Nella rassegna stampa di oggi:
1) Confessioni di un ex massone - Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese, ne svela i segreti - MADRID, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese per 15 anni, svela alcuni segreti della Massoneria in un libro di recente pubblicazione e dal titolo: “Sono stato massone” (LibrosLibres).
2) Servono politiche pubbliche che promuovano la riduzione degli aborti - Afferma l'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) - di Miriam Díez i Bosch
3) La profezia della "Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II - Intervista al filosofo domenicano Mauricio Beuchot Puente - di Gilberto Hernández García
4) Obiezione di coscienza e diritti del concepito - di Lucio Romano* - ROMA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' opportuno fare un richiamo alla Legge 40/2004 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", premesse le argomentazioni in capo alla legge 194/78, le correlate riflessioni sulla espressione della obiezione di coscienza come tutela della vita umana e le considerazioni in merito alla Sentenza n.27/1975 della Corte Costituzionale (1) che ha "ricondotto la giustificazione dell'aborto nella scriminante dello stato di necessità (sia pure con confini più ampi di quelli indicati dall'art. 54 Codice penale) e non nell'esercizio di un diritto di scelta della donna".
5) Cattolici e musulmani hanno sottoscritto una carta dei diritti. Ma il difficile viene adesso - Il difficile è passare dalla teoria alla pratica. Parole, silenzi e retroscena del primo incontro del Forum tra le due religioni nato dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e dalla lettera al papa di 138 saggi islamici - di Sandro Magister
6) Solo l’intervento dell’UE può evitare un genocidio in Congo - Mario Mauro - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) CONGO/ La storia di Cyprien: convivere con la guerra seminando speranza tra fucili e machete - Edoardo Tagliani - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) ALITALIA/ Ecco perché l’offerta di Cai da un miliardo di euro non è accettabile - Ugo Arrigo - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) USA/ Come affronterà Obama il nodo del sistema sanitario americano? - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) Anche al Sud si può raccogliere la sfida dell'imprenditoria. La parola d'ordine è "insieme" - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Confessioni di un ex massone - Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese, ne svela i segreti - MADRID, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese per 15 anni, svela alcuni segreti della Massoneria in un libro di recente pubblicazione e dal titolo: “Sono stato massone” (LibrosLibres).
Rituali, norme di funzionamento interno, giuramenti - in particolare le implicazioni del giuramento che obbliga a difendere gli altri “fratelli” massoni - oltre all'influenza sulla politica da parte di questa organizzazione segreta vengono ora alla luce.
Il volume svela anche la decisiva influenza della Massoneria nell'elaborazione e approvazione di leggi come quella dell'aborto in Francia, a cui Maurice Caillet, in quanto medico, ha partecipato attivamente.
Nato a Bordeaux nel 1933 e specializzato in Ginecologia e Urologia, Caillet ha effettuato aborti e sterilizzazioni prima e dopo la legalizzazione nel suo Paese delle interruzioni di gravidanza. Membro del Partito Socialista Francese, è arrivato a ricoprire incarichi di rilievo nell'amministrazione sanitaria.
Quando è entrato ufficialmente nella Massoneria?
Maurice Caillet: All'inizio del 1970 mi convocarono per una possibile iniziazione. Ignoravo praticamente tutto ciò che mi aspettava. Avevo 36 anni, ero un uomo libero e non mi ero mai affiliato a un sindacato o ad alcun partito politico. Un pomeriggio, in una via discreta della città di Rennes, bussai alla porta del tempio, il cui frontone era ornato da una sfinge alata e da un triangolo che circondava un occhio. Venni ricevuto da un uomo che mi disse: “Signore, ha fatto domanda per essere ammesso tra di noi. La sua decisione è definitiva? E' disposto a sottomettersi alle prove? Se la risposta è positiva, mi segua”. Feci un gesto di assenso e venni introdotto in una serie di corridoi. Iniziai a provare una certa inquietudine, ma prima di poterla formulare sentii che la porta si stava chiudendo dietro di noi...
Nel suo libro “Sono stato massone” spiega che la Massoneria è stata determinante per l'introduzione dell'aborto libero in Francia nel 1974.
Maurice Caillet: L'elezione di Valéry Giscard d'Estaing a Presidente della Repubblica Francese portò Jacques Chirac a diventare Primo Ministro, avendo questi come consigliere personale Jean-Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, principale ramo massonico francese, di tendenza laicista. Al Ministero della Sanità fu collocata Simone Veil, giurista, ex deportata di Auschwitz, che aveva come consigliere il dottor Pierre Simon, Gran Maestro della Grande Loggia di Francia, con il quale io mantenevo una corrispondenza. I politici erano ben circondati da quelli che chiamavamo i nostri “Fratelli tre punti”, e il disegno di legge sull'aborto venne elaborato rapidamente. Adottata dal Consiglio dei Ministri nel mese di novembre, la legge Veil venne votata a dicembre. I deputati e i senatori massoni di destra e di sinistra votarono all'unanimità!
Lei afferma che tra i massoni c'è il dovere di aiutarsi. Continua ad essere così?
Maurice Caillet: I “favori” sono un'abitudine in Francia. Certe Logge cercano di essere virtuose, ma il segreto che regna in questi circoli favorisce la corruzione. Nella Fratellanza degli Alti Funzionari, ad esempio, si negoziano certe promozioni, e in quella per le Costruzioni e le Opere Pubbliche si distribuiscono i contratti, con notevoli conseguenze finanziarie.
Lei ha beneficiato di questi favori?
Maurice Caillet: Sì. La Corte d'Appello presieduta da un “fratello” si pronunciò sul mio divorzio ordinando spese condivise, anziché metterle tutte a mio carico, e ridusse l'entità del contributo che dovevo dare ai miei figli. Tempo dopo, in seguito a un conflitto con i miei tre soci della clinica, un altro “fratello massone”, Jean, direttore della Cassa di Sicurezza Sociale, saputa la questione mi propose di assumere la direzione del Centro per gli Esami Sanitari di Rennes.
L'abbandono della Massoneria ha avuto conseguenze sulla sua carriera?
Maurice Caillet: Da allora non ho trovato posto in nessuna amministrazione pubblica o semipubblica, nonostante il mio ricco curriculum.
Ha mai ricevuto minacce di morte?
Maurice Caillet: Dopo essere stato licenziato dal mio posto di lavoro nell'amministrazione e aver iniziato ad agire contro quella decisione arbitraria, ricevetti la visita di un “fratello” della Grande Loggia di Francia, cattedratico e segretario regionale di Forza Operaia, che mi disse con la massima freddezza che se fossi andato avanti presso il tribunale del lavoro “avrei messo in pericolo la mia vita” e lui non avrebbe potuto far niente per proteggermi. Non ho mai immaginato di poter essere minacciato di morte da noti e onorevoli massoni della nostra città.
Lei era membro del Partito Socialista e conosceva molti dei suoi “fratelli” che si dedicavano alla politica. Potrebbe dirmi quanti massoni ci sono stati nel Governo di Mitterrand?
Maurice Caillet: Dodici.
E in quello attuale di Sarkozy?
Maurice Caillet: Due.
Potrebbe dire a un ignorante come me quali sono i principi della Massoneria?
Maurice Caillet: La Massoneria, in tutte le sue obbedienze, propone una filosofia umanista, preoccupata in primo luogo per l'uomo e consacrata alla ricerca della verità, pur affermando che questa è inaccessibile. Rifiuta ogni dogma e sostiene il relativismo, che colloca tutte le religioni su uno stesso piano, mentre dal 1723, nelle Costituzioni di Anderson, pone se stessa su un piano superiore, come “centro d'unione”. Da ciò si deduce un relativismo morale: nessuna norma morale ha in sé un'origine divina e, quindi, definitiva, intangibile. La sua morale evolve in funzione del consenso delle società.
Come si inserisce Dio nella Massoneria?
Maurice Caillet: Per un massone, il concetto stesso di Dio è speciale, come nelle obbedienze chiamate spiritualiste. Nel migliore dei casi è il Grande Architetto dell'Universo, un Dio astratto, ma solo una specie di “Creatore-maestro orologiaio”, come lo definisce il pastore Désaguliers, uno dei fondatori della Massoneria speculativa. Questo Grande Architetto viene pregato, se mi permette l'espressione, perché non intervenga nelle questioni degli uomini, e non viene neanche citato nelle Costituzioni di Anderson.
E il concetto di salvezza?
Maurice Caillet: Come tale non esiste nella Massoneria, salvo sul piano terreno: è l'elitarismo delle successive iniziazioni, anche se queste possono considerarsi appartenenti all'ambito dell'animismo, secondo René Guènon, grande iniziato, e Mircea Eliade, grande esperto di religioni. E' anche la ricerca di un bene che non si specifica in nessun posto... visto che la morale evolve nella sincerità, che, come tutti sappiamo, non è sinonimo di verità.
Qual è il rapporto della Massoneria con le religioni?
Maurice Caillet: E' molto ambiguo. In linea di principio i Massoni proclamano con fermezza una tolleranza speciale nei confronti di tutte le credenze e le ideologie, con un gusto molto marcato per il sincretismo, vale a dire un coordinamento poco coerente delle varie dottrine spirituali: è l'eterna gnosis, sovversione della vera fede. Dall'altro lato, la vita delle Logge, che è stata la mia per 15 anni, rivela un'animosità particolare nei confronti dell'autorità papale e dei dogmi della Chiesa cattolica.
Com'è iniziata la sua scoperta di Cristo?
Maurice Caillet: Ero razionalista, massone e ateo. Non ero neanche battezzato, ma mia moglie Claude era malata e decidemmo di andare a Lourdes. Mentre lei era nelle piscine, il freddo mi costrinse a rifugiarmi nella Cripta, dove assistetti con interesse alla prima Messa della mia vita. Quando il sacerdote, leggendo il Vangelo, disse: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”, ebbi uno shock tremendo perché avevo sentito questa frase il giorno della mia iniziazione al grado di Apprendista ed ero solito ripeterla quando, già Venerabile, iniziavo i profani. Nel silenzio successivo – perché non c'era l'omelia – sentii chiaramente una voce che mi diceva: “Bene, chiedi la guarigione di Claude, ma cosa offri?”. Istantaneamente, e sicuro di essere stato interpellato da Dio stesso, pensai che avevo solo me stesso da offrire. Al termine della Messa, andai in sacrestia e chiesi immediatamente il Battesimo al sacerdote. Questi, stupefatto quando gli confessai la mia appartenenza massonica e le mie pratiche occultiste, mi disse di andare dall'Arcivescovo di Rennes. Quello fu l'inizio del mio itinerario spirituale.
[Per ulteriori informazioni su “Sono stato massone”: www.libroslibres.com]
Servono politiche pubbliche che promuovano la riduzione degli aborti - Afferma l'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) - di Miriam Díez i Bosch
BARCELLONA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- Uno studio rivela che l'unico bene possibile dal punto di vista delle politiche pubbliche è "la promozione della riduzione dell'aborto", che sta provocando danni con un forte impatto economico.
"Aborto e politiche pubbliche", il nuovo studio monografico dell'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) dell'Università Abat Oliba CEU (http://www.uao.es/) di Barcellona, rivela che in Spagna si stanno già realizzando 100.000 aborti all'anno, che rendono il Paese uno dei più permissivi d'Europa.
Lo studio è diviso in due parti: una sull'aborto dal punto di vista della "razionalità nella gestione pubblica", l'altra sulla "necessaria prospettiva economica dell'impatto dell'aborto".
Lo studio è guidato dal direttore dell'Istituto, Josep Miró i Ardèvol.
Dal lavoro si apprende che esistono quattro problematiche alla base dell'aumento esponenziale degli aborti. In primo luogo si dovrebbe "sradicare la privatizzazione e il fatto che sia fonte di lucro", proseguendo con il "regolare meccanismi di controllo e supervisione efficaci, come quelli di cui dispongono altri ambiti dell'amministrazione".
In terzo luogo, è necessario "informare la donna e dare tempo per la riflessione", così come "fornire mezzi che favoriscano il fatto di tenere il figlio e informare su questi, come sull'alternativa dell'adozione". La ricerca conclude sostenendo che l'aborto "distrugge il flusso di capitale umano".
Una delle constatazioni è che "le politiche pubbliche si mettono in pratica per ridurre i danni dei comportamenti sociali inadeguati e le loro cause". Per questo, "visto l'impatto e il danno dell'aborto, "una nuova legislazione dovrebbe avere come fine la sua riduzione progressiva, e il fatto di agire sulle cause che lo provocano".
Di fronte a comportamenti sociali che si estendono e hanno effetti indesiderati sulla società, le politiche pubbliche devono avere lo scopo di ridurli. Così è avvenuto con gli incidenti stradali, o con il fumo, ma "perché, anche se l'aborto una pratica oggettivamente nociva, la si vuole escludere dal criterio generale?", si chiede lo studio.
"Una società che ha nella crisi della natalità il suo problema principale e definitivo e nella perdita di capitale umano la sua conseguenza economica più evidente" non ha tuttavia "politiche reali volte a ridurre l'impatto crescente dell'aborto, sempre più incisivo nelle sue conseguenze economiche e dal punto di vista del sistema pubblico di benessere", denuncia.
"Vista la situazione demografica spagnola e l'impatto negativo che ciò significa sulla rendita e sul sistema del benessere, risulta incomprensibile una politica pubblica orientata all'aborto, come invece accade", ha dichiarato a ZENIT Miró i Ardèvol.
"Indipendentemente dal credo di ciascuno, considerando la razionalità dei fatti, l'aborto può considerarsi solo un danno, sia per il bambino non nato che per la donna, per i danni che provoca durante e dopo il processo, e anche per tutta la società", ha aggiunto.
"Ogni aborto genera una perdita di rendita e pregiudica l'equilibrio della Sicurezza Sociale. Quanto più qualificata è la popolazione di un Paese, maggiore è il danno che provoca. Quello morale è identico, inassumibile, ma anche coloro che non valutano questo danno o lo relativizzano non possono negare il danno materiale oggettivo che provoca".
Per questo, "i difensori dell'aborto, se condividono con il resto della società i criteri di ragionevolezza, devono concludere che l'unico bene possibile dal punto di vista delle politiche pubbliche è promuovere la sua riduzione, visto che la libertà, in uno Stato di diritto, non può mai avere come risultato il danno", ha concluso.
Il rapporto, di cinquanta pagine, può essere scaricato gratuitamente nella sezione "Monográficos" dell'Istituto: http://incas.uao.es/cream/
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
La profezia della "Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II - Intervista al filosofo domenicano Mauricio Beuchot Puente - di Gilberto Hernández García
QUERÉTARO (Messico), domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- Si è celebrato recentemente il decimo anniversario della pubblicazione dell'Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, in cui il Pontefice defunto riflette su quelle "due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità".
In questo contesto, pubblichiamo l'intervista a Mauricio Beuchot Puente, sacerdote domenicano ritenuto uno dei principali filosofi dell'America Latina e che si è distinto per i suoi lavori storiografici nell'area della filosofia e della teologia ispaniche.
Beuchot è il fondatore della proposta chiamata ermeneutica analogica, ritenuta oggi un'innovazione nel campo dell'ermeneutica filosofica. Dal 1985 è ricercatore a tempo pieno presso il Centro di Studi Classici dell'Istituto di Ricerche Filologiche (IIFL) dell'Università Nazionale Autonoma del Messico.
Giovanni Paolo II ha pubblicato l'Enciclica "Fieds et Ratio". E' un testo per esperti? Cosa offre concretamente Papa Wojtyła nelle sue riflessioni sul rapporto tra fede e ragione?
Mauricio Beuchot: L'Enciclica non è solo per esperti. La sua intenzione è che tutti gli intellettuali interessati alla fede trovino una via di cui discutere. Giovanni Paolo II ci offre le sue riflessioni sul rapporto tra fede e ragione. Si collocano all'interno di una lunga tradizione, che passa per Sant'Agostino, Sant'Anselmo e San Tommaso, di santificare la ragione partendo dalla fede.
A dieci anni dalla pubblicazione della Fides et Ratio, la dottrina che contiene è ancora attuale? Su cosa si basa questa attualità?
Mauricio Beuchot: La dottrina della Fides et Ratio continua a essere attuale. L'aspetto più attuale può essere l'apertura con cui il Papa tratta la ragione e le sue conquiste. Non si tratta di rifiutarle, ma di incorporarle nel patrimonio del pensiero cristiano.
Viviamo in un'epoca in cui ad alcuni gruppi influenti nella vita sociale sembra che appellarsi alla fede sia da "retrogradi", ma dall'altro lato molte volte si ricorre alla fede in modo fondamentalista. Come si possono conciliare i due aspetti? E' davvero la ragione l'unica che può aiutare a "comprendere" la realtà e a impegnarsi con essa?
Mauricio Beuchot: Non bisogna ricorrere alla fede né con un atteggiamento fondamentalista né con disprezzo. La ragione ha trovato molti limiti, e ogni volta ne vengono segnalati altri, ed è là che si inserisce il rifugio della fede. L'intellettuale onesto e senza pregiudizi contro la religione ha un atteggiamento modesto nei confronti della ragione; non la divinizza né pensa che possa risolvere tutto; si rende conto che esistono cose che in principio non trovano una risposta razionale. Soprattutto in filosofia.
E' nota la frase "philosophia ancilla theologiae" (la filosofia-ragione è l'ancella della teologia-fede). Al giorno d'oggi questa affermazione è valida? Quali sono i limiti e i mutamenti di questa osservazione? La fede ha realmente bisogno della filosofia o è del tutto indipendente dall'esistenza o dalla non esistenza di una filosofia aperta in relazione ad essa?
Mauricio Beuchot: Sicuramente la filosofia aiuta la teologia, ma non più come un'ancella, quanto come una compagna. Dal mio punto di vista, la teologia ha bisogno di ricorrere alla filosofia, per non trasformarsi in quel fondamentalismo al quale abbiamo alluso e che abbiamo detto che è necessario evitare.
Agli uomini e le donne di oggi, preoccupati "per cose più pratiche", come la sopravvivenza quotidiana, dice qualcosa questo dilemma di incontro e scontro tra fede e ragione? In cosa li interessa? Come li aiuta ad essere più umani e felici?
Mauricio Beuchot: Ogni essere umano, per quanto debba affannarsi per le cose della vita quotidiana, ha una vocazione filosofica. Tutti siamo alla ricerca, ci poniamo domande che vanno al di là delle necessità quotidiane. Pur assediati da quelle necessità, troviamo sempre momenti per riflettere su questioni trascendenti. E non tutto si può risolvere con un credo comodo, con una fede stabilita; bisogna pensare, porsi delle domande. E' lì che acquista senso il fatto di vedere il rapporto tra fede e ragione.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
Obiezione di coscienza e diritti del concepito - di Lucio Romano* - ROMA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' opportuno fare un richiamo alla Legge 40/2004 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", premesse le argomentazioni in capo alla legge 194/78, le correlate riflessioni sulla espressione della obiezione di coscienza come tutela della vita umana e le considerazioni in merito alla Sentenza n.27/1975 della Corte Costituzionale (1) che ha "ricondotto la giustificazione dell'aborto nella scriminante dello stato di necessità (sia pure con confini più ampi di quelli indicati dall'art. 54 Codice penale) e non nell'esercizio di un diritto di scelta della donna".
La legge 40/2004 riconosce in maniera inequivocabile sia il concepito che i suoi diritti, già nelle fasi precedenti all'annidamento: " [...] è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito". In tale ambito richiamiamo solo alcune delle considerazioni riportate da C. Casini et al. (2), ed ai quali si rimanda per ulteriori e più approfondite argomentazioni. Nostra esigenza è infatti quella di definire le linee principali della tutela del concepito, riportando sinteticamente chiarimenti sui principali interrogativi (3).
Primo interrogativo: quale diritto prevalente per il concepito e quale tutela?
"[...] il dovere di scegliere avendo prevalente riguardo al minore, come stabilito nella Convenzione sui diritti del fanciullo [...] riguarda anche il non nato. A questa conclusione è giunta la Corte Costituzionale nella sentenza 10 febbraio 1997, n. 35, nella cui motivazione si legge che l'art. 1 della legge n. 194/78 sull'interruzione volontaria della gravidanza contiene non solo «la base dell'impegno delle strutture pubbliche a sostegno della valutazione dei presupposti per una lecita interruzione della gravidanza, ma è ribadito il diritto del concepito alla vita», il quale «ha conseguito nel corso degli anni sempre maggiore riconoscimento anche sul piano internazionale e mondiale», «come risulta - continua la sentenza - dalla Dichiarazione sui diritti del fanciullo [...] nel cui preambolo è scritto che il fanciullo a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una particolare protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata sia prima che dopo la nascita». [...] In definitiva dall'art. 1 risulta che la legge 40/2004 (n.d.r.) considera l'embrione a) come un essere umano; b) alla pari dei già nati e perciò c) qualificato come soggetto titolare di diritti; d) fin dal concepimento" (4).
Secondo interrogativo: i diritti del concepito rappresentano una novità nell'ordinamento giuridico italiano?
"L'espressione «diritti del concepito» non è nuova nell'ordinamento giuridico. Essa è usata nell'art. 1 c.c., che peraltro subordina all'evento della nascita i diritti che la legge attribuisce al concepito. [...] La qualificazione del concepito come soggetto titolare di diritti contenuta nella legge n. 40/2004 si collega, da un lato, al riconoscimento del concepito come realtà biologica che è centro unitario di interessi già emergenti dal codice civile, ma dall'altro è nuova perché non subordina i suoi diritti alla nascita. Essa, tuttavia, non modifica l'art. 1 c.c., [...] perché le due norme si trovano su piani diversi. L'art. 1 c.c. si riferisce, infatti, ai rapporti patrimoniali e alla circolazione dei beni, mentre l'art. 1 della legge n. 40/2004 investe in modo specifico la materia della PMA e più generalmente i diritti personalissimi di rilevanza costituzionale e di interesse pubblico" (5).
Terzo interrogativo: quali i possibili diritti dell'embrione?
Quali siano, poi, i possibili diritti «embrionali» (non nel senso di diritti meno consistenti di altri, ma nel senso di diritti attribuiti al concepito) è ben detto dal Parlamento Europeo nella risoluzione dedicata ai problemi etici e giuridici della fecondazione artificiale umana «in vivo» e «in vitro», adottata il 16 marzo 1989 che li elenca come «diritto alla vita e alla integrità, diritto alla famiglia, diritto alla propria identità genetica». Non appare dunque fuori misura l'espressione «diritti del concepito» nell'art. 1 della legge n. 40/2004. Essa è ripetuta per sei volte anche nella motivazione della già citata sentenza n. 35/1997 della Corte Costituzionale, la quale annota anche che «si è rafforzata la concezione, insita nella Costituzione italiana, in particolare nell'art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella sua espressione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili e cioè tra quei diritti che occupano nell'ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono - [...] - all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
All'art. 2 Cost., che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo» aveva fatto riferimento anche la sentenza 18 febbraio 1975, n. 27 della Corte costituzionale per affermare il fondamento costituzionale della tutela del concepito, sia pure evitando di usare l'espressione «diritto alla vita del concepito» e preferendo parlare, in modo più equivoco, di «situazione giuridica del concepito»": "[...] ha fondamento costituzionale la tutela del concepito, la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'art. 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita, oggetto di specifica salvaguardia costituzionale" (6).
Con una successiva sentenza n. 35 del 1997, la Corte Costituzionale ha stabilito che nell'art. 1 della legge n.194/78 "è contenuta la base dell'impegno delle strutture pubbliche a sostegno della valutazione dei presupposti per una lecita interruzione volontaria della gravidanza, ma è ribadito il diritto del concepito alla vita. La limitazione programmata delle nascite è infatti proprio l'antitesi di tale diritto, che può essere sacrificato solo nel confronto con quella, pure costituzionalmente tutelato e da iscriversi tra i diritti inviolabili, della madre alla salute e alla vita".
Comunque l'obiezione di coscienza è l'espressione di un diritto fondamentale dell'uomo, come riportato nella Carta costituzionale agli artt. 2, 19, 21 primo comma (diritti inviolabili dell'uomo, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di coscienza religiosa).
Dall'art. 2 della Costituzione si evincono alcune considerazioni essenziali: a) l'articolo connota il nostro sistema come «Stato di diritti» che, appunto, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo. L'affermazione sancisce l'originarietà dei diritti inviolabili dell'uomo, che in quanto fondamentali e connaturati alla persona, preesistono allo Stato, il quale oltre a riconoscerli si impegna ad assicurarne un'efficace protezione; b) i diritti inviolabili dell'uomo sono i diritti fondamentali attraverso i quali la persona umana può affermare la propria libertà ed autonomia. Per il loro carattere di appartenenza originaria alla sfera più intima e personale dell'essere umano, i diritti inviolabili dell'uomo sono inalienabili ed intrasmissibili, irrinunciabili ed indisponibili, insopprimibili in quanto il sistema di libertà che essi rappresentano costituisce il fondamento dello Stato di diritto e una loro violazione attuerebbe un sovvertimento dell'assetto costituzionale; c) la norma dopo aver sancito il principio personalista a tutela dei diritti della persona, pone un contrappeso, proclamando il «principio solidarista», ovvero il singolo esce da una posizione di difesa egoistica dei propri interessi, per assumere un ruolo responsabile della collettività.
A tal riguardo la Corte costituzionale "afferma chiaramente che dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali «non può darsi una piena garanzia [...] senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico» (7) e che «la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione» «essa gode di una protezione costituzionale» (8). Queste considerazioni, essendo in gioco un bene così grande come quello della vita umana, rendono configurabile una sorta di «clausola di coscienza» da invocare sia a tutela di quel foro interno in cui risiede il patrimonio più intimo e prezioso dell'uomo (e che, in quanto tale, è inviolabile), sia a difesa di tutti quei comportamenti volti alla promozione del bene fondamentale e indisponibile della vita umana" (9).
* Il prof. Lucio Romano è dirigente ginecologo del Dipartimento di Scienze Ostetrico-Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione all'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e Vicepresidente del Movimento per la Vita (MpV). E' autore, insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini, del libro "RU - 486. Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza" (Edizioni ART, Roma).
(1) Corte Costituzionale, Sentenza 18 febbraio 1975, n.27, Giurisprudenza Costituzionale 1975, I: 117-120
(2) Casini C., Casini M., Di Pietro M.L., La legge 19 febbraio 2004, n.40. "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita". Commentario. Giappichelli: Torino, 2004.
(3) La letteratura sullo statuto ontologico dell'embrione, con le diverse posizioni antropologiche, è abbastanza ricca. Per un approfondimento: Comitato Nazionale per la Bioetica, Identità e statuto dell'embrione umano, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'Informazione e l'editoria, Roma, 1996; Palazzani L., Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli: Torino, 1996; Pessina A., Bioetica e antropologia. Il problema dello statuto ontologico dell'embrione umano, Vita e Pensiero: Milano, 1996, 6: 402-424; Pontificia Academia Pro Vita, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, 1998; Di Pietro M.L., Sgreccia E., Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto. La Scuola: Brescia, 1999; Casini M., Il diritto alla vita del concepito nella giurisprudenza europea, CEDAM: Padova, 2001; Sgreccia E., Calabrò G.P. (a cura di), I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica, Marco: Cosenza, 2002; Serra A., L'uomo embrione. questo misconosciuto, Cantagalli: Siena, 2003.
(4) Casini, La legge 19 febbraio 2004, n.40 ..., p.27
(5) Ibid., p.33
(6) Ibid., p.34
(7) Corte Costituzionale, Sentenza (16.12) 19 dicembre 1991, n. 476
(8) Ibid.
(9) Di Pietro ML, Casini M, Fiori A, Minacori R, Romano L, Bompiani A, Norlevo e obiezione di coscienza, Medicina e Morale 2003; 3: 411-455
Cattolici e musulmani hanno sottoscritto una carta dei diritti. Ma il difficile viene adesso - Il difficile è passare dalla teoria alla pratica. Parole, silenzi e retroscena del primo incontro del Forum tra le due religioni nato dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e dalla lettera al papa di 138 saggi islamici - di Sandro Magister
ROMA, 10 novembre 2008 – Nella foto [omessa n.d.r.], Benedetto XVI stringe la mano a Ingrid Mattson, canadese, presidente della Società Islamica del Nordamerica. Osserva la scena Tariq Ramadan, il più famoso e controverso tra i pensatori musulmani europei, egiziano con cittadinanza svizzera e cattedra a Oxford, figlio del fondatore dei Fratelli Musulmani.
La foto è stata scattata giovedì 6 novembre nella Sala Clementina dei palazzi apostolici. Il papa ha appena ricevuto le due delegazioni, una cattolica e una musulmana, di 24 membri più 5 consulenti ciascuna, che hanno partecipato il 4 e 5 novembre, in Vaticano, al primo seminario del Forum cattolico-musulmano istituito dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e da rappresentanti dei 138 leader musulmani che hanno firmato la lettera aperta ai leader cristiani del 13 ottobre 2007, un anno dopo la memorabile lezione tenuta da Benedetto XVI a Ratisbona.
L'incontro col papa è stato aperto da un saluto del cardinale Jean-Louis Tauran, capo della delegazione cattolica, e da due indirizzi letti dal capo della delegazione musulmana Shaykh Mustafa Cerić, sunnita, gran mufti della Bosnia ed Erzegovina, e da Seyyed Hossein Nasr, sciita, iraniano emigrato negli Stati Uniti, professore alla George Washington University.
A tutti ha risposto Benedetto XVI con un discorso nel quale ha detto:
"Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune. Solo a partire dal riconoscimento della centralità della persona e della dignità di ogni essere umano, rispettando e difendendo la vita, che è il dono di Dio e che quindi è sacra sia per i cristiani sia per i musulmani, solo a partire da questo riconoscimento possiamo trovare un terreno comune per costruire un mondo più fraterno, un mondo in cui i contrasti e le differenze vengano risolti in maniera pacifica e in cui la forza devastante delle ideologie venga neutralizzata".
E ancora:
"Auspico che i diritti umani fondamentali vengano tutelati per tutte le persone ovunque. I leader politici e religiosi hanno il dovere di assicurare il libero esercizio di questi diritti nel pieno rispetto della libertà di coscienza e della libertà di religione di ciascuno. La discriminazione e la violenza che ancora oggi i credenti sperimentano in tutto il mondo e le persecuzioni spesso violente di cui sono oggetto sono atti inaccettabili e ingiustificabili, tanto più gravi e deplorevoli quando vengono compiuti nel nome di Dio".
Nel pomeriggio, le due delegazioni hanno diffuso una dichiarazione congiunta. Un documento in 15 punti – riportato integralmente più sotto – nel quale si afferma tra l'altro:
"Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto".
Un'affermazione importante. Perché è noto che tale doppio diritto è lontano dall'essere pienamente praticato negli Stati musulmani. Tant'è vero che poche ore prima, la mattina dello stesso giorno, ricevendo per la presentazione delle credenziali il nuovo ambasciatore della Repubblica Araba d'Egitto presso la Santa Sede, la signora Lamia Aly Hamada Mekhemar, Benedetto XVI si era sentito in dovere di chiedere che fosse data presto "la possibilità di pregare Dio degnamente in luoghi di culto adeguati" ai visitatori cristiani che affollano i centri turistici di quel paese.
Quest'ultimo è un piccolo indizio del divario profondo che ancora separa, in campo musulmano, i riconoscimenti astratti di taluni diritti dalla loro effettiva messa in pratica.
Il seminario del 4-6 novembre del Forum cattolico-musulmano è stato, a questo proposito, rivelatore. Nei suoi successi come nei suoi limiti.
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I lavori si sono svolti a porte chiuse. Sia nel primo che nel secondo giorno la discussione è stata introdotta da due contributi di mezz'ora ciascuno, da parte di un cattolico e di un musulmano. I temi in discussione sono stati dapprima "i fondamenti teologici e spirituali" e poi "la dignità umana e il rispetto reciproco".
Gli autori della lettera dei 138 avrebbero preferito concentrare la discussione sul primo dei due temi, mentre da parte vaticana vi era l'esigenza di andare al concreto. L'agenda dei lavori ha soddisfatto entrambi. Nella dichiarazione finale, il primo dei 15 punti registra il "genio distintivo delle due religioni" nel considerare l'amore di Dio e del prossimo. mentre gli altri punti specificano l'applicazione di questo principio teologico e spirituale alla vita concreta degli individui e delle società.
Il punto 5 della dichiarazione congiunta è stato uno dei più battagliati:
"L'amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico".
L'islamologo gesuita Samir Khalil Samir, membro della delegazione cattolica, ha ricostruito così, su "Asia News" del 7 novembre, la discussione che ha preceduto questa formulazione finale:
"Alcuni musulmani obiettavano: 'Se scrivete queste parole ci mettete in difficoltà. La libertà di religione nei nostri paesi è regolata da leggi dello Stato. Come facciamo a diffondere un documento se è contrario alle leggi dello Stato? Il rischio è di essere squalificati ed emarginati nella nostra società'. Alcuni hanno suggerito di togliere almeno le parole 'in privato e in pubblico'.
"C’era anche una formulazione che rivendicava il diritto di diffondere la propria fede come Da’wa, la missione per l’islam, o come Tabshir, la missione cristiana. Ma questa formulazione è stata ritenuta troppo forte e l’abbiamo eliminata.
"Tutte le difficoltà sono state sbloccate dal gran mufti di Sarajevo. Mustafa Cerić ha ricordato che la formula sulla libertà religiosa usata nel documento comune 'è la stessa della dichiarazione sui diritti dell’uomo dell’ONU. E molti governi musulmani hanno sottoscritto questa dichiarazione. Dunque essi devono accettarla, anche se magari non la praticano'. Questo argomento ha consentito a tutti di aderire al documento finale".
Anche il punto 11 è stato particolarmente controverso:
"Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l'umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti".
Riferisce padre Samir:
"I musulmani volevano che si togliesse la parola 'terrorismo' e la si sostituisse con il termine più generico 'violenza'. Questo perché si sentono attaccati da tutti e accusati da tutti di terrorismo. Uno di loro ha detto: 'Io non sono Bin Laden. Perché fate portare a me il peso di quanto fa Bin Laden?'. Poi però la discussione si è fatta più pacata. Alcuni musulmani hanno riconosciuto che chi li attacca non sono i cristiani, ma il mondo secolarizzato e ateo, contro il quale musulmani e cristiani devono resistere assieme. Hanno quindi espresso il desiderio di superare le antiche contrapposizioni. Un musulmano ha detto di non accettare più la classica divisione fra Dar al-Islam, la Casa della Pace, e Dar al-Harb, la Casa della Guerra, che comporta una divisione politico-religiosa del mondo e fomenta il jihad contro l’Occidente. Sarebbe invece da preferire la definizione di Casa della Testimonianza: estesa ovunque, nei paesi islamici e nei paesi occidentali, dove l’importante è testimoniare la propria fede, da parte dei musulmani come dei cristiani".
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Oltre alle cose dette, nella dichiarazione congiunta, ci sono poi le cose taciute.
Una di queste riguarda la libertà di abbandonare la fede musulmana e abbracciarne un'altra tra cui la cristiana. Nei paesi islamici questa "apostasia" è severamente punita, in talune aree con la pena di morte. O comunque è ostracizzata, con l'espulsione di fatto del reo dalla famiglia e dal consorzio civile.
Nel punto 5 della dichiarazione finale manca un esplicito riconoscimento di questa libertà. E nel presentare al pubblico la dichiarazione, a nome della delegazione musulmana, Seyyed Hossein Nasr ha giustificato questo silenzio con argomenti storici e politici.
A due precise domande, l'una riguardante il diritto a cambiare fede e la sorte dei convertiti, l'altra la persecuzione che opprime i cristiani in Iraq e in altre regioni islamiche, Nasr ha risposto che "le difficoltà di questi cristiani sono niente a confronto di quanto hanno patito i popoli musulmani nei secoli ad opera dei cristiani, e oggi in particolare ad opera di Israele e degli Stati Uniti".
E da cittadino americano ha aggiunto: "Anche nel Texas chi diventa musulmano subisce ostilità e pressioni".
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Dopo questo primo seminario, il Forum cattolico-musulmano si è impegnato a tenerne un secondo "entro due anni in un paese a maggioranza musulmana".
Ecco dunque il testo completo della dichiarazione diffusa il 6 novembre, nella traduzione dall'originale inglese fatta dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso:
Primo seminario del Forum cattolico-musulmano, Roma, 4-6 novembre 2008 – Dichiarazione finale
Il Forum cattolico-musulmano è stato costituito dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata "Una Parola Comune", alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Il suo primo Seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti ventiquattro partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del Seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo".
Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco". Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l'esempio dell'amore di Dio e del prossimo è l'amore di Cristo per suo Padre, per l'umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L'amore di Dio è posto nel cuore dell'uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L'amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all'altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-7). L'amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L'amore del prossimo non si può separare dall'amore di Dio, perché è un'espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell'amore sacrificale di Cristo, l'amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l'amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma lo sguardo umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l'amore umano per l'Unico Vero Dio. Un hadith indica che l'amore compassionevole di Dio per l'umanità è persino più grande di quello di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana all'Unico che è "l'Amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l'umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L'ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadith leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama per il suo prossimo ciò che ama per se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona; dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, è stata resa capace di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà da parte di individui, comunità e governi, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell'umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L'amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell'imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere un'accurata informazione sulla religione dell'altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l'umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall'attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest'ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo Seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo Seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà approssimativamente entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo.
Alla fine del Seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Gran Mufti Mustafa Cerić, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del Seminario e la loro aspettativa di un ulteriore proficuo dialogo.
Solo l’intervento dell’UE può evitare un genocidio in Congo - Mario Mauro - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Almeno due milioni di rifugiati. Due milioni di disperati che fuggono dalla morte e dalla distruzione che i ribelli del generale Laurent Nkunda, leader del Congresso nazionale per la difesa del popolo, stanno diffondendo nel nord del Congo.
L'esercito congolese non fa nulla per proteggere la popolazione civile, anzi contribuisce all'annientamento di un popolo, saccheggiando e distruggendo i villaggi per rendere più impervia l'avanzata dei ribelli verso sud. Questi hanno chiesto di avviare delle trattative dirette con il governo della Repubblica democratica del Congo. Ma Kinshasa non ne vuole sapere. Anche perchè si tratta di un conflitto che evidenzia inimicizie internazionali, soprattutto quella con il vicino Ruanda, accusato di appoggiare indirettamente i ribelli del Cndp.
La gente del Congo è stremata anche dalle epidemie di colera diffuse nel paese a causa di condizioni sanitarie disumane e dall'inadeguatezza del Governo di Kinshasa, che assiste immobile all'ennesimo genocidio africano. Sì, nonostante la guerra sia ripresa da meno di tre settimane, sarà presto un genocidio, non sembra infatti esserci nessuna via di salvezza, né per chi fugge verso l'Uganda e il Ruanda, né per chi si è chiuso in casa e prega che tutto finisca il più presto possibile.
L'ultima speranza siamo noi. L'Unione Europea e la Comunità Internazionale. Per questo il primo pensiero deve essere quello di come aiutare la popolazione. Il Parlamento europeo ha inserito la crisi del Congo tra le urgenze dell'ultima sessione plenaria il 23 ottobre, sollecitando l'esecutivo dell'Unione Europea con una Risoluzione in cui chiede a tutte le parti di tener fede ai propri impegni di tutelare la popolazione civile e rispettare i diritti umani come sancito nell'accordo di pace di Goma e nel comunicato di Nairobi, e di applicarli quanto prima; chiede ai governi della RDC e del Ruanda di porre fine alle recenti ostilità verbali, tornare a un dialogo costruttivo e cessare il conflitto; incoraggia tutti i governi della regione dei Grandi Laghi ad avviare un dialogo allo scopo di coordinare i loro sforzi tesi ad allentare la tensione e a porre fine alle violenze nelle zone orientali della RDC prima che il conflitto si estenda a tutta la regione; chiede al Consiglio e alla Commissione di attuare con effetto immediato un'assistenza medica su ampia scala e programmi di reinsediamento per le popolazioni civili delle regioni orientali della RDC, prestando particolare attenzione all'assistenza a favore di donne e ragazze vittime di reati di violenza sessuale, al fine di rispondere ai bisogni immediati e in attesa della ricostruzione che si renderà necessaria.
Dello stesso parere è l’Alto rappresentante degli Affari esteri Ue, Javier Solana, intervenuto mercoledì 5 novembre durante la riunione della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo, secondo il quale «la priorità numero uno» dell’Unione Europea è «quella umanitaria» e «la popolazione civile è ancora una volta la principale vittima della violenza di oggi». Solana ha aggiunto che «nessun intervento di natura militare dell’Ue è stato discusso finora» e che «Onu e unione africana sono gli attori chiave, la conferenza che prenderà parte a Nairobi venerdì prossimo sarà cruciale».
La conferenza di Nairobi di venerdì 7 novembre cui hanno preso parte il Presidente congolese Joseph Kabila, quello ruandese, Paul Kagame, e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, in realtà non nasceva sotto i migliori auspici e si è infatti conclusa con un nulla di fatto, anzi i Ministri degli esteri di Congo e Ruanda si sono rinfacciati le responsabilità del fallimento di ogni tentativo di soluzione diplomatica.
L’Onu svolge un ruolo fondamentale che dovrebbe essere rafforzato. In questo contesto l’Ue deve battersi per preservare il ruolo dell’Onu come istituzione multilaterale, ma il problema non è soltanto di ordine militare, infatti dal 2003 ci sono già 17 mila caschi blu dell' Onu che non sono in grado di assicurare un minimo di ordine, inadeguati e impreparati all'impressionante escalation militare di queste settimane, nonostante abbiano ricevuto l'ordine di sparare per difendere la città di Goma. Anche per questo Solana ha espressamente chiuso la porta all'invio di rinforzi dall'Ue, dicendo che il problema non si risolve militarmente, ma a livello politico.
Il ministro degli esteri francese Kouchner si è recato nei giorni scorsi a Goma insieme al suo collega britannico David Miliband, ma il tentativo di mediazione risulterà inutile se non verrà chiarito e ridefinito il ruolo che devono avere le Nazioni Unite e le organizzazioni multilaterali nelle crisi internazionali.
Sempre di più si sta cercando di fare in modo che sia l’Unione africana (Ua) ad avere un ruolo privilegiato nell’orientare il dibattito e le situazioni di crisi in Africa. L’obiettivo dell’Europa non deve essere quindi quello di lanciare una nuova iniziativa, ma garantire il migliore sostegno politico possibile all’Onu e all’Unione africana.
Pur essendo un’organizzazione multilaterale recente (sorta nel 2002) e ancora relativamente debole, l’Unione africana negli ultimi tempi, per le ripetute crisi anche belliche dell’Africa, ha avuto più di un banco di prova per proporsi nello scacchiere internazionale, riuscendo ad avere una performance non negativa nella crisi della Guinea nei primi mesi del 2007.
L’esperienza del Ruanda o del Sudan dovrebbero insegnare qualcosa; se la comunità internazionale non si muoverà rapidamente i profughi del Congo saranno sterminati. Occorre agire subito. Affinché la guerra all’Iraq, che così esplicitamente ha enucleato i radicali problemi dell’Ue in politica estera, non sia risultata vana, un’altra occasione è alle porte.
È giunto il momento che l’Europa faccia sentire la propria voce, che unita si alzi per dichiarare il proprio «no» all’ennesimo sterminio di massa coperto da interessi economici e di potere. Dobbiamo fare di tutto per legittimare il ruolo dell’Unione africana, che le permetterà di dialogare anche sul piano politico, aspetto fondamentale se è vero il fatto che da una situazione come questa non si uscirà con una soluzione militare, ma politica.
CONGO/ La storia di Cyprien: convivere con la guerra seminando speranza tra fucili e machete - Edoardo Tagliani - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Cyprien Kamarande è congolese, ha 48 anni, una moglie, due figlie e di mestiere fa l’agronomo. E’ nato e cresciuto a Rutshuru, un territorio della regione del Nord Kivu. E’ zona di guerra dal 1996, ma solo oggi sale alla ribalta della stampa internazionale perché epicentro, insieme a Goma, dell’ultima “crisi del Congo”.
Da sei anni lavora per l’Ong italiana Avsi su progetti per la sicurezza alimentare d’urgenza: assistenza in viveri, colture a breve ciclo vegetativo e, nelle zone relativamente calme, moltiplicazione di sementi per l’autosufficienza agricola.
Nel 1997 le milizie circondarono il suo villaggio e spararono sulla folla. La prima strage del mercato di Rutshuru. In futuro, sarebbe stato necessario numerarle.
Tra le bancarelle c’erano sua moglie e i suoi tre figli, ma i cadaveri non furono ritrovati lì. Una volta cessato il fuoco, i miliziani trascinarono i sopravvissuti nella chiesa del villaggio.
La famiglia di Kamarande bruciò con l’edificio.
Da quella notte, cominciò a digrignare i denti e trovò la fede. Decise di comunicarlo al mondo con un grande crocefisso appeso al collo.
Tre anni dopo la strage, Kamarande prese ancora moglie e si rifece una famiglia.
Da quando è stato assunto da Avsi, corre sulle strade più pericolose della regione. A piedi, in bicicletta, in auto, in moto e persino in piroga.
Lo hanno già rapinato, minacciato, picchiato. L’ ultimo incidente accadde sulla strada tra Rutshuru e Nyamylima. Un gruppo di banditi lo malmenò e lo lasciò in mutande. Letteralmente.
«Anche i pantaloni, mi hanno tolto – dice sghignazzando – Che vergogna!».
Perché ride? Per due motivi. Il primo è che chi vive in guerra da dodici anni, le lacrime le ha finite. Magari sulle ceneri d’una chiesa. Il secondo è che non l’hanno ammazzato. Come fare sei al superenalotto.
Qualche mese fa, chiamato da Avsi a lavorare in una zona storicamente controllata dal Generale Laurent Nkunda (lo stesso che oggi compare nei titoli dei giornali italiani e che è erroneamente identificato come “il Ribelle del Congo”, mentre i gruppi armati ufficialmente riconosciuti sono 32), Kamarande è salito in auto e ha fatto il suo dovere insieme ad altri due agronomi e al responsabile del progetto.
Una volta arrivati in zona, il gran capo ha deciso di incontrare la delegazione Avsi.
Le guardie del corpo del Generale hanno accompagnato l’equipe dal comandante.
Un evento simile è routine per chi accetta incarichi di lavoro in determinate regioni del Paese. Non fosse che insieme a Nkunda sedeva un altro Generale. Forse lo stesso che diede l’ordine di sparare sul mercato di Rutshuru: sui mandanti e gli esecutori di quella strage, infatti, non sono bastati undici anni per fare chiarezza.
Kamarande si è dunque trovato nella stessa stanza con uno dei supposti carnefici della sua famiglia. A sorseggiare un latte cagliato e a discutere della possibilità di coltivare in zona.
«C’est du travail», è lavoro, ha detto laconico senza aggiungere altro. D’altronde, i vari “incidenti di percorso” in cui l’agronomo è incappato sono riconducibili a differenti gruppi armati. Detta in breve, ovunque egli vada incontra qualcuno che gli ha fatto violenza.
Lo scorso mercoledì 5 ottobre, durante quella che la stampa internazionale ha battezzato come la strage di Kiwanja, Kamarande era là, perché là è casa sua. Kiwanja è un villaggio tanto a ridosso di Rutshuru da esserne considerato un quartiere periferico. Aveva appena finito di controllare i campi di quella zona e sarebbe dovuto salire a Nord-Est, verso Nyamylima, ma gli scontri lo hanno costretto a rintanarsi in casa per 48 ore. Terminato il massacro, ha preso una moto ed è arrivato a Goma percorrendo un asse considerato da tutti off-limits. Due ore dopo il suo passaggio sono ripresi gli scontri.
Appena arrivato alla base di Goma ha organizzato un ponte radio con i suoi colleghi al lavoro in un'altra zona rossa, molto distante dalla città. Per un’ora, attraverso l’antenna di un ospedale al momento risparmiato dagli scontri, le frasi gridate al microfono non riguardavano la guerra, che è normalità e non notizia, ma i risultati del lavoro: «E la manioca l’avete piantata tutta? E i fagioli? Anche quelli? Appena prima che la popolazione scappasse? Benissimo! Meno male». Alla base di Goma, è partita una ola da stadio. Nonostante tutto, la semina è andata a buon fine.
Domattina partirà per il Rwanda per poi salire in Uganda e da lì rientrare in Congo, così da poter arrivare a Nyamylima dopo un percorso tortuoso che consentirà di evitare l’attraversamento del fronte.
Ecco. Questo è vivere in guerra. Abituarsi a campare tra fucili e machete. L’arte sottile dello scegliere il momento giusto per uscire di casa, dell’avere il sangue freddo per continuare ciò che si sta facendo sino a quando i mortai sono ad una distanza “ragionevole”, dell’essere abbastanza fatalisti per credere che: «Se hai sentito il colpo puoi ridere: non era il tuo. Il tuo non lo sentirai».
Soprattutto, vivere in guerra significa andare avanti a testa alta, anche quando incontri il tuo carnefice. L’istinto di saltargli al collo è forte, ma se alla fine vince la tenacia di chi pianta la manioca anche sotto i mortai, allora c’è speranza.
Se coloro che da dodici anni sopportano sulla groppa questa guerra che non si decide a morire, se proprio loro hanno ancora la saldezza di sperare, allora c’è speranza.
ALITALIA/ Ecco perché l’offerta di Cai da un miliardo di euro non è accettabile - Ugo Arrigo - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nei giorni scorsi il Commissario straordinario di Alitalia ha rivelato le condizioni economiche offerte da Cai per l’acquisto degli asset della vecchia azienda.
Il prezzo proposto per l’insieme delle attività di interesse di Cai è un miliardo di euro che sarà pagato parte in denaro e parte attraverso l’accollo di debiti (625 milioni) e il pagamento del saldo algebrico tra specifiche partite debitorie e creditorie; la parte in denaro sarà versata in più rate, di cui solo 100 milioni alla chiusura dell’operazione prevista per il 30 novembre 2008, il resto in due rate successive a tre e 24 mesi. Per beni e contratti di Alitalia Cai offre 900 milioni, per la parte di Alitalia Servizi di suo interesse 57 milioni, 7 milioni per AZ Airport, 19 per Alitalia Express e 17 per Volare.
Sulla congruità dell’offerta si dovranno esprimere entro pochi giorni i due advisor, Banca Leonardo per il Ministero dell’Industria e Rotschild per il Commissario di Alitalia.
Quale sarà il responso? Pensiamo di non azzardare troppo nel prevedere che l’offerta sarà ritenuta congrua e che il Commissario accetterà l’offerta. In fondo sinora tutti gli attori istituzionali coinvolti, dal Commissario, all’Enac, all’Antitrust, hanno recitato la loro parte secondo un copione rigidamente predeterminato e non vi è mai stata voce che sia apparsa fuori dal coro. È dunque difficile pensare che possa manifestarsi nella prossima occasione, la più delicata di tutte.
Ma l’offerta è davvero congrua? In attesa del responso dei due advisor ci permettiamo di illustrare alcune ragioni del nostro dissenso.
Tra i beni oggetto di acquisizione vi sono nell’offerta Cai 64 aerei dei 109 complessivamente di proprietà di Alitalia (oltre al subentro nei contratti di leasing di altri 29 aeromobili). A fine 2007 i 109 aerei risultavano valutati in bilancio 1,98 miliardi di euro; se consideriamo nell’ammontare massimo ipotizzabile la loro perdita di valore in corso d’anno possiamo stimare un ammortamento negli 11 mesi per 180 milioni di euro che ridurrebbe la loro valutazione a 1,8 miliardi di euro al 30 novembre 2008, data prevista per il subentro di Cai.
Il valore medio per aeromobile sarebbe pertanto di 16,5 milioni di euro, corrispondente a circa 1,057 miliardi per i 64 aerei oggetto di cessione (se assumiamo, in maniera ragionevole, un identico mix tra breve e lungo raggio negli aerei aggetto di acquisizione rispetto agli aerei in proprietà della vecchia Alitalia).
In sostanza Cai si limita a pagare il valore di libro dei velivoli che acquisisce mentre tutti i diritti di traffico (i preziosi slot per il decollo e l’atterraggio negli aeroporti, tra cui numerosi aeroporti europei importanti e soggetti a congestione) sono valutati zero.
Questo è il primo problema; il secondo consiste nel fatto che nell’offerta Cai è prevista l’acquisizione (a prezzo zero) non solo dei diritti di traffico attualmente esercitati attraverso i 64 velivoli che vengono acquistati bensì di tutti gli slot attualmente nella disponibilità di Alitalia, compresi quelli utilizzati dai 45 aerei in proprietà e dagli altri in leasing che Cai non intende prendere in carico; si tratta di slot che Cai non potrà utilizzare perché non avrà un numero sufficiente di aeromobili a disposizione.
È evidente che la sottrazione al Commissario di slot che la nuova compagnia non avrà la possibilità di utilizzare danneggia in maniera consistente la gestione commissariale e i suoi creditori poiché ne impedisce la vendita ad altri soggetti eventualmente interessati, ad esempio in congiunzione ai rimanenti 45 velivoli che il Commissario dovrà cedere per poter rimborsare crediti e obbligazioni. Sarà molto difficile per Fantozzi piazzare sul mercato 45 aeromobili piuttosto vecchi, oltre che grandi consumatori di carburante, se non potrà farlo in congiunzione con diritti di traffico sui quali utilizzarli (da parte di altri vettori) sui cieli europei.
E il vantaggio per Cai di acquisire slot che non saranno occupati? Esso è differente a seconda che si tratti di diritti relativi a rotte domestiche oppure a rotte europee. Nel primo caso l’obiettivo è di impedire che possano essere utilizzati da concorrenti, eventualità che si porrebbe in forte contrasto con la finalità, perseguita attraverso la fusione con AirOne, di restringere la concorrenza sul mercato interno e aumentare in maniera consistente le tariffe. Nel secondo caso non si vede altro beneficio se non quello derivante dalla cessione ad altre compagnie poiché sulle rotte infraeuropee la concorrenza è già molto estesa (i vettori low cost hanno raggiunto in estate il 45% dei posti offerti da e per l’Italia) e il congelamento degli slot ad esse relative non produrrebbe effetti paragonabile alla stessa operazione attuata sulle rotte domestiche.
La vendita ad altri vettori da parte di Cai degli slot posseduti nei maggiori aeroporti europei e non più utilizzati avrebbe la conseguenza di ridurre in maniera significativa per i suoi azionisti l’esborso netto complessivo dell’intera operazione di acquisizione della vecchia Alitalia.
Il fatto che gli slot abbiano un valore economico, spesso anche consistente, è documentato dalla storia recente di Alitalia: poiché in Gran Bretagna gli slot utilizzati dai vettori erano già da tempo commercializzabili la stessa Alitalia aveva venduto lo scorso 26 dicembre tre coppie nell’aeroporto di Heathrow ricavando la somma di 54 milioni di euro, corrispondente a un prezzo medio per coppia di ben 18 milioni (molto superiore, come si può vedere, alla valutazione zero nell’offerta di Cai).
Un prezzo così elevato deriva dal fatto che l’aeroporto londinese è congestionato; pertanto è evidente che non tutti gli slot in aeroporti europei hanno un valore del medesimo ordine di grandezza ma tutti gli slot relativi ad aeroporti e orari congestionati hanno invece un valore, almeno per quanto riguarda l’Unione Europea: con la comunicazione del 30 aprile scorso la Commissione Ue ha infatti introdotto un mercato secondario per gli slot, estendendo a tutti i paesi quanto già si verificava in Gran Bretagna.
Gli slot che Cai acquisirà da Alitalia risultano pertanto cedibili ad altre compagnie e hanno valore in quanto traggono origine da un sistema di assegnazione del tipo grandfather’s rights: la compagnia storica che occupa lo slot ha il diritto di conservarlo e lo mantiene anche nella stagione Iata successiva se lo ha utilizzato per almeno l’80% del tempo.
Negli aeroporti/fasce orarie congestionate non è dunque possibile ottenere slot dal gestore aeroportuale se non acquistandoli da vettori che ne dispongono. Poiché le compagnie storiche sono quelle che hanno avviato i collegamenti più indietro nel tempo, in periodi in cui non vi era scarsità, e hanno in conseguenza scelto le fasce orarie più interessanti per i consumatori, detengono ora i diritti più pregiati. La stessa Alitalia possiede diritti di atterraggio e decollo nei principali scali europei, tendenzialmente congestionati, nei quali la possibilità di aprire una nuova rotta è subordinata all’acquisto oneroso dei relativi slot. Peccato che Cai intenda acquisirli dal Commissario Alitalia a prezzo zero.
Quanto valgono questi slot? Secondo una nostra stima prudenziale (che è stata pubblicata da “L’Espresso” del 19 settembre scorso e ripresa in un precedente contributo su Il Sussidiario) il valore complessivo degli slot di Alitalia si collocherebbe tra i 550 e i 900 milioni di Euro, con una stima media di 700-750 milioni.
Se tale cifra è accettabile e Cai desiderasse acquisire una percentuale di slot corrispondente alla quota di aeromobili Alitalia (in proprietà e leasing) che intende utilizzare, l’offerta congrua per le attività di Alitalia (fair value) si collocherebbe a nostro avviso a 1,5 miliardi di euro, il 50% rispetto all’offerta presentata. Molto di più risulterebbe il prezzo congruo se Cai desiderasse invece acquistare il 100% degli slot, ma non vediamo tuttavia la razionalità della loro cessione se non in connessione ai rimanenti 45 aerei in proprietà e agli ulteriori in leasing.
ELEZIONI USA/ Riuscirà Obama a mantenere la laicità positiva dell’America?
José Luis Restan lunedì 10 novembre 2008 - IlSussidiario.net
L’euforia della vittoria di Obama rende difficile un’analisi a caldo sul futuro immediato della politica nordamericana. Ma ci sono dibattiti di fondo in cui si parla di questo futuro, che hanno solamente toccato in superficie il fragore elettorale.
Uno di questi è quello che si riferisce al modello della laicità positiva che forgiarono i Padri fondatori e alle minacce che su di esso incombono. Questo è stato l’argomento di un interessante discorso dell’Ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, significativamente pubblicato la scorsa settimana dall’Osservatore Romano.
Di fronte ai possibili ottimismi superficiali, l’Ambasciatrice Glendon ricorda nel suo intervento che il modello positivo di laicità degli Stati Uniti, caratteristico sin dalla loro fondazione, oggi sta “lottando per la propria vita”.
Ricordando il viaggio di Benedetto XVI negli Usa dello scorso aprile, Glendon sottolinea l’affermazione papale secondo cui «i Padri fondatori vollero creare uno Stato laico, non perché fossero ostili alla religione, ma per amore verso la religione, che si può vivere liberamente solamente nella sua autenticità».
Il Papa ha continuato descrivendo gli Stati Uniti come un Paese «in cui la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, non è solamente tollerata, ma apprezzata come l’anima della nazione e come una garanzia fondamentali dei diritti e dei doveri umani».
Approfondendo in seguito le parole di Alexis de Tocqueville, convergenti con quelle di Benedetto XVI, la Signora Glendon spiega che quel sistema era destinato a proteggere la religione e le Chiese dal Congresso nazionale, e non viceversa, perché si basava sulla convinzione profonda che il successo dell’esperimento democratico americano non era dovuto tanto alla Costituzione o alle leggi, quanto alle virtù e alla cultura (costumi) del popolo, la cui salvaguardia era precisamente la religione.
Secondo Glendon, il caloroso elogio di Benedetto XVI a questo modello storico di laicità positiva non significa che il Papa non sia cosciente del fatto che oggi esiste una lotta tra chi si sforza di mantenere tale modello e chi vorrebbe sostiuirlo con quel laicismo che deplora nei propri discorsi. In questo senso Glendon ricorda la forte esortazione ai Vescovi nordamericani: «Il mantenimento della libertà [...] richiede il coraggio di partecipare alla vita pubblica e di contribuire con le nostre convinzioni ai dibattiti problematici [...]. In definitiva, la libertà è sempre nuova, è una sfida per ogni generazione e deve essere conquistata per il bene comune».
Così dunque il Papa distribuisce elogi e avvertenze nei medesimi discorsi, perché secondo Glendon vuole segnalare il valore del modello storico nordamericano, e allo stesso tempo evidenziare che oggi è in pericolo
Questa è anche l’opinione dell’Ambasciatrice, che vede nella successione di una serie di decisioni della Corte Suprema, un’alterazione significativa del modello della laicità positiva. Poco a poco, sempre secondo le analisi di Glendon, sta trionfando un tipo di laicità che vuole eliminare quasi tutti i segnali di religiosità nelle istituzioni pubbliche, uno scenario giuridico che si muove in parallelo con i profondi cambiamenti sperimentati dalla società americana a partire dagli anni ’60 in campi come l’aborto o i rapporti sessuali.
Un aspetto inquietante sono le crescenti difficoltà sperimentate dalla tradizionale cooperazione tra le Chiese e gli Stati per quanto riguarda le scuole, gli ospedali e i servizi sociali. Le pressioni che subiscono le organizzazioni cattoliche ad abbandonare i propri principi per poter avere la collaborazione degli Stati sono molto forti, come si è visto nel 2006 in Massachusetts, dove Catholic Charities ha dovuto abbandonare la sua attività nel campo delle adozioni, perché le negava alle coppie omosessuali.
Come sintesi di tutti questi fatti, Glendon sostiene che esiste una chiara tendenza dei tribunali a limitare la presenza della religione nell’ambito pubblico, basata su un concetto di libertà radicalmente individualista.
In realtà le certezze di Tocqueville sulla democrazia americana hanno smesso di essere moneta comune in molti ambiti della vita culturale, giuridica e politica di quel grande Paese. E ora che comincia la presidenza di Obama, vista da molti come un cambiamento storico, sarebbe bene conoscere quale sarà l’orientamento della sua politica in questa materia. Perché nell’epoca della globalizzazione dei mercati, di Internet e della lotta globale contro il terrorismo, è più urgente che mai capire che la difesa di una società libera dipende dalla protezione di certe istituzioni come la famiglia, la scuola, le Chiese e gli altri corpi intermedi della società civile.
L’Ambasciatrice Glendon ha osato dirlo giorni prima delle elezioni, ma la sua avvertenza ha ora uno speciale riflesso.
DIALOGO/ Forum cattolico-musulmano: le condizioni per costruire un alfabeto della convivenza Giorgio Paolucci lunedì 10 novembre 2008 - IlSussidiario.net
Dialogo è una delle parole più abusate e usurate nel vocabolario del confronto tra uomini che praticano un’esperienza religiosa. Può essere il piccolo cabotaggio del politically correct o rappresentare una sfida con la quale misurarsi per far conoscere all’interlocutore ciò che si ha di più caro, nel desiderio che anch’egli faccia altrettanto. Il seminario organizzato a Roma dal 4 al 6 novembre dal Forum cattolico-musulmano – istituito dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e dai rappresentanti dei 138 leader musulmani che nel 2007 avevano firmato la lettera aperta rivolta al Papa e agli altri leader cristiani – è stato un “laboratorio di dialogo” a cui guardare con interesse per vari motivi.
Il tema centrale del confronto – “Amore di Dio, amore del prossimo” – è stato affrontato sia nei suoi aspetti teologici e spirituali, sia nelle dimensioni culturali, etiche e sociali. Nella dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro, frutto di una laboriosa mediazione, vengono enunciati obiettivi molto impegnativi, specie se si pensa a quanto accade nel mondo musulmano: rispetto per la vita e la dignità di ogni persona, libertà di coscienza, dignità da riconoscere a uomini e donne su base paritaria, rifiuto di discriminazioni basate sulla fede, diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
Ricevendo in udienza i partecipanti al seminario (che verrà replicato tra due anni in un Paese a maggioranza islamica), Benedetto XVI li ha esortati a “lavorare insieme nel promuovere il rispetto autentico per la dignità della persona umana e per i diritti umani fondamentali, sebbene le nostre visioni antropologiche e le nostre teologie giustifichino ciò in modi differenti”. E ha sottolineato che secondo la tradizione cristiana l’amore di Dio “si fa presente nella storia umana, è divenuto visibile, manifestato in maniera piena e definitiva in Gesù Cristo”. Niente equivoci sul piano teologico, dunque, e insieme l’indicazione di un percorso che è possibile costruire a partire dalla comune condizione umana. Il Papa ha usato parole forti a proposito della strumentalizzazione della fede operata a fini ideologici e politici: ha definito “atti ingiustificabili” la discriminazione e la violenza che i credenti sperimentano in tutto il mondo e le persecuzioni spesso violente di cui sono oggetto, “tanto più gravi quando vengono compiuti nel nome di Dio. Il nome di Dio può essere solo un nome di pace e fratellanza, giustizia e amore”.
Quale ascolto effettivo troveranno queste parole e gli impegni contenuti nella dichiarazione comune che ha concluso l’incontro del forum cattolico-musulmano? Difficile azzardare previsioni attendibili: le cronache testimoniano quanto la libertà religiosa, tema centrale di qualsiasi confronto che non voglia ridursi ad accademia, continui a subire violazioni. E a ricordarlo è arrivata proprio in questi giorni, indirizzata ai partecipanti al seminario romano, un’accorata lettera aperta firmata da 144 cristiani dell’Africa del Nord e del Medio Oriente (tra cui 77 musulmani convertiti al cristianesimo): in essa si chiede che la legge islamica non sia applicata ai non musulmani e che la libertà di cambiare religione venga riconosciuta come diritto fondamentale.
Le due delegazioni che si sono riunite in questi giorni erano composte da teologi, esperti e autorità religiose. Come noto, a differenza di quanto accade in campo cattolico, nel mondo musulmano non esiste una gerarchia formalmente e unanimemente riconosciuta. Ma è da salutare con interesse il fatto che nella delegazione islamica fossero presenti diverse espressioni della “umma”. Anche la “lettera dei 138”, nata sull’onda lunga suscitata dal discorso di Ratisbona, era stata sottoscritta da una pluralità di voci (sunniti, sciiti, ismailiti, sufi, originari di 43 Paesi): questo conferma la serietà e la novità di un’iniziativa volta a creare un consenso di fondo al dialogo con i cristiani all’interno di un mondo composito e spesso (al di là delle dichiarazioni di facciata) discorde. Un mondo in cui le aperture al confronto con l’altro e il desiderio di misurarsi con la modernità convivono con le pulsioni nichiliste e con i sogni di egemonia politico-religiosa. Un mondo con cui è più che mai necessario costruire l’alfabeto di una convivenza che abbia al centro la sacralità e la dignità della persona, a partire da quella “ragione allargata alla trascendenza” che il discorso di Ratisbona ha riproposto come terreno di lavoro comune.
USA/ Come affronterà Obama il nodo del sistema sanitario americano? - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Alla luce della crescita dei costi, della difforme qualità di assistenza e dell’aumento della popolazione non assicurata, vi è un generale consenso che la sanità degli Stati Uniti necessiti di una riforma radicale. In effetti, con una spesa annua pro-capite di 9000 $ anno (più di 4 volte il valore italiano) raddoppiata negli ultimi 10 anni, il sistema sanitario americano presenta oggettivi problemi di sostenibilità, alla vigilia della più profonda crisi economica dal dopoguerra. A sottolineare l’importanza della questione, e l’urgenza di una svolta, da ormai un anno il New England Journal of Medicine, la più prestigiosa rivista medica del pianeta, ha dedicato ampio spazio ai programmi per la nuova sanità degli Stati Uniti.
Fino a ospitare, il 9 ottobre scorso e con un’impeccabile applicazione della par condicio, un editoriale nel quale John McCain e Barack Obama hanno illustrato la propria ricetta per dare un futuro all’assistenza sanitaria del paese. Al di là dei riflettori puntati sugli spot di Obama o sul look di Sarah Palin, è infatti evidente che su questo tema entrambi i candidati alla Casa Bianca hanno giocato gran parte della loro credibilità politica, e non si è trattato di un aspetto secondario nella scelta per Obama. Cerchiamo di capire perché.
La sanità americana è finanziata attraverso un sistema basato su piani assicurativi privati (plans) che possono gestire in proprio strutture e servizi (health management organizations, HMOs) o acquistare sul mercato le prestazioni richieste da erogatori convenzionati (preferred-provider organizations, PPOs). Per i dipendenti di aziende medio-grandi, i plans sono acquistati come parte del pacchetto retributivo dal datore di lavoro, il quale sceglie i contenuti della polizza e l’estensione della copertura assicurativa. Vi sono poi fondi governativi (Medicare, Medicaid) che provvedono a offrire un pacchetto di base ai pensionati ed alle categorie gravemente disagiate. Tutti gli altri cittadini possono acquistare in proprio una polizza sanitaria privata a un costo variabile fra gli 8 e i 12000 $ per persona.
Indipendentemente dalla modalità di accesso, tutti i plans prevedono clausole e franchigie complesse che ne limitano la copertura reale in caso di sinistro, oltre a formule di incremento del premio per i soggetti con malattie croniche (risk-rating). Si comprende quindi come 46 milioni di americani (oltre il 15% della popolazione) siano oggi sprovvisti di qualsiasi assicurazione sanitaria. Inoltre, l’aumento della spesa sanitaria incide direttamente sul costo del lavoro e, nella fase attuale di recessione economica, le aziende devono scegliere fra un impoverimento dei salari e la salute dei dipendenti. Negli ultimi 10 anni la quota delle assicurazioni sanitarie a carico delle imprese è infatti diminuita dal 75 al 70%.
In questo scenario, il programma di riforme del neopresidente Obama punta essenzialmente su tre aspetti (Tabella 1). Anzitutto, le imprese che non intendano provvedere alla copertura assicurativa dei propri dipendenti, sarebbero obbligate a pagare una tassa destinata a creare un fondo per l’assistenza dei soggetti non assicurati. Questa alternativa “play or pay” nelle intenzioni mira a liberare risorse per nuovi assistiti disincentivando al tempo stesso l’esposizione dei lavoratori. Nella sostanza, tuttavia, si riduce a una tassa sul lavoro che l’azienda deve compensare riducendo i salari o l’occupazione, in un momento in cui la congiuntura economica imporrebbe il contrario. La seconda proposta consiste nell’istituzione di due nuove opzioni destinate a soggetti che non hanno accesso a piani assicurativi standard: un fondo assicurativo federale (simile a Medicare) e un gruppo di acquisto che comprerebbe volumi consistenti di servizi dalle HMO per riproporli sotto forma di plans a prezzi calmierati.
Le risorse necessarie a finanziare queste assicurazioni pubbliche deriverebbero per la maggior parte dai proventi della tassa sulle imprese che scelgono l’opzione “pay”. Si tratta di un’ipotesi suggestiva e in qualche misura dirompente per lo status quo, introducendo la possibilità per un soggetto pubblico di entrare come concorrente nel mercato assicurativo. Al momento, tuttavia, non esistono stime che consentano di giudicarne la fattibilità. Un terzo ambito di intervento, consiste in una più stretta regulation del settore, attraverso una agenzia per la valutazione di efficacia dei servizi e un controllo dei sistemi di riassicurazione e franchigia per gli assistiti con malattie croniche. Per quanto è dato di sapere al momento, pare difficile che un’estensione delle garanzie non finisca a breve per aumentare i costi dei plans, gravando sui premi pagati dal cittadino.
In sintesi, come ha osservato un editoriale di Joseph R. Antos sulle pagine dello stesso New England, la politica di Obama (ma anche la deregulation di McCain) consiste in una serie di proposte che “alleviano i sintomi ma non curano la malattia latente che colpisce il sistema sanitario statunitense: il complesso di incentivi perversi che spingono la spesa a una crescita inesorabile, rendendo le polizze sanitarie inaccessibili a milioni di cittadini e influenzando (o manipolando) la stessa pratica clinica”. Nei confronti di questo cancro, le generiche indicazioni programmatiche riguardanti la semplificazione amministrativa, l’informatizzazione dei dati clinici, il coinvolgimento dell’industria farmaceutica suonano come palliativi che non intaccano sostanzialmente un sistema di mercato fortemente radicato nell’economia del Paese e alla base delle più potenti lobby che sostengono l’establishment politico e finanziario. Dalle prime mosse del neo-presidente si potrà giudicare se, oltre all’estetica, vi sia anche la capacità etica di dare sostanza alle riforme anche nel delicato settore della salute.
(Luca Munari - Ass. Medicina e Persona)
Tabella 1
Punti qualificanti del programma di Barack Obama
• Tassa per i datori di lavoro che non offrono piani sanitari ai dipendenti (escluse le piccole aziende)
• Creazione di un’assicurazione sociale governativa (analoga al fondo Medicare riservato agli anziani) riservata ai dipendenti di piccole aziende e ai non assicurati
• Creazione di un gruppo di acquisto federale per assicurazioni private a prezzi calmierati
• Assicurazione obbligatoria per i bambini
• Sussidi ai meno abbienti per l’acquisto di pacchetti sanitari
• Regulation dei fondi privati contro l’aumento indiscriminato in funzione dello stato di salute
• Programma federale per sostenere i costi delle imprese nel riassicurare i dipendenti ammalati
• Risparmi attraverso informatizzazione dei dati sanitari e disease management per le malattie croniche
• Semplificazione delle procedure amministrative di verifica dei rimborsi
• Possibilità per Medicare di negoziare direttamente con l’industria farmaceutica
• Agenzia governativa per la valutazione di efficacia dei servizi
Punti qualificanti del programma di John McCain
• Fiscalizzazione dei premi a carico del datore di lavoro per le polizze sanitarie dei dipendenti (attualmente esentasse)
• Sgravi fiscali per i sottoscrittori di assicurazioni private
• Creazione di fondi a copertura delle assicurazioni per i soggetti non assicurabili sul mercato privato
• Promozione di polizze individuali e a copertura parziale
• Deregulation del mercato assicurativo
• Riforma del sistema di rimborso di Medicare: dal finanziamento a prestazione a tariffe per episodio di cura e in base agli outcome
• Percorsi di miglioramento della qualità di cura in base a: aumento competizione fra i providers, sviluppo del mercato farmaci generici, enfasi sulla prevenzione e gestione della cronicità, aumento dell’informatizzazione dei dati sanitari, riforma dei sistemi di controllo della malpractice.
Da New England Journal of Medicine, 2008;359:781-784
Anche al Sud si può raccogliere la sfida dell'imprenditoria. La parola d'ordine è "insieme" - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nella storia del Consorzio Clemendo sono racchiusi alcuni degli snodi più importanti del fare impresa in Italia: il sud, l'innovazione, la rete, l'internazionalizzazione… Snodi che affrontati uno per uno, hanno dato vita a una realtà capace di crescere in un contesto difficile, e di affermarsi all'estero.
Tutto nasce in Calabria, nella piana di Sibari, in una terra ricca di coltivazioni di agrumi e di antiche tradizioni. E' qui che alcuni imprenditori cominciano a costruire un'idea affascinante: unire più aziende per ottenere volumi di prodotto adeguati ad affrontare il mercato estero e la grande distribuzione organizzata.
Ma anche in queste terre non è facile mettere insieme sotto un unico progetto diversi imprenditori. L'individualismo, le diffidenze, le titubanze, sembrano porre una pesante incognita.
Compagnia delle Opere ha dato un importante aiuto in questa fase. Ha costruito, sostenuto, e incoraggiato le relazioni tra gli imprenditori, sino alla creazione di un vero e proprio Consorzio che oggi ha sede a Corigliano Calabro. Non è stato facile, e di tempo ne è servito parecchio: "I primi quattro anni sono serviti a conoscersi meglio, imparare a dialogare, e scambiare informazioni" spiegano oggi. Poi si è arrivati alla definizione di regole comune in modo da facilitare la collaborazione e valorizzare la qualità del lavoro. L'obiettivo è quello di andare insieme sui mercati esteri, mentre sul territorio ognuno è libero di muoversi come meglio crede.
Così, grazie all'unione in rete di 10 operatori, nel 2001 nasce il Consorzio Clemendo che ben presto arriva a produrre oltre 500mila quintali di clementine.
Non solo: in fase di acquisto grazie alla loro "massa di consumo" riescono a comprare a prezzi molto competitivi beni e prodotti di largo consumo (come ad esempio le cassette di legno per la frutta) e apparecchiature per il condizionamento degli agrumi, e in questo modo abbassare nettamente il costo finale della loro produzione.
Forti di questi vantaggi, negli anni passati hanno sottratto quote di mercato al leader storico nella coltivazione degli agrumi, la Spagna protagonista di una leadership basata su volumi di prodotto 5 volte superiori a quelli dell'Italia. In un momento di difficoltà della produzione spagnola, i soci del Consorzio Clemendo hanno saputo fare squadra e approfittare dell'occasione per ritagliarsi una più ampia fetta di mercato.
Il consorzio non gestisco solo i prodotti dei soci, ma anche quelli acquistati sul mercato. In questo caso però evitano di approfittare della loro forza in fase di trattativa: anzi, acquistare a un prezzo giusto significa valorizzare il lavoro dei fornitori, e garantire loro una disponibilità economica per continuare a realizzare un prodotto di qualità.
Ottenuti brillanti risultati in Europa, soprattutto verso il Nord e l'Est del Continente, le nuove frontiere sono gli Stati Uniti e il Canada.
I soci del Consorzio si preparano a questa missione facendo leva anche sull'innovazione per quanto riguarda la catena del freddo: studiano e realizzano un nuovo container refrigerante che permette ai loro agrumi di conservarsi meglio e più a lungo.
Anche in questo caso la possibilità di mettere in campo investimenti di peso arriva dalla capacità di realizzare un sforzo comune, ottenendo così un vantaggio competitivo che nessuno di loro avrebbe potuto realizzare da solo. Addirittura ogni impresa mette a disposizione un quantitativo di prodotto per testare il container riducendo così il rischio di perdere una fetta consistente della produzione annuale.
Oggi i dieci soci sono più che soddisfatti. Le loro imprese sono cresciute; i rapporti tra di loro si sono cementati e sono pronti a nuove sfide. Ad esempio quella della collaborazione con la GDO europea, un soggetto difficile, che richiede grandi quantità e un percorso di alta qualità. Occorre controllare e monitorare continuamente i costi. Continuare a innovare. Occorrono investimenti e grandi orizzonti. Insieme si può.
(Davide Bartesaghi)
1) Confessioni di un ex massone - Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese, ne svela i segreti - MADRID, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese per 15 anni, svela alcuni segreti della Massoneria in un libro di recente pubblicazione e dal titolo: “Sono stato massone” (LibrosLibres).
2) Servono politiche pubbliche che promuovano la riduzione degli aborti - Afferma l'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) - di Miriam Díez i Bosch
3) La profezia della "Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II - Intervista al filosofo domenicano Mauricio Beuchot Puente - di Gilberto Hernández García
4) Obiezione di coscienza e diritti del concepito - di Lucio Romano* - ROMA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' opportuno fare un richiamo alla Legge 40/2004 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", premesse le argomentazioni in capo alla legge 194/78, le correlate riflessioni sulla espressione della obiezione di coscienza come tutela della vita umana e le considerazioni in merito alla Sentenza n.27/1975 della Corte Costituzionale (1) che ha "ricondotto la giustificazione dell'aborto nella scriminante dello stato di necessità (sia pure con confini più ampi di quelli indicati dall'art. 54 Codice penale) e non nell'esercizio di un diritto di scelta della donna".
5) Cattolici e musulmani hanno sottoscritto una carta dei diritti. Ma il difficile viene adesso - Il difficile è passare dalla teoria alla pratica. Parole, silenzi e retroscena del primo incontro del Forum tra le due religioni nato dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e dalla lettera al papa di 138 saggi islamici - di Sandro Magister
6) Solo l’intervento dell’UE può evitare un genocidio in Congo - Mario Mauro - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) CONGO/ La storia di Cyprien: convivere con la guerra seminando speranza tra fucili e machete - Edoardo Tagliani - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) ALITALIA/ Ecco perché l’offerta di Cai da un miliardo di euro non è accettabile - Ugo Arrigo - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) USA/ Come affronterà Obama il nodo del sistema sanitario americano? - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) Anche al Sud si può raccogliere la sfida dell'imprenditoria. La parola d'ordine è "insieme" - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Confessioni di un ex massone - Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese, ne svela i segreti - MADRID, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Maurice Caillet, Venerabile di una Loggia francese per 15 anni, svela alcuni segreti della Massoneria in un libro di recente pubblicazione e dal titolo: “Sono stato massone” (LibrosLibres).
Rituali, norme di funzionamento interno, giuramenti - in particolare le implicazioni del giuramento che obbliga a difendere gli altri “fratelli” massoni - oltre all'influenza sulla politica da parte di questa organizzazione segreta vengono ora alla luce.
Il volume svela anche la decisiva influenza della Massoneria nell'elaborazione e approvazione di leggi come quella dell'aborto in Francia, a cui Maurice Caillet, in quanto medico, ha partecipato attivamente.
Nato a Bordeaux nel 1933 e specializzato in Ginecologia e Urologia, Caillet ha effettuato aborti e sterilizzazioni prima e dopo la legalizzazione nel suo Paese delle interruzioni di gravidanza. Membro del Partito Socialista Francese, è arrivato a ricoprire incarichi di rilievo nell'amministrazione sanitaria.
Quando è entrato ufficialmente nella Massoneria?
Maurice Caillet: All'inizio del 1970 mi convocarono per una possibile iniziazione. Ignoravo praticamente tutto ciò che mi aspettava. Avevo 36 anni, ero un uomo libero e non mi ero mai affiliato a un sindacato o ad alcun partito politico. Un pomeriggio, in una via discreta della città di Rennes, bussai alla porta del tempio, il cui frontone era ornato da una sfinge alata e da un triangolo che circondava un occhio. Venni ricevuto da un uomo che mi disse: “Signore, ha fatto domanda per essere ammesso tra di noi. La sua decisione è definitiva? E' disposto a sottomettersi alle prove? Se la risposta è positiva, mi segua”. Feci un gesto di assenso e venni introdotto in una serie di corridoi. Iniziai a provare una certa inquietudine, ma prima di poterla formulare sentii che la porta si stava chiudendo dietro di noi...
Nel suo libro “Sono stato massone” spiega che la Massoneria è stata determinante per l'introduzione dell'aborto libero in Francia nel 1974.
Maurice Caillet: L'elezione di Valéry Giscard d'Estaing a Presidente della Repubblica Francese portò Jacques Chirac a diventare Primo Ministro, avendo questi come consigliere personale Jean-Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, principale ramo massonico francese, di tendenza laicista. Al Ministero della Sanità fu collocata Simone Veil, giurista, ex deportata di Auschwitz, che aveva come consigliere il dottor Pierre Simon, Gran Maestro della Grande Loggia di Francia, con il quale io mantenevo una corrispondenza. I politici erano ben circondati da quelli che chiamavamo i nostri “Fratelli tre punti”, e il disegno di legge sull'aborto venne elaborato rapidamente. Adottata dal Consiglio dei Ministri nel mese di novembre, la legge Veil venne votata a dicembre. I deputati e i senatori massoni di destra e di sinistra votarono all'unanimità!
Lei afferma che tra i massoni c'è il dovere di aiutarsi. Continua ad essere così?
Maurice Caillet: I “favori” sono un'abitudine in Francia. Certe Logge cercano di essere virtuose, ma il segreto che regna in questi circoli favorisce la corruzione. Nella Fratellanza degli Alti Funzionari, ad esempio, si negoziano certe promozioni, e in quella per le Costruzioni e le Opere Pubbliche si distribuiscono i contratti, con notevoli conseguenze finanziarie.
Lei ha beneficiato di questi favori?
Maurice Caillet: Sì. La Corte d'Appello presieduta da un “fratello” si pronunciò sul mio divorzio ordinando spese condivise, anziché metterle tutte a mio carico, e ridusse l'entità del contributo che dovevo dare ai miei figli. Tempo dopo, in seguito a un conflitto con i miei tre soci della clinica, un altro “fratello massone”, Jean, direttore della Cassa di Sicurezza Sociale, saputa la questione mi propose di assumere la direzione del Centro per gli Esami Sanitari di Rennes.
L'abbandono della Massoneria ha avuto conseguenze sulla sua carriera?
Maurice Caillet: Da allora non ho trovato posto in nessuna amministrazione pubblica o semipubblica, nonostante il mio ricco curriculum.
Ha mai ricevuto minacce di morte?
Maurice Caillet: Dopo essere stato licenziato dal mio posto di lavoro nell'amministrazione e aver iniziato ad agire contro quella decisione arbitraria, ricevetti la visita di un “fratello” della Grande Loggia di Francia, cattedratico e segretario regionale di Forza Operaia, che mi disse con la massima freddezza che se fossi andato avanti presso il tribunale del lavoro “avrei messo in pericolo la mia vita” e lui non avrebbe potuto far niente per proteggermi. Non ho mai immaginato di poter essere minacciato di morte da noti e onorevoli massoni della nostra città.
Lei era membro del Partito Socialista e conosceva molti dei suoi “fratelli” che si dedicavano alla politica. Potrebbe dirmi quanti massoni ci sono stati nel Governo di Mitterrand?
Maurice Caillet: Dodici.
E in quello attuale di Sarkozy?
Maurice Caillet: Due.
Potrebbe dire a un ignorante come me quali sono i principi della Massoneria?
Maurice Caillet: La Massoneria, in tutte le sue obbedienze, propone una filosofia umanista, preoccupata in primo luogo per l'uomo e consacrata alla ricerca della verità, pur affermando che questa è inaccessibile. Rifiuta ogni dogma e sostiene il relativismo, che colloca tutte le religioni su uno stesso piano, mentre dal 1723, nelle Costituzioni di Anderson, pone se stessa su un piano superiore, come “centro d'unione”. Da ciò si deduce un relativismo morale: nessuna norma morale ha in sé un'origine divina e, quindi, definitiva, intangibile. La sua morale evolve in funzione del consenso delle società.
Come si inserisce Dio nella Massoneria?
Maurice Caillet: Per un massone, il concetto stesso di Dio è speciale, come nelle obbedienze chiamate spiritualiste. Nel migliore dei casi è il Grande Architetto dell'Universo, un Dio astratto, ma solo una specie di “Creatore-maestro orologiaio”, come lo definisce il pastore Désaguliers, uno dei fondatori della Massoneria speculativa. Questo Grande Architetto viene pregato, se mi permette l'espressione, perché non intervenga nelle questioni degli uomini, e non viene neanche citato nelle Costituzioni di Anderson.
E il concetto di salvezza?
Maurice Caillet: Come tale non esiste nella Massoneria, salvo sul piano terreno: è l'elitarismo delle successive iniziazioni, anche se queste possono considerarsi appartenenti all'ambito dell'animismo, secondo René Guènon, grande iniziato, e Mircea Eliade, grande esperto di religioni. E' anche la ricerca di un bene che non si specifica in nessun posto... visto che la morale evolve nella sincerità, che, come tutti sappiamo, non è sinonimo di verità.
Qual è il rapporto della Massoneria con le religioni?
Maurice Caillet: E' molto ambiguo. In linea di principio i Massoni proclamano con fermezza una tolleranza speciale nei confronti di tutte le credenze e le ideologie, con un gusto molto marcato per il sincretismo, vale a dire un coordinamento poco coerente delle varie dottrine spirituali: è l'eterna gnosis, sovversione della vera fede. Dall'altro lato, la vita delle Logge, che è stata la mia per 15 anni, rivela un'animosità particolare nei confronti dell'autorità papale e dei dogmi della Chiesa cattolica.
Com'è iniziata la sua scoperta di Cristo?
Maurice Caillet: Ero razionalista, massone e ateo. Non ero neanche battezzato, ma mia moglie Claude era malata e decidemmo di andare a Lourdes. Mentre lei era nelle piscine, il freddo mi costrinse a rifugiarmi nella Cripta, dove assistetti con interesse alla prima Messa della mia vita. Quando il sacerdote, leggendo il Vangelo, disse: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”, ebbi uno shock tremendo perché avevo sentito questa frase il giorno della mia iniziazione al grado di Apprendista ed ero solito ripeterla quando, già Venerabile, iniziavo i profani. Nel silenzio successivo – perché non c'era l'omelia – sentii chiaramente una voce che mi diceva: “Bene, chiedi la guarigione di Claude, ma cosa offri?”. Istantaneamente, e sicuro di essere stato interpellato da Dio stesso, pensai che avevo solo me stesso da offrire. Al termine della Messa, andai in sacrestia e chiesi immediatamente il Battesimo al sacerdote. Questi, stupefatto quando gli confessai la mia appartenenza massonica e le mie pratiche occultiste, mi disse di andare dall'Arcivescovo di Rennes. Quello fu l'inizio del mio itinerario spirituale.
[Per ulteriori informazioni su “Sono stato massone”: www.libroslibres.com]
Servono politiche pubbliche che promuovano la riduzione degli aborti - Afferma l'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) - di Miriam Díez i Bosch
BARCELLONA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- Uno studio rivela che l'unico bene possibile dal punto di vista delle politiche pubbliche è "la promozione della riduzione dell'aborto", che sta provocando danni con un forte impatto economico.
"Aborto e politiche pubbliche", il nuovo studio monografico dell'Istituto di Capitale Sociale (INCAS) dell'Università Abat Oliba CEU (http://www.uao.es/) di Barcellona, rivela che in Spagna si stanno già realizzando 100.000 aborti all'anno, che rendono il Paese uno dei più permissivi d'Europa.
Lo studio è diviso in due parti: una sull'aborto dal punto di vista della "razionalità nella gestione pubblica", l'altra sulla "necessaria prospettiva economica dell'impatto dell'aborto".
Lo studio è guidato dal direttore dell'Istituto, Josep Miró i Ardèvol.
Dal lavoro si apprende che esistono quattro problematiche alla base dell'aumento esponenziale degli aborti. In primo luogo si dovrebbe "sradicare la privatizzazione e il fatto che sia fonte di lucro", proseguendo con il "regolare meccanismi di controllo e supervisione efficaci, come quelli di cui dispongono altri ambiti dell'amministrazione".
In terzo luogo, è necessario "informare la donna e dare tempo per la riflessione", così come "fornire mezzi che favoriscano il fatto di tenere il figlio e informare su questi, come sull'alternativa dell'adozione". La ricerca conclude sostenendo che l'aborto "distrugge il flusso di capitale umano".
Una delle constatazioni è che "le politiche pubbliche si mettono in pratica per ridurre i danni dei comportamenti sociali inadeguati e le loro cause". Per questo, "visto l'impatto e il danno dell'aborto, "una nuova legislazione dovrebbe avere come fine la sua riduzione progressiva, e il fatto di agire sulle cause che lo provocano".
Di fronte a comportamenti sociali che si estendono e hanno effetti indesiderati sulla società, le politiche pubbliche devono avere lo scopo di ridurli. Così è avvenuto con gli incidenti stradali, o con il fumo, ma "perché, anche se l'aborto una pratica oggettivamente nociva, la si vuole escludere dal criterio generale?", si chiede lo studio.
"Una società che ha nella crisi della natalità il suo problema principale e definitivo e nella perdita di capitale umano la sua conseguenza economica più evidente" non ha tuttavia "politiche reali volte a ridurre l'impatto crescente dell'aborto, sempre più incisivo nelle sue conseguenze economiche e dal punto di vista del sistema pubblico di benessere", denuncia.
"Vista la situazione demografica spagnola e l'impatto negativo che ciò significa sulla rendita e sul sistema del benessere, risulta incomprensibile una politica pubblica orientata all'aborto, come invece accade", ha dichiarato a ZENIT Miró i Ardèvol.
"Indipendentemente dal credo di ciascuno, considerando la razionalità dei fatti, l'aborto può considerarsi solo un danno, sia per il bambino non nato che per la donna, per i danni che provoca durante e dopo il processo, e anche per tutta la società", ha aggiunto.
"Ogni aborto genera una perdita di rendita e pregiudica l'equilibrio della Sicurezza Sociale. Quanto più qualificata è la popolazione di un Paese, maggiore è il danno che provoca. Quello morale è identico, inassumibile, ma anche coloro che non valutano questo danno o lo relativizzano non possono negare il danno materiale oggettivo che provoca".
Per questo, "i difensori dell'aborto, se condividono con il resto della società i criteri di ragionevolezza, devono concludere che l'unico bene possibile dal punto di vista delle politiche pubbliche è promuovere la sua riduzione, visto che la libertà, in uno Stato di diritto, non può mai avere come risultato il danno", ha concluso.
Il rapporto, di cinquanta pagine, può essere scaricato gratuitamente nella sezione "Monográficos" dell'Istituto: http://incas.uao.es/cream/
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
La profezia della "Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II - Intervista al filosofo domenicano Mauricio Beuchot Puente - di Gilberto Hernández García
QUERÉTARO (Messico), domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- Si è celebrato recentemente il decimo anniversario della pubblicazione dell'Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, in cui il Pontefice defunto riflette su quelle "due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità".
In questo contesto, pubblichiamo l'intervista a Mauricio Beuchot Puente, sacerdote domenicano ritenuto uno dei principali filosofi dell'America Latina e che si è distinto per i suoi lavori storiografici nell'area della filosofia e della teologia ispaniche.
Beuchot è il fondatore della proposta chiamata ermeneutica analogica, ritenuta oggi un'innovazione nel campo dell'ermeneutica filosofica. Dal 1985 è ricercatore a tempo pieno presso il Centro di Studi Classici dell'Istituto di Ricerche Filologiche (IIFL) dell'Università Nazionale Autonoma del Messico.
Giovanni Paolo II ha pubblicato l'Enciclica "Fieds et Ratio". E' un testo per esperti? Cosa offre concretamente Papa Wojtyła nelle sue riflessioni sul rapporto tra fede e ragione?
Mauricio Beuchot: L'Enciclica non è solo per esperti. La sua intenzione è che tutti gli intellettuali interessati alla fede trovino una via di cui discutere. Giovanni Paolo II ci offre le sue riflessioni sul rapporto tra fede e ragione. Si collocano all'interno di una lunga tradizione, che passa per Sant'Agostino, Sant'Anselmo e San Tommaso, di santificare la ragione partendo dalla fede.
A dieci anni dalla pubblicazione della Fides et Ratio, la dottrina che contiene è ancora attuale? Su cosa si basa questa attualità?
Mauricio Beuchot: La dottrina della Fides et Ratio continua a essere attuale. L'aspetto più attuale può essere l'apertura con cui il Papa tratta la ragione e le sue conquiste. Non si tratta di rifiutarle, ma di incorporarle nel patrimonio del pensiero cristiano.
Viviamo in un'epoca in cui ad alcuni gruppi influenti nella vita sociale sembra che appellarsi alla fede sia da "retrogradi", ma dall'altro lato molte volte si ricorre alla fede in modo fondamentalista. Come si possono conciliare i due aspetti? E' davvero la ragione l'unica che può aiutare a "comprendere" la realtà e a impegnarsi con essa?
Mauricio Beuchot: Non bisogna ricorrere alla fede né con un atteggiamento fondamentalista né con disprezzo. La ragione ha trovato molti limiti, e ogni volta ne vengono segnalati altri, ed è là che si inserisce il rifugio della fede. L'intellettuale onesto e senza pregiudizi contro la religione ha un atteggiamento modesto nei confronti della ragione; non la divinizza né pensa che possa risolvere tutto; si rende conto che esistono cose che in principio non trovano una risposta razionale. Soprattutto in filosofia.
E' nota la frase "philosophia ancilla theologiae" (la filosofia-ragione è l'ancella della teologia-fede). Al giorno d'oggi questa affermazione è valida? Quali sono i limiti e i mutamenti di questa osservazione? La fede ha realmente bisogno della filosofia o è del tutto indipendente dall'esistenza o dalla non esistenza di una filosofia aperta in relazione ad essa?
Mauricio Beuchot: Sicuramente la filosofia aiuta la teologia, ma non più come un'ancella, quanto come una compagna. Dal mio punto di vista, la teologia ha bisogno di ricorrere alla filosofia, per non trasformarsi in quel fondamentalismo al quale abbiamo alluso e che abbiamo detto che è necessario evitare.
Agli uomini e le donne di oggi, preoccupati "per cose più pratiche", come la sopravvivenza quotidiana, dice qualcosa questo dilemma di incontro e scontro tra fede e ragione? In cosa li interessa? Come li aiuta ad essere più umani e felici?
Mauricio Beuchot: Ogni essere umano, per quanto debba affannarsi per le cose della vita quotidiana, ha una vocazione filosofica. Tutti siamo alla ricerca, ci poniamo domande che vanno al di là delle necessità quotidiane. Pur assediati da quelle necessità, troviamo sempre momenti per riflettere su questioni trascendenti. E non tutto si può risolvere con un credo comodo, con una fede stabilita; bisogna pensare, porsi delle domande. E' lì che acquista senso il fatto di vedere il rapporto tra fede e ragione.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
Obiezione di coscienza e diritti del concepito - di Lucio Romano* - ROMA, domenica, 9 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' opportuno fare un richiamo alla Legge 40/2004 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", premesse le argomentazioni in capo alla legge 194/78, le correlate riflessioni sulla espressione della obiezione di coscienza come tutela della vita umana e le considerazioni in merito alla Sentenza n.27/1975 della Corte Costituzionale (1) che ha "ricondotto la giustificazione dell'aborto nella scriminante dello stato di necessità (sia pure con confini più ampi di quelli indicati dall'art. 54 Codice penale) e non nell'esercizio di un diritto di scelta della donna".
La legge 40/2004 riconosce in maniera inequivocabile sia il concepito che i suoi diritti, già nelle fasi precedenti all'annidamento: " [...] è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito". In tale ambito richiamiamo solo alcune delle considerazioni riportate da C. Casini et al. (2), ed ai quali si rimanda per ulteriori e più approfondite argomentazioni. Nostra esigenza è infatti quella di definire le linee principali della tutela del concepito, riportando sinteticamente chiarimenti sui principali interrogativi (3).
Primo interrogativo: quale diritto prevalente per il concepito e quale tutela?
"[...] il dovere di scegliere avendo prevalente riguardo al minore, come stabilito nella Convenzione sui diritti del fanciullo [...] riguarda anche il non nato. A questa conclusione è giunta la Corte Costituzionale nella sentenza 10 febbraio 1997, n. 35, nella cui motivazione si legge che l'art. 1 della legge n. 194/78 sull'interruzione volontaria della gravidanza contiene non solo «la base dell'impegno delle strutture pubbliche a sostegno della valutazione dei presupposti per una lecita interruzione della gravidanza, ma è ribadito il diritto del concepito alla vita», il quale «ha conseguito nel corso degli anni sempre maggiore riconoscimento anche sul piano internazionale e mondiale», «come risulta - continua la sentenza - dalla Dichiarazione sui diritti del fanciullo [...] nel cui preambolo è scritto che il fanciullo a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una particolare protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata sia prima che dopo la nascita». [...] In definitiva dall'art. 1 risulta che la legge 40/2004 (n.d.r.) considera l'embrione a) come un essere umano; b) alla pari dei già nati e perciò c) qualificato come soggetto titolare di diritti; d) fin dal concepimento" (4).
Secondo interrogativo: i diritti del concepito rappresentano una novità nell'ordinamento giuridico italiano?
"L'espressione «diritti del concepito» non è nuova nell'ordinamento giuridico. Essa è usata nell'art. 1 c.c., che peraltro subordina all'evento della nascita i diritti che la legge attribuisce al concepito. [...] La qualificazione del concepito come soggetto titolare di diritti contenuta nella legge n. 40/2004 si collega, da un lato, al riconoscimento del concepito come realtà biologica che è centro unitario di interessi già emergenti dal codice civile, ma dall'altro è nuova perché non subordina i suoi diritti alla nascita. Essa, tuttavia, non modifica l'art. 1 c.c., [...] perché le due norme si trovano su piani diversi. L'art. 1 c.c. si riferisce, infatti, ai rapporti patrimoniali e alla circolazione dei beni, mentre l'art. 1 della legge n. 40/2004 investe in modo specifico la materia della PMA e più generalmente i diritti personalissimi di rilevanza costituzionale e di interesse pubblico" (5).
Terzo interrogativo: quali i possibili diritti dell'embrione?
Quali siano, poi, i possibili diritti «embrionali» (non nel senso di diritti meno consistenti di altri, ma nel senso di diritti attribuiti al concepito) è ben detto dal Parlamento Europeo nella risoluzione dedicata ai problemi etici e giuridici della fecondazione artificiale umana «in vivo» e «in vitro», adottata il 16 marzo 1989 che li elenca come «diritto alla vita e alla integrità, diritto alla famiglia, diritto alla propria identità genetica». Non appare dunque fuori misura l'espressione «diritti del concepito» nell'art. 1 della legge n. 40/2004. Essa è ripetuta per sei volte anche nella motivazione della già citata sentenza n. 35/1997 della Corte Costituzionale, la quale annota anche che «si è rafforzata la concezione, insita nella Costituzione italiana, in particolare nell'art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella sua espressione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili e cioè tra quei diritti che occupano nell'ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono - [...] - all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
All'art. 2 Cost., che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo» aveva fatto riferimento anche la sentenza 18 febbraio 1975, n. 27 della Corte costituzionale per affermare il fondamento costituzionale della tutela del concepito, sia pure evitando di usare l'espressione «diritto alla vita del concepito» e preferendo parlare, in modo più equivoco, di «situazione giuridica del concepito»": "[...] ha fondamento costituzionale la tutela del concepito, la cui situazione giuridica si colloca, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'art. 2 della Costituzione, denominando tale diritto come diritto alla vita, oggetto di specifica salvaguardia costituzionale" (6).
Con una successiva sentenza n. 35 del 1997, la Corte Costituzionale ha stabilito che nell'art. 1 della legge n.194/78 "è contenuta la base dell'impegno delle strutture pubbliche a sostegno della valutazione dei presupposti per una lecita interruzione volontaria della gravidanza, ma è ribadito il diritto del concepito alla vita. La limitazione programmata delle nascite è infatti proprio l'antitesi di tale diritto, che può essere sacrificato solo nel confronto con quella, pure costituzionalmente tutelato e da iscriversi tra i diritti inviolabili, della madre alla salute e alla vita".
Comunque l'obiezione di coscienza è l'espressione di un diritto fondamentale dell'uomo, come riportato nella Carta costituzionale agli artt. 2, 19, 21 primo comma (diritti inviolabili dell'uomo, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di coscienza religiosa).
Dall'art. 2 della Costituzione si evincono alcune considerazioni essenziali: a) l'articolo connota il nostro sistema come «Stato di diritti» che, appunto, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo. L'affermazione sancisce l'originarietà dei diritti inviolabili dell'uomo, che in quanto fondamentali e connaturati alla persona, preesistono allo Stato, il quale oltre a riconoscerli si impegna ad assicurarne un'efficace protezione; b) i diritti inviolabili dell'uomo sono i diritti fondamentali attraverso i quali la persona umana può affermare la propria libertà ed autonomia. Per il loro carattere di appartenenza originaria alla sfera più intima e personale dell'essere umano, i diritti inviolabili dell'uomo sono inalienabili ed intrasmissibili, irrinunciabili ed indisponibili, insopprimibili in quanto il sistema di libertà che essi rappresentano costituisce il fondamento dello Stato di diritto e una loro violazione attuerebbe un sovvertimento dell'assetto costituzionale; c) la norma dopo aver sancito il principio personalista a tutela dei diritti della persona, pone un contrappeso, proclamando il «principio solidarista», ovvero il singolo esce da una posizione di difesa egoistica dei propri interessi, per assumere un ruolo responsabile della collettività.
A tal riguardo la Corte costituzionale "afferma chiaramente che dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali «non può darsi una piena garanzia [...] senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico» (7) e che «la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione» «essa gode di una protezione costituzionale» (8). Queste considerazioni, essendo in gioco un bene così grande come quello della vita umana, rendono configurabile una sorta di «clausola di coscienza» da invocare sia a tutela di quel foro interno in cui risiede il patrimonio più intimo e prezioso dell'uomo (e che, in quanto tale, è inviolabile), sia a difesa di tutti quei comportamenti volti alla promozione del bene fondamentale e indisponibile della vita umana" (9).
* Il prof. Lucio Romano è dirigente ginecologo del Dipartimento di Scienze Ostetrico-Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione all'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e Vicepresidente del Movimento per la Vita (MpV). E' autore, insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini, del libro "RU - 486. Dall'aborto chimico alla contraccezione d'emergenza" (Edizioni ART, Roma).
(1) Corte Costituzionale, Sentenza 18 febbraio 1975, n.27, Giurisprudenza Costituzionale 1975, I: 117-120
(2) Casini C., Casini M., Di Pietro M.L., La legge 19 febbraio 2004, n.40. "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita". Commentario. Giappichelli: Torino, 2004.
(3) La letteratura sullo statuto ontologico dell'embrione, con le diverse posizioni antropologiche, è abbastanza ricca. Per un approfondimento: Comitato Nazionale per la Bioetica, Identità e statuto dell'embrione umano, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'Informazione e l'editoria, Roma, 1996; Palazzani L., Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli: Torino, 1996; Pessina A., Bioetica e antropologia. Il problema dello statuto ontologico dell'embrione umano, Vita e Pensiero: Milano, 1996, 6: 402-424; Pontificia Academia Pro Vita, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, 1998; Di Pietro M.L., Sgreccia E., Procreazione assistita e fecondazione artificiale tra scienza, bioetica e diritto. La Scuola: Brescia, 1999; Casini M., Il diritto alla vita del concepito nella giurisprudenza europea, CEDAM: Padova, 2001; Sgreccia E., Calabrò G.P. (a cura di), I diritti della persona nella prospettiva bioetica e giuridica, Marco: Cosenza, 2002; Serra A., L'uomo embrione. questo misconosciuto, Cantagalli: Siena, 2003.
(4) Casini, La legge 19 febbraio 2004, n.40 ..., p.27
(5) Ibid., p.33
(6) Ibid., p.34
(7) Corte Costituzionale, Sentenza (16.12) 19 dicembre 1991, n. 476
(8) Ibid.
(9) Di Pietro ML, Casini M, Fiori A, Minacori R, Romano L, Bompiani A, Norlevo e obiezione di coscienza, Medicina e Morale 2003; 3: 411-455
Cattolici e musulmani hanno sottoscritto una carta dei diritti. Ma il difficile viene adesso - Il difficile è passare dalla teoria alla pratica. Parole, silenzi e retroscena del primo incontro del Forum tra le due religioni nato dalla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e dalla lettera al papa di 138 saggi islamici - di Sandro Magister
ROMA, 10 novembre 2008 – Nella foto [omessa n.d.r.], Benedetto XVI stringe la mano a Ingrid Mattson, canadese, presidente della Società Islamica del Nordamerica. Osserva la scena Tariq Ramadan, il più famoso e controverso tra i pensatori musulmani europei, egiziano con cittadinanza svizzera e cattedra a Oxford, figlio del fondatore dei Fratelli Musulmani.
La foto è stata scattata giovedì 6 novembre nella Sala Clementina dei palazzi apostolici. Il papa ha appena ricevuto le due delegazioni, una cattolica e una musulmana, di 24 membri più 5 consulenti ciascuna, che hanno partecipato il 4 e 5 novembre, in Vaticano, al primo seminario del Forum cattolico-musulmano istituito dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e da rappresentanti dei 138 leader musulmani che hanno firmato la lettera aperta ai leader cristiani del 13 ottobre 2007, un anno dopo la memorabile lezione tenuta da Benedetto XVI a Ratisbona.
L'incontro col papa è stato aperto da un saluto del cardinale Jean-Louis Tauran, capo della delegazione cattolica, e da due indirizzi letti dal capo della delegazione musulmana Shaykh Mustafa Cerić, sunnita, gran mufti della Bosnia ed Erzegovina, e da Seyyed Hossein Nasr, sciita, iraniano emigrato negli Stati Uniti, professore alla George Washington University.
A tutti ha risposto Benedetto XVI con un discorso nel quale ha detto:
"Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune. Solo a partire dal riconoscimento della centralità della persona e della dignità di ogni essere umano, rispettando e difendendo la vita, che è il dono di Dio e che quindi è sacra sia per i cristiani sia per i musulmani, solo a partire da questo riconoscimento possiamo trovare un terreno comune per costruire un mondo più fraterno, un mondo in cui i contrasti e le differenze vengano risolti in maniera pacifica e in cui la forza devastante delle ideologie venga neutralizzata".
E ancora:
"Auspico che i diritti umani fondamentali vengano tutelati per tutte le persone ovunque. I leader politici e religiosi hanno il dovere di assicurare il libero esercizio di questi diritti nel pieno rispetto della libertà di coscienza e della libertà di religione di ciascuno. La discriminazione e la violenza che ancora oggi i credenti sperimentano in tutto il mondo e le persecuzioni spesso violente di cui sono oggetto sono atti inaccettabili e ingiustificabili, tanto più gravi e deplorevoli quando vengono compiuti nel nome di Dio".
Nel pomeriggio, le due delegazioni hanno diffuso una dichiarazione congiunta. Un documento in 15 punti – riportato integralmente più sotto – nel quale si afferma tra l'altro:
"Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto".
Un'affermazione importante. Perché è noto che tale doppio diritto è lontano dall'essere pienamente praticato negli Stati musulmani. Tant'è vero che poche ore prima, la mattina dello stesso giorno, ricevendo per la presentazione delle credenziali il nuovo ambasciatore della Repubblica Araba d'Egitto presso la Santa Sede, la signora Lamia Aly Hamada Mekhemar, Benedetto XVI si era sentito in dovere di chiedere che fosse data presto "la possibilità di pregare Dio degnamente in luoghi di culto adeguati" ai visitatori cristiani che affollano i centri turistici di quel paese.
Quest'ultimo è un piccolo indizio del divario profondo che ancora separa, in campo musulmano, i riconoscimenti astratti di taluni diritti dalla loro effettiva messa in pratica.
Il seminario del 4-6 novembre del Forum cattolico-musulmano è stato, a questo proposito, rivelatore. Nei suoi successi come nei suoi limiti.
* * *
I lavori si sono svolti a porte chiuse. Sia nel primo che nel secondo giorno la discussione è stata introdotta da due contributi di mezz'ora ciascuno, da parte di un cattolico e di un musulmano. I temi in discussione sono stati dapprima "i fondamenti teologici e spirituali" e poi "la dignità umana e il rispetto reciproco".
Gli autori della lettera dei 138 avrebbero preferito concentrare la discussione sul primo dei due temi, mentre da parte vaticana vi era l'esigenza di andare al concreto. L'agenda dei lavori ha soddisfatto entrambi. Nella dichiarazione finale, il primo dei 15 punti registra il "genio distintivo delle due religioni" nel considerare l'amore di Dio e del prossimo. mentre gli altri punti specificano l'applicazione di questo principio teologico e spirituale alla vita concreta degli individui e delle società.
Il punto 5 della dichiarazione congiunta è stato uno dei più battagliati:
"L'amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico".
L'islamologo gesuita Samir Khalil Samir, membro della delegazione cattolica, ha ricostruito così, su "Asia News" del 7 novembre, la discussione che ha preceduto questa formulazione finale:
"Alcuni musulmani obiettavano: 'Se scrivete queste parole ci mettete in difficoltà. La libertà di religione nei nostri paesi è regolata da leggi dello Stato. Come facciamo a diffondere un documento se è contrario alle leggi dello Stato? Il rischio è di essere squalificati ed emarginati nella nostra società'. Alcuni hanno suggerito di togliere almeno le parole 'in privato e in pubblico'.
"C’era anche una formulazione che rivendicava il diritto di diffondere la propria fede come Da’wa, la missione per l’islam, o come Tabshir, la missione cristiana. Ma questa formulazione è stata ritenuta troppo forte e l’abbiamo eliminata.
"Tutte le difficoltà sono state sbloccate dal gran mufti di Sarajevo. Mustafa Cerić ha ricordato che la formula sulla libertà religiosa usata nel documento comune 'è la stessa della dichiarazione sui diritti dell’uomo dell’ONU. E molti governi musulmani hanno sottoscritto questa dichiarazione. Dunque essi devono accettarla, anche se magari non la praticano'. Questo argomento ha consentito a tutti di aderire al documento finale".
Anche il punto 11 è stato particolarmente controverso:
"Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l'umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti".
Riferisce padre Samir:
"I musulmani volevano che si togliesse la parola 'terrorismo' e la si sostituisse con il termine più generico 'violenza'. Questo perché si sentono attaccati da tutti e accusati da tutti di terrorismo. Uno di loro ha detto: 'Io non sono Bin Laden. Perché fate portare a me il peso di quanto fa Bin Laden?'. Poi però la discussione si è fatta più pacata. Alcuni musulmani hanno riconosciuto che chi li attacca non sono i cristiani, ma il mondo secolarizzato e ateo, contro il quale musulmani e cristiani devono resistere assieme. Hanno quindi espresso il desiderio di superare le antiche contrapposizioni. Un musulmano ha detto di non accettare più la classica divisione fra Dar al-Islam, la Casa della Pace, e Dar al-Harb, la Casa della Guerra, che comporta una divisione politico-religiosa del mondo e fomenta il jihad contro l’Occidente. Sarebbe invece da preferire la definizione di Casa della Testimonianza: estesa ovunque, nei paesi islamici e nei paesi occidentali, dove l’importante è testimoniare la propria fede, da parte dei musulmani come dei cristiani".
* * *
Oltre alle cose dette, nella dichiarazione congiunta, ci sono poi le cose taciute.
Una di queste riguarda la libertà di abbandonare la fede musulmana e abbracciarne un'altra tra cui la cristiana. Nei paesi islamici questa "apostasia" è severamente punita, in talune aree con la pena di morte. O comunque è ostracizzata, con l'espulsione di fatto del reo dalla famiglia e dal consorzio civile.
Nel punto 5 della dichiarazione finale manca un esplicito riconoscimento di questa libertà. E nel presentare al pubblico la dichiarazione, a nome della delegazione musulmana, Seyyed Hossein Nasr ha giustificato questo silenzio con argomenti storici e politici.
A due precise domande, l'una riguardante il diritto a cambiare fede e la sorte dei convertiti, l'altra la persecuzione che opprime i cristiani in Iraq e in altre regioni islamiche, Nasr ha risposto che "le difficoltà di questi cristiani sono niente a confronto di quanto hanno patito i popoli musulmani nei secoli ad opera dei cristiani, e oggi in particolare ad opera di Israele e degli Stati Uniti".
E da cittadino americano ha aggiunto: "Anche nel Texas chi diventa musulmano subisce ostilità e pressioni".
* * *
Dopo questo primo seminario, il Forum cattolico-musulmano si è impegnato a tenerne un secondo "entro due anni in un paese a maggioranza musulmana".
Ecco dunque il testo completo della dichiarazione diffusa il 6 novembre, nella traduzione dall'originale inglese fatta dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso:
Primo seminario del Forum cattolico-musulmano, Roma, 4-6 novembre 2008 – Dichiarazione finale
Il Forum cattolico-musulmano è stato costituito dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata "Una Parola Comune", alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Il suo primo Seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti ventiquattro partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del Seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo".
Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco". Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l'esempio dell'amore di Dio e del prossimo è l'amore di Cristo per suo Padre, per l'umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L'amore di Dio è posto nel cuore dell'uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L'amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all'altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-7). L'amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L'amore del prossimo non si può separare dall'amore di Dio, perché è un'espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell'amore sacrificale di Cristo, l'amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l'amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma lo sguardo umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l'amore umano per l'Unico Vero Dio. Un hadith indica che l'amore compassionevole di Dio per l'umanità è persino più grande di quello di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana all'Unico che è "l'Amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l'umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L'ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadith leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama per il suo prossimo ciò che ama per se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona; dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, è stata resa capace di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà da parte di individui, comunità e governi, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell'umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L'amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell'imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere un'accurata informazione sulla religione dell'altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l'umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall'attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest'ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo Seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo Seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà approssimativamente entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo.
Alla fine del Seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Gran Mufti Mustafa Cerić, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del Seminario e la loro aspettativa di un ulteriore proficuo dialogo.
Solo l’intervento dell’UE può evitare un genocidio in Congo - Mario Mauro - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Almeno due milioni di rifugiati. Due milioni di disperati che fuggono dalla morte e dalla distruzione che i ribelli del generale Laurent Nkunda, leader del Congresso nazionale per la difesa del popolo, stanno diffondendo nel nord del Congo.
L'esercito congolese non fa nulla per proteggere la popolazione civile, anzi contribuisce all'annientamento di un popolo, saccheggiando e distruggendo i villaggi per rendere più impervia l'avanzata dei ribelli verso sud. Questi hanno chiesto di avviare delle trattative dirette con il governo della Repubblica democratica del Congo. Ma Kinshasa non ne vuole sapere. Anche perchè si tratta di un conflitto che evidenzia inimicizie internazionali, soprattutto quella con il vicino Ruanda, accusato di appoggiare indirettamente i ribelli del Cndp.
La gente del Congo è stremata anche dalle epidemie di colera diffuse nel paese a causa di condizioni sanitarie disumane e dall'inadeguatezza del Governo di Kinshasa, che assiste immobile all'ennesimo genocidio africano. Sì, nonostante la guerra sia ripresa da meno di tre settimane, sarà presto un genocidio, non sembra infatti esserci nessuna via di salvezza, né per chi fugge verso l'Uganda e il Ruanda, né per chi si è chiuso in casa e prega che tutto finisca il più presto possibile.
L'ultima speranza siamo noi. L'Unione Europea e la Comunità Internazionale. Per questo il primo pensiero deve essere quello di come aiutare la popolazione. Il Parlamento europeo ha inserito la crisi del Congo tra le urgenze dell'ultima sessione plenaria il 23 ottobre, sollecitando l'esecutivo dell'Unione Europea con una Risoluzione in cui chiede a tutte le parti di tener fede ai propri impegni di tutelare la popolazione civile e rispettare i diritti umani come sancito nell'accordo di pace di Goma e nel comunicato di Nairobi, e di applicarli quanto prima; chiede ai governi della RDC e del Ruanda di porre fine alle recenti ostilità verbali, tornare a un dialogo costruttivo e cessare il conflitto; incoraggia tutti i governi della regione dei Grandi Laghi ad avviare un dialogo allo scopo di coordinare i loro sforzi tesi ad allentare la tensione e a porre fine alle violenze nelle zone orientali della RDC prima che il conflitto si estenda a tutta la regione; chiede al Consiglio e alla Commissione di attuare con effetto immediato un'assistenza medica su ampia scala e programmi di reinsediamento per le popolazioni civili delle regioni orientali della RDC, prestando particolare attenzione all'assistenza a favore di donne e ragazze vittime di reati di violenza sessuale, al fine di rispondere ai bisogni immediati e in attesa della ricostruzione che si renderà necessaria.
Dello stesso parere è l’Alto rappresentante degli Affari esteri Ue, Javier Solana, intervenuto mercoledì 5 novembre durante la riunione della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo, secondo il quale «la priorità numero uno» dell’Unione Europea è «quella umanitaria» e «la popolazione civile è ancora una volta la principale vittima della violenza di oggi». Solana ha aggiunto che «nessun intervento di natura militare dell’Ue è stato discusso finora» e che «Onu e unione africana sono gli attori chiave, la conferenza che prenderà parte a Nairobi venerdì prossimo sarà cruciale».
La conferenza di Nairobi di venerdì 7 novembre cui hanno preso parte il Presidente congolese Joseph Kabila, quello ruandese, Paul Kagame, e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, in realtà non nasceva sotto i migliori auspici e si è infatti conclusa con un nulla di fatto, anzi i Ministri degli esteri di Congo e Ruanda si sono rinfacciati le responsabilità del fallimento di ogni tentativo di soluzione diplomatica.
L’Onu svolge un ruolo fondamentale che dovrebbe essere rafforzato. In questo contesto l’Ue deve battersi per preservare il ruolo dell’Onu come istituzione multilaterale, ma il problema non è soltanto di ordine militare, infatti dal 2003 ci sono già 17 mila caschi blu dell' Onu che non sono in grado di assicurare un minimo di ordine, inadeguati e impreparati all'impressionante escalation militare di queste settimane, nonostante abbiano ricevuto l'ordine di sparare per difendere la città di Goma. Anche per questo Solana ha espressamente chiuso la porta all'invio di rinforzi dall'Ue, dicendo che il problema non si risolve militarmente, ma a livello politico.
Il ministro degli esteri francese Kouchner si è recato nei giorni scorsi a Goma insieme al suo collega britannico David Miliband, ma il tentativo di mediazione risulterà inutile se non verrà chiarito e ridefinito il ruolo che devono avere le Nazioni Unite e le organizzazioni multilaterali nelle crisi internazionali.
Sempre di più si sta cercando di fare in modo che sia l’Unione africana (Ua) ad avere un ruolo privilegiato nell’orientare il dibattito e le situazioni di crisi in Africa. L’obiettivo dell’Europa non deve essere quindi quello di lanciare una nuova iniziativa, ma garantire il migliore sostegno politico possibile all’Onu e all’Unione africana.
Pur essendo un’organizzazione multilaterale recente (sorta nel 2002) e ancora relativamente debole, l’Unione africana negli ultimi tempi, per le ripetute crisi anche belliche dell’Africa, ha avuto più di un banco di prova per proporsi nello scacchiere internazionale, riuscendo ad avere una performance non negativa nella crisi della Guinea nei primi mesi del 2007.
L’esperienza del Ruanda o del Sudan dovrebbero insegnare qualcosa; se la comunità internazionale non si muoverà rapidamente i profughi del Congo saranno sterminati. Occorre agire subito. Affinché la guerra all’Iraq, che così esplicitamente ha enucleato i radicali problemi dell’Ue in politica estera, non sia risultata vana, un’altra occasione è alle porte.
È giunto il momento che l’Europa faccia sentire la propria voce, che unita si alzi per dichiarare il proprio «no» all’ennesimo sterminio di massa coperto da interessi economici e di potere. Dobbiamo fare di tutto per legittimare il ruolo dell’Unione africana, che le permetterà di dialogare anche sul piano politico, aspetto fondamentale se è vero il fatto che da una situazione come questa non si uscirà con una soluzione militare, ma politica.
CONGO/ La storia di Cyprien: convivere con la guerra seminando speranza tra fucili e machete - Edoardo Tagliani - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Cyprien Kamarande è congolese, ha 48 anni, una moglie, due figlie e di mestiere fa l’agronomo. E’ nato e cresciuto a Rutshuru, un territorio della regione del Nord Kivu. E’ zona di guerra dal 1996, ma solo oggi sale alla ribalta della stampa internazionale perché epicentro, insieme a Goma, dell’ultima “crisi del Congo”.
Da sei anni lavora per l’Ong italiana Avsi su progetti per la sicurezza alimentare d’urgenza: assistenza in viveri, colture a breve ciclo vegetativo e, nelle zone relativamente calme, moltiplicazione di sementi per l’autosufficienza agricola.
Nel 1997 le milizie circondarono il suo villaggio e spararono sulla folla. La prima strage del mercato di Rutshuru. In futuro, sarebbe stato necessario numerarle.
Tra le bancarelle c’erano sua moglie e i suoi tre figli, ma i cadaveri non furono ritrovati lì. Una volta cessato il fuoco, i miliziani trascinarono i sopravvissuti nella chiesa del villaggio.
La famiglia di Kamarande bruciò con l’edificio.
Da quella notte, cominciò a digrignare i denti e trovò la fede. Decise di comunicarlo al mondo con un grande crocefisso appeso al collo.
Tre anni dopo la strage, Kamarande prese ancora moglie e si rifece una famiglia.
Da quando è stato assunto da Avsi, corre sulle strade più pericolose della regione. A piedi, in bicicletta, in auto, in moto e persino in piroga.
Lo hanno già rapinato, minacciato, picchiato. L’ ultimo incidente accadde sulla strada tra Rutshuru e Nyamylima. Un gruppo di banditi lo malmenò e lo lasciò in mutande. Letteralmente.
«Anche i pantaloni, mi hanno tolto – dice sghignazzando – Che vergogna!».
Perché ride? Per due motivi. Il primo è che chi vive in guerra da dodici anni, le lacrime le ha finite. Magari sulle ceneri d’una chiesa. Il secondo è che non l’hanno ammazzato. Come fare sei al superenalotto.
Qualche mese fa, chiamato da Avsi a lavorare in una zona storicamente controllata dal Generale Laurent Nkunda (lo stesso che oggi compare nei titoli dei giornali italiani e che è erroneamente identificato come “il Ribelle del Congo”, mentre i gruppi armati ufficialmente riconosciuti sono 32), Kamarande è salito in auto e ha fatto il suo dovere insieme ad altri due agronomi e al responsabile del progetto.
Una volta arrivati in zona, il gran capo ha deciso di incontrare la delegazione Avsi.
Le guardie del corpo del Generale hanno accompagnato l’equipe dal comandante.
Un evento simile è routine per chi accetta incarichi di lavoro in determinate regioni del Paese. Non fosse che insieme a Nkunda sedeva un altro Generale. Forse lo stesso che diede l’ordine di sparare sul mercato di Rutshuru: sui mandanti e gli esecutori di quella strage, infatti, non sono bastati undici anni per fare chiarezza.
Kamarande si è dunque trovato nella stessa stanza con uno dei supposti carnefici della sua famiglia. A sorseggiare un latte cagliato e a discutere della possibilità di coltivare in zona.
«C’est du travail», è lavoro, ha detto laconico senza aggiungere altro. D’altronde, i vari “incidenti di percorso” in cui l’agronomo è incappato sono riconducibili a differenti gruppi armati. Detta in breve, ovunque egli vada incontra qualcuno che gli ha fatto violenza.
Lo scorso mercoledì 5 ottobre, durante quella che la stampa internazionale ha battezzato come la strage di Kiwanja, Kamarande era là, perché là è casa sua. Kiwanja è un villaggio tanto a ridosso di Rutshuru da esserne considerato un quartiere periferico. Aveva appena finito di controllare i campi di quella zona e sarebbe dovuto salire a Nord-Est, verso Nyamylima, ma gli scontri lo hanno costretto a rintanarsi in casa per 48 ore. Terminato il massacro, ha preso una moto ed è arrivato a Goma percorrendo un asse considerato da tutti off-limits. Due ore dopo il suo passaggio sono ripresi gli scontri.
Appena arrivato alla base di Goma ha organizzato un ponte radio con i suoi colleghi al lavoro in un'altra zona rossa, molto distante dalla città. Per un’ora, attraverso l’antenna di un ospedale al momento risparmiato dagli scontri, le frasi gridate al microfono non riguardavano la guerra, che è normalità e non notizia, ma i risultati del lavoro: «E la manioca l’avete piantata tutta? E i fagioli? Anche quelli? Appena prima che la popolazione scappasse? Benissimo! Meno male». Alla base di Goma, è partita una ola da stadio. Nonostante tutto, la semina è andata a buon fine.
Domattina partirà per il Rwanda per poi salire in Uganda e da lì rientrare in Congo, così da poter arrivare a Nyamylima dopo un percorso tortuoso che consentirà di evitare l’attraversamento del fronte.
Ecco. Questo è vivere in guerra. Abituarsi a campare tra fucili e machete. L’arte sottile dello scegliere il momento giusto per uscire di casa, dell’avere il sangue freddo per continuare ciò che si sta facendo sino a quando i mortai sono ad una distanza “ragionevole”, dell’essere abbastanza fatalisti per credere che: «Se hai sentito il colpo puoi ridere: non era il tuo. Il tuo non lo sentirai».
Soprattutto, vivere in guerra significa andare avanti a testa alta, anche quando incontri il tuo carnefice. L’istinto di saltargli al collo è forte, ma se alla fine vince la tenacia di chi pianta la manioca anche sotto i mortai, allora c’è speranza.
Se coloro che da dodici anni sopportano sulla groppa questa guerra che non si decide a morire, se proprio loro hanno ancora la saldezza di sperare, allora c’è speranza.
ALITALIA/ Ecco perché l’offerta di Cai da un miliardo di euro non è accettabile - Ugo Arrigo - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nei giorni scorsi il Commissario straordinario di Alitalia ha rivelato le condizioni economiche offerte da Cai per l’acquisto degli asset della vecchia azienda.
Il prezzo proposto per l’insieme delle attività di interesse di Cai è un miliardo di euro che sarà pagato parte in denaro e parte attraverso l’accollo di debiti (625 milioni) e il pagamento del saldo algebrico tra specifiche partite debitorie e creditorie; la parte in denaro sarà versata in più rate, di cui solo 100 milioni alla chiusura dell’operazione prevista per il 30 novembre 2008, il resto in due rate successive a tre e 24 mesi. Per beni e contratti di Alitalia Cai offre 900 milioni, per la parte di Alitalia Servizi di suo interesse 57 milioni, 7 milioni per AZ Airport, 19 per Alitalia Express e 17 per Volare.
Sulla congruità dell’offerta si dovranno esprimere entro pochi giorni i due advisor, Banca Leonardo per il Ministero dell’Industria e Rotschild per il Commissario di Alitalia.
Quale sarà il responso? Pensiamo di non azzardare troppo nel prevedere che l’offerta sarà ritenuta congrua e che il Commissario accetterà l’offerta. In fondo sinora tutti gli attori istituzionali coinvolti, dal Commissario, all’Enac, all’Antitrust, hanno recitato la loro parte secondo un copione rigidamente predeterminato e non vi è mai stata voce che sia apparsa fuori dal coro. È dunque difficile pensare che possa manifestarsi nella prossima occasione, la più delicata di tutte.
Ma l’offerta è davvero congrua? In attesa del responso dei due advisor ci permettiamo di illustrare alcune ragioni del nostro dissenso.
Tra i beni oggetto di acquisizione vi sono nell’offerta Cai 64 aerei dei 109 complessivamente di proprietà di Alitalia (oltre al subentro nei contratti di leasing di altri 29 aeromobili). A fine 2007 i 109 aerei risultavano valutati in bilancio 1,98 miliardi di euro; se consideriamo nell’ammontare massimo ipotizzabile la loro perdita di valore in corso d’anno possiamo stimare un ammortamento negli 11 mesi per 180 milioni di euro che ridurrebbe la loro valutazione a 1,8 miliardi di euro al 30 novembre 2008, data prevista per il subentro di Cai.
Il valore medio per aeromobile sarebbe pertanto di 16,5 milioni di euro, corrispondente a circa 1,057 miliardi per i 64 aerei oggetto di cessione (se assumiamo, in maniera ragionevole, un identico mix tra breve e lungo raggio negli aerei aggetto di acquisizione rispetto agli aerei in proprietà della vecchia Alitalia).
In sostanza Cai si limita a pagare il valore di libro dei velivoli che acquisisce mentre tutti i diritti di traffico (i preziosi slot per il decollo e l’atterraggio negli aeroporti, tra cui numerosi aeroporti europei importanti e soggetti a congestione) sono valutati zero.
Questo è il primo problema; il secondo consiste nel fatto che nell’offerta Cai è prevista l’acquisizione (a prezzo zero) non solo dei diritti di traffico attualmente esercitati attraverso i 64 velivoli che vengono acquistati bensì di tutti gli slot attualmente nella disponibilità di Alitalia, compresi quelli utilizzati dai 45 aerei in proprietà e dagli altri in leasing che Cai non intende prendere in carico; si tratta di slot che Cai non potrà utilizzare perché non avrà un numero sufficiente di aeromobili a disposizione.
È evidente che la sottrazione al Commissario di slot che la nuova compagnia non avrà la possibilità di utilizzare danneggia in maniera consistente la gestione commissariale e i suoi creditori poiché ne impedisce la vendita ad altri soggetti eventualmente interessati, ad esempio in congiunzione ai rimanenti 45 velivoli che il Commissario dovrà cedere per poter rimborsare crediti e obbligazioni. Sarà molto difficile per Fantozzi piazzare sul mercato 45 aeromobili piuttosto vecchi, oltre che grandi consumatori di carburante, se non potrà farlo in congiunzione con diritti di traffico sui quali utilizzarli (da parte di altri vettori) sui cieli europei.
E il vantaggio per Cai di acquisire slot che non saranno occupati? Esso è differente a seconda che si tratti di diritti relativi a rotte domestiche oppure a rotte europee. Nel primo caso l’obiettivo è di impedire che possano essere utilizzati da concorrenti, eventualità che si porrebbe in forte contrasto con la finalità, perseguita attraverso la fusione con AirOne, di restringere la concorrenza sul mercato interno e aumentare in maniera consistente le tariffe. Nel secondo caso non si vede altro beneficio se non quello derivante dalla cessione ad altre compagnie poiché sulle rotte infraeuropee la concorrenza è già molto estesa (i vettori low cost hanno raggiunto in estate il 45% dei posti offerti da e per l’Italia) e il congelamento degli slot ad esse relative non produrrebbe effetti paragonabile alla stessa operazione attuata sulle rotte domestiche.
La vendita ad altri vettori da parte di Cai degli slot posseduti nei maggiori aeroporti europei e non più utilizzati avrebbe la conseguenza di ridurre in maniera significativa per i suoi azionisti l’esborso netto complessivo dell’intera operazione di acquisizione della vecchia Alitalia.
Il fatto che gli slot abbiano un valore economico, spesso anche consistente, è documentato dalla storia recente di Alitalia: poiché in Gran Bretagna gli slot utilizzati dai vettori erano già da tempo commercializzabili la stessa Alitalia aveva venduto lo scorso 26 dicembre tre coppie nell’aeroporto di Heathrow ricavando la somma di 54 milioni di euro, corrispondente a un prezzo medio per coppia di ben 18 milioni (molto superiore, come si può vedere, alla valutazione zero nell’offerta di Cai).
Un prezzo così elevato deriva dal fatto che l’aeroporto londinese è congestionato; pertanto è evidente che non tutti gli slot in aeroporti europei hanno un valore del medesimo ordine di grandezza ma tutti gli slot relativi ad aeroporti e orari congestionati hanno invece un valore, almeno per quanto riguarda l’Unione Europea: con la comunicazione del 30 aprile scorso la Commissione Ue ha infatti introdotto un mercato secondario per gli slot, estendendo a tutti i paesi quanto già si verificava in Gran Bretagna.
Gli slot che Cai acquisirà da Alitalia risultano pertanto cedibili ad altre compagnie e hanno valore in quanto traggono origine da un sistema di assegnazione del tipo grandfather’s rights: la compagnia storica che occupa lo slot ha il diritto di conservarlo e lo mantiene anche nella stagione Iata successiva se lo ha utilizzato per almeno l’80% del tempo.
Negli aeroporti/fasce orarie congestionate non è dunque possibile ottenere slot dal gestore aeroportuale se non acquistandoli da vettori che ne dispongono. Poiché le compagnie storiche sono quelle che hanno avviato i collegamenti più indietro nel tempo, in periodi in cui non vi era scarsità, e hanno in conseguenza scelto le fasce orarie più interessanti per i consumatori, detengono ora i diritti più pregiati. La stessa Alitalia possiede diritti di atterraggio e decollo nei principali scali europei, tendenzialmente congestionati, nei quali la possibilità di aprire una nuova rotta è subordinata all’acquisto oneroso dei relativi slot. Peccato che Cai intenda acquisirli dal Commissario Alitalia a prezzo zero.
Quanto valgono questi slot? Secondo una nostra stima prudenziale (che è stata pubblicata da “L’Espresso” del 19 settembre scorso e ripresa in un precedente contributo su Il Sussidiario) il valore complessivo degli slot di Alitalia si collocherebbe tra i 550 e i 900 milioni di Euro, con una stima media di 700-750 milioni.
Se tale cifra è accettabile e Cai desiderasse acquisire una percentuale di slot corrispondente alla quota di aeromobili Alitalia (in proprietà e leasing) che intende utilizzare, l’offerta congrua per le attività di Alitalia (fair value) si collocherebbe a nostro avviso a 1,5 miliardi di euro, il 50% rispetto all’offerta presentata. Molto di più risulterebbe il prezzo congruo se Cai desiderasse invece acquistare il 100% degli slot, ma non vediamo tuttavia la razionalità della loro cessione se non in connessione ai rimanenti 45 aerei in proprietà e agli ulteriori in leasing.
ELEZIONI USA/ Riuscirà Obama a mantenere la laicità positiva dell’America?
José Luis Restan lunedì 10 novembre 2008 - IlSussidiario.net
L’euforia della vittoria di Obama rende difficile un’analisi a caldo sul futuro immediato della politica nordamericana. Ma ci sono dibattiti di fondo in cui si parla di questo futuro, che hanno solamente toccato in superficie il fragore elettorale.
Uno di questi è quello che si riferisce al modello della laicità positiva che forgiarono i Padri fondatori e alle minacce che su di esso incombono. Questo è stato l’argomento di un interessante discorso dell’Ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, significativamente pubblicato la scorsa settimana dall’Osservatore Romano.
Di fronte ai possibili ottimismi superficiali, l’Ambasciatrice Glendon ricorda nel suo intervento che il modello positivo di laicità degli Stati Uniti, caratteristico sin dalla loro fondazione, oggi sta “lottando per la propria vita”.
Ricordando il viaggio di Benedetto XVI negli Usa dello scorso aprile, Glendon sottolinea l’affermazione papale secondo cui «i Padri fondatori vollero creare uno Stato laico, non perché fossero ostili alla religione, ma per amore verso la religione, che si può vivere liberamente solamente nella sua autenticità».
Il Papa ha continuato descrivendo gli Stati Uniti come un Paese «in cui la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, non è solamente tollerata, ma apprezzata come l’anima della nazione e come una garanzia fondamentali dei diritti e dei doveri umani».
Approfondendo in seguito le parole di Alexis de Tocqueville, convergenti con quelle di Benedetto XVI, la Signora Glendon spiega che quel sistema era destinato a proteggere la religione e le Chiese dal Congresso nazionale, e non viceversa, perché si basava sulla convinzione profonda che il successo dell’esperimento democratico americano non era dovuto tanto alla Costituzione o alle leggi, quanto alle virtù e alla cultura (costumi) del popolo, la cui salvaguardia era precisamente la religione.
Secondo Glendon, il caloroso elogio di Benedetto XVI a questo modello storico di laicità positiva non significa che il Papa non sia cosciente del fatto che oggi esiste una lotta tra chi si sforza di mantenere tale modello e chi vorrebbe sostiuirlo con quel laicismo che deplora nei propri discorsi. In questo senso Glendon ricorda la forte esortazione ai Vescovi nordamericani: «Il mantenimento della libertà [...] richiede il coraggio di partecipare alla vita pubblica e di contribuire con le nostre convinzioni ai dibattiti problematici [...]. In definitiva, la libertà è sempre nuova, è una sfida per ogni generazione e deve essere conquistata per il bene comune».
Così dunque il Papa distribuisce elogi e avvertenze nei medesimi discorsi, perché secondo Glendon vuole segnalare il valore del modello storico nordamericano, e allo stesso tempo evidenziare che oggi è in pericolo
Questa è anche l’opinione dell’Ambasciatrice, che vede nella successione di una serie di decisioni della Corte Suprema, un’alterazione significativa del modello della laicità positiva. Poco a poco, sempre secondo le analisi di Glendon, sta trionfando un tipo di laicità che vuole eliminare quasi tutti i segnali di religiosità nelle istituzioni pubbliche, uno scenario giuridico che si muove in parallelo con i profondi cambiamenti sperimentati dalla società americana a partire dagli anni ’60 in campi come l’aborto o i rapporti sessuali.
Un aspetto inquietante sono le crescenti difficoltà sperimentate dalla tradizionale cooperazione tra le Chiese e gli Stati per quanto riguarda le scuole, gli ospedali e i servizi sociali. Le pressioni che subiscono le organizzazioni cattoliche ad abbandonare i propri principi per poter avere la collaborazione degli Stati sono molto forti, come si è visto nel 2006 in Massachusetts, dove Catholic Charities ha dovuto abbandonare la sua attività nel campo delle adozioni, perché le negava alle coppie omosessuali.
Come sintesi di tutti questi fatti, Glendon sostiene che esiste una chiara tendenza dei tribunali a limitare la presenza della religione nell’ambito pubblico, basata su un concetto di libertà radicalmente individualista.
In realtà le certezze di Tocqueville sulla democrazia americana hanno smesso di essere moneta comune in molti ambiti della vita culturale, giuridica e politica di quel grande Paese. E ora che comincia la presidenza di Obama, vista da molti come un cambiamento storico, sarebbe bene conoscere quale sarà l’orientamento della sua politica in questa materia. Perché nell’epoca della globalizzazione dei mercati, di Internet e della lotta globale contro il terrorismo, è più urgente che mai capire che la difesa di una società libera dipende dalla protezione di certe istituzioni come la famiglia, la scuola, le Chiese e gli altri corpi intermedi della società civile.
L’Ambasciatrice Glendon ha osato dirlo giorni prima delle elezioni, ma la sua avvertenza ha ora uno speciale riflesso.
DIALOGO/ Forum cattolico-musulmano: le condizioni per costruire un alfabeto della convivenza Giorgio Paolucci lunedì 10 novembre 2008 - IlSussidiario.net
Dialogo è una delle parole più abusate e usurate nel vocabolario del confronto tra uomini che praticano un’esperienza religiosa. Può essere il piccolo cabotaggio del politically correct o rappresentare una sfida con la quale misurarsi per far conoscere all’interlocutore ciò che si ha di più caro, nel desiderio che anch’egli faccia altrettanto. Il seminario organizzato a Roma dal 4 al 6 novembre dal Forum cattolico-musulmano – istituito dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e dai rappresentanti dei 138 leader musulmani che nel 2007 avevano firmato la lettera aperta rivolta al Papa e agli altri leader cristiani – è stato un “laboratorio di dialogo” a cui guardare con interesse per vari motivi.
Il tema centrale del confronto – “Amore di Dio, amore del prossimo” – è stato affrontato sia nei suoi aspetti teologici e spirituali, sia nelle dimensioni culturali, etiche e sociali. Nella dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro, frutto di una laboriosa mediazione, vengono enunciati obiettivi molto impegnativi, specie se si pensa a quanto accade nel mondo musulmano: rispetto per la vita e la dignità di ogni persona, libertà di coscienza, dignità da riconoscere a uomini e donne su base paritaria, rifiuto di discriminazioni basate sulla fede, diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
Ricevendo in udienza i partecipanti al seminario (che verrà replicato tra due anni in un Paese a maggioranza islamica), Benedetto XVI li ha esortati a “lavorare insieme nel promuovere il rispetto autentico per la dignità della persona umana e per i diritti umani fondamentali, sebbene le nostre visioni antropologiche e le nostre teologie giustifichino ciò in modi differenti”. E ha sottolineato che secondo la tradizione cristiana l’amore di Dio “si fa presente nella storia umana, è divenuto visibile, manifestato in maniera piena e definitiva in Gesù Cristo”. Niente equivoci sul piano teologico, dunque, e insieme l’indicazione di un percorso che è possibile costruire a partire dalla comune condizione umana. Il Papa ha usato parole forti a proposito della strumentalizzazione della fede operata a fini ideologici e politici: ha definito “atti ingiustificabili” la discriminazione e la violenza che i credenti sperimentano in tutto il mondo e le persecuzioni spesso violente di cui sono oggetto, “tanto più gravi quando vengono compiuti nel nome di Dio. Il nome di Dio può essere solo un nome di pace e fratellanza, giustizia e amore”.
Quale ascolto effettivo troveranno queste parole e gli impegni contenuti nella dichiarazione comune che ha concluso l’incontro del forum cattolico-musulmano? Difficile azzardare previsioni attendibili: le cronache testimoniano quanto la libertà religiosa, tema centrale di qualsiasi confronto che non voglia ridursi ad accademia, continui a subire violazioni. E a ricordarlo è arrivata proprio in questi giorni, indirizzata ai partecipanti al seminario romano, un’accorata lettera aperta firmata da 144 cristiani dell’Africa del Nord e del Medio Oriente (tra cui 77 musulmani convertiti al cristianesimo): in essa si chiede che la legge islamica non sia applicata ai non musulmani e che la libertà di cambiare religione venga riconosciuta come diritto fondamentale.
Le due delegazioni che si sono riunite in questi giorni erano composte da teologi, esperti e autorità religiose. Come noto, a differenza di quanto accade in campo cattolico, nel mondo musulmano non esiste una gerarchia formalmente e unanimemente riconosciuta. Ma è da salutare con interesse il fatto che nella delegazione islamica fossero presenti diverse espressioni della “umma”. Anche la “lettera dei 138”, nata sull’onda lunga suscitata dal discorso di Ratisbona, era stata sottoscritta da una pluralità di voci (sunniti, sciiti, ismailiti, sufi, originari di 43 Paesi): questo conferma la serietà e la novità di un’iniziativa volta a creare un consenso di fondo al dialogo con i cristiani all’interno di un mondo composito e spesso (al di là delle dichiarazioni di facciata) discorde. Un mondo in cui le aperture al confronto con l’altro e il desiderio di misurarsi con la modernità convivono con le pulsioni nichiliste e con i sogni di egemonia politico-religiosa. Un mondo con cui è più che mai necessario costruire l’alfabeto di una convivenza che abbia al centro la sacralità e la dignità della persona, a partire da quella “ragione allargata alla trascendenza” che il discorso di Ratisbona ha riproposto come terreno di lavoro comune.
USA/ Come affronterà Obama il nodo del sistema sanitario americano? - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Alla luce della crescita dei costi, della difforme qualità di assistenza e dell’aumento della popolazione non assicurata, vi è un generale consenso che la sanità degli Stati Uniti necessiti di una riforma radicale. In effetti, con una spesa annua pro-capite di 9000 $ anno (più di 4 volte il valore italiano) raddoppiata negli ultimi 10 anni, il sistema sanitario americano presenta oggettivi problemi di sostenibilità, alla vigilia della più profonda crisi economica dal dopoguerra. A sottolineare l’importanza della questione, e l’urgenza di una svolta, da ormai un anno il New England Journal of Medicine, la più prestigiosa rivista medica del pianeta, ha dedicato ampio spazio ai programmi per la nuova sanità degli Stati Uniti.
Fino a ospitare, il 9 ottobre scorso e con un’impeccabile applicazione della par condicio, un editoriale nel quale John McCain e Barack Obama hanno illustrato la propria ricetta per dare un futuro all’assistenza sanitaria del paese. Al di là dei riflettori puntati sugli spot di Obama o sul look di Sarah Palin, è infatti evidente che su questo tema entrambi i candidati alla Casa Bianca hanno giocato gran parte della loro credibilità politica, e non si è trattato di un aspetto secondario nella scelta per Obama. Cerchiamo di capire perché.
La sanità americana è finanziata attraverso un sistema basato su piani assicurativi privati (plans) che possono gestire in proprio strutture e servizi (health management organizations, HMOs) o acquistare sul mercato le prestazioni richieste da erogatori convenzionati (preferred-provider organizations, PPOs). Per i dipendenti di aziende medio-grandi, i plans sono acquistati come parte del pacchetto retributivo dal datore di lavoro, il quale sceglie i contenuti della polizza e l’estensione della copertura assicurativa. Vi sono poi fondi governativi (Medicare, Medicaid) che provvedono a offrire un pacchetto di base ai pensionati ed alle categorie gravemente disagiate. Tutti gli altri cittadini possono acquistare in proprio una polizza sanitaria privata a un costo variabile fra gli 8 e i 12000 $ per persona.
Indipendentemente dalla modalità di accesso, tutti i plans prevedono clausole e franchigie complesse che ne limitano la copertura reale in caso di sinistro, oltre a formule di incremento del premio per i soggetti con malattie croniche (risk-rating). Si comprende quindi come 46 milioni di americani (oltre il 15% della popolazione) siano oggi sprovvisti di qualsiasi assicurazione sanitaria. Inoltre, l’aumento della spesa sanitaria incide direttamente sul costo del lavoro e, nella fase attuale di recessione economica, le aziende devono scegliere fra un impoverimento dei salari e la salute dei dipendenti. Negli ultimi 10 anni la quota delle assicurazioni sanitarie a carico delle imprese è infatti diminuita dal 75 al 70%.
In questo scenario, il programma di riforme del neopresidente Obama punta essenzialmente su tre aspetti (Tabella 1). Anzitutto, le imprese che non intendano provvedere alla copertura assicurativa dei propri dipendenti, sarebbero obbligate a pagare una tassa destinata a creare un fondo per l’assistenza dei soggetti non assicurati. Questa alternativa “play or pay” nelle intenzioni mira a liberare risorse per nuovi assistiti disincentivando al tempo stesso l’esposizione dei lavoratori. Nella sostanza, tuttavia, si riduce a una tassa sul lavoro che l’azienda deve compensare riducendo i salari o l’occupazione, in un momento in cui la congiuntura economica imporrebbe il contrario. La seconda proposta consiste nell’istituzione di due nuove opzioni destinate a soggetti che non hanno accesso a piani assicurativi standard: un fondo assicurativo federale (simile a Medicare) e un gruppo di acquisto che comprerebbe volumi consistenti di servizi dalle HMO per riproporli sotto forma di plans a prezzi calmierati.
Le risorse necessarie a finanziare queste assicurazioni pubbliche deriverebbero per la maggior parte dai proventi della tassa sulle imprese che scelgono l’opzione “pay”. Si tratta di un’ipotesi suggestiva e in qualche misura dirompente per lo status quo, introducendo la possibilità per un soggetto pubblico di entrare come concorrente nel mercato assicurativo. Al momento, tuttavia, non esistono stime che consentano di giudicarne la fattibilità. Un terzo ambito di intervento, consiste in una più stretta regulation del settore, attraverso una agenzia per la valutazione di efficacia dei servizi e un controllo dei sistemi di riassicurazione e franchigia per gli assistiti con malattie croniche. Per quanto è dato di sapere al momento, pare difficile che un’estensione delle garanzie non finisca a breve per aumentare i costi dei plans, gravando sui premi pagati dal cittadino.
In sintesi, come ha osservato un editoriale di Joseph R. Antos sulle pagine dello stesso New England, la politica di Obama (ma anche la deregulation di McCain) consiste in una serie di proposte che “alleviano i sintomi ma non curano la malattia latente che colpisce il sistema sanitario statunitense: il complesso di incentivi perversi che spingono la spesa a una crescita inesorabile, rendendo le polizze sanitarie inaccessibili a milioni di cittadini e influenzando (o manipolando) la stessa pratica clinica”. Nei confronti di questo cancro, le generiche indicazioni programmatiche riguardanti la semplificazione amministrativa, l’informatizzazione dei dati clinici, il coinvolgimento dell’industria farmaceutica suonano come palliativi che non intaccano sostanzialmente un sistema di mercato fortemente radicato nell’economia del Paese e alla base delle più potenti lobby che sostengono l’establishment politico e finanziario. Dalle prime mosse del neo-presidente si potrà giudicare se, oltre all’estetica, vi sia anche la capacità etica di dare sostanza alle riforme anche nel delicato settore della salute.
(Luca Munari - Ass. Medicina e Persona)
Tabella 1
Punti qualificanti del programma di Barack Obama
• Tassa per i datori di lavoro che non offrono piani sanitari ai dipendenti (escluse le piccole aziende)
• Creazione di un’assicurazione sociale governativa (analoga al fondo Medicare riservato agli anziani) riservata ai dipendenti di piccole aziende e ai non assicurati
• Creazione di un gruppo di acquisto federale per assicurazioni private a prezzi calmierati
• Assicurazione obbligatoria per i bambini
• Sussidi ai meno abbienti per l’acquisto di pacchetti sanitari
• Regulation dei fondi privati contro l’aumento indiscriminato in funzione dello stato di salute
• Programma federale per sostenere i costi delle imprese nel riassicurare i dipendenti ammalati
• Risparmi attraverso informatizzazione dei dati sanitari e disease management per le malattie croniche
• Semplificazione delle procedure amministrative di verifica dei rimborsi
• Possibilità per Medicare di negoziare direttamente con l’industria farmaceutica
• Agenzia governativa per la valutazione di efficacia dei servizi
Punti qualificanti del programma di John McCain
• Fiscalizzazione dei premi a carico del datore di lavoro per le polizze sanitarie dei dipendenti (attualmente esentasse)
• Sgravi fiscali per i sottoscrittori di assicurazioni private
• Creazione di fondi a copertura delle assicurazioni per i soggetti non assicurabili sul mercato privato
• Promozione di polizze individuali e a copertura parziale
• Deregulation del mercato assicurativo
• Riforma del sistema di rimborso di Medicare: dal finanziamento a prestazione a tariffe per episodio di cura e in base agli outcome
• Percorsi di miglioramento della qualità di cura in base a: aumento competizione fra i providers, sviluppo del mercato farmaci generici, enfasi sulla prevenzione e gestione della cronicità, aumento dell’informatizzazione dei dati sanitari, riforma dei sistemi di controllo della malpractice.
Da New England Journal of Medicine, 2008;359:781-784
Anche al Sud si può raccogliere la sfida dell'imprenditoria. La parola d'ordine è "insieme" - Redazione - lunedì 10 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nella storia del Consorzio Clemendo sono racchiusi alcuni degli snodi più importanti del fare impresa in Italia: il sud, l'innovazione, la rete, l'internazionalizzazione… Snodi che affrontati uno per uno, hanno dato vita a una realtà capace di crescere in un contesto difficile, e di affermarsi all'estero.
Tutto nasce in Calabria, nella piana di Sibari, in una terra ricca di coltivazioni di agrumi e di antiche tradizioni. E' qui che alcuni imprenditori cominciano a costruire un'idea affascinante: unire più aziende per ottenere volumi di prodotto adeguati ad affrontare il mercato estero e la grande distribuzione organizzata.
Ma anche in queste terre non è facile mettere insieme sotto un unico progetto diversi imprenditori. L'individualismo, le diffidenze, le titubanze, sembrano porre una pesante incognita.
Compagnia delle Opere ha dato un importante aiuto in questa fase. Ha costruito, sostenuto, e incoraggiato le relazioni tra gli imprenditori, sino alla creazione di un vero e proprio Consorzio che oggi ha sede a Corigliano Calabro. Non è stato facile, e di tempo ne è servito parecchio: "I primi quattro anni sono serviti a conoscersi meglio, imparare a dialogare, e scambiare informazioni" spiegano oggi. Poi si è arrivati alla definizione di regole comune in modo da facilitare la collaborazione e valorizzare la qualità del lavoro. L'obiettivo è quello di andare insieme sui mercati esteri, mentre sul territorio ognuno è libero di muoversi come meglio crede.
Così, grazie all'unione in rete di 10 operatori, nel 2001 nasce il Consorzio Clemendo che ben presto arriva a produrre oltre 500mila quintali di clementine.
Non solo: in fase di acquisto grazie alla loro "massa di consumo" riescono a comprare a prezzi molto competitivi beni e prodotti di largo consumo (come ad esempio le cassette di legno per la frutta) e apparecchiature per il condizionamento degli agrumi, e in questo modo abbassare nettamente il costo finale della loro produzione.
Forti di questi vantaggi, negli anni passati hanno sottratto quote di mercato al leader storico nella coltivazione degli agrumi, la Spagna protagonista di una leadership basata su volumi di prodotto 5 volte superiori a quelli dell'Italia. In un momento di difficoltà della produzione spagnola, i soci del Consorzio Clemendo hanno saputo fare squadra e approfittare dell'occasione per ritagliarsi una più ampia fetta di mercato.
Il consorzio non gestisco solo i prodotti dei soci, ma anche quelli acquistati sul mercato. In questo caso però evitano di approfittare della loro forza in fase di trattativa: anzi, acquistare a un prezzo giusto significa valorizzare il lavoro dei fornitori, e garantire loro una disponibilità economica per continuare a realizzare un prodotto di qualità.
Ottenuti brillanti risultati in Europa, soprattutto verso il Nord e l'Est del Continente, le nuove frontiere sono gli Stati Uniti e il Canada.
I soci del Consorzio si preparano a questa missione facendo leva anche sull'innovazione per quanto riguarda la catena del freddo: studiano e realizzano un nuovo container refrigerante che permette ai loro agrumi di conservarsi meglio e più a lungo.
Anche in questo caso la possibilità di mettere in campo investimenti di peso arriva dalla capacità di realizzare un sforzo comune, ottenendo così un vantaggio competitivo che nessuno di loro avrebbe potuto realizzare da solo. Addirittura ogni impresa mette a disposizione un quantitativo di prodotto per testare il container riducendo così il rischio di perdere una fetta consistente della produzione annuale.
Oggi i dieci soci sono più che soddisfatti. Le loro imprese sono cresciute; i rapporti tra di loro si sono cementati e sono pronti a nuove sfide. Ad esempio quella della collaborazione con la GDO europea, un soggetto difficile, che richiede grandi quantità e un percorso di alta qualità. Occorre controllare e monitorare continuamente i costi. Continuare a innovare. Occorrono investimenti e grandi orizzonti. Insieme si può.
(Davide Bartesaghi)