giovedì 27 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) All'udienza generale il Papa ricorda che l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti ma dall'amicizia con Gesù - Una fede incarnata nell'amore evita divisioni nella Chiesa - "La fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità". Lo ha ricordato Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 26 novembre, nell'Aula Paolo VI. Nella catechesi il Papa ha sottolineato che "la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell'amore".
2) Un ruggito rosso porpora - L’ultima catechesi del cardinal Biffi. I cristiani devono annunciare la Verità, non adattarsi al mondo...
3) Il Presidente Napolitano risponde al Movimento per la Vita - Carlo Casini non è però soddisfatto dal comportamento dei giudici - di Antonio Gaspari
4) 27/11/2008 09:34 – INDIA - Mumbai, 101 morti, continuano gli scontri fra esercito e terroristi - Fra le vittime vi sono 6 stranieri. Un rabbino e la sua famiglia sono stati presi in ostaggio. I terroristi tengono in ostaggio anche ospiti dell’hotel Oberoi. Scuole, università e la Borsa sono chiuse. Emerge più forte la pista islamica, legata ad Al Qaeda.
5) Il 2009 sarà l'Anno internazionale dell'astronomia - Grazie, Galileo - di José G. Funes - Gesuita Direttore della Specola Vaticana - L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
6) Chi l'ha detto che i medievali pensavano che la Terra fosse piatta? – Pubblichiamo la parte iniziale di uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento. - di Agostino Paravicini Bagliani – L’Osservatore Romano, 27 Novembre 2008
7) Quattrocento anni dopo Galileo Galilei il rapporto tra fede e scienza in un convegno a Roma - Due ali per volare verso la verità - "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei" è il titolo del convegno di studi che si apre a Roma, mercoledì 26 novembre, presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Pubblichiamo parte dell'intervento del cardinale segretario di Stato e la sintesi della relazione del presidente della Fondazione Terapia con Radiazioni Androniche (Tera).- di Tarcisio Bertone - L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
8) Marginalità e centralità dell'uomo nell'universo - L'universo si gonfia come un palloncino - di Ugo Amaldi – L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
9) Dietro-front: torniamo all'economia reale - Giorgio Vittadini - giovedì 27 novembre 2008 – Ilsussidiario.net
10) Parla Bobby, il fratello di Terri Schiavo: date a noi Eluana - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) USA/ Sapete chi è Melody Barnes, la nuova consigliere di Obama? - Lorenzo Albacete - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
12) COLLETTA/ Farinetti (Eataly): quella del Banco è un’idea geniale che fa comprendere il proprio bisogno e quello degli altri - INT. Oscar Farinetti - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
13) COLLETTA/ Fini: il banco alimentare è un importante segnale di coesione - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
14) SCUOLA/ Gli istituti cattolici negli USA: un metodo educativo che convince tutti, anche gli sponsor - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
15) RECENSIONE/ Chiesa e sessualità, l'etica rivoluzionaria che ha dato valore all'idea di corpo - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net


All'udienza generale il Papa ricorda che l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti ma dall'amicizia con Gesù - Una fede incarnata nell'amore evita divisioni nella Chiesa - "La fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità". Lo ha ricordato Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 26 novembre, nell'Aula Paolo VI. Nella catechesi il Papa ha sottolineato che "la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell'amore". – L’Osservatore, 27 novembre 2008
Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi "giusto" con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire "giusto" davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua "giustizia" unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l'uomo l'ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende "giusti". Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta. Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della "giustificazione" mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l'accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: "In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5, 6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le "opere della carne" che sono "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria..." (Gal 5, 19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall'altra, vi è l'azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5, 22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.
All'inizio di quest'elenco di virtù è citata l'agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l'Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l'agape, nei nostri cuori (cfr. Rm 5, 5); e l'agape, l'amore, per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell'amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell'amore (cfr. Gal 6, 2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell'amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell'amore. È il cosiddetto inno alla carità: "Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse..." (1 Cor 13, 1.4-5). L'amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall'amore totale di Cristo per noi: quell'amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per "Colui che è morto e risorto per noi" (cfr. 2 Cor 5, 15). L'amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr. 2 Cor 5, 17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa. Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell'amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un'infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: "Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta" (2, 26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l'accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr. Gc 2, 2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell'amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata "con rispetto e timore. È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita", dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr. Fil 2, 12-14.16). Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, "tutto fosse loro lecito". E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l'Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s'incarna nell'amore, perché si riduce all'arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr. 1 Cor 6, 19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto "ragionevole" e insieme "spirituale", per cui siamo esortati da Paolo a "offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12, 1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l'Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti "dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male" (2 Cor 5, 10; cfr. anche Rm 2, 16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.
Se l'etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore "folle" di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr. Rm 8, 39). In questa certezza viviamo. È questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore.
(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)


Un ruggito rosso porpora - L’ultima catechesi del cardinal Biffi. I cristiani devono annunciare la Verità, non adattarsi al mondo...
"Agli ultimi Sinodi cui ho partecipato, ho visto tante brave persone, ma il livello non è quello dei vescovi del Concilio. Tutti sono gentili e pieni di buone intenzioni, ma mi sembra che manchi un po’ d’intelligenza, che non guasta mai. Un’intelligenza del cuore”.
A dirlo non è stato il cardinale Giacomo Biffi, ma il suo collega cardinale Godfried Danneels, vescovo di Mechelen-Bruxelles e primate del Belgio, in una lunga intervista per il mensile 30Giorni.
A parte la berretta porpora e l’appartenenza alla stessa generazione (Danneels, nato nel 1933, è di cinque anni minore), probabilmente tra i due pastori e cardinali di Santa Romana Chiesa c’è poco altro in comune. Danneels è sempre stato arruolato, per semplificazione e “malgré lui”, nelle schiere dei progressisti; non è un nostalgico del Concilio per partito preso, ma è uno di quelli che il suo insegnamento, ad esempio sulla Parola di Dio e sul ruolo dei vescovi, vorrebbe fosse meglio attuato. Biffi legge i fatti in maniera quasi opposta, e anche nel suo nuovo libro in uscita in questi giorni, “Pecore e Pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo” (Cantagalli, 256 pp., 13,80 euro) affonda la sua schietta ma tagliente lama ambrosiana nei danni ecclesiali (ma anche più genericamente culturali: perché se il sale non sala, diventa melassa anche il resto del mondo) prodotti dalla mentalità eccessivamente “conciliante” dei pastori della chiesa di oggi. E in questo senso, per una volta, il teologo ambrosiano che insegnò dalla cattedra di Petronio sarebbe probabilmente d’accordo con il giudizio inclemente sull’attuale generazione di pastori espresso dal suo confratello teologo delle Fiandre.
Vecchio leone in porpora, fedele al suo motto episcopale “Ubi fides ibi libertas”, anche stavolta Biffi non le manda a dire. Ma allo stesso tempo, memore anche del motto di San Carlo, “Humilitas”, nella sua “riflessione sul gregge di Cristo”, non si atteggia a giudice occhiuto dei cristiani. E anzi, la prima evidenza che mette in luce a suon di Sacre Scritture è che, nella chiesa, a parte l’unico Buon Pastore, “tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal Papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del ‘piccolo gregge’. C’è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo”.
Ciò non esime però nessuno, è un po’ il senso generale di questa nuova “catechesi” del cardinale Biffi, dal praticare la Verità, senza annacquare e confondere. E qui, le strigliate del cardinale riguardano innanzitutto i “colleghi”, i teologi e in generale il clero. Lo fa, come sempre, con il suo linguaggio saporito, diretto, mai tecnicistico anche quando è strettamente teologico. O esegetico.
Il che è già di per sé un tratto distintivo rispetto alle correnti dominanti della chiesa attuale, in cui spesso la parola, anche dei pastori, prende il largo dalla schiettezza evangelica e si perde in una serie di circumnavigazioni e circonlocuzioni che sembrano più adatte a opacizzare che non a rendere trasparente il contenuto.
“Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma l’ortodossia a fare notizia”, dice il cardinale. E ancora: “Oggi sempre più frequentemente ci si meraviglia quando un Papa o un vescovo dice ciò che la Chiesa ha sempre detto (e non può non dire perché appartiene al suo patrimonio inalienabile); come se fosse ormai persuasione pacifica che anche la chiesa non creda più al suo mesaggio di sempre”.
Così il contenuto del libro, intessuto e saldamente appoggiato alle citazioni della Bibbia e dei Vangeli, fino a divenirne a tratti una semplice e letterale esegesi, è in fondo l’essere cristiani, l’essere chiesa in quanto tale, il valore teologico di questo fatto e la naturale disciplina interna che deriva dall’appartenenza a questo “organismo”. E il senso e valore dell’essere dentro al mondo. Quello non facile, di oggi: “La prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: ‘Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede’; ma è: ‘Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo’”.
Difficile sfuggire a un senso di stringente attualità, leggendo queste parole e molti altri passaggi taglienti del cardinale Biffi. Il quale evita ogni rimando alla cronaca, ma indirettamente coglie in certi vizi (verrebbe da chiamarli capitali) della teologia e della chiesa contemporanea la radice profonda di quell’insipido “andate e adeguatevi” che minaccia la fede.
E il primo peccato, trattandosi di annunciatori del Vangelo, sta proprio nel linguaggio. Da parte dei pastori: “Assistiamo oggi a una frequenza nell’uso della parola ‘pastorale’ ignota al linguaggio ecclesiale delle epoche precedenti. Una volta il vocabolo serviva, più che altro, per indicare il bastone usato dal vescovo nelle celebrazioni pontificali e la lettera indirizzata sempre dal vescovo alla sua diocesi, contenente i richiami dottrinali e le direttive del successore degli Apostoli. Oggi – dopo che il Vaticano II è stato qualificato esplicitamente come un ‘concilio pastorale’ e ha denominato ‘pastorale’ una sua costituzione (la Gaudium et spes) – il termine ritorna spesso nella vita della Chiesa: ‘consiglio pastorale’, ‘piano pastorale’, ‘vicario pastorale’, ‘teologia pastorale’”, ragiona Biffi: “Capita però che l’uso reiterato dei vocaboli a proposito di un argomento si accompagni all’indebolimento della sua comprensione effettiva e sia occasione di qualche confusione. Così, ad esempio, ci si compiace di parlare di ‘comunità’, quasi per nostalgia, adesso che sociologicamente prevale l’individualismo e il disimpegno”. Insomma l’autocoscienza e la tradizione della chiesa ridotte a parole in libertà, fino agli esiti grotteschi che Biffi individua e distilla con rara puntualità.
Così che a “richiamarsi assiduamente alla ‘povertà’ e a decantarla con entusiasmo sono proprio i cristiani benestanti e gli uomini di Chiesa di estrazione borghese, che non hanno mai avuto modo di farne personalmente qualche esperienza”. E via così, passando in rassegna “oltre ogni retorica, i contenuti autentici ed esatti delle parole che godono di così larga preferenza”.
L’interesse centrale del cardinale non è però ovviamente quella di una rassegna tematica o linguistica. Anche adessso che non è più sulla cattedra vescovile, non cessa di certo di sentirsi pastore e di fremere per l’urgenza (lo si nota a pelle, in certe pagine) di voler comunicare ai fedeli il senso più vero della “appartenenza” al “gregge di Cristo” e che, per lui, è l’esatto contario di avere delle opinioni più o meno personali, più o meno adattabili alla situazione, con cui “tradurre” il mesaggio evangelico. “Tanto per intenderci (anche col rischio di apparire provocatori) – dice ad un certo punto commentando dei passi del Vangelo – potremmo parlare di concezione ‘clericale’. Che conta è che ci sia il drappello consapevole e motivato dei Dodici (e dei discepoli designati), in modo che sia assicurato l’annuncio; poi gli uomini risponderanno in diversa misura. Che conta è che sia predicato l’evangelo dai responsabili, in seguito il seme germoglierà come potrà”. Ed è da qui, da questa “necessità di predicazione del Vangelo”, e non da una presunta necessità di comunicare con il mondo, che deve discendere nella chiesa la responsabilità dei pastori: “Nessuno è pastore in proprio – dice Biffi in un altro punto – ma tutti quelli che lo sono legittimamente, lo sono in quanto riflettono la ‘pastoralità’ di Cristo e del Padre”. Significa, per Biffi, che “colui che esercita – a qualunque livello legittimo – il ministero pastorale, deve verificare quotidianamente la sua consonanza con il ‘Pastore supremo”.
Al centro di tutta “riflessione” del cardinale, il punto centrale è però, forse, ancora un altro. Ed è un punto che riguarda non solo e non tanto “le regole del gregge” (se possiamo chiamarle così), ma il suo rapporto, la sua ragion d’essere nel mondo. Lo si coglie con evidenza nei punti in cui Biffi parla di “dimensione ontologica della verità”. E dove di capisce, ad esempio, che anche la “carità”, per i cristiani, può essere solo una “epifania della verità”. Come dire che non si può avere una concezione retta dell’agire “caritatevole”, se non la si fonda sulla Verità. E così, il problema torna ad essere ancora quello del linguaggio, anzi soprattutto, scrive Biffi, “quello del ‘non linguaggio’, vale a dire quello di un mondo cristiano che è reticente nel presentare una concezione della realtà e un insegnamento esistenziale troppo diversi da quelli universalmente conclamati. Il problema principale è quello di recuperare la fede nella fede e nella sua capacità di toccare i cuori”.
Quando l’arcivescovo emerito di Bologna scrive con ruvida concretezza che “farsi capire è necessario, e perciò bisogna parlare con chiarezza e semplicità; ma la difficoltà maggiore non sta nel farsi capire.
I nostri contemporanei non sono ottusi: quando si sentono annunciare che Gesù Cristo è risorto (cioè è passato dalla morte alla vita), comprendono benissimo di che cosa si tratta”, probabilmente iniziano a ronzare le orecchie di tanti suoi colleghi, in cattedra o parimenti emeriti che siano: “Perché anche i più sprovveduti sanno la differenza che intercorre tra un uomo morto e un uomo vivo”. E invece, scrive ancora il cardinale, nella attuale “vita pastorale” della chiesa “ciò che riprovevole è l’uso del ‘teologhese’: cioè un modo di parlare e di scrivere che rifugge dalla chiarezza senza riuscire per altro a essere davvero sostanzioso e profondo”. Ci sono i pastori, ci sono le pecore, e ci sono coloro che l’annuncio evangelico lo annacquano, e “di solito non è perché non lo capiscono; è perché non gli piace”. Biffi ricorda che solo la verità fa liberi, e ogni altra “liberazione è illusoria”.
di Maurizio Crippa
Il Foglio 23 novembre 2008


Il Presidente Napolitano risponde al Movimento per la Vita - Carlo Casini non è però soddisfatto dal comportamento dei giudici - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 26 novembre 2008 (ZENIT.org).- Sabato 15 novembre, nel corso del XXVIII Convegno nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV), svoltosi a Montecatini (Pt), il Movimento per la Vita aveva scritto al Presidente della Repubblica per chiedergli di far valere la sua alta autorità morale affinché Eluana Englaro potesse conservare la “grazia” di continuare a essere nutrita, alimentata, curata e amata dalle Suore di Lecco.
In questo contesto il MpV offriva “la massima collaborazione” nella speranza che questo desiderio espresso con forza anche da tanta parte della Nazione “poteva essere realizzato” (ZENIT, 16 novembre 2008)
Martedì 25 novembre, il Presidente Giorgio Napolitano ha fatto recapitare una lettera all’onorevole Carlo Casini, presidente del MpV, in cui spiega che non ha “poteri di intervento sui provvedimenti che sono espressione della funzione giurisdizionale”.
Napolitano difende però l’operato della magistratura, poiché i giudici “non hanno utilizzato i loro provvedimenti ‘come meri schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento’” - come sosteneva invece il MpV.
Nella lettera il Presidente riconosce che è sua responsabilità “ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimono sentimenti e pongono problemi che riguardano situazioni e temi di particolare complessità etica e giuridica sui quali diverse sono le opinioni e le sensibilità degli esponenti politici, degli studiosi e dei cittadini tutti”.
Rievocando la lettera inviata a Piergiorgio Welby, il Presidente Napolitano ritiene necessaria una “non frettolosa riflessione” su questi temi, che comporti un “confronto sensibile e approfondito”, facendo sua la richiesta di arrivare ad una legge sul fine vita che “sia fondata su adeguati punti di equilibrio tra i fondamentali beni costituzionali coinvolti”.
Una necessità, conclude la lettera, che “si congiunge ovviamente quella del massimo sforzo di convergenza, in Parlamento, tra i diversi modi di vedere l’intervento legislativo fattosi ormai indispensabile e non più procrastinabile”.
Intervistato da ZENIT, Carlo Casini ha ringraziato il Presidente per la lettera, ma ha ribadito la sua contrarietà verso quei giudici che “hanno tentato di lavarsi le mani nel caso di Eluana Englaro”.
Il Presidente del MpV si è detto stupito dal fatto che tra tutti i giudici che si sono occupati del caso di Eluana “nessuno se l’è sentita di condannarla a morte. Ciascuno ha rinviato la decisione ad altri”.
Secondo Casini i giudici “hanno tentato di lavarsene le mani escludendo il potere di ricorso del Pubblico Ministero e lasciando la decisione finale al padre tutore".
"Nessun compromesso è possibile sul diritto all’eguaglianza degli esseri umani”, ha poi aggiunto.
Per questo, ha concluso Casini, “bisogna respingere con forza ogni tentativo di discriminare tra persone che alcuni vorrebbero come più o meno degne di vivere”.


27/11/2008 09:34 – INDIA - Mumbai, 101 morti, continuano gli scontri fra esercito e terroristi - Fra le vittime vi sono 6 stranieri. Un rabbino e la sua famiglia sono stati presi in ostaggio. I terroristi tengono in ostaggio anche ospiti dell’hotel Oberoi. Scuole, università e la Borsa sono chiuse. Emerge più forte la pista islamica, legata ad Al Qaeda.
Mumbai (AsiaNews/Agenzie) – Scontri a fuoco fra truppe di sicurezza e terroristi continuano nei due alberghi di lusso – il Taj Mahal e l’Oberoi – dopo una notte in cui almeno 10 punti della metropoli hanno subito violenti attacchi con armi automatiche e granate.
Gruppi armati hanno anche assaltato case private, prendendo in ostaggio un rabbino e la sua famiglia. Il bilancio dei morti è salito a 101. Fra essi si contano anche almeno 6 stranieri. I feriti sono oltre 300 ma il loro numero cresce via via che diviene più chiaro quanto è successo la notte scorsa.
Almeno 4 terroristi sono asserragliati nei due hotel a 5 stelle, dove sono intrappolati fra i 40 e i 50 ospiti. Secondo la polizia circa 12 armati hanno assaltato il Taj hotel ieri sera. Cinque sono stati uccisi nella notte e uno arrestato. L’esercito sta tentando di entrare anche nell’hotel Oberoi, dove un altro gruppo di terroristi ha preso con sé degli ostaggi, forse fra i turisti stranieri.
Fra gli obbiettivi degli attacchi coordinati lanciati ieri sera, vi sono la maggiore stazione ferroviaria, l’aeroporto locale, ospedali e alcuni ristoranti frequentati da turisti.
Testimoni oculari dicono che i terroristi, persone sui 20-25 anni, hanno cercato persone con passaporto britannico e statunitense. Questo potrebbe aprire all’ipotesi che i gruppi siano legati ad Al Qaeda.
Il presidente della Federazione ebraica dell’India, Jonathan Salomon, ha dichiarato che un rabbino con la sua famiglia è stato preso ostaggio da un gruppo armato che ha assalito la Chabad house nella zona sud della città.
Un gruppo sconosciuto, i Mujaheddin del Deccan, ha rivendicato tutti gli attacchi. Finora gli esperti di terrorismo conoscevano i Mujhaeddin dell’India, che in passato hanno già rivendicato altri attacchi nel Paese. Stamane, parlando dall’interno dell’hotel Oberoi, un uomo che dice di chiamarsi Sahadullah ha detto alla televisione che essi appartengono a un gruppo islamico indiano che vuole la fine della persecuzione dei musulmani in India: “Vogliamo – ha detto - che tutti i mujaheddin arrestati siano liberati; dopo lasceremo liberi la gente [in ostaggio]”.
Il governo – sotto pressioni e critiche per la mancanza di sicurezza – ha definito gli attacchi “una guerra contro la nazione”. Almeno 11 poliziotti sono sttai uccisi negli scontri di stanotte. Fra essi anche il capo dei gruppi speciali anti-terrorismo, Hemant Karkare.
Panico e paura sono diffusi nella metropoli. Il governo ha consigliato agli abitanti di stare in casa. Scuole, università e uffici del governo sono chiusi, come anche la Borsa. I mezzi di trasporto pubblici sono regolari, ma non vi sono le folle come al solito. Solo 3 voli internazionali sono stati cancellati, mentre continuano tutti i voli interni.


Il 2009 sarà l'Anno internazionale dell'astronomia - Grazie, Galileo - di José G. Funes - Gesuita Direttore della Specola Vaticana - L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
"Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per alcuni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi": ha ragione il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. Molte volte per noi astronomi i pianeti, le stelle, le galassie sono dei punti interrogativi, dei "problemi" che chiedono una risposta impegnativa, ragionevole, scientifica. Forse il piccolo principe ha seguito qualche corso di astronomia. Perché questa è l'immagine diffusa dello scienziato: un uomo serio, che parla di cose difficili, incomprensibili per tutti tranne che per i suoi colleghi.
I quali, a loro volta, pongono altre domande alle quali è difficilissimo dare una risposta. Credo che il piccolo principe sarebbe felice di sapere che il 2009 sarà l'Anno internazionale dell'astronomia, dichiarato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche che Galileo Galilei realizzò nel 1609 puntando il suo cannocchiale verso il cielo su iniziativa dell'Unione internazionale di astronomia - della quale la Santa Sede fa parte come Stato membro dal 1932 - e dell'Unesco. In Italia, paese promotore dell'iniziativa, questa è nota anche come Anno galileiano.
Alcuni grandi interrogativi che l'umanità si pone da secoli saranno riproposti e approfonditi per l'occasione da molti astronomi, i quali si impegneranno - pur nei limiti dell'operare scientifico - a elaborare risposte sempre più esaustive e soddisfacenti. Forse questo Anno servirà a convincere tutti cittadini del mondo che le stelle non vanno guardate solo come delle piccole luci, ma come delle amiche. "Quando tu guarderai il cielo, la notte, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero", ci ricorda ancora il piccolo principe.
L'astronomia ha avuto un ruolo di rilievo in quasi tutte le culture, ispirando le domande più profonde dell'uomo. Dal canto suo, la Chiesa ha sempre compreso l'importanza di questa scienza, incoraggiandola e promuovendola. Si pensi, solo per ricordare un esempio poco conosciuto, che nelle "riduzioni" del Paraguay, in particolare in quella dei Santi Cosma e Damiano, il gesuita argentino Buenaventura Suárez (1700-1750) era stato in grado di allestire un vero e proprio osservatorio astronomico nel mezzo della foresta tropicale. Riuscendo, con strumenti che si era fatto portare dall'Europa e altre apparecchiature costruite grazie all'aiuto dei guaraní, a compiere osservazioni e costruire delle tabelle astronomiche.
Proprio mentre sta per iniziare questo Anno internazionale, è inevitabile che si riproponga una delle questioni che ha segnato in questi secoli il dibattito sul rapporto tra fede e scienza: qual è la posizione della Chiesa in relazione al caso Galileo? Non posso rispondere da esperto, né da persona neutrale. Appartengo alla Chiesa. E conosco quanto basta per rendermi conto che la complessità di questo argomento impedisce probabilmente di arrivare a conclusioni chiare e distinte. Penso che il caso Galileo non si potrà mai chiudere in un modo soddisfacente tutti. Io credo che l'umanità e la Chiesa debbano essergli riconoscenti per il suo impegno a favore del copernicanesimo e della Chiesa stessa. Il drammatico scontro di alcuni uomini di Chiesa con Galileo ha lasciato delle ferite che ancora oggi sono aperte. La Chiesa in qualche modo ha riconosciuto i suoi sbagli. Forse si poteva fare meglio: sempre si può far meglio.
Un primo aspetto del caso Galileo riguarda l'ermeneutica biblica. Recentemente Benedetto XVI ha ricordato ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze che "Galileo vedeva la natura come un libro il cui autore è Dio così come lo è delle Scritture". Un secondo aspetto del conflitto fu pastorale. Credo che Giovanni Paolo ii abbia dato qui una regola d'oro che dobbiamo sempre avere presente, avvertendo i teologi che è un dovere "tenersi regolarmente informati sulle acquisizioni scientifiche per esaminare, all'occorrenza, se è il caso o meno di tenerne conto nella loro riflessione o di operare delle revisioni nel loro insegnamento".
Per chi ha fede, la storia non è solo storia della scienza ma storia di salvezza. Da questo punto di vista dobbiamo ringraziare Dio per i nostri peccati che ci permettono di far esperienza della sua misericordia. È proprio questo che la Chiesa celebra quando canta l'Exultet nella veglia pasquale: O felix culpa. In questo senso io spero che ciò che fu - e che forse ancora è - un terreno di conflitto possa diventare un terreno di incontro, di dialogo. Qualcuno potrà dire che questo è un atteggiamento un po' ingenuo. Ma non dobbiamo smettere di sognare. Se lo facessimo, quel giorno smetteremmo di essere umani.
Sarebbe ingiusto dire che la Chiesa si è impegnata per le scienze solo dopo Galileo: egli stesso è la prova di questo impegno, già allora plurisecolare. Forse non ci sarebbe stato Galileo senza la Chiesa cattolica. E forse non ci sarebbe stata una Specola Vaticana senza Galileo.
(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)


I Padri della Chiesa e la visione del mondo prima di Tolomeo
Chi l'ha detto che i medievali pensavano che la Terra fosse piatta? – Pubblichiamo la parte iniziale di uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento. - di Agostino Paravicini Bagliani – L’Osservatore Romano, 27 Novembre 2008
Secondo un'opinione ancor oggi diffusa, l'Occidente medievale avrebbe creduto che la terra non aveva la forma di una sfera ma di un disco piatto e circolare. Accogliendo l'idea di una terra piatta, l'Europa medievale avrebbe abbandonato una delle più importanti concezioni cosmografiche e geografiche dell'antichità classica, che aveva trovato le sue più alte riflessioni teoriche nelle opere di un Cratete di Mallo o del grande geografo Tolomeo. Il rifiuto della sfericità della terra sarebbe uno dei tanti elementi dell'oscurantismo del medioevo, e una vera e propria discriminante tra medioevo e Rinascimento. I progressi della scienza geografica astronomica greca si sarebbero perduti sull'altare di una cosmologia teologica di stampo cristiano; la sfericità della terra sarebbe stata condannata nel medioevo perché contraria al dogma dell'unicità del genere umano o per altre ragioni. Viceversa, la sfericità avrebbe riguadagnato terreno nel corso del rinascimento italiano, grazie all'introduzione in Occidente della Geografia di Tolomeo (all'inizio del XV secolo), alle grandi scoperte nautiche e ai viaggi di Cristoforo Colombo. Il medioevo costituirebbe una sorta di "vasta parentesi da Tolomeo a Tolomeo", dal secolo d'oro dell'Impero romano alla rinascita intellettuale dell'epoca delle grandi scoperte. A diffondere queste tesi, i manuali scolastici dell'Ottocento hanno svolto un ruolo determinante, in Italia e altrove. Essi riprendevano le grandi storie generali di quel periodo, relative alla storia della geografia, della cartografia e delle scienze naturali. Ma ciò che è storiograficamente ancora più curioso è che la tesi secondo cui la progressiva affermazione di una delle più importanti trasformazioni mentali del Rinascimento - la nascita della concezione del "globo terraqueo" - si sarebbe imposta contro le tradizionali concezioni cosmologiche del medioevo ostili alla sfericità della terra, è stata avanzata ancora qualche anno fa in un volume pubblicato dalla prestigiosa collana degli Annales di Parigi.
Il passaggio de la terre plate au globe terrestre per riprendere il titolo dell'opera, costituirebbe persino una mutazione epistemologica del medioevo verso la modernità: "Durante tutto il medioevo, dal xii al XV secolo, spiriti sottili hanno tentato con diverse arguzie di elaborare sintesi per tentare di conciliare il mito biblico della terra piatta con l'idea greca di una terra rotonda: piatta a livello dell'ecumene abitabile, sferica soltanto a livello dell'astronomia. Alla fine del XV secolo questo fragile edificio, coerente in apparenza, si è infranto. L'esperienza della navigazione iberica, dall'Atlantico al di là dell'equatore, ha spezzato un'immagine rassicurante, alla quale ci si era abituati da tre secoli".
Ora, ciò che mi interessa mettere in evidenza è che l'argomentazione del Randles - e più in generale di coloro che fin dall'Ottocento hanno messo in circolazione il mito della credenza medievale alla non sfericità della terra - si basano essenzialmente sulle celebri affermazioni di Lattanzio (250-317), che contengono la più categorica condanna della concezione sferica della terra. Come è noto, nelle Divinae institutiones, l'apologeta cristiano aveva sferrato un'acerba polemica contro "coloro che pensano che vi sono antipodi", i quali "hanno immaginato che il cielo era rotondo [...] e che anche la terra era rotonda come una palla, e che se il cielo è rotondo, anche la terra doveva essere rotonda" (Divinae institutiones, 3, 24). Il mito di un medioevo ciecamente favorevole a una concezione della terra non sferica appare in opere di alto livello storiografico (vi si riferiva ad esempio Aaron Jakolewitsch Gurjewitsch), anche se in questi ultimi decenni il problema è stato affrontato criticamente da numerosi specialisti della geografia medievale che hanno dimostrato la sua infondatezza. Sono studi che hanno condotto a conclusioni radicalmente opposte a quelle cui si riferiva la tradizione ripresa dal Randles. Già all'inizio degli anni Settanta del Novecento, lo storico americano della scienza medievale Edward Grant affermava: "Contrariamente a un moderno errore popolare, per il quale prima della scoperta di Cristoforo Colombo si sarebbe pensato che la terra fosse piatta, non si conoscono flat-earthers di una qualsiasi importanza nell'Occidente latino (medievale)". E come ha ricordato più recentemente Patrick Gautier Dalché: "Non vi è nessun testo latino medievale che sostenga che la terra è un disco piatto". Testi di questo genere non esistono anche perché, come è ben noto, Lattanzio fu riscoperto soltanto nel Quattrocento e non ha potuto quindi nutrire una discussione medievale in proposito. E quando fu riscoperto, non riuscì a convincere uomini di scienza come Copernico, che nella sua lettera dedicatoria al De revolutionibus, considerò "infantili" le opinioni di Lattanzio sulla forma della terra. Lattanzio impressionò però gli umanisti per le sue altissime qualità letterarie. Lorenzo Valla ne elogiò la qualità ciceroniana del suo stile. Una forte opposizione alla teoria della sfericità della terra fu enunciata nel vi secolo da un Alessandrino nestoriano, Cosma Indicopleuste. Nella sua Topografia cristiana, Cosma polemizza con la cosmologia pagana, proponendo di considerare l'universo (cielo e terra) non come una sfera ma come un tabernacolo, di larghezza due volte superiore all'altezza.
Elaborando questa sua curiosa concezione cosmologica in aperta rottura con la cultura classica, Cosma infierisce contro i sostenitori della concezione di una terra come sfera e contro coloro che credono agli antipodi (4, 30-31), tentando in ogni modo di rendere ridicola la loro visione del mondo. La Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste conobbe un certo successo in Oriente e all'interno del mondo bizantino, ma è errato affermare, come è stato fatto, che tale opera abbia influenzato profondamente le concezioni geografiche dell'Occidente latino medievale: nel medioevo latino, essa, infatti, non fu né letta né tradotta. Se non si può ricorrere né a Lattanzio né a Cosma Indicopleuste per confermare la leggenda moderna della credenza medievale alla non sfericità della terra, ciò non elimina affatto il problema di una possibile influenza dei Padri della Chiesa sulle concezioni cartografiche e della visione del mondo. Il problema va però trasferito dalla non sfericità della terra alla questione degli antipodi, un problema a proposito del quale le affermazioni di sant'Agostino hanno esercitato una millenaria influenza fino al tardo Quattrocento.
Nel De civitate Dei, sant'Agostino non aveva messo in dubbio la sfericità della terra in quanto tale, ma aveva dichiarato che credere che esistessero persone che vivevano agli antipodi della terra corrispondeva a una "favola" (16, 9).
Anche l'unico testo medievale che sembrava poter confermare la credenza medievale alla non sfericità della terra riguarda di fatto soltanto la questione degli antipodi, di chiaro stampo agostiniano. Si tratta di una lettera di papa Zaccaria (741-752) al duca di Baviera, nella quale il pontefice risponde a una denuncia di Bonifacio contro l'irlandese Virgilio (+784), suo rivale per il titolo di vescovo di Salisburgo. In questa lettera, Virgilio viene definito sostenitore di una concezione cosmologica "perversa e iniqua", "contro Dio e la sua anima", poiché asseriva che "esiste un altro mondo e altri uomini sotto terra, ossia il sole e la luna". Per questa ragione egli sarebbe stato privato "dell'onore sacerdotale dal concilio".
Le affermazioni di papa Zaccaria sono state oggetto di numerosi commenti, perché sembravano fornire la prova di una condanna pontificia della sfericità della terra. Ma un'analisi più accurata ha permesso al Gautier Dalché di dimostrare che ciò che era in gioco non era affatto la concezione di una terra sferica, ma l'idea che uomini o popoli potessero vivere al di là della zona equatoriale, ossia "agli antipodi". La discendenza di Adamo era unica e non avrebbe potuto espandersi al di là della zona torrida equatoriale, priva di vita. Sempre secondo il Gautier Dalché, noi non sappiamo se Virgilio fu processato, né tanto meno se fu condannato. Di un suo viaggio a Roma, in relazione con le accuse di Bonifacio, non si hanno notizie, anzi alla morte di Bonifacio, Virgilio fu nominato vescovo di Salisburgo, e dopo il 748 non sembra che egli sia stato oggetto di accuse.
Al contrario, Alcuino lo elogia quale egregius praesul meritis et moribus almus e vir pius et prudens, nulli pietate secundus. E alcuni secoli dopo, nel 1233, Virgilio fu persino canonizzato, il che significa che né a Salisburgo né a Roma era rimasta traccia di un qualsiasi sospetto di eresia.
(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)


Quattrocento anni dopo Galileo Galilei il rapporto tra fede e scienza in un convegno a Roma - Due ali per volare verso la verità - "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei" è il titolo del convegno di studi che si apre a Roma, mercoledì 26 novembre, presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia. Pubblichiamo parte dell'intervento del cardinale segretario di Stato e la sintesi della relazione del presidente della Fondazione Terapia con Radiazioni Androniche (Tera).- di Tarcisio Bertone - L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
La circostanza che motiva la presente iniziativa è duplice: da una parte il fatto che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2009 Anno Internazionale dell'Astronomia, a memoria dei 400 anni (1609) dell'utilizzo da parte di Galileo Galilei del cannocchiale astronomico; dall'altra, il desiderio di Finmeccanica di commemorare il suo sessantesimo anniversario con un evento internazionale di alta valenza culturale, che solennizzi appunto l'Anno dell'Astronomia. La mia presenza vuole essere un incoraggiamento a valorizzare appieno queste ricorrenze, per allargare la comune riflessione sui sorprendenti sviluppi della scienza contemporanea, riflessione che trae vantaggio non solo dai progressi scientifici e tecnici in senso stretto, bensì anche dall'apporto della riflessione filosofica e dall'attenzione ai risvolti e alle implicanze etico-morali, religiose, politiche e sociali che la ricerca comporta. Questa esigenza diviene sempre più avvertita nella nostra epoca, date le enormi potenzialità che la tecnica offre agli scienziati: si pensi, ad esempio, alle scoperte e agli esperimenti nel campo della bioingegneria genetica, ai risultati ottenuti nel settore della telematica applicata alla bio-meccanica, all'economia, alla finanza, all'esplorazione dello spazio; si pensi alle enormi capacità degli strumenti della comunicazione che permettono di raggiungere obbiettivi sino a poco tempo fa inimmaginabili. Questo convegno focalizza la sua attenzione in particolare su Galileo Galilei, considerato uno dei padri della scienza moderna. È anche a lui che molti attribuiscono quella trasformazione della natura del conoscere, nota come rivoluzione scientifica, dove la ragione si costituisce su nuove basi e viene concepita come un modo di pensare matematico; la scienza della natura cessa di essere un'opera di contemplazione, come per secoli era stata concepita, e diventa un attento lavoro di decifrazione; la ragione, come dicevo, si struttura su basi matematiche sostituendo al mondo reale dell'esperienza quotidiana un mondo geometrico astratto. Si tratta di un sapere fondato sulla verità sperimentale, che va a scontrarsi con la concezione della verità basata sulle certezze della tradizione. Da ciò scaturisce una nuova mentalità, una nuova logica e un mutamento dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della natura e del modo di interpretarla, descriverla e comprenderla.
Tutto questo ha portato agli sviluppi della scienza contemporanea, accompagnati da non pochi e spesso complessi interrogativi e problemi di diversa natura: con la ricerca tecno-scientifica sono apparse problematiche di carattere etico e filosofico a motivo del suo crescente impatto antropologico e sociale. Ecco perché si impone oggi un'attenta e profonda riflessione sulla natura, sulle finalità e sui limiti della ricerca tecnica e scientifica.
Il dibattito è quanto mai aperto e a più riprese il magistero della Chiesa è intervenuto e interviene per offrire una parola illuminante, facendo appello alla missione, che le è propria, di servire il bene vero dell'uomo, essendo "esperta in umanità", come ebbe a dire Paolo VI nel memorabile discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965.
Il tema dei limiti della scienza non può essere affrontato che considerando il sapere scientifico nel contesto dei saperi elaborati dall'uomo, in senso operativo, valutandone le motivazioni e le implicazioni etico-sociali.
Mi viene in mente quanto Giovanni Paolo II, 25 anni fa, ricordava a un gruppo di scienziati e di ricercatori: "Si impone un rinnovamento morale - egli disse - se si vuole che le risorse scientifiche e tecniche di cui il mondo dispone attualmente siano messe al servizio dell'uomo". E proseguiva: "Si avvicina il momento in cui si dovranno ridefinire le priorità" (Insegnamenti VI, 1 1983, p.1197, testo in francese).
Il vasto campo nel quale si situa il tema del presente convegno ha bisogno di essere esplorato con coraggio e prudenza, con apertura di mente e rispetto delle competenze di ogni ramo dello scibile umano. Lo avvertiamo tutti: siamo in presenza di un'intrinseca complessità che caratterizza l'impresa tecno-scientifica contemporanea e il ruolo che essa svolge nell'ambito delle attese, delle speranze e delle angosce umane. C'è un dilemma a cui non si può sfuggire: da un lato si avverte l'insorgere di problematiche etiche, complesse e inedite, in ragione di un divario che va allargandosi tra i rapidi sviluppi della ricerca scientifica e la disponibilità di strumenti e metodi di valutazione etica adeguati; dall'altro lato, si è costretti a registrare lo smarrimento del senso delle leggi morali ereditate dalla tradizione, e questo facilmente degenera in assenza di leggi.
Torna qui il rapporto tra fede e scienza, rapporto inscindibile e necessario, come già ricordava Giovanni Paolo ii nell'enciclica Fides et ratio, presentando la ragione e la fede, la scienza e la religione come le due ali che permettono all'uomo di raggiungere la verità senza eliminarsi e senza combattersi.
Il concilio vaticano II afferma che l'uomo "coll'aiuto della scienza e della tecnica, ha dilatato e continuamente dilata il suo dominio su quasi tutta intera la natura e molti beni che un tempo l'uomo si aspettava dalle forze superiori, oggi ormai se li procura con la sua iniziativa e con le sue forze" (Gaudium et spes, 33). Ma Benedetto XVI, citando il suo predecessore Giovanni Paolo II, osserva che proprio perché "gli scienziati sanno di più, devono servire di più. Poiché la libertà di cui godono nella ricerca dà loro accesso al sapere specializzato, hanno la responsabilità di utilizzare quest'ultimo saggiamente per il bene di tutta la famiglia umana" (Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, in Insegnamenti, II, 2 2006, p.568, testo in inglese).
In conclusione il pensiero torna ancora a Galileo Galilei. Non è qui il luogo di riprendere questioni che hanno accompagnato la figura di questo grande scienziato nei suoi rapporti con la Chiesa. In questi ultimi anni ci sono stati interventi chiarificatori che, se hanno con grande sincerità posto in luce lacune di uomini di Chiesa legati alla mentalità dell'epoca, hanno permesso al tempo stesso di far risaltare la ricca personalità di questo scienziato che con il cannocchiale astronomico scoprì che la Terra non è il centro di tutti i movimenti celesti. Quel che mi pare debba essere sottolineato è che Galileo, uomo di scienza, ha pure coltivato con amore la sua fede e le sue profonde convinzioni religiose. Galileo Galilei è un uomo di fede che vedeva la natura come un libro il cui autore è Dio.
Vorrei leggere due sue affermazioni che mi sembrano molto belle e sapienti, scritte a Cristina di Lorena: "Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie, (...) procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio". "Io qui direi quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l'intenzione dello Spirito Santo essere d'insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo".
(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)


Marginalità e centralità dell'uomo nell'universo - L'universo si gonfia come un palloncino - di Ugo Amaldi – L’Osservatore Romano, 27 novembre 2008
I quattrocento anni dalla nascita di Galileo sono un'occasione unica per descrivere il percorso che ha condotto gli astrofisici ad abbandonare l'eliocentrismo, da lui con tanta convinzione propugnato, fino a giungere all'attuale cosmocentrismo. Galileo scoperse le macchie solari e i satelliti di Giove. Dopo di lui telescopi sempre più potenti furono utilizzati per scrutare il cielo notturno e in particolare la Via lattea, che già appariva come un insieme molto denso di stelle. Ma soltanto nel 1918 Harlow Shapley dimostrò che il Sole si trova a trentamila anni-luce dal centro della Via lattea e la visione galattocentrica sostituì l'eliocentrismo. Il passaggio dalla visione galattocentrica a quella cosmocentrica fu invece rapido. All'inizio degli anni venti Edwin Hubble misurò la distanza a cui si trova la nebulosa Andromeda e concluse che è un'altra galassia. Nel 1929 lo stesso Hubble annunciò il fatto che le innumerevoli galassie, allora appena scoperte, si allontanano dalla Via lattea con una velocità che è tanto maggiore quanto più esse sono lontane. Le galassie si allontanano perché lo spazio cosmico che separa le galassie aumenta continuamente di volume, come aiuta a comprendere la metafora del palloncino di gomma e delle galassie rappresentate da coriandoli incollati sulla sua superficie. Quando il palloncino viene gonfiato i coriandoli-galassie si allontano gli uni dagli altri, ma nessuno di loro occupa una posizione speciale. Oggi sappiamo che l'universo è fatto da cento milioni di galassie, ciascuna delle quali contiene cento milioni di stelle. Quando il palloncino-universo ha cominciato a gonfiarsi quattordici miliardi di anni fa la massa-energia di tutte queste galassie occupava un volume piccolissimo. Dobbiamo parlare di massa-energia, e non di massa e di energia separatamente, perché esse si possono trasformare l'una nell'altra. In particolare, nelle collisioni e decadimenti delle particelle che accadevano nella zuppa cosmica durante le prime frazioni di secondo dopo il big bang, le masse di nuove particelle, e delle loro antiparticelle, erano create nelle continue collisioni. Un cambiamento di prospettiva del quadro cosmocentrico si annunciò quando, negli anni trenta, gli astrofisici si accorsero che le stelle periferiche ruotano intorno al centro della propria galassia con una velocità che è molto maggiore di quella che si calcola tenendo conto della massa dei cento milioni di stelle che la costituiscono. Ciò è dovuto al fatto che ogni galassia è immersa in un enorme alone fatto di una sostanza, che non è visibile ai telescopi, perché non assorbe e non emette luce, e che per questo è detta "materia oscura".
La relatività generale interpreta l'espansione dell'universo come dovuta alla continua creazione di spazio che avviene negli spazi intergalattici. Questa espansione, rapidissima all'inizio, diventa sempre più lenta fino ad arrestarsi a causa dell'attrazione gravitazionale tra le galassie. Ma nel 1998 fu scoperto che il palloncino, cioè l'universo, ha da qualche miliardo di anni cominciato a espandersi e lo fa sempre più rapidamente. Ciò è dovuto a una forza repulsiva prima inosservata, che respinge le galassie e tende a vincere l'attrazione gravitazionale. La densità di questa "energia oscura" contribuisce, insieme alla massa-energia visibile e alla materia oscura, alla massa-energia totale dell'universo. Anzi, ne è la frazione maggiore, ben il 73 per cento. La materia oscura rappresenta invece il 23 per cento della densità totale e la massa-energia visibile ne è soltanto il 4 per cento. Il sistema solare fa parte di quel piccolo 4 per cento, un motivo di più perché, nella moderna visione cosmocentrica, l'uomo si senta fisicamente marginale. I valori numerici di queste tre frazioni sono la conseguenza dei fenomeni accaduti durante il primo milionesimo di secondo contato a partire dal big bang. Allora l'universo era una zuppa cosmica di particelle, che si trovava a una temperatura molto più elevata di quella che si ha al centro del Sole e occupava un volume molto più piccolo di quello della nostra galassia. Ma cosa vuol dire temperatura "più elevata"? Semplicemente che le particelle si urtavano continuamente e disordinatamente tra loro con energie proporzionalmente maggiori. "Altissime temperature" è infatti sinonimo di "urti tra particelle ad altissime energie". Poiché sulla Terra non è possibile produrre queste temperature, le condizioni di allora possono essere studiate in laboratorio soltanto accelerando le particelle singole a energie elevatissime e facendole urtare in modo che le energie di collisione siano uguali a quelle che si avevano quando le stesse particelle si agitavano nella zuppa cosmica. Per questo i grandi acceleratori circolari del Cern sono gli strumenti che permettono di ricostruire ciò che accadde allora. Negli anni novanta, al Large electron positron collider del Cern (il Lep) abbiamo riprodotto e studiato le condizioni che si avevano nella zuppa cosmica un decimo di miliardesimo di secondo dopo il big bang. Tutte le particelle osservate al Lep, e le forze che agiscono tra di loro, sono state integrate in un modello completo e simmetrico che è detto "modello standard" delle particelle e delle forze. Nel quadro di questo modello è possibile calcolare la densità dell'energia oscura. Infatti, secondo la meccanica quantistica il vuoto cosmico non è il nulla: nel vuoto si creano e si distruggono continuamente coppie di particella-antiparticella che, come conseguenza del principio di indeterminazione, esistono soltanto per tempi brevissimi. Con il modello standard questo calcolo dà però una densità di energia molto maggiore di quella che si osserva. Per risolvere i problemi della materia oscura e dell'energia oscura, il modello oggi più preso in considerazione è la "teoria delle corde" detta, più semplicemente e per assonanza con la parola inglese string, "teoria delle stringhe". In questo modello le particelle del modello standard non sono puntiformi. Esse vanno pensate come infinitesimi anellini che possono vibrare in modi diversi, così come una corda di violino può emettere note diverse; ogni modo di oscillazione appare come una particella diversa. Questa teoria molto generale permette di inquadrare tutte le particelle del modello standard e per di più predice che per ognuna di queste particelle esista un'altra particella, che è la sua superparticella. Questa duplicazione, descritta in una sola frase, appare come un trucco da imbonitori; in realtà la sottile simmetria che essa introduce nella teoria è talmente bella e soddisfacente da essersi meritato il nome di supersimmetria e da aver convinto moltissimi scienziati della sua validità, anche in assenza di prove sperimentali.
Le particelle supersimmetriche hanno masse tanto grandi da non poter essere prodotte al Lep. Invece nel Large hadron collider - costruito nello stesso tunnel del Lep e in funzione al Cern dall'anno prossimo - le collisioni avverranno a energie dieci volte più grandi e i sostenitori della supersimmetria sono convinti che saranno create e osservate almeno le più leggere della ventina di nuove particelle previste. Tra di esse vi sarebbe una superparticella neutra stabile, che cioè non decade. Un'enorme quantità di questi neutralini sarebbero stati prodotti nei primi milionesimi di milionesimo di secondo e, poiché sono stabili, formerebbero oggi gli enormi aloni di materia oscura che danno la loro forma alle galassie. Cosa dice la teoria delle stringhe dell'altro grande problema aperto, quello dell'energia oscura, l'energia del vuoto cosmico? Negli ultimi anni è stato dimostrato che esiste un numero incommensurabilmente grande di possibili teorie delle stringhe. In ciascuna di queste versioni l'energia oscura ha un valore diverso, talvolta grandissimo - quale lo si calcola nel quadro del modello standard - talaltra piccolo o piccolissimo, come è osservato sperimentalmente. Nel 1987 il premio Nobel Steven Weinberg argomentò che nel nostro universo si misura un valore tanto piccolo perché, se la densità di energia oscura fosse più grande, l'universo stesso collasserebbe rapidamente e non vi sarebbe il tempo necessario alla formazione di stelle e di pianeti. Da qui il passo è breve all'ipotesi che esistano un enorme numero di universi, nei quali la densità dell'energia oscura assume tutti i possibili valori; gli esseri pensanti possono allora emergere soltanto in quei pochissimi universi che sono caratterizzati da valori piccolissimi di tale densità. Sui giornali, specialistici e no, il dibattito sull'ipotesi del multiverso è giustificatamente animato, dato che questo modello non può considerarsi scientifico finché i suoi proponenti non avranno fatto una predizione univoca che possa essere controllata sperimentalmente. Comunque a nessuno sfuggono le implicazioni sulla centralità dell'uomo nell'universo. Il percorso storico fatto mostra che, a partire da Copernico e Galilei, l'antica centralità dell'uomo nell'universo - che allora appariva a tutti evidente - è andata perduta. Sono convinto che - nel dibattito culturale del secolo da poco cominciato - il confronto tra marginalisti e centralisti avrà una grande influenza sulla discussione tra ateisti e teisti, innanzitutto perché oggi la sottende e poi perché essa sarà alimentata da sempre nuovi risultati scientifici. Proprio in vista di ciò, penso sia importante cercare di costruire un quadro di riferimento che chiarisca i termini delle questioni. I problemi scientifici, come quelli discussi sinora, sono soltanto una piccola frazione delle domande generali che gli uomini pongono e si pongono e che possono essere classificate in problemi scientifici, questioni filosofiche e quesiti esistenziali. Nel rispondere a tutte queste domande ciascun uomo impiega tre componenti di una stessa e unica ratio, dell'unico intelletto: la razionalità scientifica - che risponde ai problemi scientifici, la ragione filosofica - che considera le questioni filosofiche e la ragionevolezza sapienziale - che risponde ai quesiti esistenziali. Questa distinzione non è nominalismo, perché a ciascuna di queste componenti corrispondono oggetti, metodologie e criteri di verità diversi. Una metafora permette di illustrare l'argomento. Poiché è possibile individuare a priori le domande che costituiscono un problema scientifico, esse possono essere rappresentate da cerchietti di uno stesso colore disegnati al centro di un piano molto vasto. Questi cerchietti sono così disposti tutti all'interno di una linea chiusa, un confine, che lascia al di fuori tutte le domande non scientifiche. Considero ora il moto della ratio di colui che, partendo dai dati del mondo naturale studiati dalla scienza, attraversa metaforicamente il confine. Nel quadro della metafora, questo moto può essere descritto come un passo di trascendenza orizzontale; trascendenza perché questo termine indica sia l'esistenza di un confine che la presenza di qualcosa che si trova al di là; orizzontale perché ci si muove nel piano metaforico ove sono distribuite tutte le domande. Come esempio considero l'argomento di Jacques Monod, che individua la base del metodo scientifico nel rifiuto delle interpretazioni che sono date in termini di realizzazione di un progetto: il sasso cade perché la forza di gravità lo attira e non perché il suo posto naturale - il suo progetto - sia il suolo. Monod conclude che l'unica scelta razionale è quella di estendere questo principio al di fuori del confine della scienza, di modo che non è legittimo parlare di un progetto divino sulla natura. Evidentemente questo passo di trascendenza orizzontale non è giustificato dal solo sapere scientifico ma è influenzato dal vissuto personale e da considerazioni filosofiche e sapienziali, che si trovano al di fuori del confine. Non è sostanzialmente diverso il comportamento di colui che, guidato dalla sua diversa esperienza esistenziale e dalla sua ragione filosofica e ragionevolezza sapienziale, uscendo dal confine del sapere scientifico compie un passo di trascendenza verticale scegliendo, ad esempio, un'opzione religiosa o filosofica che privilegia la centralità dell'uomo nella natura. In conclusione, questa ingenua metafora mostra che - comunque e sempre - l'intelletto compie un passo di trascendenza: alcuni scelgono la trascendenza orizzontale, altri la trascendenza verticale, e le motivazioni stanno tutte al di fuori del confine del sapere scientifico. Ho constatato di persona che questa impostazione, senza far cambiare posizione ad alcuno, chiarisce i termini del confronto tra teisti e ateisti, tra centralisti e marginalisti.
(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2008)


Dietro-front: torniamo all'economia reale - Giorgio Vittadini - giovedì 27 novembre 2008 – Ilsussidiario.net
Quando si tratta la realtà in modo parziale, prima o poi la realtà si ribella. Si è pensato che la finanza potesse generare valore e ricchezza prescindendo da un loro corrispettivo reale legato al valore d’uso di beni e servizi che solo può generare un loro valore di scambio non drogato. Si è guardato all’azienda solo in termini statici di profitto trimestrale, senza considerare la sua stabilità e il suo sviluppo nel tempo. Si è ritenuto che i finanzieri potessero rispondere magicamente al pur giusto desiderio di migliorare le condizioni di vita di larghi strati della popolazione superando il limite imposto dalla realtà e dalla effettiva capacità personale e familiare di generare reddito e far fronte ai debiti.
Non si tratta innanzitutto e solo di un problema morale, ma di concezione.
Le persone che hanno pensato i meccanismi complessi della nuova finanza, in parte responsabili della crisi, hanno studiato nelle migliori università del mondo, hanno mostrato di avere grandi competenze tecniche, ma non la capacità di guardare la realtà che hanno sotto mano in modo complessivo, per ciò che è, per lo scopo e i limiti che ha. In generale, si è concepito uno sviluppo che prescindesse dall’equilibrio tra tutte le dimensioni della vita umana, familiare, sociale, ambientale, religiosa, per poi scoprire che la conseguenza più grave della crisi finanziaria è una perdita generalizzata di fiducia, anche alla radice del credito economico, fondamentale non solo per la vita personale, ma anche per l’economia reale, per la possibilità di investire, consumare, perfino fare transazioni economiche e finanziarie e per i rapporti fra gli Stati.
Ad una concezione di impresa di breve respiro si è senz’altro aggiunto un’idea di sé e di lavoro dal fiato corto: solo nel 2007 – anno già segnato dalla crisi – i banchieri di Lehman Brothers, Merril Lynch e Morgan Stanley si sono attribuiti da soli oltre 25 miliardi di bonus. E’ questo un fatto che si commenta da solo e che dice però di un dato ormai molto diffuso: al centro dell’azione economica non c’è più un soggetto umano che vive in modo equilibrato tutte le dimensioni della sua esperienza e non vive più il lavoro come espressione del proprio desiderio di trasformare la realtà, ma ritiene prioritario per la sua soddisfazione l’arricchirsi a qualunque condizione.
Non sappiamo cosa succederà, ma un fatto è certo: va riconsiderata la centralità dell’economia reale e dell’economia locale, quella che è più alla nostra portata, su cui ha più incidenza la nostra posizione vera sulla realtà secondo due dimensioni.
Innanzitutto occorre recuperare il valore del lavoro e dell’impresa così come viene dalla nostra tradizione. A causa delle loro piccole e piccolissime dimensioni, le nostre imprese, sono più facilmente il modo in cui la persona mette in gioco le sue idee, la sua voglia e capacità di rischiare, di intraprendere: chi guida l’azienda si identifica con essa e le sue capacità ne rappresentano il principale vantaggio competitivo. L’impresa, così concepita, rappresenta una ricchezza senza pari per la nostra economia, perché in essa si concretizzano i valori dell’imprenditorialità e dello spirito di intrapresa, ovvero quella cultura d’impresa che significa capacità di assunzione del rischio, non disgiunta però dalla responsabilità verso chi partecipa all’impresa stessa.
Da questo punto di vista bisogna avere coscienza che in certe esperienze, vissute partendo da una posizione ideale, c’è un’originalità che va tutelata, costruita, difesa, incrementata e non appiattita. Una determinata impostazione, che valorizza l’umano e che non è contro l’interesse dell’azienda, se parte dall’esperienza, non ha motivo di essere sottomessa ad altri criteri. Secondariamente, fermo restando la necessità di soluzioni “globali”, il “fondamento” di nuove istituzioni mosse da criteri ideali e la loro efficacia saranno, nella vita quotidiana, determinati dalla vitalità dei sistemi locali. Una crescente letteratura mette in evidenza l’importanza delle istituzioni, in particolare informali (valori, cultura) e dei legami di fiducia a livello locale, che permettono di individuare delle vie di uscita dalla crisi quando i meccanismi classici (ad esempio nel settore finanziario) sono “grippati”.
Tali reti locali di fiducia e di reputazione sono importanti sia come “rete di sostegno” (aspetto difensivo), sia come fattori di innovazione e dinamica (aspetto di apertura e crescita). L'Italia è un Paese dove l'interfaccia con la globalizzazione avviene attraverso modelli locali (mentre per gli altri Paesi avviene attraverso le grandi imprese). La provincia di Timisoara in Romania è chiamata non a caso, l'ottava provincia del Veneto. Per questo è essenziale oggi, per il nostro Paese, continuare a basare il suo modello di sviluppo sul principio di sussidiarietà (il principio che mette al centro la persona e le iniziative “dal basso”, non solo funzionalmente, ma come valore in sé): altri modelli, come quello liberista anglosassone o quello nazionalista tecnocrate francese, che pure hanno indiscutibili meriti, non appartengono alla nostra realtà e, sono convinto, non rappresenterebbero un vantaggio.
E non si tratta di gusto o orgoglio per l’"italianità". Anche se le statistiche fanno fatica a coglierne gli elementi, alcune ricerche mostrano come il successo di una parte dell'imprenditoria italiana all'estero (alla base della risalita delle esportazioni negli anni 2001-2007) consista nella proposizione su scala internazionale del localismo italiano.
Detto questo, occorre ammettere che non tutte le imprese italiane hanno intrapreso il rinnovamento nella tradizione. La crisi ha solo reso più urgente e drammatica la necessità di un cambiamento certificato dal rallentamento del PIL già precedente la crisi, nonostante l’aumento delle esportazioni. I valori di una parte degli imprenditori si sono da un pezzo annacquati a causa del crollo di tensione ideale e imprenditoriale: un imborghesimento collettivo per cui molti, invece di trovare strade nuove per essere competitivi, hanno invocato sovvenzioni, aiuti, difese dal mercato.
Proprio per una caduta ideale, molti hanno preferito vendere di fronte alle difficoltà per poter vivere di rendite finanziarie, riducono l’umano alla “risorsa umana”, sono diventati intrinsecamente incapaci di valorizzare le persone e per questo non investono in formazione, non rinnovano strategie e metodi in base a ciò che si muove intorno, fanno fatica ad innovare, ad internazionalizzare e a creare legami di collaborazione e integrazione con altre imprese, istituzioni e realtà sociali. Il cambiamento richiesto oggi rappresenta una drammatica, ma affascinante possibilità di reinventarsi. Se non coglieremo questa occasione riscoprendo i valori tradizionali della nostra impresa e correggendone i difetti, il declino sarà inevitabile.
Da Economy del 27/11/2008


Parla Bobby, il fratello di Terri Schiavo: date a noi Eluana - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Eluana come Terri Schiavo. Fin dal giorno della sentenza, il dibattito sul caso Englaro è stato attraversato da questo continuo paragone: un accostamento forse improprio, per quanto riguarda alcuni aspetti più strettamente legali, ma che certo aiuta ad evocare e a far presagire quella che potrebbe essere la sorte che attende Eluana. Come per Terri, una morte per fame e per sete, resa “dolce” (!) dalla somministrazione di forti dosi di morfina.
Bobby Schindler è il fratello di Terri. In sua memoria ha dato vita a una Fondazione (Terri Schindler Schiavo Foundation), e lotta tutti i giorni per il diritto alla vita di chi, come sua sorella, non può esprimere la propria volontà. Ha accettato di parlare con ilsussidiario.net del caso di Eluana, così simile a quello di Terri.
Signor Schindler, ci racconti innanzitutto della Fondazione che lei ha eretto in memoria di sua sorella.
Fondamentalmente aiutiamo altre famiglie che si trovano in situazioni simili a quella che abbiamo vissuto noi. Si tratta di un aiuto legale e morale per quelle famiglie i cui membri stanno per essere uccisi, senza cibo né acqua, attraverso una sorta di eutanasia. Ci sono moltissime persone che mi contattano, dicendo che stanno pregando Terri che illumini Beppino Englaro, e gli dia la forza di cui ha bisogno, e impedisca che Eluana venga uccisa.
Ha già affrontato uno dei temi centrali del dibattito: ha parlato di omicidio…
Eluana, come Terri prima di lei, non è affatto morta. Vive. Il suo cervello funziona. Non ha alcuna malattia terminale. Il problema è se noi siamo in grado di usare compassione, di partecipare del loro dramma. Io credo che noi siamo obbligati a prenderci cura di persone in questo stato. Eluana ha bisogno della nostra compassione, e ha bisogno di cibo e acqua: questo è tutto. Dovremmo darglieli. La nostra famiglia sarebbe molto felice di poter prendersi cura di Eluana.
C’è però chi insiste nel dire che le cure date a Eluana sono una forma di accanimento terapeutico: cosa ne pensa?
Io non capisco come siamo potuti giungere a questo punto, in cui pensiamo a cibo e acqua come una cura medica. Qui non si tratta affatto di accanimento terapeutico, non c’è una terapia medica intensiva (medical care): qui si tratta di fornire il sostentamento basilare (basic care), si tratta semplicemente di dare da mangiare e da bere. Non vedo proprio come si possano considerare cibo e acqua come un trattamento medico. Per mia sorella Terri c’era un macchinario apposito, la “macchina gravitazionale”, che operava al posto delle persone; l’avremmo fatto noi della sua famiglia, se non ci fosse stata la macchina, e se suo marito ci avesse lasciato prenderci cura di lei. C’erano oltre trenta organizzazioni locali che ci aiutavano a prenderci cura di Terri; a noi della famiglia era impedito dal marito di lei, Michael. Noi potevamo solo andarla a trovare alla nursing home. L’ultima settimana di vita di Terri è stata disumana, impensabile: qualcosa che non auguro a nessuno, cui nessuna famiglia dovrebbe giungere.
Forte di questa sua drammatica esperienza personale, cosa si sentirebbe di dire al padre di Eluana, Peppino Englaro?
Gli direi che lo capisco, che la sua è una condizione davvero difficile, trovarsi davanti a sua figlia in quelle condizioni. Ci sono passato, so cosa vuol dire. Tuttavia, penso che un genitore dovrebbe amare i suoi figli, e non compiere un percorso alla fine del quale essi vengono uccisi. Penso che dovremmo amare i nostri figli senza porre condizioni: anche se si trova in una situazione difficilissima, Eluana ha ancora bisogno dell’amore e delle cure di suo padre.
In Italia c’è stato un ampio dibattito sul caso di Terri Schiavo, e attualmente il caso di Eluana è al centro delle discussioni sui media e tra la gente. È lo stesso negli Stati Uniti?
Sì, è un tema molto dibattuto anche da noi, e francamente non capisco perché. Dovremmo poter stabilire chi deve vivere e chi deve morire in base alla qualità della loro vita, in base a ciò che possono o non possono fare? Io ritengo che non possiamo arrivare a questo punto: qual è il discrimine, chi stabilisce dove dobbiamo fermarci? La domanda cui dobbiamo rispondere non è: “Chi vorrebbe vivere in quel modo?” Nessuno vuol vivere come Eluana o Terri, è vero; ma la realtà è che ci sono decine di migliaia di persone, negli Stati Uniti e altrove, che si trovano a vivere in quelle condizioni. La domanda dovrebbe essere piuttosto: “Perché non ci vogliamo prendere cura di quelle persone?” La domanda non riguarda tanto Eluana o le persone come lei: riguarda noi, e come noi intendiamo prenderci cura delle persone che han bisogno di noi.
Qui i giudici dicono di non voler fare altro che rispettare la volontà di Eluana.
Penso che dobbiamo prestare enorme attenzione nello stabilire ciò che è stato detto o no dalle persone in un passato spesso lontano. La volontà della persona ha un valore fondamentale, ma qui spesso si tratta di commenti casuali, come nel caso di mia sorella, che non costituiscono prove evidenti della volontà della persona stessa.
Cosa risponderebbe a tutti quelli che ritengono che per Eluana sarebbe preferibile morire?
Non possiamo decidere noi se ci tocca morire o no, sulla base di quello che siamo in grado o non siamo in grado di fare. Se decidiamo di uccidere le persone gravemente disabili, dove dobbiamo fermarci? Chiunque divenisse disabile si troverebbe in pericolo, a rischio di venire ucciso. C’è da aver paura. Ma costoro, i più deboli della società, hanno un valore infinito per noi: ci insegnano la compassione (la capacità di soffrire insieme), ci insegnano ad amare, perché dipendono completamente da noi. Se avessimo la possibilità di scegliere, nessuno deciderebbe che esistessero casi come quello di Eluana. Ma non possiamo scegliere. La realtà è che queste persone ci sono, e han bisogno delle nostre cure e del nostro amore. Non è semplice prendersi cura di persone come Eluana o Terri, ma quale scelta abbiamo? È un problema che riguarda noi “sani” anzitutto, non loro. La loro situazione non comporta logicamente il ragionamento “Stanno male, dobbiamo ucciderli”. Qui in America le persone si sono accorte per la prima volta del rischio che si corre a causa di ciò che è accaduto a mia sorella Terri, e che continua ad accadere ogni giorno in America.
Pensa che la fede possa incidere sulla capacità di prendersi cura delle persone come Eluana?
Certamente l’essere cattolici ha sostenuto i miei genitori, ad esempio. Ma io penso che noi siamo tutti uguali, in quanto persone: è per questo che dovremmo essere trattati in maniera eguale. Semplicemente: ha bisogno di acqua, bisogna dargliela. Tutto qui.


USA/ Sapete chi è Melody Barnes, la nuova consigliere di Obama? - Lorenzo Albacete - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La crisi economica continua questa settimana a dominare le notizie negli Stati Uniti. L’Amministrazione Bush sta rapidamente sparendo e il presidente eletto Obama cerca di riempire il vuoto con la nomina della sua squadra economica e promettendo una serie di misure per stimolare l’economia. Obama ha anche cominciato a riempire le caselle dei suoi consiglieri politici anche in altre aree, ma queste ultime non hanno ricevuto molta attenzione dalla stampa.
Tra questi consiglieri c’è Melody Barnes, che dovrebbe diventare direttore del Domestic Policy Council (Consiglio di politica interna). Ignorata dai principali media, che sono focalizzati sulla crisi finanziaria, la nomina della Barnes è stata accolta con grande preoccupazione dal Movimento pro-life, compresa la Chiesa cattolica.
La sua reputazione è infatti quella di essere un’esponente dell’estrema sinistra del Partito Democratico, molto attiva nel creare alleanze con la “sinistra religiosa”, accusando Bush di aver creato l’impressione che gli Stati Uniti fossero una Stato monolitico sotto il profilo religioso, così da escludere i non cristiani e quelli senza un credo religioso.
La Barnes ha anche sostenuto un maggiore impiego dei preservativi per combattere l’Aids, incolpando l’Amministrazione Bush per il fatto che i neri sono più colpiti dall’Aids rispetto ai bianchi, e vuole inoltre eliminare ogni restrizione alla ricerca sulle staminali embrionali.
La sua posizione pesantemente in favore dell’aborto spiega la sua presenza come consigliere nei consigli di amministrazione di potenti organizzazioni abortiste, come il Planned Parenthood Action Fund. Il suo esempio di un’organizzazione pro-aborto, ma al contempo religiosa, è Catholics for Free Choice, un’organizzazione denunciata dai vescovi cattolici come anticattolica.
Questa è la persona che sarà ora uno dei più potenti e intimi consiglieri del presidente Obama.
Molti commentatori annotano che il nuovo presidente dovrà ora ripagare la “sinistra dei valori” del suo partito, così da potersi spostare verso il centro in altre aree cui tiene realmente, ma qualcuno sperava che si sarebbe mosso in modo più graduale e non così a sinistra. A quanto sembra si sbagliava.
Nello stesso tempo, il gruppo di transizione di Obama sta cercando un ambasciatore per la Santa Sede, sperando di ottenere la collaborazione di vescovi cattolici “comprensivi”e di importanti cattolici, quali il senatore Edward Kennedy, che è completamente coinvolto nel movimento pro-choice.
L’Amministrazione Obama sembra incapace di trovare qualcuno che sappia spiegarle quali sono le reali preoccupazioni della Chiesa.


COLLETTA/ Farinetti (Eataly): quella del Banco è un’idea geniale che fa comprendere il proprio bisogno e quello degli altri - INT. Oscar Farinetti - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
È stata sua l’idea di mettere insieme la ristorazione di alta qualità, i prodotti alimentari più esclusivi e di renderli accessibili al grande pubblico, facendo conoscere quello che il territorio italiano è in grado di offrire. Ma conosce molto bene il Banco Alimentare, Oscar Farinetti, imprenditore e creatore di Eataly, e l’anno scorso ha partecipato alla giornata della Colletta. Lo farà anche quest’anno, perché – dice – «è mentre compro qualcosa per me che mi accorgo di più di cos’è il bisogno». Ilsussidiario.net lo ha intervistato.
Farinetti, sabato prossimo ci sarà l’appuntamento tradizionale con la Colletta alimentare. L’hanno scorso Eataly ha aderito all’iniziativa e lei ha partecipato. Che cosa l’ha colpita?
Mi ha sorpreso innanzitutto la semplicità e la bellezza dell’idea: ma si sa, le idee più belle sono sempre quelle più semplici. Più di tutto, il semplice fatto che le persone possono aiutare gli altri nel momento stesso dell’acquisto del cibo. Mi sono sentito chiamato in causa: noi possiamo portare, nel nostro piccolo, il valore aggiunto di far regalare cibi di alta qualità. Chi ha detto che i poveri devono mangiare prodotti scadenti? Non ho potuto non aderire ad una idea del genere.
Che cos’ha di particolare un’iniziativa come la Colletta e perché lei la fa?
È geniale perché invece di invitare le persone a donare mentre sono a casa, o magari invitandole ad andare in un luogo o a dar soldi, invita le persone a farlo nel momento in cui stanno comprando per se stesse. Secondo me questa è un’esperienza che contiene una riflessione preziosa, perché nel momento del gesto dell’acquisto siamo indotti a pensare a quanta troppa roba e inutile stiamo comprando per noi, e siamo costretti a pensare a quella di cui ha bisogno un altro, che non può permettersela. Ecco: ci sorprende mentre compriamo per noi stessi, e così capiamo il bisogno “dal di dentro”.
Cosa vuol dire rispondere al bisogno?
Prima di tutto saperlo cogliere, capirlo, perché oggi viviamo in una società che per la maggior parte ha risolto il problema del bisogno materiale e di conseguenza il bisogno non viene intercettato, compreso. Per soddisfarlo occorre rimettersi nelle condizioni di poterlo comprendere. Dopodiché fare quello che è in nostro potere per soddisfarlo.
Quest’anno rifarà la Colletta?
Certamente, non mancherò.
Lei ha una sua storia personale di incontro col cibo, che poi è diventata anche la sua ultima storia imprenditoriale. Vuole raccontarla?
Io ho sempre amato il buon cibo fin da bambino. Noi non eravamo ricchi, ma in famiglia c’era una zia ricca e questa amava portarmi nel migliore ristorante di Alba a mangiare una serie infinita di antipasti… E mi guardava compiaciuta, mentre io mangiavo con soddisfazione. Per farle piacere ho cominciato man mano ad apprezzare e conoscere quello che mangiavo; e da lì sono nati la mia passione per il mangiar bene e il mio lavoro.


COLLETTA/ Fini: il banco alimentare è un importante segnale di coesione - Redazione - mercoledì 26 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«L'iniziativa del banco alimentare assume un significato particolare nell'attuale fase di crisi dei mercati internazionali. È un piccolo ma importante segnale di coesione che viene dalla società civile nel momento in cui una parte del Paese teme la prospettiva dell'impoverimento».
Il presidente della Camera Gianfranco Fini, presenta così a Montecitorio la Giornata nazionale della colletta alimentare che si terrà sabato nei supermercati in tutta Italia.
Accanto al presidente della Camera anche monsignor Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco alimentare Onlus e Andrea Gibelli, presidente della commissione Attività produttive, commercio e turismo alla Camera.
«Esistono sacche di indigenza in Italia che costituiscono motivo di preoccupazione per tutti. Come emerge anche dall'ultimo rapporto dell'Eurispes ci sono non meno di 2 milioni di famiglie povere. Spetta alle istituzioni l'opera di sostegno alle fasce meno abbienti della popolazione, come pure spetta alle istituzioni il compito di rimettere in movimento il motore dello sviluppo e della crescita».
Ma, aggiunge Fini, «penso che occorra promuovere le iniziative della società civile in una logica di sussidiarietà che valorizzi le grandi risorse morali presenti nel paese, di cui la colletta offre una banco alimentare».
Il presidente della Camera sottolinea che «esiste un paese della solidarietà e della generosità che accanto all'Italia dell'egoismo, dell'edonismo e dell'indifferenza è capace di concreti gesti di solidarietà».
Sabato 100 mila volontari si troveranno nei punti di raccolta disposti in 7.600 supermercati. Qua inviteranno i cittadini a donare una parte della loro spesa a favore di chi ne ha bisogno.
«È altrettanto bello e impressionante - dice - sapere che nel corso del 2007 oltre 5 milioni di italiani hanno donato più di 8.900 tonnellate di cibo per un valore economico di circa 26 milioni e 300 mila euro».
Monsignor Inzoli ha invitato tutti a partecipare a questa edizione della Colletta alimentare: «Milioni di italiani - ha detto - in un solo giorno compiono un gesto che è il più concreto: quello di condividere la propria spesa con chi ne ha più bisogno. È come accendere un accendino nel buio. Una forma di vita e di carità che permette a ciascuno di essere di più se stesso, più buono».


SCUOLA/ Gli istituti cattolici negli USA: un metodo educativo che convince tutti, anche gli sponsor - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La scuola Cattolica fu importata negli Stati Uniti con i colonizzatori francesi e spagnoli e si estese con le ondate di immigrati dall’Europa fino a buona parte del secolo scorso. Nel 1606, i francescani aprirono la prima scuola di cui si hanno notizie a St. Augustine, in Florida. Più oltre nello stesso secolo, i gesuiti aprirono scuole per indiani nei territori del nord e la Beata Kateri Tekakwitha fu tra i loro studenti. La missione educativa continuò durante la Guerra di Indipendenza e oltre, come alternativa al protestantesimo fondamentalista e al sistema di scuole pubbliche, spesso sfacciatamente anticattoliche.
Nell’elenco dei santi americani sono fortemente rappresentati gli educatori. Santa Elisabeth Ann Seton fondò una congregazione e un sistema di scuole parrocchiali a New York ai primi del Novecento, seguita da Santa Francesca Cabrini e dalle sue suore, impegnate con i figli degli immigrati. Più tardi, Santa Katherine Drexel, la ricca figlia del socio di J.P. Morgan, fondò un ordine missionario per insegnare agli indiani e ai bambini poveri negri. Le iniziative educative cattoliche continuarono per tutto il secolo, talvolta con la violenta opposizione degli anticattolici. Nel 1852, al primo Concilio plenario a Baltimora fu stabilito come ideale che ogni parrocchia del paese avesse la propria scuola. Nel 1884, dopo la Guerra Civile, il terzo Concilio chiese a ogni parrocchia di aprire entro due anni la propria scuola.
Il primo teorico americano della pedagogia, John Dewey, si oppose alle scuole cattoliche affermando: «È essenziale che questa importante questione sia considerata per ciò che è, vale a dire, come l’incoraggiamento di una potente organizzazione reazionaria mondiale nel settore più vitale della vita democratica, con la conseguente divulgazione di principi nemici della democrazia». Alcuni stati hanno vietato le scuole cattoliche fino a quando, nel 1925, la decisione della Corte Suprema Pierce v. The Society of Sisters dichiarò anticostituzionale una legge statale che imponeva agli studenti di frequentare solo scuole pubbliche.
Le scuole elementari parrocchiali continuarono a fiorire nelle comunità sia ricche che povere, grazie particolarmente alla dedizione di religiosi e religiose degli ordini educatori. Verso gli anni ’60, l’istruzione cattolica ha raggiunto il suo picco, con 4,5 milioni di studenti nelle elementari e un milione nelle secondarie. Il 90% degli addetti erano religiosi sottopagati, mentre ora il 95% è rappresentato da impiegati laici. Nel 2003, il numero degli studenti delle scuole cattoliche è diminuito a 2,3 milioni. Nello stesso periodo di cinquant’anni, i cattolici sono cresciuti dai 45 milioni del 1965 agli attuali 77 milioni, e se negli anni ’60 le scuole cattoliche educavano il 12% dei bambini cattolici, ora la percentuale è scesa ad appena il 5%.
Il tasso di chiusura delle scuole è aumentato fortemente nell’ultimo decennio. Secondo la National Catholic Education Association, dal 2000 hanno chiuso i battenti 1267 scuole e le iscrizioni sono diminuite di 382.125 unità. Le chiusure sono attribuibili a diversi fattori, inclusi spostamenti demografici e la perdita di fondi diocesani a seguito delle cause giudiziarie per gli abusi sessuali. Quando una scuola perde studenti, le rette finiscono per aumentare, rendendo più difficile attrarre nuove famiglie. Tranne poche eccezioni, le scuole private non hanno aiuti fiscali e con la perdita degli ordini religiosi educatori, ora dipendono soprattutto dalle parrocchie e dagli aiuti per le rette.
I voucher sponsorizzati dal governo e fortemente combattuti dai sindacati degli insegnanti, ma ammessi dalla Corte Suprema, danno alle famiglie a basso reddito la opportunità di scegliere una scuola privata per i loro figli. Questi programmi sono disponibili però solo in poche città.
Gli alunni con problemi, frequentando le scuole private, hanno dimostrato significativi miglioramenti nell’apprendimento e il programma di voucher ha aiutato queste scuole a stabilizzare le iscrizioni. Altre proposte, regolarmente bloccate dalla potente National Education Association, miravano a offrire crediti fiscali ai genitori che pagano rette alle scuole private. A Washington, quando la diocesi ha annunciato la decisione di chiudere sette scuole del centro, queste scuole sono state trasformate in public charter schools (specie di scuole parificate) e riaperte con gli stessi insegnanti, impiegati e studenti, ma senza i crocefissi nelle aule e le lezioni di catechismo.
A Mary McDonald, sovrintendente delle scuole cattoliche di Memphis, nel 1998 fu chiesto dal vescovo J. Terry Steib di riaprire una mezza dozzina di scuole che erano state chiuse per la diminuzione di iscritti. Si mise subito alla ricerca di fondi e riuscì a trovare un donatore che diede 15 milioni di dollari per aprire la prima scuola. Il 90% degli studenti erano poveri e il 20% non cattolici, ma sono riusciti negli studi e da allora hanno riaperto altre otto scuole finanziate con le donazioni. Mary ha spiegato il loro metodo, risultato convincente per gli sponsor: «Non siamo una scuola pubblica. Non siamo charter schools. Abbiamo gli stessi valori che abbiamo avuto per secoli, facciamo le stesse cose. Diciamo la preghiera ogni giorno. Diciamo il rosario alla stessa ora ogni settimana. Abbiamo la Santa Messa per tutti».
(Sharon Mollerus)


RECENSIONE/ Chiesa e sessualità, l'etica rivoluzionaria che ha dato valore all'idea di corpo - Redazione - giovedì 27 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Sono due le autrici di Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia (Laterza, Roma-Bari 2008, pagg. 322, € 18,00): Margherita Pelaja, storica e militante femminista, specialista di storia delle donne e Lucetta Scaraffia, che «da circa vent’anni è tornata a sentirsi appassionatamente cattolica, e quindi ad affiancare alla sua attività di ricerca sulla storia delle donne e della vita religiosa un impegno culturale che si può definire militante». Due punti di vista, spesso divergenti, si intersecano in un libro il cui scopo è di porre in questione «il pregiudizio che attribuisce alla Chiesa cattolica un’antica e lineare sessuofobia, che si dipana nel corso dei secoli in un atteggiamento repressivo costante e generalizzato».
È particolarmente affascinante la descrizione, nella prima parte del libro, della «rivoluzione culturale» introdotta dal cristianesimo, quel «sottile cambiamento nella concezione del corpo» di cui parlava il noto storico della tarda antichità Peter Brown. Il corpo non è più solo un involucro: con l’Incarnazione il corpo diventa tempio di Cristo, parte integrante della natura umana che non si scinde dalla sua natura spirituale. Per questo il comportamento sessuale, nella tradizione cristiana, non è stato considerato come «un settore da regolare attraverso una precettistica morale», ma piuttosto come un nodo teologico fondamentale, la cui definizione risulta centrale in tutti i momenti di svolta della storia della Chiesa. Non stupisce dunque che sia divenuto uno dei motivi dominanti di tutte le eresie. Da questo punto di vista è evidente la distanza dallo gnosticismo: per gli gnostici, infatti, la materia è malvagia e da disprezzare poiché condannata alla distruzione, mentre per l’autentica tradizione cristiana «la carne è così importante che se ne stabilisce con cura l’uso, dando all’atto sessuale un valore altamente positivo: la carne è importante perché è creata da Dio e il rapporto con la carne – destinata alla risurrezione finale – è al centro della nostra salvezza». Lo si può constatare nel radicale cambiamento della concezione del matrimonio: oltre ad una prima rivoluzionaria partirà dell’uomo e della donna (affermata nella Prima lettera ai Corinzi), il legame tra i due sposi comincia ad essere «concepito come carità reciproca, solidarietà profonda, resa più forte dalla comune appartenenza spirituale». Lo si può constatare anche nel valore della castità, segnata dall’importanza della verginità di Maria fin dai primi secoli della storia cristiana. La dedizione verginale a Cristo era, tra l’altro, una scelta assolutamente inedita per le donne, in una società che non lasciava loro molto spazio all’autodeterminazione. «Il dono della verginità – scriveva san Girolamo – si è diffuso anche più largamente tra le donne perchè ha avuto inizio da una donna». Il linguaggio della sfera sessuale non è assenti nella letteratura cristiana: nel Cantico dei cantici, ampiamente commentato dai Padri della Chiesa, «l’amore fra un uomo e una donna viene considerato l’unica realtà umana che può rendere in qualche modo intellegibile il mistero dell’amore di Dio per l’umanità». Ciò vale anche per le immagini religiose, sacre ma non asessuate: «intorno alla metà del Duecento i pittori italiani di Madonne col Bambino avevano cominciato a far apparire le gambe del figlio, segno della sua umanità, e a poco a poco, verso il 1310, si arrivò a rappresentare il bambino nella sua nudità, spostando così l’attenzione dalla natura divina e regale del piccolo Cristo alla sua natura umana». L’insistenza sull’umanità di Cristo ebbe il suo culmine nell’arte del Rinascimento, centrata sul mistero dell’Incarnazione, per sfumare nei secoli successivi, in cui comparvero per esempio le famose «braghe» sui corpi nudi della Cappella Sistina.
Una seconda parte del libro introduce al mondo delle norme, mostrando il lento processo, dai penitenziali medievali fino alla stagione della casistica che segue il Concilio di Trento, basato sullo sviluppo del diritto e sulla crescente importanza della confessione come strumento di educazione. Quello che potrebbe sembrare soltanto un labirinto di norme e di leggi per regolare la vita sessuale è in realtà un «sistema raffinatissimo» che pone l’accento più sulle intenzioni e sui desideri che sugli atti in sé. Scopo di questa «foresta normativa», che con sorpresa si scopre spesso applicata con flessibilità e pragmatismo, è innanzitutto educare l’uomo al senso del peccato e alla responsabilità.
La fine del Settecento costituisce un tornante fondamentale, poiché «il discorso sulla sessualità viene attribuito all’esclusiva competenza di medici, biologi, antropologi e poi psicoanalisti. I nuovi scienziati negheranno alla Chiesa il diritto di imporre norme universali, e ai teologi la capacità di definire il senso e il valore dell’atto sessuale, ai loro occhi ormai depotenziato di ogni significato spirituale». La posizione della Chiesa, espressa soprattutto nelle encicliche Casti connubii (1930) e Humanae vitae (1968), e ancor di più il pontificato di Giovanni Paolo II, vogliono riaffermare «quell’unità tra corpo e spirito che aveva costituito la specificità della rivoluzione cristiana».
Oggi la posizione della Chiesa sembra essere solitaria, e profondamente divaricata dal pensare comune. Non si tratta però, come spesso si vorrebbe far apparire, di «due sistemi fondati l’uno su regole e limitazioni, l’altro su libertà e piacere», ma di due concezioni radicalmente opposte dell’uomo, e quindi anche del suo rapporto con il corpo.