martedì 25 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELUANA/ Barcellona: i giudici non possono creare le norme. La scienza? In questi casi farebbe bene a tacere - INT. Pietro Barcellona - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) Determinante l'opera dei missionari - Una semplice croce - Un tribunale spagnolo ha appena emesso una sentenza con la quale si sollecitano i responsabili di una scuola pubblica a rimuovere i crocifissi dalle aule, adducendo come motivazione che la presenza di una semplice croce viola il "diritto fondamentale alla libertà religiosa e di culto" - di Juan Manuel de Prada, L’Osservatore Romano, 25 Novembre 2008
3) SPAGNA/ Il caso del crocefisso di Valladolid: una sentenza che toglie la libertà ai genitori - Redazione - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
4) 24/11/2008 14.07.20 – Radio Vaticana - Il Papa incontra il Catholicos armeno di Cilicia: preoccupazione per le persecuzioni anticristiane. Aram I: il mondo riconosca il genocidio armeno
5) 24/11/2008 15:29 - ISRAELE – PALESTINA - Israele apre col contagocce la frontiera di Gaza per aiuti umanitari - È giunto anche il kerosene per l’unica centrale elettrica della Striscia. Per l’Onu l’apertura di oggi è insufficiente. Voci di una possibile ripresa della tregua con Hamas.
6) 24/11/2008 15:13 - GIAPPONE – VATICANO - I 188 martiri per saziare la sete di Dio dei giapponesi - I martiri beatificati oggi a Nagasaki sono una spinta a testimoniare la fede. Essi sono anche una possibile risposta alla popolazione giapponese, segnata dalla piaga dei suicidi, della delinquenza giovanile e dalla crisi delle famiglie e dell’economia.
7) 24/11/2008 10:55 - TIBET – CINA - I leader tibetani riaffermano il dialogo e la via pacifica - di Nirmala Carvalho - Il premier del governo in esilio commenta per AsiaNews lo storico convegno. Sfiducia verso l’attuale leadership comunista, ma grande fiducia nel popolo cinese. L’intervento del Dalai Lama.
8) Letteratura cristiana antica e cultura occidentale - Il medioevo dimenticato dei Padri della Chiesa - Pubblichiamo uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento, di Claudio Leonardi, L’Osservatore Romano, 25 Novembre 2008
9) Eurobond ed Euro: due certezze anti-crisi - Mario Mauro - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) DIBATTITO/ Ma è proprio necessaria una nuova etica dell'economia? - Flavio Felice - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) FAMIGLIA/ Il Governo guardi alla Francia: bastano quattro misure per sostenerla - Luca Pesenti - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
12) VITO E IL SENSO DELL’ESISTENZA - PROVIAMO A INCROCIARE L’AULA DI RIVOLI E LE SCUOLE DI SPAGNA - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 25 novembre 2008
13) Se l’altro non è riconosciuto come uguale a se stessi - MARINA CORRADI – Avvenire, 25 novembre 2008
14) Cara Agnese, perdona il mondo di noi grandi - «Quella di Eluana è una storia senza lieto fine, dove è diventato cattivo chi vuole tutelare la vita, e buono chi chiede di toglierla» - Maria Luisa di Pietro, presidente di «Scienza & Vita» ha scritto questa lettera aperta alla figlia di 9 anni – Avvenire, 25 novembre 2008
15) INTERVISTA. Dalle scoperte archeologiche alle profezie bibliche, fino alla Sindone: un’indagine storica sul Nazareno. Parla Antonio Socci - Cristo alla prova dei fatti - DI ANDREA GALLI - Lo «strano cristiano» Antonio Socci – giornalista, saggista, apologeta – dopo una serie di indagini su alcuni grandi misteri della Chiesa del ’900, torna indietro di 2000 anni, con Indagine su Gesù (Rizzoli, pp. 346, euro 18.50), che esce domani in libreria. – Avvenire, 25 novembre 2008


ELUANA/ Barcellona: i giudici non possono creare le norme. La scienza? In questi casi farebbe bene a tacere - INT. Pietro Barcellona - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La vicenda di Eluana raccoglie tutte le contraddizioni di un’impostazione culturale che ha smarrito il significato della persona e dell’interiorità, che non sa più quali sono i compiti della legge e i limiti della scienza. E in gioco c’è la vita di una ragazza che si vuol far morire sulla base di una ipotetica ricostruzione della sua volontà. «La tesi si riduce a questo: la vita è mia e sono io a decidere. Ma questo potere non ce l’ha nessuno, nemmeno l’interessato, perché io non sono padrone della mia vita. La coscienza è il quid al quale riferirsi in ultima istanza, ma non è il tribunale che dà il placet per fare qualsiasi cosa». La magistratura? Ha prevaricato. Il fine vita? Ora serve una legge, c’è da sperare che il clima non comprometta il risultato. Ilsussidiario.net ha parlato del caso Englaro con Pietro Barcellona.
Professor Barcellona, qual è la sua opinione sulle ultime vicende del caso Englaro?
La cosa che più mi rattrista è che la sorte della povera Eluana abbia determinato una divisione in pro e contro la sua morte, mentre io rifuggirei da ogni enfatizzazione. La questione culturale in gioco? È su un falso binario. Di fronte all’ipotesi di ammalarmi di Alzheimer potrei anche voler esprimere, in un testamento, la volontà di essere soppresso, ma può darsi poi che quando comincio ad aver i primi sintomi del male, voglia fare il possibile per sopravvivere. Nessun giurista serio può sostenere che si può far risalire la volontà a un tempo anteriore: essa va espressa a in modo puntuale in riferimento al fatto in questione, ha un valore attuale.
La sentenza della Cassazione del 2007 ha stabilito che si poteva ricostruire l’ipotetica volontà di Eluana Englaro e ha detto quali sono i casi in cui deve valere il consenso dell'interessato come se il testamento biologico fosse già nell'ordinamento.
È stato senz’altro un caso di “supplenza eccessiva” da parte della magistratura, che dovrebbe starsene un po’ di più entro i propri confini e limitarsi ad applicare le norme esistenti. Ma il problema, più radicalmente lo vedo in questo modo. Quello che si cerca di far valere nelle argomentazioni, mi pare, è il tentativo di esaurire il problema del nascere e del morire nel potere di decidere. La tesi si riduce a questo: la vita è mia e sono io a decidere. Ma non sono d’accordo che si possa dire una cosa simile. Questo potere non ce l’ha nessuno, nemmeno l’interessato.
Nemmeno il diretto interessato? Perché?
Perché io non sono padrone della mia vita, al massimo ne possiedo solo uno “spicchio”. Non nasciamo per libera scelta, ma perché qualcuno ci ha messo al mondo. E l’intera nostra vita si sviluppa entro una trama di intrecci, legami, libertà, vincoli, che smentiscono l’autopossesso e la piena autodeterminazione. Ma tutto questo, mi dirà, va poi regolato sul piano del diritto. Direi così: che di certo non possiamo pretendere di risolvere sul piano dell’esistenza pubblica i dilemmi dell’esistenza privata.
Cosa intende dire?
Che la vita è una cosa così sfuggente e misteriosa che ridurla in formule – anche giuridiche – mi sembra l’ultima presunzione dell’uomo contemporaneo. La mia preoccupazione è che l’attuale dibattito giuridico stia semplificando indebitamente un tema di grande profondità. Occorre chiedersi: cosa vuol dire coscienza privata? La coscienza non è un vuoto pneumatico dove “gioiosamente” si fanno atti di volontà, come afferma Flores d’Arcais, ma è lo spessore della nostra personalità, fatta di principi morali, di retaggio della tradizione, di relazioni ed emozioni. La coscienza è il quid al quale riferirsi in ultima istanza, ma non è il tribunale che dà il placet per fare qualsiasi cosa.
Come regolare il campo di indeterminazione che si è venuto a creare in conseguenza della vicenda di Eluana? Possono colmarlo le sentenze dei giudici?
Una legge ci vuole, perché l’alternativa è la confusione totale. La mia forte avversità al clima che si è determinato sta anche nel fatto che questo rende tutto più difficile. La mischia in atto complica tutto e potrebbe compromettere il risultato. C’è da augurarsi che l’azione legislativa, frutto anche di compromesso, possa dare punti fermi in una società purtroppo ormai priva di rapporto con la verità ed il bene.
È giusto dire che proprio in conseguenza della mancanza di una legge sul fine vita i giudici hanno stabilito norme in una sfera sottratta all’ordinamento?
La questione della competenza è stata sollevata e a mio modo di vedere a ragione: era giusto chiedere alla Corte costituzionale di valutare se questa materia rientra o no nella competenza del giudice. D’altra parte è l’idea che ho sempre sostenuto: che i giudici non possono creare le norme.
Dove non arriva il diritto può arrivare la scienza?
La scienza? In questi casi farebbe bene a tacere. Se c’è qualcuno che è lontano da posizioni chiare, certe e univoche sul rapporto tra vita biologica e vita mentale è proprio la scienza. E non può avere la pretesa dell’ultima parola, perché fortunatamente non è ancora il fondamento della nostra società.


Determinante l'opera dei missionari - Una semplice croce - di Juan Manuel de Prada, L’Osservatore Romano, 25 Novembre 2008
Un tribunale spagnolo ha appena emesso una sentenza con la quale si sollecitano i responsabili di una scuola pubblica a rimuovere i crocifissi dalle aule, adducendo come motivazione che la presenza di una semplice croce viola il "diritto fondamentale alla libertà religiosa e di culto". A nessuna persona in pieno possesso delle proprie facoltà sfugge che il segno della croce non viola nessun diritto fondamentale; tuttavia, da qualche tempo, l'invocazione di diritti e libertà si sta trasformando in Spagna in un pretesto giuridico che maschera un sentimento di odio antireligioso e di "cristofobia" - come in modo molto appropriato lo ha definito il cardinale primate Cañizares - sentimento che l'autorità avrebbe l'obbligo di perseguire, invece di concedergli una copertura giuridica. Da qualche tempo, in Spagna l'alone di odio attorno alla Chiesa di Dio - così definì Chesterton in L'uomo eterno quella "fosforescenza extraterrena" che, nei crepuscoli della storia, perseguita i cristiani - si è mascherato di giuridicità, sostituendo l'accanimento cruento di altre epoche non troppo lontane con un'apparenza più sibillina e asettica. La visione di un crocifisso chi può offendere? Non, naturalmente, quanti non sono stati educati nel cristianesimo; poiché, per questi, un crocifisso sarà come il monolite che adoravano gli uomini delle caverne, una figura priva di significato religioso in cui, forse, scopriranno un significato storico. Non può esserlo neppure per quanti, educati nel cristianesimo, non professano però la fede cattolica; e oserei dire che, per questi ultimi, il crocifisso può riassumere le più nobili vocazioni dell'uomo: vocazione di dedizione e di carità, da un lato, vocazione di mistero e infinitezza, dall'altro. Nulla di offensivo, dunque. Il crocifisso, in definitiva, può offendere solo quanti vogliono - e in questo consiste in realtà il laicismo, per quanto si nasconda dietro alibi giuridici - che lo Stato diventi un nuovo dio, con potere assoluto sulle anime. Che si giunga a considerare un crocifisso offensivo in Occidente si può solo interpretare come un sintomo allarmante di amnesia o necrosi culturale; o - così ha detto Benedetto XVI nel suo discorso di apertura del recente Sinodo - come una "perdita d'identità". Da qualche tempo, un impulso autodistruttivo si sta impossessando dell'Europa, trovando la sua espressione più triste e pervicace nell'ansia di cancellare dalla nostra memoria il lascito morale e culturale del cristianesimo; e in Spagna questo impulso autodistruttivo assume espressioni violente. Come gli scorpioni che si pungono con il proprio pungiglione e agonizzano vittime del loro veleno, si direbbe che noi europei abbiamo deciso di annichilirci, emarginando e dimenticando l'eredità storica che ci costituisce. S'inizia a confondere la sana laicità dello Stato con una belligeranza antireligiosa che cerca di negare all'uomo il suo vincolo con la trascendenza, che cerca di cancellare la nostra genealogia spirituale e culturale. L'Europa sembra aver dimenticato che la patria dell'uomo, come ci ha insegnato Maritain, è l'Assoluto. Quando l'uomo viene esiliato da questa patria comune, quando gli viene strappata questa parte irrinunciabile di se stesso, lo si sta condannando allo sradicamento, alle intemperie, all'abbandono, alla disperazione; lo si sta relegando, in definitiva, alla condizione di triste materia. Il fatto che questo impulso autodistruttivo giunga alle scuole ci pone dinanzi a una realtà paurosa. Il Crocifisso ci insegna che la morte non ha dominio sull'uomo, che il motivo del nostro cammino terreno non è altro che il trionfo della vita. Quando si sa questo, tutto il resto acquista significato. Tuttavia il laicismo che oggi trionfa in Spagna ci vuole sempre più orfani d'identità; e sa che quando noi spagnoli smetteremo di guardare a colui che è appeso a quel legno, avremo smesso di sapere chi siamo e saremo pronti a essere ciò che vogliono fare di noi. Il laicismo intende privare di "senso" la trasmissione culturale della conoscenza, trasformandola in un mero accumulo di dati sconnessi; e per questo si sforza di allontanare i crocifissi dalla contemplazione dei bambini, poiché alla luce del Crocifisso i pezzi della conoscenza si assemblano, formano un amalgama che nutre di significato la vita e la storia umana. In quella semplice croce si riassume la storia del genere umano, con tutta la sua genealogia di debolezza e grandezza, gioia e dolore. In quella semplice croce vengono riassunte e denunciate tutte le barbarie che l'uomo ha perpetrato, dall'uccisione di Abele fino a uno qualsiasi dei massacri che oggi decimano l'umanità; in essa si plasma il nostro fecondo anelito di ribellarci contro la morte. In quella semplice croce si riassumono le due vocazioni più nobili dell'uomo: una vocazione di pietà e di donazione dinanzi alla sofferenza umana; e, insieme a essa, spiegandola, una vocazione di trascendenza che ci aiuta ogni giorno a risuscitare dalle macerie della nostra fragilità. Per venti secoli, il mistero della Croce è servito anche da gioiosa ispirazione alle più durature creazioni dell'arte e dell'intelletto; né Velázquez né Unamuno, per citare solo due figure spagnole che confluiscono dinanzi all'immagine del Crocifisso, sarebbero spiegabili senza tale mistero. Venti secoli di cultura occidentale si riassumono in questi due legni nudi: venti secoli di conquiste che nobilitano la storia umana; venti secoli agitati di crudeltà che un Dio che si immola per le sue creature ci invita a detestare. In quella semplice croce, equilibrio umano dei due comandamenti, vi è tutto ciò che siamo, tutto ciò a cui aneliamo essere, tutto ciò di cui ci vergogniamo di essere stati. Al lascito che rende nobili e che è riassunto in quella semplice croce sta oggi rinunciando l'Europa; e la sentenza che ha appena emesso un tribunale spagnolo consacra giuridicamente la rinuncia di un'Europa disorientata, irrazionalmente in preda a un impulso di autodistruzione.
(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)


SPAGNA/ Il caso del crocefisso di Valladolid: una sentenza che toglie la libertà ai genitori - Redazione - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Una croce è stata fatta togliere da una scuola di Valladolid, contrariamente alla volontà dei genitori. La sentenza che ha pronunciato il Tribunale amministrativo con cui si obbliga la scuola pubblica Macías Picabea a togliere il crocefisso rappresenta un indebolimento della libertà.
A marzo il Consiglio scolastico dell’istituto, in cui sono rappresentati i genitori, aveva deciso di mantenere i simboli. La Giunta di Castiglia e Leon, con una politica saggia, aveva delegato la decisione a quest’organo. L’associazione Cultura Escuela Laica di Valladolid, che aveva visto respinte le sue richieste, anziché rispettare la decisione democratica si è rivolta ai tribunali. E ha trovato un giudice che, facendo ideologia, nella sua sentenza assicura che «la presenza di simboli religiosi nelle aule e negli spazi comuni del centro educativo pubblico in cui si insegna a minori che si trovano in piena fase di formazione della propria personalità indebolisce il diritto fondamentale dell’articolo 16 (della Costituzione), che regola la libertà religiosa».
Detto in altri termini, i genitori avevano deciso, in un esercizio di libertà, che i simboli religiosi sono ciò che vogliono che vedano i propri figli. E il giudice, a nome di tutti i cittadini, ma senza il loro parere, gli toglie questa libertà in nome dei diritti costituzionali.
Quello che è successo a Valladolid è esattamente ciò che è previsto nella legge dello Stato di Baviera il 23 dicembre del 1995. La norma determina, all’articolo 7, che «in considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera, in ogni aula scolastica deve esserci un crocifisso. Così si esprime la volontà di realizzare i supremi obiettivi della Costituzione riguardanti la base dei valori cristiani e occidentali, in armonia con la tutela della libertà religiosa. Se la presenza del crocefisso è contestata […], il direttore didattico cercherà un accordo amichevole». Se questo accordo non si trova, dice la legge, si detterà una regola ad hoc che rispetti la libertà religiosa e le convinzioni di tutti gli alunni. A Valladolid l’accordo c’era.
La croce è il simbolo, in altri contesti, della separazione tra Chiesa e Stato. In questa direzione si è pronunciato il Tribunale Amministrativo di Venezia (il Tar del Veneto) in una sentenza del 17 marzo del 2005, in cui si affermava che «il crocifisso può essere legittimamente posto nelle aule delle scuole pubbliche perché conferma il principio di laicità dello Stato repubblicano». L’argomento giuridico è stato confermato di un pronunciamento del Consiglio di Stato italiano del febbraio del 2006.
Il crocefisso è in realtà la miglior difesa di una laicità che sarà sempre più minacciata.
(Manuel Medina)


24/11/2008 14.07.20 – Radio Vaticana Il Papa incontra il Catholicos armeno di Cilicia: preoccupazione per le persecuzioni anticristiane. Aram I: il mondo riconosca il genocidio armeno
Il dialogo tra le varie confessioni cristiane per la pace nel mondo, la preoccupata denuncia delle persecuzioni che colpiscono i cristiani in Medio Oriente e in altre parti della terra. Sono gli argomenti toccati da Benedetto XVI nell’udienza al capo della Chiesa armena apostolica di Cilicia, il Catholicos Aram I, ricevuto questa mattina insieme con una delegazione di arcivescovi e vescovi. Prima dell’incontro in Vaticano, la delegazione ha sostato in preghiera sulla tomba di Giovanni Paolo II e una preghiera in comune, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo apostolico, ha concluso l’udienza. Il servizio di Alessandro De Carolis:http://62.77.60.84/audio/ra/00139439.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139439.RM

C’è un mondo al quale i cristiani, uniti dalla preghiera e da retaggi di fede comuni, possono testimoniare valori di pace. E c’è un mondo che si scaglia contro i cristiani proprio a motivo dei loro valori e della loro fede. Entrambi gli aspetti sono emersi dall’incontro di Benedetto XVI con il Catholicos armeno, Aram I. Incontro a forte caratura ecumenica, giacché il Papa ha messo subito in grande risalto il contributo offerto in questi anni dalla Sede di Cilicia e dai suoi delegati ai “positivi contatti” intercorsi tra le Chiese ortodosse orientali con la Chiesa cattolica. Per questo, è stato l’auspicio del Pontefice:


“We must be hopeful that this dialogue…
Dobbiamo avere fiducia che il dialogo continuerà ad andare avanti, dal momento che promette di chiarire questioni teologiche che ci hanno diviso in passato, ma che ora sembrano aprirsi a un maggiore consenso. Sono fiducioso che l'attuale lavoro della Commissione Internazionale - dedicata al tema: ‘La natura, la Costituzione e la missione della Chiesa’ - permetterà a molte delle questioni specifiche del nostro dialogo teologico di trovare il loro giusto contesto e la risoluzione”.


Del resto, ha proseguito Benedetto XVI, la “maggiore comprensione” e “l'apprezzamento della tradizione apostolica che noi condividiamo contribuirà ad una ancor più efficace testimonianza comune di valori spirituali e morali, senza i quali un ordine sociale veramente umano e giusto non può esistere”. Dal canto suo, anche il Catholicos armeno ha osservato che non esiste altra via che quella del confronto rispettoso. Lo ha fatto citando la Dichiarazione comune sottoscritta insieme con Giovanni Paolo II nel gennaio del 1997:


“’Our meeting has offered…
‘L’incontro ha costituito una occasione privilegiata di pregare e riflettere insieme, per ribadire il loro impegno e i loro comuni sforzi per l’unità dei cristiani’, rinnovato e rinforzato con il potere dello Spirito Santo. Noi continuiamo il viaggio ecumenico dei nostri predecessori. Noi crediamo che questa sia l’unica via, sostenuta dai comandamenti di amore e unità di nostro Signore, che dovrebbero portarci ad una missione comune nel bisogno che ha il mondo intero del messaggio del Vangelo che dà vita”.

Lo sguardo del Pontefice si è poi allargato alle difficili realtà vissute dalle popolazioni del Libano e del Medio Oriente, per le quali ha detto di pregare ogni giorno ma anche di assistere alle rispettive vicende con “profonda preoccupazione”, poiché lo stillicidio di “tensioni e conflitti”, ha constatato, “continuano a vanificare tutti gli sforzi volti a promuovere la riconciliazione e la pace ad ogni livello della società civile e nella vita politica e nella regione”:


“Most recently we have all been saddened…
Recentemente, siamo stati tutti addolorati per l'escalation di violenza e di persecuzione contro i cristiani in alcune parti del Medio Oriente e altrove. Solo quando i Paesi coinvolti sono in grado di determinare il proprio destino, e le varie etnie e comunità religiose accettano e rispettano pienamente ogni altra, la pace sarà costruita su solide fondamenta di solidarietà, giustizia e rispetto per i diritti legittimi delle persone e dei popoli”.


Il rispetto di tali diritti, violato in tempi recenti, è alla base anche di quelle che Benedetto XVI ha definito le “indicibili sofferenze” patite dal popolo armeno durante il XX secolo: sofferenze illuminate dalla testimonianza di martiri e Santi che ancora oggi, ha affermato il Papa, modellano la cultura degli armeni. Una ferita che non può essere taciuta, ha detto di rimando Aram I:


“The Churches, the religions and states…
Le Chiese, le religioni e gli Stati devono riconoscere ogni genocidio, incluso quello degli Armeni, e fare il possibile per prevenire nuovi genocidi, affermando il diritto di tutti i popoli alla dignità, alla libertà e all'autodeterminazione”.


(canto in armeno)


In precedenza, le parole di Benedetto XVI e del Catholicos armeno si erano unite nei ritmi della preghiera che hanno dato l’avvio alla celebrazione ecumenica in Vaticano. Le parole dei Salmi e del Vangelo in lingua armena si sono alternate fino a confluire nella benedizione finale, la cui lettura a due voci - del Papa e del Catholicos di Cilicia - ha conferito alla celebrazione una forza molto più che simbolica:


(preghiera comune - canto)


Aram I incontrerà nuovamente Benedetto XVI dopodomani all’udienza generale, al termine della quale avrà un colloquio con il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Altri momenti significativi della permanenza a Roma includono la visita alla Basilica di San Paolo fuori le Mura, per una liturgia ecumenica sulla tomba dell’Apostolo delle Genti nell’ambito dell’Anno paolino e la partecipazione alla celebrazione dei Vespri con la Comunità di Sant’Egidio, nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola, suggellata da un momento di preghiera nella Basilica di Santa Maria in Trastevere. Il Catholicos di Cilicia prenderà parte anche a un Atto accademico promosso dalla Pontificia Università Urbaniana, durante il quale pronuncerà una lectio magistralis sul tema “Le sfide poste alla Cristianità in Medio Oriente”. Nel pomeriggio di mercoledì prossimo, infine, il capo del Catholicossato Armeno di Cilicia sarà nella sede della nostra emittente, dove alle 17 terrà una conferenza stampa.


24/11/2008 15:29 - ISRAELE – PALESTINA - Israele apre col contagocce la frontiera di Gaza per aiuti umanitari - È giunto anche il kerosene per l’unica centrale elettrica della Striscia. Per l’Onu l’apertura di oggi è insufficiente. Voci di una possibile ripresa della tregua con Hamas.
Tel Aviv (AsiaNews/Agenzie) – Ehud Barak, ministro israeliano della difesa, ha deciso di far aprire stamane le frontiere con la striscia di Gaza per permettere l’arrivo di aiuti umanitari dopo 19 giorni di totale isolamento del territorio. Alla decisione Barak è giunto dopo aver notato una riduzione nel lancio di missili da Gaza in territorio israeliano e il crescere delle pressioni internazionali. Israele aveva fermato tutti i convogli umanitari dal 4 novembre scorso, quando un raid del suo esercito aveva provocato una serie di lanci missilistici nel territorio del Negev ovest.
Quest’oggi Israele ha permesso l’arrivo di più di 40 camion, compresi 10 per l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per le emergenze. Christopher Guinness, portavoce dell’Unrwa ha però dichiarato che tutto ciò “non è sufficiente”. La sola Unrwa ha bisogno di almeno 10 camion al giorno di aiuti per distribuire aiuti alimentari a metà degli 1,5 milioni di abitanti della Striscia, che vivono come in un’enorme prigione. L’Onu ha diverse volte sottolineato la crisi umanitaria che pesa sul territorio controllato da Hamas.
Oggi, per la prima volta dal 12 novembre, Israele ha pure permesso l’arrivo di kerosene – finanziato dall’Unione europea – per far funzionare l’unica centrale elettrica di Gaza.
Fra le personalità del governo israeliano si dice che Hamas vuole ritornare al rispetto pieno della tregua in cambio di un rilassamento delle misure di isolamento.


24/11/2008 15:13 - GIAPPONE – VATICANO - I 188 martiri per saziare la sete di Dio dei giapponesi - I martiri beatificati oggi a Nagasaki sono una spinta a testimoniare la fede. Essi sono anche una possibile risposta alla popolazione giapponese, segnata dalla piaga dei suicidi, della delinquenza giovanile e dalla crisi delle famiglie e dell’economia.
Roma (AsiaNews) – Almeno 30 mila persone hanno partecipato stamane alla beatificazione di 188 martiri giapponesi nel Big N-Baseball stadium di Nagasaki. Fra essi, presenti anche delegazioni dalle chiese di Corea, Filippine, e sud-est asiatico. La cerimonia è stata presieduta dal card. José Saraiva Martins, inviato del papa e ex prefetto della Congregazione vaticana per la causa dei santi.
Sotto scrosci di pioggia, il card. Saraiva Martins ha ricordato che il martirio è un elemento sempre presente nella storia della Chiesa, che accompagna la vita dei fedeli.
I beatificati di oggi risalgono al periodo fra il 1606 e il 1639, ma in Giappone la persecuzione contro i cristiani è durata per oltre 2 secoli. Alcuni dei nuovi beati sono morti crocifissi, altri annegati, altri bruciati, e altri ancora decapitati.
A p. Giorgio Ferrari, missionario del Pime da 17 anni in Giappone, AsiaNews ha posto queste domande:
Che valore ha questa beatificazione per la Chiesa giapponese?
Ai miei parrocchiani di Miura (Tokyo) ho presentato il valore del martirio ed è un avvenimento davvero importante. Dopo la visita di Giovanni Paolo II nell’81, questo è l’evento più importante per la Chiesa giapponese. I cattolici sono edificati e orgogliosi per questo avvenimento.
La Chiesa giapponese sembra talvolta più impegnata sui temi del dialogo con le religioni e con la società, appianando le asperità. Il martirio ricorda che ci può essere conflitto fra la fede e il mondo…
Questo è un elemento che facciamo emergere nella nostra catechesi con i parrocchiani. Da parte loro essi si interrogano e restano meravigliati: questi martiri sono stati capaci di donare la vita totalmente per Gesù Cristo.
La beatificazione può avere valore per la popolazione giapponese?
Oggi la gente in Giappone è alla ricerca di valori forti. Essi sono di fronte ogni giorno a problemi dolorosi come i suicidi, la delinquenza giovanile, lo sbriciolamento delle famiglie, la crisi economica… Tutte queste cose distruggono le sicurezze di una volta e questo li porta a cercare valori che siano più duraturi ed esigenti. La gente è davvero alla ricerca di Dio. La beatificazione dei martiri può suggerire una risposta a questo desiderio di verità per la vita.


24/11/2008 10:55 - TIBET – CINA - I leader tibetani riaffermano il dialogo e la via pacifica - di Nirmala Carvalho - Il premier del governo in esilio commenta per AsiaNews lo storico convegno. Sfiducia verso l’attuale leadership comunista, ma grande fiducia nel popolo cinese. L’intervento del Dalai Lama.
Dharamsala (AsiaNews) – I 581 leader tibetani radunati in India per prospettare il futuro della causa tibetana, confermano la “via di mezzo” del colloquio con la Cina per una soluzione pacifica alle richieste di maggior autonomia e di salvaguardia della loro cultura. Nel congresso è prevalsa l’istanza moderata del governo in esilio e si è evitata la temuta spaccatura con i gruppi fautori di proteste anche non pacifiche.Ma Dolma Gyari, viceportavoce del Parlamento tibetano in esilio, esprime tutta la delusione per l’insistita chiusura di Pechino e ammonisce ieri che “se la Cina non dà una riposta positiva, non avremo altra opzione che cercare l’indipendenza”.
Per tutto il decorso del congresso, il Dalai Lama si è astenuto da interventi. Ieri, alla fine, ha però ammonito a usare “prudenza” ribadendo che non ritiene possibile l’indipendenza e ha richiamato alla non violenza e alla necessità di mantenere un “dialogo con la popolazione cinese”. Sempre ieri l’agenzia cinese Xinhua l’ha di nuovo accusato di “complottare di nascosto per l’indipendenza e di promuovere l’odio razziale”.
Il Dalai Lama ha ripetuto che potrebbe non avere successori: vuole essere solo un leader spirituale, rinunciando al ruolo politico per semplificare i rapporti con Pechino. Samdhong Rinpoche osserva che “per ora l’intera popolazione è convinta che l’esistenza del Dalai Lama sia necessaria per la vita, cultura, identità e religione tibetana”.
Dopo la settimana di convegno, il premier del parlamento in esilio Samdhong Rinpoche dice ad AsiaNews che è “molto felice per la partecipazione entusiasta di tutti i rappresentanti di gruppi tibetani, soprattutto giovani sotto i 40 anni che sono nati in esilio, ma hanno contribuito attivamente. Come pure lo sono per il confronto franco e responsabile che si è svolto in modo egalitario e aperto. La grande maggioranza ha confermato la ‘via di mezzo’ quale approccio verso la Cina”.
“Questo approccio è approvato dai leader internazionali e dalla popolazione e non abbiamo mai detto che sia stato un insuccesso. Quello che è fallito, e che deve essere rivisto, è il dialogo con i leader comunisti cinesi”. “Ma vogliamo continuare il dialogo con la popolazione cinese, la cui approvazione è per noi un grande sostegno. La leadership cinese non è permanente, i leader cambieranno, la politica cambierà e potremo avere giorni migliori”.
“Crediamo con forza che la questione tibetana sarà risolta in modo pacifico. Nella vita di una Nazione, 50 anni [dalla rivolta tibetana del 1959 repressa con violenza] non sono un lungo periodo. La stessa India ha lottato a lungo per ottenere l’indipendenza. Nessuna Nazione può essere soppressa da un’altra Nazione”.


Letteratura cristiana antica e cultura occidentale - Il medioevo dimenticato dei Padri della Chiesa - Pubblichiamo uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento, di Claudio Leonardi, L’Osservatore Romano, 25 Novembre 2008
Esiste un medioevo dei Padri? L'interrogativo è evidentemente provocatorio. Ma la mia risposta nega questa provocazione, perché la risposta, se posso subito anticiparlo, è no: non esiste un medioevo dei Padri, storiograficamente non esiste. Il medioevo è stato classificato e inteso, genericamente, nella cultura illuminista, come un'età di mezzo tra le due grandi stagioni culturali dell'umanità, l'epoca classica con il pensiero greco e il diritto romano, e l'epoca moderna, con il predominio della ragione, nella convinzione che l'uomo con le sue qualità potesse guidare e dominare la storia. Questa "medietà" del medioevo, il medioevo come oscurità e negazione del vero, è storiograficamente esaurita, poiché è finita quella convinzione che la ragione dell'uomo, che l'uomo stesso, possa dominare l'evento storico; e tuttavia essa rimane latente, quella a cui si ricorre quasi istintivamente e che domina ancora di fatto la grande editoria e le aule universitarie; e questo, credo, perché nessuna altra idea generale del medioevo si è imposta. Questa condizione negativa lascia spazio alle ipotesi storiografiche più diverse ed è dunque una condizione aperta e diventa per questo una condizione positiva. Uno dei fatti di questa apertura è l'emergere a livello storiografico di studi non prima accolti nell'accademia e relegati soprattutto all'interno del mondo ecclesiastico. Finito il tempo in cui si poteva ritenere e sostenere che la fede cristiana era un inganno ed era perciò corruttoria, gli studi che avevano rapporto con fonti non solo e non tanto ecclesiastiche (giuridiche e teologiche in senso stretto), ma a fonti cristiane più tipicamente religiose, sono poco per volta riemersi come studi degni di questo nome e sono stati accolti nei corsi universitari. Hanno ottenuto, per così dire, il sigillo di una singolare laicità, cioè di studi sul tema religioso, e in particolare cristiano, a carattere filologico e storico. Il caso emblematico è quello dell'agiografia, che era sino almeno agli anni Cinquanta dello scorso secolo un tema sconosciuto nelle università, tutta presa nel considerare più ancora che le istituzioni i rapporti sociali ed economici delle classi medievali. Quando questo approccio al medioevo, che tuttavia opportunamente continua, è stato di fatto contrastato da altre esigenze (...) allora l'agiografia è ricomparsa al di fuori delle scuole teologiche, ma non si è fermata alla pratica strutturalista, tendenzialmente disinteressata a ogni discussione propriamente storica della ricerca, ha accolto domande filologiche (...) e persino domande storiche, con la formulazione dei modelli agiografici. L'aspetto più sorprendente di questa nuova nascita è, lo sappiamo, il fatto che l'agiografia è diventata in Italia una disciplina universitaria, prevista negli ordinamenti e di fatto insegnata da ordinari e associati in parecchie università. Si può intendere certo un testo agiografico come l'ha inteso la storiografia di matrice positivistica, cioè come un serbatoio di notizie e di fatti, ma la si è ora anche intesa nella sua natura strettamente agiografica, come la vita di un santo, una vita esemplare, misurata sul canone evangelico e quindi testimone di un modello di santità. Questo era assolutamente inconcepibile un secolo fa. Si potrebbe fare un discorso analogo per un'altra componente della tradizione cristiana, cioè sul binomio mistica-profezia, che indica la profonda intima esperienza di Dio nel cristiano o più in generale nell'uomo, e il parlare alla storia in nome di Dio, anche se il suo nome non viene fatto. Per queste componenti siamo ben lontani da riconoscimenti accademici, che forse non ci saranno mai e si può discutere se sia bene o meno, che ci siano. Ma da qualche parte si insegna, credo, storia della spiritualità, che tuttavia è un termine equivoco su cui non si riesce a trovare un accordo.
Su mistica-profezia c'è ormai tuttavia un riconoscimento culturale sempre più ampio. Nel nostro mondo dove è in crisi l'identità personale come l'identità di gruppo, è cresciuta, e non solo né tanto tra i fedeli cristiani, che della mistica poco si fidano e s'aggrappano alle "cerimonie" (come diceva Savonarola), un'esigenza spirituale molto forte, che è dunque in grado di ascoltare le voci dei mistici, uomini e donne, che raccontano quella esperienza di Dio che ha loro dato una identità assoluta e una fermezza prima sconosciuta. È la stessa incertezza del futuro storico (...) che provoca curiosità verso il singolare fenomeno della profezia. Non si possono dire le stesse cose per l'attenzione ai Padri della Chiesa. La disciplina che li riguarda è da decenni insegnata nelle Università, sotto la direzione di letteratura cristiana antica, che ha suoi canoni e una sua dignità certificata. Ma non è questo il nostro problema, bensì il ruolo che i Padri hanno avuto nel medioevo. La medievistica non si è che marginalmente occupata del tema. Anzi, la storiografia medievistica ha prevalentemente, se non assolutamente, visto il momento dinamico della cultura medievale nella sopravvivenza e nell'uso dei classici greci (Platone e poi Aristotele) e soprattutto latini (Virgilio e Cicerone, Ovidio e Orazio, Giovenale e Seneca). Una presenza senza dubbio importante. Ma veramente si può dire che essa rappresenta la dinamicità della cultura medievale? Si ritorna al tema di ciò che il medioevo abbia potuto rappresentare. L'eredità classica-pagana ne è certo una componente; ma credo lo sia anche l'eredità cristiana (la Bibbia e, appunto, i Padri), come anche l'eredità germanica, elemento che solitamente viene messo in ombra anche perché per vari secoli si è espresso prevalentemente con un linguaggio orale. In realtà occorre comprendere il medioevo nella sintesi di queste tre componenti, che rappresenta la sua novità e originalità. Di essa fa parte, ben più di quanto la storiografia abbia voluto vedere, la cultura patristica. Si pensi a un mondo dove - del resto come nella cultura classica - il popolo è analfabeta e l'istruzione è affidata a scuole in sostanza elitarie. Riché ha dimostrato che la scuola classica non è tramontata neppure nei secoli vii e viii, quando minori se non minime sono le testimonianze scritte - vista l'egemonia orale germanica - ma le tradizioni scolastiche sono riprese in pieno con i capitolari di Carlo Magno, fissandone la sede presso gli episcopi e i monasteri. La cultura classica serve questa scuola, innanzitutto per la grammatica e la retorica (il cristianesimo infatti non è un'arte liberale) e per i poeti (ma Francesco Stella ha mostrato che le fonti della poesia carolingia sono sì Virgilio ma soprattutto i poeti cristiani tardo-antichi). È noto per altro che i giovani che si facevano monaci o preti, studiavano il latino sui Salmi, che ogni giorno avevano occasione di recitare o di cantare (non a caso, in molti codici, nei fogli di guardia, tra le prove di penna si trova spesso l'incipit del primo salmo: Beatus vir). È noto anche che la Bibbia nei dotti e nel popolo andava accompagnata da una esegesi come necessità assoluta, non solo e tanto per convenienza o autorità ecclesiastica, ma anche per necessità culturale. Il ricorso ai Padri era un passo ovvio e non evitabile. Per la scuola carolingia, che costituisce il piano educativo per molti secoli, cioè sino alle università, i corpora di commenti alla Bibbia sono per lo più semplici o complessi accorpamenti di passi patristici, in cui tagli, sovrapposizioni di testi diversi e aggiunte testimoniano l'attività non meramente compilatoria di quei maestri, che forniscono, appunto, la base patristica di tutta l'esegesi biblica medievale. Nel popolo la Bibbia era appresa attraverso la liturgia e attraverso la predicazione, oltre che mediante le illustrazioni iconografiche. Soprattutto la predicazione è carica di patristica. L'omeliario di Paolo Diacono, alla fine del secolo viii, ma resta in vigore per secoli, si compone di passi dei Padri a commento dei testi biblici della liturgia. È ben evidente che non c'è solo la liturgia nella formazione della consapevolezza e dell'identità medievale, c'è molto altro; ma la componente cristiana è certamente capitale e Bibbia e Padri ne sono il tramite fondamentale. Il cristianesimo impiegherà secoli a introiettare, pur mediandola, la componente germanica (e Alcuino ne dà testimonianza) e tanti più secoli a introiettare l'eredità classica, finché nel secolo xii questo processo è compiuto e l'uso dei classici avviene ormai senza più barriere di protezione. Il Comitato nazionale per celebrare Gregorio Magno nel centenario della morte, ha costruito, con la Sismel, un catalogo di codici gregoriani che ha dato lo stupefacente risultato di circa novemila schede. Mi chiedo quale autore classico abbia un numero così alto di testimonianze. I cataloghi di Munk-Olsen danno cifre molto ma molto più basse. Ma la ricerca sulla fortuna dei classici è storiograficamente accolta nell'accademia, quella dei Padri è quasi completamente, se non respinta, intravista o giudicata come non significativa. Per questo bisogna dire no all'interrogativo posto all'inizio. Si dice che l'alto medioevo è culturalmente nel segno di Platone e il basso nel segno di Aristotele. Ma le traduzioni da Platone sono poche e il loro uso non centrale, come le ricerche di Klibanski hanno fatto vedere. C'è sì molto Platone, ma mediato da Agostino, come forse più ancora molto medio e neoplatonismo, ma sempre con la mediazione di Platone. Dopo il secolo xii Aristotele invece non ha mediatori, o almeno opera anche direttamente, con le traduzioni dall'arabo e dal greco. Ma tutta la tradizione francescana da Alessandro di Hales a Bonaventura a Duns Scoto accetta di Aristotele solo il linguaggio razionale e una serie di concetti metafisici, ma lo combatte o lo limita e critica fortemente; e la fonte del limite è sempre e soprattutto Agostino, la Bibbia spiritualmente, ma culturalmente i Padri. Persino Tommaso è agostiniano, anche se - come molti affermano - opera una rivalutazione nella tradizione cristiana: l'influenza, pur ripensata, di Aristotele lo porta a una filosofia tutta costruita secondo ragione e una politica che opera, non secondo la fede, ma secondo razionalità - e consuetudines.
Non più come ancora in Bonaventura, la reductio della filosofia alla teologia, ma una distinzione intellettuale dei due sistemi di pensiero, che appare il migliore inveramento della conquista spirituale e storica di Gregorio vii, la distinzione tra il potere politico e il potere ecclesiastico. La difesa della tradizione agostiniana operata dai francescani ha portato invece alla chiusura del tempo medievale. Il primato della volontà già presente in Bonaventura è stato da Giovanni Duns Scoto ulteriormente sottolineato, lasciando poco o nessun spazio alla volontà umana, e sviluppando una antropologia dove la volontà divina tende a essere tutto. Questa posizione non è estranea, evidentemente, al formarsi dell'umanesimo, che era antiscolastico perché anti-scotista, e afferma l'umano contro il pan-divino di Scoto. Si può proporre che con l'anti-scolastica l'influenza della patristica latina nella coscienza occidentale tenda a scomparire; in essa verrà tra poco a operare la patristica greca. Quella latina infatti, proprio perché debitrice di Agostino, è una cultura cristiana che vede l'uomo profondamente toccato dal peccato e che attende la salvezza da Cristo. Quella greca invece vede l'uomo avviato in un percorso che lo porta di tappa in tappa nella Trinità. Non si parla di salvezza ma di divinizzazione. Questa versione cristiana è quella che sola era pensabile dagli umanisti. Il medioevo aveva conosciuto relativamente pochi padri greci, in particolare il grande Dionigi pseudo-Areopagita e la sua concezione dell'inconoscibilità di Dio, che aveva segnato un filone secondario del cristianesimo medievale. Ora molti altri Padri greci vengono conosciuti, anche in particolare per l'insegnamento e le traduzioni di teologi e dotti che hanno lasciato Bisanzio per il concilio fiorentino e per l'invasione dell'islam.
Da questo mio punto di vista, lo studio dei Padri nella storia culturale del medioevo e dell'umanesimo è una necessità storiografica che andrebbe affermata e resa operativa: censimenti di manoscritti, edizioni di testi, storia della fortuna all'interno della cultura medievale (sull'esempio dei lavori pilota di de Ghellinck): una prospettiva di lavoro gigantesca. Se storiograficamente il medioevo dei Padri non esiste, dovrebbe essere formato. Questa è del resto, se posso così finire, la coscienza storiografica che ha presieduto a molte iniziative della Sismel e della Fondazione Ezio Franceschini negli ultimi trent'anni, con cataloghi, edizioni, studi e convegni, tra i quali, benemeriti, quelli sui Padri e l'umanesimo indetti e guidati da Mariarosa Cortesi.
(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)


Eurobond ed Euro: due certezze anti-crisi - Mario Mauro - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Procede con successo la raccolta di firme a sostegno della dichiarazione scritta che ho presentato insieme al collega Gianni Pittella sul ricorso agli Eurobond per sostenere la crescita in Europa.
Nelle ultime settimane stiamo incontrando i presidenti dei gruppi politici del Parlamento europeo, al fine di discutere del tema.
Manifestazioni di condivisione e supporto all'iniziativa sono venute da Martin Schulz presidente del gruppo socialista, da Joseph Daul presidente del gruppo popolare, da Graham Watson presidente dei liberali e da Monica Frassoni presidente del gruppo Verde.
Martin Schulz ha espresso l'auspicio che la Commissione affari economici presenti un rapporto di iniziativa sull'argomento e Joseph Daul, da parte sua, oltre a sollecitare la firma alla dichiarazione durante la riunione di Gruppo, intervenendo in aula in occasione del dibattito sulla crisi finanziaria, ha messo in evidenza come proprio il ricorso agli Eurobond può rappresentare un'interessante soluzione per sostenere la crescita europea.
Proprio in questi giorni un forte segnale di sostegno all'introduzione degli Eurobond é arrivato dal presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker. In un'intervista congiunta con il ministro degli Esteri di Berlino, Frank-Walter Steinmeier, al quotidiano tedesco Bild-Zeitung, Juncker ha spiegato che a suo avviso si potrebbe far ricorso agli eurobond per investire in opere infrastrutturali.
Con la dichiarazione scritta sugli Eurobond chiediamo alla Commissione europea di presentare una proposta di legge sull'argomento.
Pensiamo che questo tipo di iniziativa possa rilanciare i termini dell'Europa unita. Il nostro obiettivo non è marcare una novità, bensì dire “ora o mai più”, poiché adesso ci sono tutte le condizioni perché l'eurobond funzioni. Inoltre è un'operazione che garantirebbe un flusso finanziario considerevole utile per finanziare ricerca, energia, reti di trasporto europee e corridoi europei.
Tra pochi giorni la Commissione europea varerà una sorta di “finanziaria” Ue attraverso misure coordinate da 130 miliardi di euro per rilanciare l'industria in linea con le nuove politiche comunitarie. L’inserimento degli Eurobond all’interno di queste misure non appare affatto un’utopia.
Sempre restando in ambito finanziario trovo molto significativo il fatto che la scorsa settimana, proprio nel pieno della crisi finanziaria che ha travolto anche l'Europa, il Parlamento europeo, abbia voluto celebrare i dieci anni dall'entrata in vigore della moneta unica europea con un dibattito molto utile al quale hanno partecipato il Commissario Joaquim Almunia e il Presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker.
L'Euro ha portato innumerevoli vantaggi tra cui stabilità macroeconomica, contenimento dell'inflazione e prezzi trasparenti, acquisendo enorme prestigio a livello internazionale. L'Unione Monetaria Europea é stata anche una storia di successo con riguardo alla crescita e al lavoro: a dieci dall'introduzione dell'Euro nel 1999, più di 15 milioni di lavori sono stati creati nell'area euro, mentre poco più di 3 milioni sono stati creati nei dieci anni precedenti.
I benefici dell'Euro sono più evidenti paradossalmente durante questo periodo di crisi finanziaria. Senza la moneta unica gran parte dei Paesi membri sarebbe già sprofondata in un baratro senza via d'uscita, con l'Euro e gli eurobond possiamo lavorare tutti insieme per creare una governance europea che ci permetta di affrontare meglio le sfide del futuro.


DIBATTITO/ Ma è proprio necessaria una nuova etica dell'economia? - Flavio Felice - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La prolusione del Ministro Giulio Tremonti, letta in occasione dell’inaugurazione del nuovo Anno Accademico presso l’Università Cattolica di Milano, ha suscitato un ampio dibattito che investe l’oggetto e il metodo della scienza economica, analizzati non più unicamente nell’angusta dimensione mono-disciplina e neppure in quella, talvolta confusa e pressappochista, di chi giustappone in modo inter-disciplinare concetti quali etica ed economia, bensì nel tentativo, piuttosto inedito e di sicuro interesse, dato dal metodo trans-disciplinare. Si tratta di un procedere che intercetta alcuni concetti fondamentali del discorso economico e li analizza a partire da differenti punti di vista.
In tal modo, Tremonti giunge a criticare l’approdo di un determinato filone del pensiero economico, in forza del quale l’economia si sarebbe «illusa di prevedere in vitro i fenomeni sociali esattamente come i fenomeni naturali». È questo il primo di due problematici elementi teorici sollevati con originalità dall’attuale ministro: qual è il metodo dell’economia? Che tipo di scienza è la scienza economica?
Non è certo questa la sede per sviluppare rigorosamente tali questioni epistemologiche, rileviamo soltanto che esiste un’importante differenza fra le scienze naturali e le scienze umane. La scienza umana ha a che fare con l’uomo. Le scienze del comportamento umano, in particolare, hanno come effetto l’uomo stesso e noi, in effetti, possiamo conoscere il comportamento umano dall’esterno, allo stesso modo in cui conosciamo i fenomeni della sfera naturale. Tuttavia, possiamo conoscere il comportamento umano anche dall’interno, perché siamo uomini e viviamo dall’interno l’azione. Per questo non ci limitiamo a conoscere dall’esterno il comportamento e a prenderne atto.
Ecco perché l’ambito delle leggi a priori nelle scienze che studiano l’azione umana è assai più ampio e complesso. Non è un caso che uno dei capolavori della Scuola austriaca di economia, il libro di Ludwig von Mises The Human Action, inizi con una teoria dell’azione umana per poi delimitare il campo dell’azione catallatica, cioè dell’azione propriamente economica.
Il secondo elemento teorico avanzato da Tremonti riguarda l’esigenza che i contenuti etici della riflessione sull’azione umana incontrino i contenuti scientifici della riflessione economica. A tal riguardo, il nostro cita un saggio del prof. Ratzinger del 1985: Church and Economy. La tesi dell’allora Cardinale si può riassumere in questo modo: il declino del riferimento morale della disciplina economica avrebbe portato le leggi stesse del mercato al collasso. Come dire, per usare un aforisma di Luigi Sturzo, «L’economia senza etica è diseconomia».
È stato proprio Luigi Sturzo a scrivere nel 1958 un saggio tra i più significati in questa prospettiva: Eticità delle leggi economiche. Qual era il punto sottolineato da Sturzo? Dal momento che ogni attività autenticamente umana, in quanto razionale, è pervasa di eticità, anche nelle leggi dell’economia capitalistica si deve trovare l’elemento razionale, poiché tale elemento non può mancare in nessuna struttura umana di carattere associativo, anche se non mancheranno le infiltrazioni di pseudorazionalità e di irrazionalità che tendono ad annullare, o comunque ad attenuare, il carattere razionale ed etico del sistema.
Come dire che l’economia senza etica non sarebbe neppure configurabile come economia, piuttosto saremmo nel campo della “diseconomia”. Con ciò non si intende affermare che in caso di “diseconomia” non si ottenga un utile, quanto, piuttosto, che quell’utile è frutto della frode, della malversazione, dell’inganno e non dell’autentico agire economico.
Ebbene, l’economia sociale di mercato proposta dal Ministro Tremonti è figlia della tensione morale che spinse gli esponenti “ordoliberali” della Scuola di Friburgo a interrogarsi su quale nuovo ordine per il nuovo assetto internazionale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale.
Oggi il problema si ripropone, certo con meno drammaticità, sebbene con la stessa urgenza, e impone l’esigenza di ripensare la conformità della disciplina economica con le scienze umane e di distinguere lo Stato come arbitro, il mercato come campo di gioco e gli operatori come parti del gioco.
A questo punto, una volta che ciascun attore recita la propria parte si intravedono anche i possibili antidoti contro il rischio che enormi concentrazioni economiche private possano degenerare in un sistema di collettivismo pubblico.
È questo il principale problema nell’agenda del governo mondiale; un problema che chiede di essere risolto con la massima urgenza se non si voglia correre il rischio di sacrificare il dinamismo economico al ristagno degli accordi collettivi, figli di una logica corporativa e di sacrificare le libere scelte individuali alla “presunzione fatale” del grande pianificatore.


FAMIGLIA/ Il Governo guardi alla Francia: bastano quattro misure per sostenerla - Luca Pesenti - martedì 25 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nei giorni in cui il governo Berlusconi è alla ricerca di un auspicabile quanto difficilissimo salto di qualità sul fronte nelle politiche per il sostegno alle famiglie, è utile andare alla ricerca di esperienze positive maturate fuori dai nostri confini.
Il caso più significativo di realizzazione di un modello efficace di politica famigliare è senza alcun dubbio quello della Francia, Paese in cui si spende a questo scopo il 2,5% del Pil (in Italia superiamo a malapena l’1%). Non casualmente la Francia è tra l’altro l’unico Paese Ue capace, attraverso una crescita assai rilevante della fertilità media, di raggiungere il tasso di sostituzione naturale (due figli per donna).
Come si è arrivati a questo per certi versi spettacolare risultato? Grazie a una politica fortemente favorevole non semplicemente alla natalità, ma alla famiglia in quanto tale, centrata su tre obiettivi principali: permettere ai genitori di avere il numero desiderato di figli; realizzare la una migliore possibilità di conciliazione tra famiglia e lavoro; permettere ai bambini le condizioni adeguate allo sviluppo.
A partire da queste premesse, la politica famigliare franceseè caratterizzata innanzitutto dalla presenza del quoziente famigliare, ovvero da un modello di tassazione capace di tenere conto della numerosità presente nella famiglia. Accanto a questo pilastro, una serie di misure che in questa sede possiamo soltanto sintetizzare:
- Allocatione de base è uncontributo mensile di 159 euro fino al terzo anno di età, per ogni nato o adottato;
- Prime à la naissance è un bonus per ogni nato o adottato pari a 808,31€, versato al settimo mese di gravidanza;
- Complement de libre choix de mode de garde è un finanziamento dell'assistenza per i bambini fino a 6 anni con genitori lavoratori; si può chiedere da un lato la copertura del 50% dei contributi previdenziali versati per una babysitter a domicilio (quota che sale al 75% sotto una certa quota di reddito), dall’altro un contributo trimestrale (variabile tra i 67 e i 206€, a seconda dell’età del bambino e del reddito dei genitori) per ogni figlio sotto i 6 anni frequentante un asilo;
- Complement de libre choix d’activitè è uncontributo per genitori che abbiano ridotto o interrotto la propria attività lavorativa in seguito alla nascita o adozione di un bambino; versato mensilmente per sei mesi (nel caso di un figlio a carico) o fino al terzo anno (con più figli a carico), la cifra va da 126 a 501€, a seconda che l’interruzione sia totale o parziale. La condizione per accedere a questa misura è quella di aver lavorato due anni negli ultimi quattro (se si hanno fino a due figli) o negli ultimi cinque (per più di due figli).
Siamo insomma di fronte a un modello misto, capace di sostenere la famiglia in quanto tale e senza aggettivi (povera, fragile, numerosa…). Una famiglia cui è soprattutto riconosciuto un diritto alla libertà di scelta tra accudimento dei figli entro le mura domestiche (garantendo un sostegno al reddito anche per coloro i quali decidessero di diminuire o interrompere temporaneamente la propri attività lavorativa) e accesso alla rete dei servizi all’infanzia (fortemente potenziati negli ultimi anni, grazie a un piano che porterà alla creazione di 20mila asili in più, finanziando progetti anche dei privati).
Ce n’è a sufficienza per indicarlo come un modello da imitare, superando la linea risarcitoria costruita su interventi una tantum che da troppi anni osserviamo nel nostro Paese.


VITO E IL SENSO DELL’ESISTENZA - PROVIAMO A INCROCIARE L’AULA DI RIVOLI E LE SCUOLE DI SPAGNA - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 25 novembre 2008
MADRID
Per una strana coincidenza, mentre qui in Italia si piange attoniti e con rabbia d’insurrezione la morte di un ragazzo per il crollo di un soffitto dell’aula, in Spagna c’è chi esulta per una sentenza che ' manda fuori dalla porta' delle aule scolastiche il crocifisso. La strana coincidenza urge, tra le lacrime del cuore, a guardare proprio lì, tra le macerie, senza distogliere lo sguardo. Perché si piange la vita di un ragazzo, la vi­ta intera di un ragazzo che incontrava a scuola i contenuti dell’insegnamento, le co­se da imparare, le nozioni. E se lui e i suoi compagni alzavano lo sguardo vedevano, oltre ai ritratti di presidenti, il segno di un uomo-Dio messo in croce. Il segno di una strana vittima. Il segno di una morte sofferta perché la vita risorga. Io non so se Vito ab­bia mai guardato il Crocifisso. Ma se il Cro­cifisso non guarda ora quel ragazzo, se il Dio-uomo in cui credo non lo prendesse o­ra dalla sua croce di banchi sepolti, di tubi divelti, di crollo idiota e colpevole, per strin­gerlo al Suo petto di cielo, allora sarei io il primo a cacciarLo da ogni luogo come sta­tuetta inutile. Di fronte a quella morte as­surda possiamo fissare gli occhi chiari di Vito, e il crocifisso. E offrire al suo spasimo il nostro. L’irruzione della morte nella vita quotidiana dei nostri ragazzi ci fa doman­dare quale sentimento, quale visione di es­sa abbiano maturato. In certe manifesta­zioni di inebetito do­lore, di pietà lacrimo­sa e demente, e di cie­ca rassegnazione, ve­diamo i segni di qual­cosa di antico, di pre­cristiano, se così si può dire. Un fatali­smo senza nessuna inquietudine. E il «perché?» gridato da molti sembra più che una vera domanda al cielo, una chiusa in­vettiva contro gli uo­mini o un fato cieco.
In questi giorni in cui vampiri gentili e cru­deli trionfano nei cinema, proposti con gran dispendio di mezzi ai nostri adolescenti, qualcuno ha fatto notare che ormai, depri­vati di una educazione religiosa, i ragazzi hanno in questi fenomeni che sfruttano la morte in senso spettacolare forse gli unici punti di contatto con una elaborazione in­torno al problema. E il crocifisso viene man­dato fuori dall’aula. Perché 'disturba'.
Esultano nella Spagna comandata da Za­patero che comunque ha scelto per le sue figlie una scuola dove c’è l’ora di religione. Certo una statuetta attaccata al muro non è niente, se in chi lo guarda non s’affaccia una domanda reale circa il significato, e se chi la espone e magari fa pure le battaglie politiche perché ci resti non sa spiegare ve­ramente e commuoversi. Equiparare il cro­cifisso alla bandiera, al ritratto del Presi­dente, insomma a un simbolo solo storico­civile, non credo sia giusto. No, si tratta pro­prio di un segno d’altro genere. Che si po­ne ad un altro livello di signficati. Che vale, in questo senso, per i cristiani e anche per chi non crede, perché ricorda che il senso della morte è una questione che ci riguar­da, ed è un problema che un ragazzo de­ve affrontare anche a scuola. Il crocifisso propone quella taciuta e però sempre ri­sorgente questione in modo non ipocrita. E la propone legata a una possibilità di af­fronto non disperato. O si preferisce che i nostri ragazzi imparino cosa è morire dai filmoni hollywoodiani fatti per tirar su quattrini?
Sentire un crocifisso come una minaccia per la laicità dello Stato è una bufala che non sta né in cielo né in terra. Tra i tanti di­sagi che i nostri ragazzi, anche nelle mani­festazioni politiche, stanno mostrando non mi pare che ci siano i segni di quella 'cri­stofobia' che invece eccita certi loro geni­tori- consiglieri o certi media. Proprio i ma­ledetti fatti di questi giorni, e gli occhi chia­ri e pieni di infinito del povero dolcissimo ragazzo di nome Vito, ci possono far pen­sare meglio a che cosa proporre o cosa to­gliere da davanti agli occhi nei luoghi che chiamiamo pubblici. E che non significa a­nonimi, anzi: sono i luoghi dove la vita e la morte di ognuno non si lasciano occultare.


Se l’altro non è riconosciuto come uguale a se stessi - MARINA CORRADI – Avvenire, 25 novembre 2008
Sono ragazzi 'normali'.
Uno studente, un perito chimico, un elettricista e un barista fra i diciotto e i diciannove anni, incensurati.
Benestanti, abitanti in famiglia, le facce degli adolescenti con cui lasceresti uscire una figlia.
Quattro ragazzi normali hanno confessato di avere dato alle fiamme quindici giorni fa, a Rimini, un clochard addormentato sulla sua panchina. «Lo abbiamo fatto – hanno detto – per gioco». Per gioco, ma con la lucidità di andare a riempire la tanica nell’unico distributore di Rimini che non ha telecamere. Con la improntitudine di tornare sul posto, un’ora dopo, per assistere a quel gran via vai di sirene e poliziotti, nell’acre odore di fumo; per dirsi fra sé, soddisfatti: guarda, di cosa siamo stati capaci. Si farà un processo, e magari un difensore tenterà, come accade quando non ci sono altre strade per il suo assistito, la carta dell’infermità mentale. Si faranno, forse, le perizie. E quanto vorremmo in fondo che gli psichiatri trovassero in questi quattro tracce di una malattia mentale, una qualsiasi, pur di potere dire che lo studente, il barista e i loro amici in realtà 'normali' non erano. Ma se, anche a causa di quella fredda regia dell’aggressione, i medici non riusciranno a trovare nulla di anomalo, allora bisognerà convenire che a bruciare un uomo come si brucia un bidone sono stati proprio quattro ragazzi 'normali'. Cioè a dire che in una agiata città di provincia italiana, nel 2008, quattro adolescenti tranquilli possono cercare, in una sera di noia, di ammazzare un poveraccio per diletto.
Nemmeno per una perversa ragione ideologica che, pure sordida, indicherebbe almeno una consapevole scelta per il male. Per il puro nulla, invece; così, non sapendo che fare, e sognando l’ebbrezza dei titoli sui giornali. Semplicemente per gioco. Di tutte le ragioni possibili, la peggiore. Perché significa che quel clochard
non era, agli occhi della banda, nemmeno un uomo. Non si dà alle fiamme un uomo per divertirsi. In realtà, prima di arrivare con la tanica, quei ragazzi il clochard
sulla panchina lo avevano già annientato nei loro pensieri; trasformato in una cosa; in quella faccia, non riconoscevano più in alcun modo un proprio simile.
Bisognerà però chiedersi, se gli amici di Rimini risulteranno psicologicamente 'normali', quale 'normalità' consenta un gesto simile. Bruciare, cercare di uccidere è un gesto criminale e grazie a Dio non frequente. Ma quello che in questa storia viene prima, e cioè quello sguardo annichilente su un prossimo non più riconosciuto come uguale a sé, questo sguardo, siamo sicuri che oggi sia altrettanto raro?
Quella 'normalità' che spesso ci viene ripetuta nel definire, fino al giorno prima, protagonisti di violenze gratuite, di aggressioni a handicappati o stranieri, o di stupri di gruppo di compagne bambine, non allude forse a una incapacità di riconoscere l’altro come persona, forse più ampia e diffusa dei casi che poi tragicamente esplodono nella cronaca? Bravi ragazzi, lavoratori, incensurati, sentiamo ripetere come una litania, e però capaci di ferocia, per divertirsi.
In quale vuoto, in quale educazione al nulla cresce questo male 'normale'?
Qualcosa di fondamentale, in un’abbondanza e accessibilità di informazioni senza precedenti nella storia, sembra mancare ad alcuni, e scoppia qui e là tra paesi e città, come buchi neri nel comune sentire. Che cos’è un uomo, e chi c’è dietro al volto di ognuno, è coscienza per qualcuno perduta, memoria colmata dal nulla.


Cara Agnese, perdona il mondo di noi grandi - «Quella di Eluana è una storia senza lieto fine, dove è diventato cattivo chi vuole tutelare la vita, e buono chi chiede di toglierla» - Maria Luisa di Pietro, presidente di «Scienza & Vita» ha scritto questa lettera aperta alla figlia di 9 anni – Avvenire, 25 novembre 2008
«Mamma, è già morta Elua­na? ». «No», risponde la mamma. «Allora, io vado di là e continuo a pregare per lei». Cara Agnese, hai solo nove anni e stai lì con il capo chino a pregare per Eluana. Ne hai sentito parlare a scuola; hai ascoltato la televisione; hai letto il giornale che papà ha portato a casa. Hai chiesto informa­zioni alla mamma, che ti ha spiegato che Eluana è una giovane donna incapace di parlare e di comunicare con gli altri e che alcuni adulti hanno deciso di lasciarla senza cibo e senza acqua. Non hai capi­to proprio tutto, ma quanto basta perché il tuo piccolo cuore accogliesse anche u­na persona che non conosci e che po­trebbe morire. È una realtà troppo gran­de per te, strappata dalla violenza degli adulti da quel mondo di fiaba in cui le principesse si svegliano sempre con il calore dell’Amore. Non hai paura per te; hai paura per Eluana: per questo hai de­ciso di pregare Gesù perché la proteg­ga. Non tutti i bambini hanno avuto, però, la tua stessa reazione. Alcuni bam­bini sono molto spaventati e hanno paura che, in un futuro lontano, qual­cuno – anche un genitore – possa deci­dere di non farli mangiare e bere più. Non solo i bambini, ma anche i ragazzi, gli a­dolescenti, i giovani, i grandi, sono stati raggiunti dalla più massiccia campagna di informazione sulla morte e sul mori­re di cui si abbia memoria. I grandi di­cono che la storia di Eluana, come quel­la di tante persone nelle sue condizioni, ha consentito loro di riflettere finalmen­te sulla fragilità della vita e sulla morte. È una bugia: non vogliono accogliere la malattia, la sofferenza e la morte come fatti della vita. Sono ossessionati e terri­ficati dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte, tanto da volerle allontana­re dalla loro mente. Ne parlano perché hanno così tanta paura da chiedere di e­liminare la fonte stessa della loro paura: la persona che sta male, che soffre. Sono convinti di potere così allontanare in mo­do definitivo lo spettro della malattia, della sofferenza, della morte. Cara Agnese, perdonaci. Fino a ieri ti abbiamo fatto credere che il non­no è partito per un lungo viaggio e che la nonna – anche dal cielo – si ricorda di te e ti manda i regali. Oggi, ti raccontia­mo una storia diversa: una storia senza lieto fine. Ma si sa: nel mondo dei gran­di «il fine giustifica i mezzi». È necessa­rio convincere tutti che Eluana e tante altre persone come lei sono «pre-morte»; che persone cattive e senza cuore si ac­caniscono a dar loro cibo e acqua; che persone buone chiedono, invece, di stac­care una inesistente «spina». Una storia senza lieto fine, in cui è cattivo chi chie­de di rispettare e tutelare la vita ed è buo­no chi chiede di togliere la vita. Una sto­ria senza lieto fine, ambientata nel mon­do «al contrario» in cui non si ha più il co­raggio di chiamare le cose con il loro no­me.
Cara Agnese, noi grandi abbia­mo talmente paura della morte che ad­dirittura cerchiamo di cancellare dalla nostra mente parole come «uccisione» o «omicidio». Parliamo di «eutanasia», di «anticipazione della morte per evitare la sofferenza». Perché – devi sapere – la pa­rola «omicidio» è difficile da pronuncia­re, anche quando la realtà che si vuole in­dicare non può che essere chiamata con questo nome. Eppure, un grande Papa – Giovanni Paolo II – ci ha detto che non dobbiamo avere paura della verità e che dobbiamo gridarla forte agli altri. E quan­do ha parlato di eutanasia ci ha detto che «è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata mo­ralmente inaccettabile di una persona umana […] Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio».
«Mamma è già morta Eluana?». No, Agnese, Eluana – per fortuna – non è ancora morta e anche qualora doves­se morire, rimarrà sempre viva nei nostri cuori. E, ogni giorno, noi grandi ci do­manderemo cosa non abbiamo fatto per evitare la sua morte e come possiamo aiutare tutte quelle persone che si trova­no nelle stesse condizioni.
Cara Agnese, perdonaci se ti abbiamo trascinato in questo mondo di grandi, fatto di incertezze e di paure. Ca­ra Agnese, piccolo fiore, perdonaci, se in­vece di irrorarti con la rugiada del mat­tino e riscaldarti con i raggi del sole, ti abbiamo travolto con le nostre parole e inondata con le nostre amare lacrime. Cara Agnese, perdonaci se, dopo averti rubato l’infanzia, ti chiediamo di non parlare più di questa storia senza lieto fi­ne e di farla cadere nell’oblio del silen­zio. Cara Agnese, ricorda anche noi nel­le tue preghiere e chiedi a Gesù di per­donare le nostre bugie, la nostra vigliac­cheria, i nostri studiati silenzi.
Maria Luisa Di Pietro


INTERVISTA. Dalle scoperte archeologiche alle profezie bibliche, fino alla Sindone: un’indagine storica sul Nazareno. Parla Antonio Socci - Cristo alla prova dei fatti - DI ANDREA GALLI - Lo «strano cristiano» Antonio Socci – giornalista, saggista, apologeta – dopo una serie di indagini su alcuni grandi misteri della Chiesa del ’900, torna indietro di 2000 anni, con Indagine su Gesù (Rizzoli, pp. 346, euro 18.50), che esce domani in libreria. – Avvenire, 25 novembre 2008
Socci: dopo Medjugorie, i martiri del XX secolo, Padre Pio, come mai proprio ora un ritorno al «fondamento»?
«Negli anni ’80 mi occupai molto dei frammenti 7Q5 e 7Q4 di Qumran sulla scia degli studi di padre José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede. Iniziai così una serie di inchieste sulle scoperte relative al Nuovo Testamento, che confluì nel volume Vangeli e storicità
(Rizzoli). Studio da venti anni l’epoca e la vita di Gesù. È la passione della mia vita».
Cosa pensi di questo piccolo boom di libri demitizzanti sulla figura di Cristo?
«Perlopiù sono vecchie tesi razionaliste già confutate.
Anche dalle scoperte archeologiche. Mi sconcerta di questa pubblicistica anzitutto la sommarietà delle analisi e poi il preconcetto ideologico.
Nella Storia della ricerca della Vita di Gesù, Albert Schweitzer riconosce apertamente che all’origine delle più famose vite di Gesù laico-illuministe c’è l’odio. Dice espressamente così. L’odio contro 'il nembo soprannaturale' che avvolgeva la persona di Gesù. Essi pregiudizialmente vogliono 'strappargli' la divinità e gettargli sulle spalle 'i suoi stracci' per farlo diventare un uomo qualunque. È un’ammissione importante, visto che il lavoro di Schweitzer si muoveva proprio in quel senso».
Per quanto riguarda la sommarietà, vedo che in una nota di poche righe del tuo libro elenchi una decina di svarioni di «Inchiesta sul cristianesimo» di Augias e Cacitti, ma presentati dagli autori come «incontestabili verità».
«È un elenco parziale. Ma come si può prendere sul serio un libro dove si accostano ripetutamente i martiri cristiani e i terroristi di Al Qaeda, o dove si afferma che Gesù 'non ha mai detto di voler fondare una Chiesa'?».
Eppure libri anche più che approssimativi su Gesù hanno successo. Perché, secondo te?
«Perché il fascino di Gesù è sempre irresistibile.
Fortissimo il desiderio di confrontarsi con lui. Ho dedicato a questo fenomeno il secondo capitolo del mio libro, scoprendo una serie sorprendente di personalità che hanno avvertito questa attrazione (anche nemici come Marx, Nietzsche o Renan)».
Rispolveri pure le poco note «Conversazioni religiose» di Napoleone a Sant’Elena...
«Sì, un documento impressionante, soprattutto se pensiamo a cosa è stato Napoleone per la Chiesa: un persecutore. A Sant’Elena, dimenticato in fretta dai suoi, l’ex condottiero riflette con grande lucidità sulla straordinaria figura di Gesù e sulla misteriosa conquista cristiana del mondo, sulle inermi truppe di Cristo, sulla forza sconosciuta che permette alla Chiesa di resistere nel tempo, mentre tutto passa e i troni crollano. Napoleone conclude affermando che questo si spiega solo se Gesù è vivo e presente, perché è Dio ed è risorto davvero».
Cosa ti ha colpito di più nella ricerca del «volto» di Gesù di Nazaret?
«Ho seguito tre grandi autori, Romano Guardini, Karl Adam e Luigi Giussani, che hanno penetrato con impareggiabile profondità la vita e la personalità umana di Gesù. Alla fine, ciò che colpisce, oggi come colpiva duemila anni fa, in sintesi, è la bellezza della sua umanità. Ciò che faceva dire a A. J. Mohler: 'Io penso che non potrei più vivere se non lo sentissi più parlare'.
Una bellezza i cui barlumi è possibile sempre ritrovare nelle personalità dei santi».
Come mai la scelta di concentrarti tanto, invece, sulla questione delle profezie ebraiche riguardo al Messia? È il capitolo più lungo del libro.
«Perché è un fatto straordinario che viene inspiegabilmente eluso o trattato con superficialità, anche in ambito cristiano.
Abbiamo testi antichissimi, che già il popolo ebraico riteneva ispirati direttamente da Dio, la Sacra Scrittura, in cui sono presenti circa 300 profezie messianiche. Tutte, nessuna esclusa, trovano una perfetta corrispondenza nella vicenda di Gesù di Nazaret. È un caso unico, un mistero storico prima che teologico, che dovrebbe interpellare chiunque. Jean Guitton diceva che 'nessuna mente scientifica, a maggior ragione filosofica, dovrebbe considerarsi tranquilla finché la questione non sia stata risolta'. L’enigma arriva fino ad alcuni testi messianici ritrovati a Qumran, dove, in base alle profezie di Daniele, si attendeva la venuta del Messia tra il 10 a.C. e il 2 d.C. Non è stupefacente?».
Profezie e anche miracoli: nel capitolo sulla Risurrezione ti soffermi lungamente sulla «prova» della Sindone. Non temi di essere considerato un po’ troppo «grossier» per certi palati teologici?
«Sulla Sindone ci sono novità scientifiche davvero sorprendenti che esigono una nuova riflessione. Infine l’importanza e il significato dei miracoli e delle profezie sono affermati chiaramente nella costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I, la Dei Filius, che li definisce 'segni certissimi della divina Rivelazione e adatti all’intelligenza di tutti'. Oltre ai Vangeli, la 'prova' della Risurrezione di Gesù sta nei fatti».