. Nel secondo documento afferma: "Ero persuasa che un modesto studioso di filosofia dovesse fare innanzi tutto un paziente lavoro storico, ma i miei interessi erano per la filosofia, e poiché (lo confesso come una mancanza) ero allergica all'attualismo gentiliano che dominava allora la cultura filosofica italiana, cercai di guardare fuori d'Italia". Dagli studi così intrapresi, in particolare dalla lettura delle Logiche Untersuchungen di Husserl, si conferma nella persuasione che "i problemi della scolastica non erano affatto morti ma rinascevano, sia pure sotto diversa forma e in altro contesto, nella storia della filosofia". Questi passi sono illuminanti per diversi aspetti: innanzi tutto, attestano che, anche qui sulle orme del suo Tommaso, la Vanni ritiene che Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum, e, quindi, si rivolge allo studio dei grandi maestri, anche contemporanei, per affrontare, prima o poi, alcune questioni filosofiche fondamentali, allo scopo di ricercare per esse risposte che, se certamente appaiono, e sono, sommesse, non per questo sono meno ferme e chiare. Inoltre, a differenza di altri studiosi formatisi all'Università Cattolica, come Gustavo Bontadini, non vede nella prospettiva neoidealistica di ispirazione gentiliana la via per condurre una ricerca filosofica che sia, insieme, rigorosa e adeguata alle effettive capacità dell'uomo, che rimangono pur sempre limitate e inficiate da molti condizionamenti. La Vanni, infatti, ritiene che la filosofia si costruisca procedendo dal basso, von unten, e, per questo motivo, non ama i sistemi che, muovendo dall'alto, von oben, pretendono di ingabbiare in uno schema, spesso artificioso e quindi coartante, la molteplicità differenziata del reale. Volendo presentare i temi che, in modo particolare, nella filosofia contemporanea, hanno interessato la Vanni Rovighi, possiamo indicare tre grandi aree: la teoria della conoscenza, la concezione dell'uomo e una concezione della filosofia mirante a chiarificare termini e concetti, allo scopo di rendere ogni discorso significante quanto più possibile chiaro e univoco. Le correnti più familiari sono la fenomenologia, soprattutto di Husserl, ma anche di molti dei suoi altri esponenti, come Scheler, Edith Stein, Hartmann, e nelle sue origini brentaniane; l'esistenzialismo di Heidegger e Sartre; il neopositivismo e la filosofia analitica. Si tratta di indirizzi assai diversi e, per certi aspetti, addirittura opposti, eppure coerenti con l'iniziale interesse rivolto, fin dagli anni giovanili, alla filosofia della scienza e all'ontologia. E per meglio comprendere questi autori, che già al loro primo comparire si impongono subito all'attenzione come particolarmente acuti e profondi, la Vanni approfondisce pure il contesto in cui essi si sono formati e dedica tempo e attenzione anche a quelle figure che uno sguardo superficiale può considerare minori o meno rilevanti, come Wundt, Lipps, Schuppe, Külpe, e poi Holt, il neorealismo americano, e così via. E, in Italia, valorizza e apprezza filosofi come Juvalta e Felice Balbo che possono apparire del tutto marginali. La ricerca dell'immediato non è, per la Vanni Rovighi, un compito banale e ripetitivo, poco consono alle profondità speculative che, secondo taluni, dovrebbero caratterizzare l'indagine filosofica; anzi, essa costituisce piuttosto la necessaria premessa che consente alle argomentazioni successive di non essere fondate sulla sabbia dei luoghi comuni e delle mode transeunti. "La filosofia non è altro, in fondo, che il mettere in chiaro certe verità primitive, direi, che tutti ammettono, ma che non hanno consapevolezza di ammettere". Si è detto che di Husserl la Vanni apprezza l'atteggiamento filosofico, con cui affronta le questioni in modo estremamente minuzioso, esaminando e discutendo le teorie contrastanti e le obiezioni possibili, allo scopo di arrivare alle "cose stesse", così come si offrono all'evidenza immediata. E qui facilmente viene riconosciuta un'affinità, che già Brentano, maestro di Husserl, aveva rilevata, con l'approccio tipico di Aristotele e di molte dispute e quaestiones medioevali. Ma allo scopo di una progressiva chiarificazione linguistica e concettuale la Vanni ritiene che un contributo sostanziale sia stato offerto dal neopositivismo e dalla filosofia analitica, nonostante molti loro eccessi e unilateralità di impostazione. Per costoro la filosofia non si chiede che cosa sia il reale, quale sia il fondo dell'essere, ma piuttosto che cosa si intenda propriamente dire con certe espressioni e, così facendo, si è spesso aiutati a scoprire pseudoproblemi che talora si sono insinuati in riflessioni filosofiche, alle quali la profondità viene accreditata solo in virtù della loro oscurità. I risultati conseguiti dai filosofi analitici nell'esame del linguaggio religioso e del linguaggio morale mostrano, secondo la Vanni, come una corretta adesione al dato consenta spesso di pervenire a conclusioni accettabili anche da parte di chi condivide un'altra prospettiva metafisica o etica. Parimenti, dalle riflessioni dedicate al principio di verificazione risulta qualcosa di inconfutabile, "perché una proposizione non ha significato se non hanno significato i termini dei quali è composta; ora un termine acquista significato o quando è definito o quando si mostra qualcosa a cui si applica quel termine". Poiché la definizione di un termine è la riconduzione a termini già noti, alla fine bisogna pervenire a qualcosa di dato, di presente o di sperimentato. D'altro lato, se il neopositivista fosse coerente, dovrebbe, secondo la Vanni Rovighi, delineare una teoria della conoscenza per determinare che cosa si intende per "dato", "verifica", "esperienza", cosa che invece non fa, limitandosi a una pregiudiziale avversione nei confronti di ogni discorso che, anche solo lontanamente, appaia metafisico. D'altronde, proprio a questo proposito la Vanni Rovighi sviluppa una riflessione che le era molto cara: "Le critiche neopositivistiche e analitiche ci rendono il prezioso servizio di richiamarci alla coscienza dei nostri limiti, di invitarci a riflettere sulle considerazioni razionali per avviare alla conoscenza di Dio, e a renderle sempre più criticamente fondate. Ma ci invitano anche a un'altra riflessione. È curioso vedere come questa critica neopositivistica, che dovrebbe essere la più flemmatica, per così dire, sia invece spesso così fortemente animata da toni emotivi. (...) Perché loro sono così aggressivi quando si tratta di Dio? (...) Vorrei riflettere sull'aspetto di difesa che può avere quella aggressività. Se l'affermazione dell'esistenza di Dio non ha, per neopositivisti e analisti, significato teoretico, essa ha un significato pratico: significa ai loro occhi una volontà di potenza, la volontà di imporre il proprio credo con la forza. E possiamo dire che i credenti siano stati e siano sempre immuni da volontà di potenza? Da un punto di vista pratico credo dunque che dalle critiche neopositivistiche dobbiamo imparare a non cercar di imporre la nostra fede in Dio con la forza, o la suggestione, o la retorica, ma piuttosto a testimoniarla". La Vanni Rovighi è riuscita a trarre illuminanti interpretazioni dai pensatori contemporanei, facendoli meglio comprendere e valorizzandone l'apporto teoretico, grazie a una lettura sempre rigorosa, che li ha accostati direttamente nelle loro opere, collocandoli minuziosamente nel loro contesto storico, in modo che le loro proposte diventassero il più possibile perspicue e, quindi, comprensibili: giacché, per la Vanni, la chiarezza non è, come forse taluni ritengono, l'elegante succedaneo della mancanza di originalità, ma testimonia l'onestà professionale e umana di chi, pur sapendo che il mistero ci avvolge e ci abbraccia, sa anche che l'attività razionale deve esplicitare l'implicito, eliminare gli equivoci e ridurre le ambiguità, giacché la filosofia è ricerca appassionata della verità, più che preoccupazione dell'originalità; non è tanto la creazione geniale di un singolo pensatore, quanto un'opera collettiva alla quale il singolo pensatore deve portare il suo modesto, ma indispensabile contributo.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
A cosa serve la letteratura - Un laboratorio fotografico per vedere meglio la vita - Anticipiamo una sintesi della lezione che si terrà il 26 novembre presso la Pontificia Università Lateranense nell'ambito del corso "La bellezza della fede" organizzato dall'Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma, di Antonio Spadaro, L’Osservatore Romano, 26 Novembre 2008
A che cosa "serve" la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi... a che serve? A che "mi" serve? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: "La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l'amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi". Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell'"interiorità" autoreferenziale. L'aveva intuito anche Clemente Rebora, poeta convertito e poi sacerdote e religioso: "Lungi da me la scappatoia dell'arte / per fuggir la stretta via che salva!". L'arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell'infinita vanità del tutto. Che farsene, dunque, di parole "scarse, e forse senza sole", come le definiva Sandro Penna, o di "qualche storta sillaba e secca come un ramo" (Eugenio Montale)? "Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo" aveva scritto il poeta e narratore statunitense Raymond Carver. La letteratura "serve" solo se ha a che fare, in un modo o nell'altro, con ciò che vogliamo veramente dalla vita, se entra in un rapporto forte e reale con la nostra esistenza concreta, le sue tensioni essenziali, i suoi desideri e i suoi significati. L'uomo fa sempre l'esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell'orizzonte delle cose manipolabili. Ecco allora emergere il significato dell'opera letteraria. Essa è "una sorta di strumento ottico", che consente al lettore di "sviluppare" ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. È questa, ad esempio, la convinzione radicale dello scrittore francese Marcel Proust. Il ruolo della lettura letteraria è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così essa diviene ingombra di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l'intelligenza non le ha "sviluppate". La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a che cosa "serve" la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato e a comprenderlo. Serve dunque, in poche parole, a fare veramente ed efficacemente esperienza della vita. Un'altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella "digestiva". Il suo modello è la ruminatio della mucca, come affermavano il monaco Guillaume de Saint-Thierry e il gesuita Jean-Joseph Surin. Quest'ultimo a sua volta parla di "stomaco dell'anima". Michel De Certeau, gesuita anch'egli, ha addirittura indicato una vera e propria "fisiologia della lettura digestiva". Si può pure dire che la lettura sia uno "stomaco per digerire la realtà" (Pier Vittorio Tondelli). La letteratura è quel linguaggio capace di "trasformare in sé" il mondo e le esperienze: si tratta di una forma di assimilazione. Ecco: la letteratura serve a dire la nostra presenza nel mondo, a "digerirla" e assimilarla, a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto. Serve dunque a interpretarla, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Scrivere poesie, romanzi, racconti, persino fiabe è in se stesso un atto di decifrazione del mondo in cui si vive. Chi legge viene in contatto con questo lavoro di decifrazione, ed è egli stesso coinvolto in questo compito. Viene come "contagiato" a vivere lo stesso processo, sollecitato a guardare la realtà, anche quella personale, con occhi più acuti alla ricerca di simboli, valori, significati. E questo si può certamente definire un lavoro di discernimento culturale. Possiamo definire il discernimento culturale come la capacità critica di leggere la realtà (personale e sociale) e la cultura che essa incarna, cogliendo atteggiamenti profondi, significati, tensioni fondamentali. Per usare l'immagine di Marcel Proust già prima illustrata, il discernimento è la camera oscura che permette di sviluppare le lastre fotografiche che altrimenti rimarrebbero nere: è la vita che prende coscienza di se stessa, di ciò che è e del suo mistero. Insomma è vero ciò che ha scritto René Latourelle alla voce Letteratura del suo Dizionario di Teologia Fondamentale: "La letteratura scaturisce dalla persona in ciò che questa ha di più irriducibile, nel suo mistero. È la vita che prende coscienza di se stessa quando raggiunge la pienezza di espressione, facendo appello a tutte le risorse del linguaggio". Quando questo discernimento è operato alla luce del Vangelo, allora si può parlare distintamente di un discernimento culturale evangelico. Esso cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme "già" piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. Nel discernimento culturale cristiano non si tratta mai di scegliere o Dio o il mondo, ma piuttosto di cercare e riconoscere Dio nel mondo, che lavora per portarlo al compimento. Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti aveva scritto che la poesia "scopre gli abissi che abitano l'uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli". A questi abissi la letteratura è dunque "via di accesso": la letteratura e le arti "cercano di esprimere l'indole propria dell'uomo" e "di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità" (Gaudium et spes, 62). La letteratura, infatti, prende spunto dalla quotidianità della vita, dalle sue passioni e dalle sue vicende reali, l'azione, il lavoro, l'amore, la morte e tutte le povere cose che riempiono la vita, anche dall'incredulità scettica. Tutta la letteratura degna di questo nome, per la sua propria indole, non spiega ma "dispiega" la vita, acuisce la percezione, scopre abissi, rivela dinamiche interiori e profonde. È, in un certo senso, un concentrato di vita. Persino quando un poeta vuol dire che l'uomo è un assurdo, se il suo modo di porre la questione è radicale, può servire a scuotere le coscienze e interrogarle sul significato del vivere. Così la lettura di certa letteratura dell'assurdo può trasformarsi in un pungolo in grado di scuotere il lettore che non si pone domande, che non ascolta e non fa silenzio, che non percepisce la sua radicale condizione di essere bisognoso di salvezza, perché si considera già sazio e soddisfatto. Si possono leggere, ad esempio, queste righe dello scrittore svedese Stig Dagerman: "Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa". Queste parole, sebbene possano apparire come la mera negazione di una fede vissuta, sanno parlare molto bene dell'uomo, essere incompiuto in attesa di una consolazione che egli non può darsi da se stesso. Persino la letteratura dell'assurdo può lavorare spiritualmente sul lettore, scuotendolo dalle sue false certezze e apparenze. È la stessa dinamica che può innescarsi leggendo, ad esempio, una celebre poesia di un altro celebre svedese, il poeta Pär Lagerkvist: "Uno sconosciuto è il mio amico, / uno che io non conosco. / Uno sconosciuto lontano lontano. / Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia. / Perché egli non è presso di me. / Perché egli forse non esiste affatto? / Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? / Che colmi tutta la terra della tua assenza?". Qui il senso di nostalgia e di assenza tende a trasformarsi nel calco vuoto di una presenza misteriosa che si desidera in modo inquieto e struggente. A questo punto però cambiano i parametri valutativi della "religiosità" di un'opera letteraria. Non sono i contenuti religiosi che la rendono tale. L'opera è religiosa se essa "stimola" nel lettore l'esperienza religiosa della trascendenza e della salvezza o il suo desiderio. Quando si legge, il campo della nostra esperienza si amplia perché "viviamo" cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell'uomo e anche la capacità di discernere le emozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere. Aumenta la capacità di cercare e trovare Dio in tutte le cose, persino nel "territorio del diavolo", come scriveva Flannery O'Connor. Anzi - è sempre la O'Connor a scrivere - "spesso la natura della grazia si può spiegare solo descrivendone l'assenza".
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
Nel dialogo fra scienza e teologia - La verità non richiede salti di frontiera - "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei. Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea" è il titolo del convegno - organizzato dalla Finmeccanica in occasione del 60 ° anniversario della sua fondazione - che si svolgerà mercoledì 26 novembre presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Anticipiamo l'intervento del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di Gianfranco Ravasi, L’Osservatore Romano, 26 novembre 2008
Tanti sono i sentieri che intercorrono tra le due cittadelle, non opposte ma distinte, della scienza e della teologia. Ne vogliamo ora imboccare uno solo che ruota attorno a una questione imponente a livello ideale e pratico, quella del rapporto con la verità. Il filosofo greco Protagora (v secolo prima dell'era cristiana) aveva proclamato la convinzione che "l'uomo è la misura di tutte le cose", in pratica è al tempo stesso il giocatore e l'arbitro nella partita della vita: non c'è una verità assoluta che ci precede, ma è il singolo o il gruppo a determinarla nelle situazioni concrete e mutevoli e secondo gli interessi o i vantaggi contingenti. È quello che potremmo classificare come "soggettivismo" o, per usare un termine caro a Papa Benedetto XVI, come "relativismo". L'impostazione classica del rapporto con la verità è, però, stata molto differente. La potremmo formulare con un aforisma dei Minima moralia (1951) di Theodor Adorno: "La verità non la si ha, ma vi si è, come per la felicità". Già nell'Uomo senza qualità (1930-43) Robert Musil affermava: "La verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, bensì un mare sconfinato in cui ci si immerge". Il vero è visto, dunque, come un primum assoluto che ci precede e verso il quale la ricerca dell'uomo tende. La ragione ha intrinsecamente bisogno di questo nutrimento per il suo stesso esercizio, come in modo altamente simbolico ricordava il Fedro platonico: "Il motivo per cui le anime mettono tanto impegno per poter vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo" (248 b-c). Nella concezione filosofica greca, infatti, come l'eunomía, cioè la legge buona e giusta, è la stella polare che incarna il riferimento capitale della giustizia "oggettiva" in sé stante, fonte della norma etica, così l'alètheia antecede come meta di orientamento l'attività dell'intelletto, rendendo la filosofia nella sua intima essenza ricerca e servizio della verità che la trascende e ne costituisce l'oggetto. Potremmo, perciò, affermare che nella concezione classica l'amore per la verità è il paradigma stesso della ricerca filosofica ed è quindi anche il metro della stessa scientificità. La nuda veritas - per usare la famosa espressione delle Odi di Orazio (i, 24, 7) - è l'unica autorità che va rispettata e accolta.
Questa interpretazione ha retto per secoli non solo il pensiero cristiano ma anche l'investigazione di ogni disciplina, sulla scia del famoso appello agostiniano: Intellectum valde ama (Epistulae, 120, 3, 13), ama molto l'intelligenza la cui missione radicale è appunto quella di conoscere la verità. E "la ricerca della verità - come ricordava Giovanni Paolo II nel suo discorso per il centenario della nascita di Einstein (1979) - è il compito fondamentale della scienza" stessa, proprio perché, continuava il Papa nell'enciclica Fides et ratio (n. 25), riprendendo il celebre passo d'apertura della Metafisica di Aristotele, "tutti gli uomini desiderano sapere e oggetto proprio di questo desiderio è la verità". La modernità, però, ha impresso a questa concezione una netta torsione proponendo una visione quasi totalmente alternativa. Il percorso ha avuto i suoi prodromi ideali con Thomas Hobbes allorché nel suo Leviatano (c. xXVI) aveva formulato uno dei principi decisivi del positivismo legislativo: auctoritas non veritas facit legem. Per quanto riguardava il diritto, quindi, alla verità intrinseca dell'eunomía si opponeva l'autorità civile o religiosa che poteva sancire norme e progetti prescindendo dalla verità superiore. In sintesi, secondo il filosofo inglese del Seicento, "la pretesa di possedere la verità e il diritto di imporla, deve essere esclusa dalla politica e lo stabilire leggi e regole che governano i comportamenti, dovrebbe essere riservato non a coloro che conoscono la "verità", soggetta alle interpretazioni individuali o collettive, ma all'autorità indipendente e incontestabile" (così Davis Gress nel saggio Peace and Survival del 1985). Questa prospettiva si è allargata progressivamente alla stessa filosofia e alla scienza ed è dilagata ai nostri giorni, mettendo profondamente in crisi la funzione della verità. Anzi, si è divenuti sempre più convinti che la verità non solo non va ricercata né obbedita ma che deve essere accantonata e relegata ai margini di una corretta epistemologia. Illuminante è l'asserto che Patricia Smith Churchland in un articolo apparso nel 1987 sul The Journal of Philosophy ha imposto alla sua concezione della scientificità: Truth, whatever that is, definitely takes the hindmost, la verità, qualunque essa sia, deve occupare chiaramente non più il primo posto di riferimento, ma dev'essere relegata nelle retrovie, come retroguardia e zavorra del pensiero. Non è mancato il passo successivo di chi ha esorcizzato il concetto stesso di verità ritenendolo persino nocivo. Sappiamo che il famoso detto di Cristo "La verità vi farà liberi" (Giovanni, 8, 32) ha di per sé come soggetto una particolare accezione di "verità", cioè la rivelazione divina offerta dal Figlio; tuttavia la frase è stata assunta nella storia della tradizione come un'esaltazione della funzione liberatoria e liberatrice della verità. Ebbene, ammiccando proprio alla frase giovannea, Sandra Harding in un suo scritto del 1991 (Whose Science? Whose Knowledge? Thinking from Women's Lives) giunge invece alla sua negazione assoluta, dichiarando che "la verità, qualunque essa sia, non ci farà liberi". Ma è noto che già Michel Foucault a più riprese nei suoi scritti aveva percepito la verità come un grave pericolo dell'intelletto e non certo come una dotazione positiva, incline com'è a essere esclusiva, impositiva, schiavizzante. È in questo particolare e inedito contesto che si colloca non solo l'affermazione di Benedetto XVI secondo cui "l'èthos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità", ma anche l'intera impostazione del suo discorso di Ratisbona, così come non pochi spunti del discorso del 17 gennaio 2008 per l'università "La Sapienza" di Roma. La sua è la proposta di restituire alla verità la propria missione intrinseca, formativa e normativa, il suo primato che non è di dominio ma di liberazione, la sua presenza che non è tirannica ma illuminante. Naturalmente questo è possibile solo con un'inversione di tendenza, come già era suggerito da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio (n. 83): "È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante". E già nel 1984, in occasione della consegna del "Premio Internazionale Paolo VI" a Hans Urs von Balthasar, lo stesso Pontefice aveva ribadito che "amare la verità vuol dire non servirsene, ma servirla; cercarla per se stessa, non piegarla alle proprie utilità e convenienze". Ovviamente questo atteggiamento è indispensabile alla teologia, ma deve ritornare a insediarsi anche nella scienza, superando quella concezione riduttiva secondo la quale essa tende a comprimersi nel perimetro della tecnica, amputando qualsiasi domanda ultima, evitando gli orizzonti teorici fondanti, accontentandosi della mera applicabilità o delle ridondanze esclusivamente etico-sociali. È, al riguardo, significativo quanto già lo stesso Giovanni Paolo II aveva indicato nel discorso tenuto a scienziati e studenti nella cattedrale di Colonia nel 1980 in un passo che ben rifletteva e registrava l'attuale temperie scientifica. "Se la scienza è intesa essenzialmente come "un fatto tecnico", allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico. Come "conoscenza" ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l'oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto". Benedetto XVI procede ulteriormente ricordando che il concetto stesso di verità deve essere assunto nella sua massima espansione, superando "la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento" e dischiudendosi alla verità tutta intera: "In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze". Una visione più piena che non impone salti di frontiera, confondendo i modi specifici e gli statuti propri di ogni disciplina ma ne costituisce il dialogo fecondo e gli incroci positivi, essendo tutte le autentiche ricerche in cammino verso la verità che rende autenticamente liberi.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2008)
COLLETTA/ Quel filo rosso che lega Thais, Vanina e Martha - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Per la prima volta ho aiutato qualcuno, io che sono stato sempre abituato ad essere aiutato», questo pensiero di uno studente indios brasiliano esprime non solo il sentimento dei suoi compagni, ma quello di gran parte di coloro che, lo scorso 8 novembre, hanno partecipato alla giornata della Colletta Alimentare tenutasi in tre grandi paesi del sud America; Brasile, Paraguay e Argentina. Un evento che in pochi anni ha preso piede sulla scia dell'esperienza nata negli Stati Uniti e poi diffusasi in molti paesi europei, ma che continua a ingrandirsi come numero di volontari e come quantità di cibo raccolto per i più bisognosi.
Per chi ancora non lo conoscesse il Banco Alimentare è un'iniziativa sorta a Phoenix sul finire degli anni '60 che consiste nella raccolta e ridistribuzione di eccedenze alimentari con le prime Food Banks. Nel 1989 anche in Italia nacque la Fondazione Banco Alimentare, grazie all'intraprendenza dell'imprenditore Danilo Fossati, presidente della Star, e di monsignor Luigi Giussani. La Colletta Alimentare è un'iniziativa che si tiene una volta l'anno. È legata al Banco e consiste nel coinvolgere i cittadini chiedendo loro di aggiungere alla propria spesa, effettuata in supermercati convenzionati, prodotti alimentari da consegnare a volontari che a loro volta destinano ai meno fortunati.
Oggi nel nostro Paese sono 19 le associazioni e fondazioni del Banco Alimentare. Una crescita incessante che, come abbiamo detto, si sta sviluppando anche nella realtà sudamericana.
Brasile
«La Colletta nasce dalla nostra amicizia con i responsabili del Banco Alimentare in Italia. Cominciammo nel 2006, coinvolgendo la sola città di San Paolo. La prima edizione fece raccogliere più di 12 tonnellate di alimenti grazie al lavoro di 800 volontari». A raccontare quanto è successo in Brasile è Thais Cavalcanti, responsabile della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare del Paese. «Qui in Brasile non abbiamo un vero e proprio Banco Alimentare, facciamo soltanto la colletta. Il motivo risiede nel fatto che dal 2002, quando Lula è diventato Presidente, iniziative simili si sono moltiplicate a livello statale. In poche parole il capo del governo ha “rubato” l'idea politicizzandola e coinvolgendo province, prefetture e comuni. Abbiamo dunque un numero elevato di “banchi”. Ora come ora stiamo pensando seriamente se crearne uno privato di nostra gestione o piuttosto se realizzare una rete di contatti fra questi vari istituti». Ma la critica al governo di Thais non finisce qui. Infatti, racconta, l'attuazione di una politica che, anziché incentivare l'iniziativa dei privati, cerca di rispondere in prima persona ai bisogni della popolazione, favorisce una cultura statalista dagli esiti negativi.
Tornando a parlare dei risultati della Colletta, il tono si rasserena: «assistiamo a una crescita enorme. Basti pensare che nel 2007 le città coinvolte erano già 10 e che quest'anno sono salite a 17, per un totale di 58,1 tonnellate raccolte. La cosa più bella è che sono città di quasi tutte le regioni del Paese. Il tutto è stato possibilegrazie all'aiuto di circa 4.100 volontari». Non è poco in effetti. Anche se non sembrano mancare i problemi. «Soprattutto abbiamo problemi nella logistica. Il Brasile è un paese enorme, con infrastrutture ancora insufficienti. Per consegnare i pacchi da San Paolo a Manaus ci abbiamo impiegato circa 15 giorni».
Ma l'esperienza della colletta, dice Thais, è stata anche piena di eventi indimenticabili. In primo luogo il coinvolgimento di studenti indios di zootecnia. I quali, a quanto pare, hanno partecipato con grande entusiasmo. «Oggi ho ricevuto una lettera dalla scuola agricola che c'è nei pressi di Manaus. Gli studenti sono stati contentissimi di partecipare all'iniziativa, di aiutare qualcuno. Il loro popolo, infatti, è quasi sempre stato oggetto di aiuti da parte del governo e raramente ha preso parte a iniziative umanitarie. Lo stesso entusiasmo l'ho riscontrato fra gli studenti universitari di San Paolo. Uno di loro mi ha detto di essere felice di poter essere testimone di un segno di speranza nel mondo, dopo aver trascorso la propria esistenza fra immagini di diffusa indifferenza».
Argentina
Vanina Ubino è direttrice della Federazione Argentina del Banco Alimentare, oltre a esserne coordinatrice della rete nazionale. Anche lei parla di un'eccezionale crescita. Qui i Banchi Alimentari ci sono eccome. A partire dal 2000 sono 12 le sedi nazionali. Lo scorso 8 novembre la Colletta ha raccolto ben 71 tonnellate di generi alimentari, il doppio della precedente edizione. «È una realtà molto più piccola di quella italiana» commenta Vanina «ma la crescita è davvero impressionante, considerando che i dati sono aumentati del 100% in un solo anno». In effetti il lavoro è stato svolto alla perfezione considerando il fatto che hanno partecipato alla raccolta 18 città, 175 succursali e 18 catene di supermercati. La parte più difficile sembra essere stata quella del reclutamento dei volontari, 2.700. «Abbiamo aumentato la quantità rispetto allo scorso anno, ma stiamo comunque lavorando per averne di più». Parlando del governo la preoccupazione più grande di Vanina è quella di non ricalcare o sovrapporsi al lavoro dello Stato, il quale è molto impegnato nella lotta alla fame. «Questa colletta ha ricevuto un grande aiuto dalle aziende private nazionali e non. È poi accaduta una cosa straordinaria: due catene di supermercati (la Carrefour e una a gestione nazionale) si sono dichiarate entusiaste del lavoro del Banco Alimentare e hanno proposto di offrirci il proprio aiuto. In poche parole hanno “raddoppiato” la spesa effettuata dai privati cittadini offrendo gratuitamente un doppione del prodotto acquistato per essere donato al Banco».
Paraguay
«La Colletta Alimentare in Paraguay c'è dal 2005. Il tutto è nato dall'arrivo dei responsabili del Banco Alimentare italiani. Alcuni amici ed io abbiamo deciso di praticare questa iniziativa anche nel nostro Paese, l'abbiamo affrontata come una vera e propria sfida». A parlare è Martha Pena, fondatrice ed ex presidente (attualmente tesoriera) della Fondazione Banco Alimentare Paraguay. «Quest'anno direi che è andata piuttosto bene, considerando che siamo riusciti a raccogliere 46,6 tonnellate di alimenti, rispetto alle 44,18 della precedente edizione». Le città coinvolte in questa nazione sono otto. La cosa sorprendente è il reclutamento volontari. La giornata della colletta è infatti occasione di “alleanza” fra alcuni movimenti cattolici paraguayani, gli scout e la croce rossa. Il tutto per un totale di 1.200 persone.
A questi si sono aggiunti altri 200. E qui sta il fatto curioso, dal momento che sono tutti dipendenti di una banca nazionale, la Vision. «Con loro» spiega Martha «è nata un'amicizia fortissima. Hanno capito il senso profondo del gesto racchiuso nella raccolta. L'intera banca ha preso a cuore la nostra iniziativa».
I supermercati convenzionati sono 70. In Paraguay esiste una “camera” dei supermercati, che riunisce quasi tutti gli esercizi del Paese. «Il rapporto con la camera sta divenendo sempre più costruttivo». «E con il governo?» le chiediamo. «Qui esiste una “segreteria di Azione Sociale, il cui scopo principale non riguarda però l'alimentazione, ma punta fondamentalmente su educazione e prima abitazione per i meno abbienti. Agisce in questo senso soltanto in casi di emergenza e, quando se ne sono verificati, abbiamo sempre offerto il nostro contributo. Da qualche tempo però il rapporto con la segreteria si sta corroborando. Occorre capire che il Paraguay è davvero carente dal punto di vista dell'assistenza sociale. I poveri, l'educazione ai bambini e la cura degli anziani sarebbero davvero delle questioni drammatiche per la nazione, se non ci pensasse, come invece fortunatamente ci pensa, la Chiesa Cattolica».
Il non profit esce dalla “precarietà” - Maurizio Lupi - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
L’istituto del 5x1000 viene introdotto con la finanziaria del 2006 e riproposto nelle finanziarie successive. In pochi anni ha conquistato una popolarità inimmaginabile e questo grazie al fatto che rappresenta forse il più concreto strumento di applicazione del principio di sussidiarietà, principale esempio di libertà di scelta. Gli ingredienti che compongono il 5x1000 sono tutti “genuini” e di “prima scelta” ed è per questo che il risultato non è in discussione. Anzitutto il riconoscimento che il settore cosiddetto non profit è realmente caratterizzato da una “utilità pubblica”, dal fatto di adoperarsi per il perseguimento di un interesse generale. Ciascun cittadino italiano è perfettamente in grado di riconoscerlo, di giudicarlo e di premiarlo. Del resto lo fa quotidianamente, sostenendo con la propria attività o con il proprio contributo (in denaro o in prestazione di servizio volontario) le numerosissime realtà di terzo settore diffuse su tutto il territorio nazionale.
I dati sono ormai noti e non è questa la sede per ricordarli. Basti però pensare che, già dal primo anno di applicazione, circa il 60% dei contribuenti hanno voluto esprimere la propria scelta.
L’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà ha fatto sin dal primo momento del 5x1000 la propria bandiera, ritenendolo paradigmatico di una modalità di applicazione della sussidiarietà. Ora ciò che da tempo viene segnalato dall’Intergruppo come urgenza vede la luce con la presentazione di un provvedimento normativo che nei prossimi giorni sarà depositato presso la Camera dei Deputati. La raccolta di adesioni sarà estesa a tutti gli aderenti dell’Intergruppo (circa 320 tra Camera e Senato). Obiettivo del provvedimento: la stabilizzazione del 5x1000.
Ma verranno introdotte anche delle novità. Ai benefici del 5x1000 potranno concorrere gli enti non profit (Onlus, comprese quelle di diritto e quelle parziali; associazioni di promozione sociale iscritte agli albi nazionale e regionali di cui alla legge 383/00; associazioni e fondazioni riconosciute che operano nei settori di cui all’articolo 10, comma 1, lettera a) del DLgs 460/97; associazioni sportive dilettantistiche riconosciute dal Coni), gli enti di ricerca scientifica e università, gli enti di ricerca sanitaria.
Quanto poi alle modalità di accesso al beneficio per enti non profit, queste le caratteristiche:
- tutti gli enti interessati (comprese le associazioni sportive dilettantistiche per le quali attualmente vige l’iscrizione automatica da parte del Coni) devono presentare istanza di iscrizione all’elenco;
- l’iscrizione avviene in via telematica;
- la domanda in fase di prima iscrizione dovrà contenere tutti i dati relativi all’ente; per le iscrizioni successive dovrà esclusivamente essere confermata la volontà di iscrizione nell’elenco;
- le domande dovranno pervenire entro il 20 febbraio di ogni anno; l’Agenzia delle Entrate entro il 25 febbraio dovrà pubblicare l’elenco; gli errori di iscrizione saranno sanabili entro il 2 marzo; entro il 10 marzo di ogni anno l’elenco sarà pubblicato in forma definitiva;
- entro il 30 giugno del solo primo anno i legali rappresentanti dovranno presentare l’autocertificazione del possesso dei requisiti;
- per quanto riguarda gli altri elenchi (ricerca scientifica, università, ricerca sanitaria) non sarà consentita la presenza di un medesimo nominativo in più elenchi (es. ente di ricerca scientifica iscritto anche tra gli enti non profit)
Per quanto riguarda poi il riparto del 5x1000, rimane valido il sistema già adottato anche se vengono introdotti tempi certi per i versamenti che avvengano entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui è avvenuta la destinazione (in caso di ritardo verranno applicati gli interessi legali)
Inoltre, al solo fine di fornire alle persone fisiche che effettuano la scelta di destinazione del 5x1000 strumenti di trasparenza, gli enti destinatari di un importo di cinque per mille superiore a 50.000 euro sono tenuti alla pubblicazione del proprio bilancio/rendiconto relativo all’esercizio in cui hanno introitato le somme.
In conclusione, si prevede la riammissione per i soggetti esclusi dalla ripartizione del 5x1000 per gli esercizi antecedenti quello di entrata in vigore della presente norma a causa di errori formali (quali: mancata o tardiva presentazione dell’autocertificazione, certificazione presentata su modelli non conformi, carta di identità del legale rappresentante omessa o scaduta).
La stabilizzazione del 5x1000 dunque si candida ad essere uno dei provvedimenti più importanti della legislatura, perché il sostegno al non profit esce finalmente dalla “precarietà” nella quale è stato relegato fino ad ora. Per sostenerlo non è quindi necessario ricorrere a fantasiosi quanto artificiali strumenti di distribuzione delle risorse, ma è sufficiente dare la possibilità a ciascun contribuente di indicare chi ritiene debba essere premiato.
COLLETTA/ Dal Brasile l’esperienza del CREN: quando il problema alimentare genera un’opera educativa - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Proprio a novembre di quest’anno compie quindici anni l’esperienza straordinaria del CREN, Centro di Recupero e Educazione Nutrizionale, attivo nella città di San Paolo del Brasile. Un ente nato grazie al contributo del Ministero degli Esteri italiano e delle Tende AVSI, che si occupa della cura di molti bambini che vivono ai margini della grande metropoli brasiliana, cercando di risolvere i loro problemi nutrizionali grazie a un approccio eminentemente educativo. Un’opera il cui grande valore è stato riconosciuto a livello nazionale e internazionale: l’UNICEF ha riconosciuto il CREN come riferimento nazionale in Brasile per la cura della denutrizione infantile, e il presidente brasiliano Lula ha consegnato a quest’opera lo scorso 29 ottobre il premio ODB Brasile, per il contributo al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Gisela Solymos è direttrice del CREN, e a lei ilsussidiario.net ha chiesto di raccontare le caratteristiche salienti della loro opera.
Gisela, ci può spiegare innanzitutto qual è il contesto in cui vi trovate a lavorare, e quali sono le condizioni delle persone che assistete?
Bisogna innanzitutto sapere che il Brasile è un paese molto ricco ma che ha ancora al proprio interno tante disuguaglianze e tante ingiustizie: moltissime persone vivono in una situazione di estrema povertà. San Paolo, ad esempio, è la città più ricca del Brasile, con quasi 11 milioni di abitanti; di questi, però, 2 milioni vivono in favelas, ossia, come tutti sanno, in condizioni di vita veramente precarie. Perciò è molto elevato il numero di bambini denutriti o malnutriti, che hanno una cattiva alimentazione e che sono esposti a condizioni igieniche molto precarie: non hanno i servizi minimi, come fognature, raccolta dei rifiuti, acqua potabile etc. Perciò si ammalano facilmente, non riescono a mangiare in maniera corretta e non riescono a crescere come dovrebbero. Questo situazione genera conseguenze che segnano l’intera vita di questi bambini, sia per il fatto che hanno meno energia degli altri e perdono l’opportunità di imparare, sia per il fatto che quando diventeranno grandi avranno malattie che, paradossalmente, riguardano l’obesità, e i problemi annessi, come cardiopatie, diabete, ipertensione.
Il problema che vi trovate ad affrontare è dunque molto più complesso rispetto al semplice dar da mangiare.
Noi partiamo dalla constatazione che un bambino denutrito appartiene spesso a una famiglia ad alto rischio sociale, con problemi molto più gravi rispetto alle altre famiglie. Perciò, per curare veramente la malnutrizione, dobbiamo fare un lavoro sia col bambino, dandogli da mangiare, sia con la famiglia, che deve essere aiutata a riscoprire la dignità umana. Questo anche a livello civile, aiutandoli ad avere documenti, ad avere un lavoro, a imparare a mangiare usando bene dei pochi soldi che hanno. C’è tutto un lavoro educativo, nutrizionale e medico da fare con queste famiglie.
In che senso fate un lavoro educativo?
Facciamo un esempio molto concreto che riguarda proprio i bambini: ce ne sono alcuni cui non basta mettere davanti un piatto, perché semplicemente non mangiano, si rifiutano. Allora cerchiamo di fare dei giochi per far capire loro l’importanza del cibo, per far conoscere i vari tipi di alimenti, e quindi far venir voglia di scoprire e quasi di affezionarsi al cibo. In secondo luogo, poi, l’aspetto educativo riguarda moltissimo anche il rapporto con le famiglie: e la prima educazione è quella di far percepire loro che hanno in se stessi una dignità, che sono degli esseri umani. Loro infatti arrivano da noi ed è come se non si rendessero conto nemmeno di avere dei diritti. Per esempio: quello di iscrivere i loro figli a scuola è un diritto; ma basta che vadano dalla direttrice e che questa dica qualcosa che a loro non piace, e subito tolgono il bambino dalla scuola. Come se non fosse un loro diritto quello di avere certe cose dalla società. La prima cosa dunque è mettersi in rapporto con loro in modo che possano fare un’esperienza vera di compagnia e di umanità. Scoprirsi uomini e donne: a partire da questo poi tutte le altre cose si sistemano.
Come si svolge in concreto l’attività del CREN?
Il Cren è nato quindici anni fa, e si occupa da sempre dei diversi livelli di problemi di nutrizione dei bambini. C’è il livello più grave, in cui i bambini vengono ospitati in una struttura che è, esemplificando, un po’ come un asilo nido: i bambini stanno nella struttura dal lunedì al venerdì, e qui devono recuperare non solo il peso ma anche un’altezza adeguata per la loro età, perché l’altezza è il vero segno della loro salute. Mentre i bambini sono nella struttura, noi facciamo tutto un lavoro anche con le famiglie, con interventi domiciliari di carattere sociale e psicologico. Un secondo livello un po’ meno complesso è quello dell’ambulatorio, per i bambini meno gravi o per quelli che non possono venire tutti i giorni al nostro centro. Infine un terzo livello, che riguarda il lavoro con la comunità: andiamo cioè in giro per la città a cercare nuovi bambini denutriti. Dal momento che questi bambini si trovano in famiglie che vivono ai margini della società, essi non sono inseriti nei servizi sanitari e di educazione, e per trovarli dobbiamo cercarli in casa loro, nelle favelas. L’anno scorso abbiamo assistito direttamente 2.700 persone, mentre indirettamente, tramite i nostri corsi e le persone che lavorano con i bambini siamo arrivati a quasi 10 mila bambini.
Avete un aiuto dagli enti pubblici per svolgere la vostra attività?
All’inizio c’era una convenzione con la città di San Paolo, sul modello di quella che viene fatto con gli asili nido, grazie a una convenzione con l’assessorato all’Educazione della città di San Paolo. Ma in realtà questo non copriva le nostre esigenze, anche perché evidentemente il servizio che noi facciamo è nettamente diverso da quello di un normale asilo nido. Due anni fa, invece, siamo riusciti ad avere una convenzione con l’assessorato alla Salute. Fino a due anni fa, infatti, anche gli enti pubblici facevano fatica a capire che il problema della nutrizione a San Paolo è molto grave; noi siamo riusciti a convincerli della gravità del problema, e quindi ad avere questa convenzione. Al di là del coinvolgimento dell’ente pubblico, il nostro sostentamento viene dall’aiuto che vi viene fornito dall’AVSI.
Sabato prossimo, qui in Italia, ci sarà la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare; un’esperienza che pochi giorni fa è stata vissuta anche da voi in Brasile. Che importanza ha per voi il Banco Alimentare?
C’è un rapporto strettissimo con questa realtà. Qui in Brasile, come anche nel resto del mondo, i prezzi del cibo si stanno alzando e questo crea due tipi di problemi diversi: da una parte si aggrava il problema delle famiglie che hanno difficoltà ad acquistare i generi di prima necessità, e quindi continua a crescere il numero di poveri che hanno bisogno di realtà come la nostra; dall’altra parte aumenta il prezzo di quello che è il nostro strumento principale di lavoro, dal momento che noi dobbiamo innanzitutto, dal punto di vista concreto, alimentare i bambini. Quindi abbiamo fatto la Colletta insieme: siamo un ente assistito dal Banco, ma abbiamo al tempo stesso un rapporto stretto di amicizia con loro. Con la Fondazione Banco Alimentare non c’è solo un rapporto formale, ma è molto di più: un rapporto di amicizia e di scambio di esperienze.
ELUANA/ Carter Snead (Usa): il caso Englaro? Un'altra Terri Schiavo - INT. Carter Snead - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Carter Snead è professore di Diritto costituzionale nella Law School dell’Università di Notre Dame, negli Stati Uniti. Si è occupato del caso Terri Schiavo e dei complicati rapporti tra la scienza e il diritto con pubblicazioni sulle più prestigiose riviste giuridiche nord americane. Ilsussidiario.net ha parlato con lui della vicenda Englaro.
Professor Snead, lei conosce la vicenda di Eluana Englaro: cosa ne pensa?
Ho avuto modo di documentarmi sul caso, ma faccio fatica a capire su cosa si fonda esattamente il ragionamento di quei giudici che hanno disposto la sospensione della sua alimentazione. Negli Stati Uniti, ad esempio, per casi come quello di Eluana Englaro, è richiesto che vi sia una prova molto ben fondata. Quello che mi spaventò nel caso Terri Schiavo di alcuni anni fa fu che il giudizio della Corte fu approssimativo. I giudici, infatti, affermarono che si era innanzi a una “prova chiaramente convincente” che Terri Schiavo preferisse essere lasciata morire piuttosto che restare in quelle condizioni, ma la prova così chiara non c’era. Si trattava di dichiarazioni fatte molti anni prima del processo, e ricordate da poche persone.
Il caso ricorda molto da vicino il punto controverso della ricostruzione della volontà di Eluana.
C’erano tre testimoni soltanto, e ricordavano frasi dette molto tempo prima: la situazione era assolutamente simile a quella di Eluana Englaro. Lei capisce che tali dichiarazioni sono un po’ fragili come prove, e ho timore a pensare che sia sufficiente una cosa del genere per decidere della vita di una persona, la quale non può più esprimersi. Oltre tutto la legge della Florida, lo stato dove Terri Schiavo è morta, è chiara sul punto, ma i giudici, semplicemente, non la applicarono, fecero finta di niente.
Negli Stati Uniti avete una legge che prevede il testamento biologico?
No, la Florida non ha una legge che richiede il testamento biologico, però ha una legge molto ben articolata che stabilisce delle procedure per quei casi in cui una persona ha lasciato per iscritto le proprie volontà, come ad esempio a quali trattamenti medici desidera esser sottoposta e a quali no. Quella legge stabilisce anche in maniera chiara cosa si debba fare nel caso in cui una persona non possa più esprimersi sulle cure che è disposta a ricevere, o perché incosciente, o perché invalida, e non abbia lasciato nulla di scritto: il medico e il giudice possono ricostruire cosa voleva una persona attraverso testimonianze sullo stile di vita precedente e attraverso le testimonianze di dichiarazioni fatte in passato dal paziente. Su questi punti è chiara non solo la legge della Florida, ma ogni legge adottata nei diversi stati degli Usa; si tratta di una disciplina pressoché uniforme.
Allora che cosa tutela il malato da una ricostruzione arbitraria della volontà anteriore?
Tutte queste leggi prevedono che, nel caso non ci sia nulla di scritto, sia verificato uno standard altissimo della prova. La legge della Florida, quella applicabile al caso Terri Schiavo, dice espressamente che l’unico modo per interrompere un trattamento, se non vi è la prova scritta, è che ci sia una “prova chiara e convincente”, che è forse il più alto livello di standard richiesto per le prove nel diritto. Quella legge dice anche che ogni dichiarazione ambigua o poco chiara dev’essere interpretata a favore della vita. Una delle cose più tristi del caso di Terri Schiavo fu proprio la debolezza delle prove.
La Florida però ha una legge che regola questi aspetti; ma in Italia non è consentito risalire alla volontà di un paziente che non può esprimersi.
E su che base i giudici hanno stabilito l’interruzione dell’alimentazione? È sorprendente. Dovrebbe essere il legislatore a determinare i contorni di materie così delicate come la fine della vita e il testamento biologico. È veramente strano intervenire su un problema del genere in questo modo. Questo genere di abusi vengono determinati dalla generalizzazione del concetto di “diritto alla privacy”, o di “libertà”, che viene concepita in modo assoluto. Si opera estendendo tali categorie. Ad esempio, in ogni ordinamento la persona gode di un diritto generale a non essere toccata, e di un diritto a rifiutare un trattamento medico non voluto. Allora ci si può chiedere, come comportarsi nel caso in cui la persona non abbia più la coscienza o la capacità di esprimersi e di rifiutare un trattamento medico? La domanda è legittima, ma certe generalizzazioni non possono spingersi troppo in là: resta sempre, e ne ho già parlato, il problema delle prove.
Non è un problema di facile soluzione…
Bisogna, infatti, risalire a quello che veramente voleva la persona all’epoca in cui ha perso conoscenza. Purtroppo (come già nel caso Terri Schiavo) ho il presentimento che quello che è veramente successo nel caso di Eluana Englaro sia solo il pensiero dei giudici, i quali potrebbero aver fatto un ragionamento simile a questo: “la vita di questa persona è troppo menomata, quindi è senza significato, di conseguenza nessuna persona ragionevole potrebbe voler vivere in quelle condizioni, e quindi può essere lasciata morire”. Credo sia questo il vero ragionamento che sta dietro la decisione.
Su questo giornale la professoressa Violini in un suo precedente articolo sul caso di Eluana Englaro ha sottolineato un’importante anomalia. La Corte di Cassazione ha affermato che «la mera presenza in causa del curatore speciale (…) supera ogni problema di possibile conflitto tra la tutelata e il tutore». D’altra parte – dice la studiosa – “fin dall’inizio il curatore non ha fatto altro che sostenere appieno le scelte del tutore stesso, con ciò avallando l’immagine dell’esistenza di un solo interesse dell’interdetta, quello a veder conclusa la propria vicenda terrena tramite la sospensione di un “trattamento” a cui essa stessa non aveva consentito e a cui non avrebbe presumibilmente consentito, a detta dei giudici, se fosse stata cosciente”. Che ne pensa?
Il curatore non si è opposto? E su che base? Il curatore ha il dovere di agire “nel migliore interesse del paziente”. Com’è possibile che, dinanzi a delle prove scarse e frammentate come quelle della volontà di Eluana Englaro, il miglior interesse sia coinciso col lasciarla morire? Nel momento in cui un curatore, innanzi a prove incerte, smette di agire nel migliore interesse del paziente non so se debba essere revocato, però di sicuro non si può dire che stia agendo nel migliore interesse del paziente.
È possibile, com’è avvenuto nel caso Englaro, che una persona disponga della vita di un altra, e che i giudici possono dire che sia meglio che una persona amata e accudita, com’è Eluana Englaro nella clinica, venga lasciata morire?
Mi risulta che in questo caso il ricorso è stato presentato dal padre della paziente; è il padre, quindi, che ha deciso sulla qualità della vita della figlia. Questo è il giudizio più pericoloso che chiunque possa fare per qualsiasi altra persona. Dire: “la tua vita è così menomata, la tua qualità della vita è così bassa, che nella mia concezione di pietà è meglio che tu finisca la tua vita” è veramente pericoloso. È pericoloso innanzitutto perché non vengono impiegati dei criteri autentici. E poi, se uno mettesse altri criteri, come “vivere con handicap non è degno”, cosa succederebbe? Inoltre, se si continuano ad adottare questi standard di prova, in cui con prove e testimonianze scarse si decide della vita di un altro, il fatto è ancora più preoccupante. Infine, questo atteggiamento è pericoloso per lo Stato: in questo caso così drammatico una persona non ha espresso chiaramente la sua volontà di morire, e lo Stato è prevaricato dai suoi compiti di tutela solo perché un’altra persona dice: “Secondo me è meglio che quella persona non viva”. È una situazione pericolosa.
EVENTI/ Comunicare il "dono" come fattore per comprendere la nostra identità - Gianfranco Dalmasso - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il convegno promosso dalla Fondazione Pubblicità e Progresso e dall’Università Statale di Milano propone una questione, quella del dono, oggi variamente presente nei linguaggi della nostra società, anche con aspetti paradossali.
Da un lato viviamo in una mentalità individualistica, egoista e consumistica che ha pochi riscontri in altre epoche, dall’altro lato il dono è curiosamente presente nelle comunicazioni mediatiche ed anche nelle convinzioni etiche che diventano mentalità corrente. Siamo attorniati da appelli a donare: donare il sangue, donare per la fame nel mondo, donare per la ricerca ecc.
Sembra perciò molto opportuno porre degli interrogativi su che cosa sia il dono e su che cosa accada quando si doni o si pretenda donare. Tali questioni saranno affrontate in quattro giornate a partire dal 26 novembre da vari punti di vista: della filosofia, della psicologia, dell’economia, della comunicazione.
Che cosa significa donare? Consegnare qualcosa a qualcuno senza ricevere nulla in cambio? Ci sarebbe perciò un nesso essenziale fra il dono e il gratuito? Tuttavia il dono spesso si pone, e si è posto certamente in molte società antiche, come un modo più raffinato ed efficace di affermare un prestigio e un potere, mostrandosi superiori agli altri, talvolta fino all’umiliazione.
D’altra parte nella reciprocità, fosse anche solo immaginaria, del dare e del ricevere si gioca una questione cruciale per l’esistenza stessa ed il funzionamento dei legami. Se dare e ricevere sono gli aspetti istitutivi del dono allora, ed è su questo che verterà forse il principale interesse del convegno, si tratta di spostare l’attenzione dalle cose che si donano a chi è il donatore e a chi è il destinatario del dono.
Infatti nell’esperienza del donare io comunque suscito l’altro che è evocato e coinvolto nel mio gesto. Da un altro punto di vista non potrei donare se l’altro, amico o avversario o vicino, non mi suscitasse lui stesso, come movente del mio desiderio o della mia domanda.
Tali problemi sembrano diventare esplosivi se al posto della dinamica io-tu sostituiamo la dinamica di dare e ricevere come confronto e scambio fra soggetti che sono popoli, culture e confessioni religiose diverse.
L’esperienza della alterità sembra qui interpellare il soggetto nella concezione stessa della sua identità: identità per cui forse parole come dialogo, tolleranza, coesistenza sono inadeguate a descrivere un aspetto non proprio del dono, misterioso e attivo, che è all’opera e che spiazza i soggetti di questo non dominabile e ingestibile scambio.
LA PROFEZIA DI UN GRANDE POETA - SE PERDE LA RADICE TUTTO PUÒ COMINCIARE A TREMARE - MARINA CORRADI, Avvenire, 26 novembre 2008
Di fronte all’ansia, che trapela ogni tanto in questo o quel Paese d’Europa, di eliminare il crocifisso dai luoghi pubblici – idea subito accolta da qualche intellettuale italiano con compiacimento, quasi fosse urgente liberare aule e ospedali da quelle mute effigi di un Uomo straziato – ci viene da fare una domanda, da avanzare un dubbio, diciamo, un po’ inquieto. Forse anche perché da giorni tv e stampa non parlano che di quella ragazza in stato vegetativo, e del fatto che si vuole staccare la sonda che la nutre e disseta.
Come una battaglia oscuramente simmetrica: il crocifisso è l’emblema della sofferenza del Dio fattosi uomo; il volto di Eluana Englaro, invisibile ma incombente nel dialogo di questi giorni, è un’icona della sofferenza degli uomini. Il crocifisso, e la donna immobile e inerme: come casualmente si combatte in due Paesi di forte tradizione cattolica perché l’uno, e l’altra, spariscano.
Ma dicevamo di un dubbio. Sappiamo bene che le civiltà antiche, non solo primitive ma anche progredite, eliminavano i figli imperfetti, e lasciavano moribondi e appestati al loro destino. Era questa, la norma fra gli uomini: vive il sano, il più forte, vive chi si può difendere. L’evento storico che capovolge lo sguardo sui sofferenti è il cristianesimo. È il Medioevo cristiano che inaugura in Occidente gli ospedali, e per primi quelli per i diseredati, per gli ' incurabili', nome che ancora adesso portano nelle nostre città alcuni istituti.
La domanda allora è: procedendo nella espulsione ideale di Cristo dalla nostra forma mentale, espulsione di cui la lotta al crocifisso è un simbolo, è prevedibile, oppure no, che anche lo sguardo verso i malati subisca una lenta ma inesorabile trasformazione? Madre Teresa a chi le chiedeva perché si portava a casa i moribondi di Calcutta rispondeva che era semplicemente perché in ognuno di loro riconosceva il volto di Cristo. L’origine della carità cristiana è questa: non buonismo, non un alato altruismo, ma il riconoscere, nella faccia dell’altro sofferente, Cristo. Ma, se questo nesso si affievolisce nella memoria, se addirittura quel silenzioso simbolo sui muri suscita insofferenza e ribellione, viene da chiedersi se la buona volontà, i ' valori', la umana solidarietà davvero basterebbero per continuare a praticare la carità ' inventata' dai cristiani. Se basterebbero, queste pur buone intenzioni, staccate dalla loro storica radice, a continuare a trattare come uomini anche i più vecchi, i dementi, i disabili storpiati da malattie inguaribili.
O forse invece il naturale istinto umano davanti alla sofferenza senza rimedio è quello del rifiuto, del non volere vedere, dell’eliminare ' per pietà'? Le civiltà antiche lasciavano indietro inguaribili e deformi, come zavorra che un’umanità efficiente non poteva portare con sé. Il cristianesimo ha introdotto un altro sguardo. È realistico pensare che il portato del cristianesimo possa sopravvivere ' senza' Cristo? Sappiamo che schiere di laici ottimisti diranno che certamente, che diamine, che i condivisi ' valori' di quel Dio ucciso non hanno alcun bisogno.
Quanto a noi, ricordiamo inquieti un verso di Eliot dei Cori da la Rocca: « Avete bisogno che vi si dica che persino modeste cognizioni / che vi permettono d’essere orgogliosi di una società educata / difficilmente sopravvivranno alla Fede cui devono il loro significato? » . Quel dubbio, già negli anni Trenta, come la percezione di una possibile alienata deriva. La profezia di un grande poeta avvertiva che tutto ciò che ci sembra acquisito, se perde la radice, può cominciare a tremare.
POLEMICHE CULTURALI - il caso - I ricordi del prelato De Magistris riaprono una vicenda già emersa nel 1977: il fondatore del Pci, ricoverato in clinica a Roma, prima di morire avrebbe baciato una statuetta di Gesù Bambino. - Storici ed esperti si dividono sulla questione - Gramsci cristiano, il mistero è aperto, DI ROBERTO BERETTA, Avvenire, 26 novembre 2008
Comunista «eretico» sì; ma fino al punto di passare al cristianesimo? Questo è la domanda che insorge alla notizia, riaffiorata ieri in un contesto estemporaneo, di una presunta «conversione » sul letto di morte di Antonio Gramsci.
La vicenda era già comparsa nel 1977, a 40 anni dalla morte dell’autore dei Quaderni dal carcere; ieri è stato monsignor Luigi De Magistris,
pro-penitenziere maggiore emerito, a ricordarla in una sala della Radio Vaticana a Roma nel corso della presentazione del primo «Catalogo internazionale dei santini»: «Il mio conterraneo Gramsci – ha detto l’anziano sacerdote – aveva nella sua stanza l’immagine di santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: 'Perché non me l’avete portato?'. Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò. Gramsci è morto con i sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia».
A parte qualche imprecisione – il bacio di un’immagine o forse di una statua non significa aver ricevuto i sacramenti –, la dichiarazione riprende quanto rivelato 30 anni or sono sulla rivista Studi sociali da padre
Giuseppe Della Vedova, come conferma oggi Giulio Andreotti per il quale la vicenda «non è una novità ». Don Della Vedova raccoglieva la testimonianza della zia suor Piera Collino, che prestava servizio nella clinica «Quisisana» di Roma dove il fondatore del Partito comunista trascorse l’ultimo anno di vita. Secondo quel testo il bacio alla statuetta avvenne però su pressione della superiora, anche se poi il ricoverato «quando lo ebbe tra le mani lo baciò con effusione». Secondo altre testimonianze, Gramsci si sarebbe poi raccomandato varie volte alle preghiere delle suore e avrebbe mostrato una «simpatia umana » verso una piccola statua di santa Teresa del Bambino Gesù, che «non volle che fosse tolta e nemmeno spostata» (e proprio questa circostanza non appare oggi casuale a don Gianni Baget Bozzo: «Santa Teresina era pronta a scambiare la sua fede per la conversione degli atei e sicuramente anche Gramsci ne conosceva la vita. La sua conversione quindi potrebbe essere inquadrata in quel forte desiderio di conversione dei non credenti espresso dalla santa»). Anche un’altra religiosa, la sarda suor Pinna – così scrive Luigi Nieddu
in un volume sull’«altro Gramsci », – avrebbe poi raccontato in diversa occasione a un gruppo di sacerdoti amici (tra cui monsignor De Magistris) una storia simile: durante le festività natalizie del 1937 le religiose della clinica portarono di stanza in stanza, «offrendola al bacio di quelli che vi si trovavano», una statua di Gesù Bambino. Tutti i ricoverati ricevettero la visita eccetto l’esponente comunista che però, saputo dell’esclusione, prima ne chiese i motivi, quindi «il signor Gramsci disse di voler vedere quella statuetta e quando l’ebbe di fronte la baciò con evidenti segni di commozione ».
Giuseppe Vacca,
presidente della Fondazione Istituto Gramsci e profondo conoscitore del filosofo marxista, accoglie la notizia con tranquillità: «La questione è molto semplice: esiste una documentazione precisa sulle ultime ore di Gramsci, la sua fine è narrata pochi giorni dopo l’evento in una lettera della cognata Tatiana Schucht,
che assisteva il degente. Esistono inoltre documenti di polizia, anch’essi pubblicati, nonché tra gli inediti altre due lettere di Tatiana: in nessuno di questi scritti esiste un accenno alla vicenda. Ed è difficile anche capire come potrebbe essere accaduto: Gramsci fu infatti colpito da ictus il 25 aprile, giorno in cui scadeva la sua condanna da parte del regime fascista, e non riprese conoscenza fino al 27, giorno della morte».
Tuttavia, sembra evidente che il fatto – se avvenne – accadde non in limine mortis, bensì qualche mese prima, durante la degenza dell’esponente politico; la cui stanza pare fosse proprio di fronte alla cappella. «Se ci sono nuovi documenti – riprende Vacca – ben vengano; ma queste voci da sole non costituiscono una prova sufficiente. Avendo pubblicato tutto il possibile di e su Gramsci, non mi sono mai imbattuto in testi che suffraghino un’eventuale conversione. Di fatto Gramsci non era credente e, dopo la cremazione, fu traslato al cimitero acattolico degli inglesi».
D’altra parte, è presumibile che un’eventuale «conversione» sarebbe stata tenuta nascosta dall’entourage del politico, del quale faceva parte anche l’economista
Piero Sraffa che nel 1977 smentì la notizia di un Gramsci «col capo cosparso di olio santo»: «Fui una delle ultimissime persone che lo videro vivo e non disse certamente nulla che facesse pensare a un’iniziativa del genere». Nella lettera alla sorella, moglie di Antonio rimasta a Mosca, Tatiana scrisse infatti: «Il medico fece capire alla suora che le condizione del malato erano disperate. Venne il prete, altre suore, ho dovuto protestare nel modo più veemente perché lasciassero tranquillo Antonio, mentre questi hanno voluto proseguire nel rivolgersi a lui per chiedergli se voleva questo, quell’altro…». Peraltro don Della Vedova si spinse fino a ipotizzare che il cappellano della clinica, don
Paolo Bornin, abbia amministrato l’olio degli infermi al moribondo approfittando di un’assenza della cognata, forse rispondendo a precedenti segnali «religiosi» di Gramsci. Non è l’unico mistero che circonda quelle ore, visto che in passato si ipotizzò persino il suicidio del politico sardo o la sua eliminazione da parte di agenti sovietici. Salvatore Mannuzzu, già deputato comunista e sardo come Gramsci, sembra stupito dalla nuova rivelazione: «Non mi risulta nulla e francamente, se l’episodio fosse vero (e la notizia è da vagliare con molto rigore), mi sorprenderebbe un poco; sarebbe infatti piuttosto imprevedibile rispetto alla conoscenza del personaggio e dei suoi scritti: la sua ideologia era profondamente materialista, fin nelle fibre. È anche strano che un fatto così eclatante su un personaggio come Gramsci sia rimasto nascosto». All’opposto su questo punto la pensa lo storico Daniele Veneruso: «Col cordone ideologico che aveva intorno, non deve stupire che nulla sia trapelato sinora. Tuttavia, se Gramsci ha sempre mostrato interesse per la religione e per il cattolicesimo, lo ha fatto soltanto dal punto di vista della secolarizzazione e della prassi, non della fede». Il rimbalzo delle opinioni prosegue. Per Giorgio Baratta, presidente della
International Gramsci Society Italia
e tra i massimi esperti sul fondatore del Pci, «la conversione è una vecchia storia mai provata». Lo slavista Vittorio Strada afferma invece che la notizia potrebbe aggiungere «un nuovo elemento alla sua immagine e, rispetto a quella costruita nei decenni passati dal Pci, ne accresce l’umanità. Certamente nell’opera di Gramsci vi era una religiosità laica mentre era assente qualsiasi freddezza ateistica». Anche per Giancarlo Lehner, autore di un recente libro su La famiglia Gramsci in Russia, pur se non esiste «alcuna prova scientificamente inconfutabile, tuttavia sul piano induttivo per me non sarebbe una grande sorpresa se Gramsci avesse abbracciato, non dico in punto di morte ma nell’ultima fase della sua vita, la fede cattolica. Come testimoniano le fonti, infatti, Antonio recupera via via tutti i grandi valori della tradizione cristiana e cattolica, in primo luogo la famiglia, poi l’amicizia, il valore della verità, la solidarietà».
Lehner: non sarebbe una sorpresa. Vacca: non ci sono conferme in merito.
Veneruso: se anche fosse vero, non l’avrebbero fatto trapelare. Strada: la notizia accresce la sua umanità