Nella rassegna stampa di oggi:
1) ELUANA MORIRA'. Lo ha stabilito la legge - Autore: Buggio, Nerella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008 - Definitivo il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza a sospendere l'alimentazione artificiale che tiene in vita la ragazza. Soddisfatto il padre che dichiara: "E' la conferma che viviamo in uno stato di diritto".
2) Caso Englaro: omicidio perpetrato per via legale - La società civile si oppone alla condanna a morte di Eluana - di Antonio Gaspari
3) Eluana condannata a morire di sete e di fame - Sentenza della Cassazione sul caso della ragazza in stato vegetativo dal ’92 - di Antonio Gaspari
4) 14/11/2008 7.49.53 – Radio vaticana - Italia. Eluana: dalla Cassazione via libera all'interruzione di alimentazione e idratazione. Mons. Fisichella: è un fatto gravissimo
5) ELUANA/ Ecco un'altra vittima della guerra dei diritti ad ogni costo - Assuntina Morresi - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) ELUANA/ 1. Melazzini: anch'io mangio grazie a un sondino, e dico che questa sentenza è un omicidio - INT. Mario Melazzini - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ 2. Lupi: così la Cassazione uccide un’innocente, ora la legge per evitare che accada di nuovo - INT. Maurizio Lupi - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) Eluana morirà, da oggi c'è l'eutanasia, di Massimo De Manzoni – Il Giornale.it, 14 Novembre 2008
9) IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA - AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 novembre 2008
10) ETICA E GIUSTIZIA - il fatto «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona - «Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo» - Il neurologo Dolce: si prepara l’eutanasia su una persona indifesa – DI PAOLO LAMBRUSCHI - Avvenire, 14 novembre 2008
11) il medico - Maltoni dell’hospice di Forlì: un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici Chi dice che Eluana non sente nulla, è vittima di un’ideologia - Così molte vite sono a rischio - DI FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 14 novembre 2008
12) Imputato: il diritto alla vita - di Riccardo Cascioli - Una potente lobby internazionale ha scelto come strategia le iniziative giudiziarie per imporre ai singoli Paesi la legalizzazione di aborto, eutanasia ed unioni omosessuali. Dall’America Latina all’Europa sempre più spesso i giudici scavalcano governi e parlamenti su questo tema. Un orizzonte da tenere presente nel dibattito italiano sul “fine vita”. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
13) Il Decalogo nero dell’ideologia anti-life - di Tommaso Scandroglio - Una strategia nichilista per far accettare le pratiche contro la vita: dall’aborto all’eutanasia, dalla Fivet alle sperimentazioni embrionali. Un compendio in dieci punti degli elementi essenziali della cultura di morte. Un «segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (Evangelium vitae, n. 58). [Da «Studi Cattolici» n. 569/70, luglio-agosto 2008]
14) La morte: tappa o termine della vita? - di Mons Alessando Maggiolini - Ricordiamo la figura di monsignor Alessandro Maggiolini (1931-2008) con l'ultimo articolo scritto per Il Timone. Ci uniamo alla richiesta del direttore del Timone Gianpaolo Barra e invitiamo alla preghiera per un grande pastore e Defensor fidei. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
15) Il dibattito sulla vita umana - Aperti alla ragione senza fondamentalismi, di Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, 14 Novembre 2008
16) OLTRE LA CRISI/ Recuperare il senso del lavoro - Bernhard Scholz - venerdì 14 novembre 2008 – Sussidiario.net
17) MEDIOEVO/ Quando la fiducia era alla base della società - Guido Cariboni - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
18) IRAQ/ Cervellera: due sorelle uccise perché cristiane in una lotta per il potere che miete sempre le solite vittime - INT. Bernardo Cervellera - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
19) 14/11/2008 09:22 – MYANMAR- Continua la repressione della dittatura birmana contro monaci e dissidenti - Nove religiosi sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Portavoce della Nld conferma l’incriminazione di 14 attivisti del partito di opposizione e annuncia nuovi arresti. Il giro di vite dei militari intende “dissuadere” le voci contrarie al regime in vista delle elezioni del 2010.
20) Vita e morte nel grembo di Maria - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008
21) SCIOPERI/ La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Il vicolo cieco di Epifani&Co. - Renato Farina - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
22) ALITALIA/ L’Europa e i contribuenti italiani spianano la strada a Cai - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
ELUANA MORIRA'. Lo ha stabilito la legge - Autore: Buggio, Nerella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008 - Definitivo il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza a sospendere l'alimentazione artificiale che tiene in vita la ragazza. Soddisfatto il padre che dichiara: "E' la conferma che viviamo in uno stato di diritto".
Ora cosa faranno?
Non ci sono “spine da staccare”, si dovrà smettere di alimentarla, di darle da bere.
La sederanno perché non soffra troppo la fame e la sete, sicuri che se questo gesto è permesso per legge sia un gesto giusto, buono, sacro?
Questo vuol dire vivere in uno Stato di diritto?
Quale diritto? Quello di smettere di alimentare una donna, quello di lasciare che la sua vita se ne vada piano, che si spenga come un lume acceso che ostinatamente ripete che la vita c’è.
Può un giudice "spegnere il lume", può un uomo arrogarsi questo potere?
Può un giudice chiamare l’eutanasia, perché di questo si tratta, in un altro modo e renderla possibile?
E tutte le altre Eluane?
E Moira, di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi, dovranno sperare che nessuno si rivolga alla legge?
Che il sole baci ancora il loro giovane volto, che le carezze di madri premurose solchino il loro viso, che i baci di chi le ama si posino sul loro collo incuranti di come va il mondo.
Chi sostiene la sfida delle loro famiglie?
Quel quotidiano amare, accudire, cantare, raccontare, il loro coraggioso andare controcorrente, contro chi ritiene che il custodire quelle figlie, quei figli così "faticosi" sia gesto inutile.
Che ce ne facciamo di uno Stato di diritto che serve a stabilire che ci sono vite e vite, questa è una breccia nel muro che sposta il confine e domani chissà.
Qualcuno potrà dire che quando eravate sani e attivi vi lasciaste sfuggire in una conversazione che piuttosto che affrontare gli acciacchi della vecchiaia avreste preferito morire e questa dichiarazione potrebbe esservi fatale.
Accendiamo un lume su tutte le finestre, perché nessuno dimentichi che c’è una donna che sta morendo, lo ha stabilito la legge, infischiandosene di chi voleva prendersene cura. Ditelo a tutti gli amici, mandate messaggi con i vostri SMS.
Caso Englaro: omicidio perpetrato per via legale - La società civile si oppone alla condanna a morte di Eluana - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 13 novembre 2008 (ZENIT.org).- Durissimi i commenti alla sentenza in merito al pronunciamento della Cassazione su Eluana Englaro, reso pubblico nel pomeriggio di questo giovedì, 13 novembre.
In un comunicato diffuso in serata, l'Associazione Medicina & Persona parla del "primo caso di omicidio legale in Italia".
"Non esistendo in Italia una legge sull'eutanasia - osserva -, quello di Eluana è un omicidio perpetrato per via legale, ottenuto cioè con l'autorizzazione dei giudici".
Le conseguenze di un atto di questo tipo sono gravissime. "Da oggi nel nostro Paese si potrà uccidere - quando si vorrà - malati stabili, cronici, inguaribili: pazienti in stato vegetativo, pazienti in condizioni terminali, anziani non più utili alla società, insomma chiunque abbia ‘presumibilmente' chiesto di poter morire e in condizioni di non poter più cambiare idea o di chiedere aiuto, mediante la sospensione di acqua e cibo, magari dopo aver consultato un giudice".
Il comunicato della libera Associazione fra Operatori Sanitari solleva la domanda cruciale: "E' questa la società che volevamo, quella in cui vogliamo vivere?".
Secondo Medicina & Persona, i giudici hanno: "delegittimato la Costituzione Italiana"e "agito contro il Codice Civile e contro il Codice Penale".
L'Associazione fra Operatori Sanitari denuncia la logica sottesa, che è la stessa "adottata durante la Seconda Guerra Mondiale" in cui "si eliminano i più deboli e gli indifesi".
Il comunicato dell'Associazione sottolinea la gravità delle sentenza perché "ormai certi giudici aggirano le leggi - anche quelle esistenti - e creano una nuova era, quella dell'etica del più forte sul più debole, con l'ausilio del diritto".
A denunciare la condanna a morte di Eluana anche Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), il quale ha dichiarato che "si è sentenziata la condanna a morte di una indifesa cittadina italiana. Da oggi il diritto alla vita soggiacerà al potere della legge che sconfina nella sfera più inviolabile della persona umana".
"Che triste Italia appare dinanzi a noi - ha commentato il presidente nazionale del RnS -... Sempre più colpevolmente protesa ad inoculare una cultura della morte, incapace di affermare democraticamente il diritto alla vita".
"Mi chiedo: è davvero questo il sentire degli italiani? Non può dirsi solidarietà sopprimere i deboli, né giustizia rimuovere le ragioni più profonde del vivere comune, proprio a partire dalla condivisione delle angosce e delle sofferenze che ci rendono davvero uomini degni di stare al mondo", ha concluso.
Eluana condannata a morire di sete e di fame - Sentenza della Cassazione sul caso della ragazza in stato vegetativo dal ’92 - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 13 novembre 2008 (ZENIT.org).- Indignazione e sconcerto ha suscitato la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione in riferimento al caso di Eluana Englaro, e resa nota nel tardo pomeriggio di questo giovedì.
L’associazione Scienza & Vita ha diffuso un comunicato in cui afferma che “si tratta di una vera e propria condanna a morte in età repubblicana”.
In maniera provocatoria ha poi chiesto che “come accade nei Paesi che prevedono la pena di morte per i propri cittadini” sia consentito di assistere all’esecuzione pubblica e di registrare tutto in video.
Scienza & Vita ha spiegato che in questo modo “i nostri figli e i nostri nipoti potranno scoprire come un cittadino italiano possa essere condannato da un giudice di uno Stato civile e democratico a morire di fame e di sete”.
“La decisione della Suprema Corte – ha rilevato l’associazione – di fatto autorizza la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione che restano secondo noi, e anche per una larghissima parte dell’opinione pubblica italiana, semplici sostegni vitali e non terapie”.
Secondo Scienza & Vita, “da questa scelta consegue un’interpretazione riduttiva della vita, quale non degna di essere vissuta. E soprattutto l’idea che la vita umana sia disponibile. Ovvero, che ciascuno di noi possa esercitare addirittura un diritto di morire con il corrispettivo dovere di uccidere (perché qualcuno deve pure eseguire la sentenza)”.
“Diritto di morire che non è contemplato nella Costituzione e che sfida il criterio umanistico del favor vitae a cui essa si ispira”, si precisa nella nota.
Unanime lo sgomento anche nel Movimento per la Vita (Mpv). Il Presidente Carlo Casini ha rilevato che “nascondersi dietro schermi formali non serve a mascherare la realtà” perché “é una sentenza che ha come presupposto ed effetto quello di discriminare tra vite umane più o meno degne di vivere”.
Il Presidente del MpV ha sottolineato che “questa decisione mette in pericolo le altre migliaia di Eluane accudite amorosamente dai congiunti, le migliaia e migliaia di vite di persone gravemente handicappate che dipendono dalla capacità di accoglienza da parte dell’intera società. In definitiva mette in pericolo tutti noi quando diventiamo marginali ed inutili”.
In merito alle misure da prendere per impedire un’atroce condanna a morte, Casini ha detto che “allo stato attuale è ancora possibile un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che però non ha effetto sospensivo”.
“Per cui – ha concluso il Presidente del MpV – sarà necessario impegnarsi subito con grande vigore per l’approvazione di una legge la quale, restituendo verità all’articolo 32 della Costituzione, impedisca che si verifichino ancora altri drammatici abbandoni di persone in stato di grave disabilità come Eluana”.
14/11/2008 7.49.53 – Radio vaticana - Italia. Eluana: dalla Cassazione via libera all'interruzione di alimentazione e idratazione. Mons. Fisichella: è un fatto gravissimo
La Corte di Cassazione a sezioni unite ha dichiarato ieri inammissibile per difetto di legittimazione il ricorso sulla vicenda di Eluana Englaro, autorizzando così la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della giovane donna in stato vegetativo da quasi 17 anni. Numerosi i commenti politici. Il servizio è di Giampiero Guadagni: Si tratta di un fatto di una gravità assoluta, secondo il presidente della Pontificia accademia per la vita, mons. Rino Fisichella. Ascoltiamolo, nell’intervista di Francesca Sabatinelli
E sul caso Englaro è intervenuta anche la Conferenza Episcopale Italiana. Mentre partecipiamo con delicato rispetto e profonda compassione alla sua dolorosa vicenda – si legge in un comunicato diffuso ieri – non possiamo fare a meno di richiamare alla loro responsabilità morale quanti si stanno adoperando per porre termine all’esistenza di Eluana. La convinzione – aggiungono i vescovi italiani - che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscano una forma di accanimento terapeutico è stata più volte, anche di recente, resa manifesta dalla Chiesa e non può che essere riaffermata anche in questo tragico momento. In tale contesto – prosegue il comunicato - si fa più urgente riflettere sulla convenienza di una legge sulla fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa, da elaborare con il più ampio consenso possibile da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
ELUANA/ Ecco un'altra vittima della guerra dei diritti ad ogni costo - Assuntina Morresi - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Eluana Englaro morirà di fame e di sete. Impiegherà «grossomodo 15-20 giorni […] anche se non è possibile stabilire esattamente il tempo»: ce lo ha spiegato Mario Riccio, il medico che ha sospeso la ventilazione a Piergiorgio Welby e che giudica positivamente la conclusione della vicenda.
Alcune settimane di agonia, quindi, per Eluana, dopo quest’ultimo, definitivo pronunciamento della Cassazione, che segna una delle pagine più nere della giustizia italiana.
Ora tutto dipende da Beppino Englaro: resta valida la sentenza della Corte di Appello del luglio scorso, secondo la quale il padre di Eluana non è obbligato a sospendere la nutrizione artificiale, ma solo autorizzato a farlo “in hospice o in altro luogo di ricovero confacente”. In altre parole: secondo i giudici Beppino Englaro può lasciare morire di fame e di sete sua figlia in strutture sanitarie pubbliche o private, e pure a casa sua, purché il luogo scelto sia adeguato, ma nessuno è obbligato ad eseguire la sentenza e lui stesso potrebbe ancora decidere di fermarsi, e non andare avanti.
Chi accoglierà la richiesta del padre di Eluana e lo aiuterà a sospendere l’alimentazione di sua figlia, quindi, lo farà per una scelta libera e consapevole e se ne assumerà tutta la responsabilità, politica e morale, davanti al popolo italiano.
Dire che in questo modo Eluana sarà “lasciata andare” e morirà naturalmente non corrisponde alla realtà dei fatti: Eluana sarebbe morta naturalmente subito dopo l’incidente stradale per via del trauma cranico e di una emorragia cerebrale, solo se non fosse stata rianimata, come invece era doveroso da parte dei medici. La morte per mancanza di nutrizione di Eluana, adesso, non ha niente di naturale.
D’altra parte non è possibile parlare di alimentazione ed idratazione come di terapie mediche, solo perché vengono somministrate con un atto medico (con l’uso del sondino naso gastrico o anche con un “tubo nello stomaco”, come spesso viene detto), così come il parto continua ad essere naturale anche se viene fatto in ospedale, con il battito cardiaco del feto monitorato, e con interventi e manovre del ginecologo, più o meno invasive.
Se Eluana, pure in stato vegetativo, fosse ancora in grado di deglutire, potremmo dire che la sua alimentazione è “naturale” solo perché le suore che la accudiscono potrebbero usare un cucchiaio anziché un sondino?
E comunque, che differenza c’è fra Eluana, incapace di relazionarsi con il mondo esterno e completamente dipendente dalle persone che la accudiscono, e un grave disabile mentale, o anche un malato di Alzhaimer, incapaci anch’essi di relazione, senza consapevolezza di ciò che li circonda, e privi di qualsiasi autonomia?
Siamo sicuri che le sentenze dei vari tribunali su Eluana Englaro non si possano estendere molto presto anche ad altri disabili gravi?
E’ oramai evidente a tutti che solo approvando una legge che entri nel merito delle dichiarazioni anticipate di trattamento si può cercare di correggere la deriva eutanasica che è entrata nel nostro ordinamento giuridico. Come abbiamo già avuto modo di dire nei mesi passati, paradossalmente anche una norma che vieti esplicitamente l’eutanasia non impedirebbe la sospensione della nutrizione artificiale ad Eluana Englaro che morirà, secondo la giustizia italiana, non per eutanasia ma perché sarà rispettata la sua volontà, e cioè il rifiuto dei trattamenti a cui è sottoposta.
Le sentenze relative al caso di Eluana Englaro non nascono dal nulla, ma sono l’esito inevitabile di una interpretazione estrema del concetto di autodeterminazione della persona, nel quale le libertà di cui ogni essere umano dispone si trasformano in diritti: con la legge 40 sulla fecondazione assistita il punto in questione era il diritto al figlio (e pure sano). Con i DICO era in gioco invece il diritto ad essere riconosciuti come famiglia, indipendentemente dagli impegni assunti e dal sesso, mentre con Welby prima ed Eluana adesso si è passati dalla libertà di cura al diritto a morire, basandosi su una giurisprudenza che negli ultimi anni si è sempre più orientata in questo senso.
E intanto il Consiglio Superiore della Magistratura si è organizzato per difendere i giudici della Corte di Cassazione dagli attacchi che si sono levati nei loro confronti: è stata già formalizzata all’interno del Csm la richiesta di un intervento a tutela dei giudici della Cassazione che si sono pronunciati sul caso di Eluana Englaro.
Un’iniziativa a dir poco inquietante, e sicuramente insolita. Sappiamo bene che la legge va rispettata. Ma speriamo che, di fronte a una sentenza che lascia morire di fame e di sete una persona in base a frasi pronunciate vent’anni prima, e che introduce di fatto l’eutanasia nel nostro paese, rimanga almeno la libertà di criticare, anche energicamente, e di prendere pubblicamente posizione.
ELUANA/ 1. Melazzini: anch'io mangio grazie a un sondino, e dico che questa sentenza è un omicidio - INT. Mario Melazzini - venerdì 14 novembre 2008
«Ricorso inammissibile»: due parole tremende, per dire che tornare indietro non si può. La sentenza che condanna a morte Eluana Englaro non può essere cancellata, e il suo tragico effetto non può essere bloccato. Questo ha deciso ieri sera la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso della procura di Milano.
Potrebbe essere l’ultimo atto, epilogo di una lunga vicenda in cui nessuno esce vincitore, e solo una persona, di certo, esce sconfitta: Eluana stessa. Di questa sconfitta è convinto Mario Melazzini, presidente della Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), e malato di Sla dal 2002. Una sconfitta che suona particolarmente tragica per chi, come lui, condivide con Eluana l’aspetto centrale di tutta questa vicenda: il fatto di mangiare e bere grazie all’aiuto di un sondino.
Dottor Melazzini, che cos’ha provato sentendo questa ultima sentenza?
Enorme tristezza. Anche se da qualcuno potrà essere vissuta come una vittoria, io dico che in queste situazioni non ci possono essere né vinti né vincitori, ma solo sconfitti. E una cosa esce sconfitta in particolare: la vita. Sentendo dichiarazioni di vittoria fatte anche da persone non direttamente coinvolte, mi vien da dire che forse dobbiamo interrogarci, come società che si dice civile, su quale sia il valore che diamo alla vita. È o no un valore assoluto? Alcuni dicono che è stata fatta la volontà di Eluana: ma come si fa a desumere la volontà, come accade nella sentenza, in base solo ed esclusivamente a modelli di vita? A me come cittadino, come persona e anche come malato questa cosa fa molto, molto male: la vita vista come accettabile solo se adeguata a certi modelli.
Cosa si sentirebbe di dire alla famiglia di Eluana?
Io mi sento vicino a quella povera famiglia, indipendentemente da tutto. Non so cosa faranno ora, e se effettivamente metteranno in pratica l’ultimo atto, che non sarà un accompagnamento ma un vero e proprio omicidio. Questo mi sembra doveroso dirlo, come uomo ma anche e soprattutto come medico: l’alimentazione e l’idratazione non sono strumenti terapeutici, e come tali non sono mai identificabili come atto di accanimento terapeutico. Eluana non è una persona malata: Eluana è solo disabile.
Ciò che ieri ha stupito è l’aridità di una sentenza che giudica tecnicamente inammissibile un ricorso: un semplice meccanismo giuridico, che decide della vita di una persona.
Questa è la cosa che io trovo veramente assurda, e cioè che riguardo a un valore e un bene inalienabile e indisponibile si possa decidere sul da farsi solo ed esclusivamente in base a uno strumento giuridico. Questo sia detto con tutto il rispetto per il lavoro della magistratura. Ma il fatto che i magistrati giudichino inammissibile il ricorso solo dal punto di vista procedurale, e non per i contenuti, forse dovrebbe far concludere che non abbiano preso bene in visione quello che dice l’articolo 2 della Costituzione. Si cita sempre e solo l’articolo 32, e non si ricorda mai che all’articolo 2 si parla di «diritti inalienabili» da riconoscere e garantire. Comunque, fa male e dà molto da pensare il fatto che in un’aula fredda di tribunale vengano decisi alcuni valori che sono indiscutibili.
Cosa accadrà ora? Molti pensano che sia un semplice automatismo: si stacca una spina e tutto finisce. Ma cosa accadrà realmente ad Eluana, se si dovesse dare esecuzione alla sentenza?
L’idea che il tutto possa risolversi con una sorta di automatismo è figlia di una concezione, gravissima, secondo cui in realtà Eluana non è più una persona viva. Basta staccare una spina, il sondino, e punto e a capo. Non sarà così: morirà di fame e di sete, cioè con una delle morti più atroci che ci possono essere. Questo è doloroso ma deve essere detto, visto che molti pensano e affermano che quella di Eluana non è vita. Io posso affermare, come medico, che sarà una morte atroce, e dovrà essere “controllata”, come accaduto nel caso di Terry Schiavo. Alcuni fautori di questa sentenza e presunti uomini di scienza sostengono che il danno subito da Eluana a livello corticale, cioè della corteccia cerebrale, coinvolgerebbe anche le strutture deputate al controllo della sete e di alcune sensazioni, come il dolore. Ma se fosse così non ci sarebbe ragione di trattare con analgesici maggiori le ultime ore della vita, come accaduto con la povera Terry Schiavo. A Terry furono date forti dosi di morfina. È come mettersi a posto la coscienza, nel caso in cui quella teoria fosse erronea. Significa che presumiamo che lei proverà grande dolore.
La sua malattia costringe anche lei, come Eluana, alla nutrizione attraverso il sondino: che effetto le fa sentire che questa condizione possa essere considerata in contrasto con la dignità della vita?
Mi sento profondamente offeso come malato, e non solo per me, ma anche per i tanti malati che si trovano in condizioni simili a quelle di Eluana, con alimentazione e idratazione artificiale. Tutte queste persone hanno la loro vita; e la vita ha un valore intorno al quale non possono essere prese decisioni, come se la dignità fosse legata al concetto di qualità. Io ne sono estremamente convinto: la dignità di ogni vita ha un carattere intrinseco, ontologico. Mi è rimasta impressa un’intervista fatta alle persone che accudiscono Eluana. Dicevano: «oggi Eluana è molto bella». Perché nessuno parla del fatto che ci sono persone che si occupano di lei, che la vestono, la cambiano, le fanno fare fisioterapia. Per una persona morta sarebbe tempo sprecato Ma Eluana è viva. Purtroppo si pesa spesso che casi come questo, che danno molto disagio, sia molto meglio risolverli. E la cosa più grave è che tutto questo ci distrae da tutti gli altri soggetti che sono a carico delle famiglie, le quali hanno bisogno di strumenti e di sostegno economico per portare avanti queste situazione. Sono costretti a lottare per essere liberi di vivere. È un paradosso: è più tutelata la decisione di interrompere una vita che non la scelta di chi vuole continuare ad esercitare un diritto sacrosanto, come la vita stessa. E così la scelta della vita diventa una battaglia quotidiana.
ELUANA/ 2. Lupi: così la Cassazione uccide un’innocente, ora la legge per evitare che accada di nuovo - INT. Maurizio Lupi - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera dei Deputati è stato il principale artefice del conflitto di attribuzione sul caso di Eluana Englaro, votato da Camera e Senato ed è stato uno del primi personaggi politici a intervenire sulle agenzie con una durissima presa di posizione poco dopo aver appreso la notizia della decisione della Cassazione di rigettare l’ammissibilità del ricorso contro la sentenza che consente a Beppino Englaro di sospendere l’idratazione e l’alimentazione assistita alla figlia.
Onorevole Lupi, lei ieri ha dichiarato senza mezzi termini: “la Cassazione ha deciso di uccidere Eluana”. E’ tutto finito dunque?
Purtroppo ci troviamo di fronte ad una sentenza gravissima e che costituisce un precedente altrettanto grave: la possibilità che un tribunale decida della vita e della morte di una persona sostituendosi alle leggi del nostro Paese. In Italia, infatti, la legge vieta in maniera esplicita l’eutanasia, cioé il fatto che un terzo determini la possibilità di vita o di morte di una persona. E’ tutto finito? Sembra, per Eluana, di sì: assisteremo alla drammatica morte di fame e di sete di una persona, di una donna. Questa è la situazione in cui ci troviamo.
Lei come giudica l’operato della magistratura in questi anni e, in particolar modo, in questi ultimi mesi sul caso di Eluana Englaro?
Giudicare l’operato della magistratura in questa vicenda vuol dire innanzitutto guardare a cosa siamo di fronte: siamo di fronte all’esproprio di una sua prerogativa da parte di un potere dello Stato ai danni di un altro potere dello Stato, che è il Parlamento. La magistratura non ha il compito di sostituirsi al legislatore: ha, nel nostro ordinamento, il compito di attuare le leggi. In questo caso il tribunale si è arrogato il potere di decidere di sostituirsi al parlamento. Credo che questo fatto sia tanto più grave perché c’è il rischio che si individuino come una sorta di “scorciatoie” per legiferare rispetto all’unica strada possibile in un paese democratico come il nostro, che è quella di seguire un iter parlamentare. Legiferare spetta al parlamento, che essendo eletto dal popolo è il luogo in cui si dibattono e definiscono le leggi di un paese: oggi viviamo invece il rischio di vedere diventare la magistratura braccio armato di una cultura dominante relativista che non accetta le regole della democrazia.
Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, ritiene che le accuse mosse da alcuni esponenti del centrodestra o del mondo cattolico contro la decisione della Cassazione sul caso di Eluana traggano origine da una "confusione tra il merito della questione Englaro e il tema del rapporto giurisdizione-legsilazione" e sostiene che "Se il Parlamento ha le idee chiare sul fine vita e sul testamento biologico allora faccia la legge e introduca nuove regole". Cosa ne pensa?
A Onida, che è sempre osservatore attento dei fatti giuridici e costituzionali, forse è sfuggito un piccolo particolare, cioè che innanzitutto ci sono delle leggi vigenti nel nostro Paese che vietano l’eutanasia e che – in secondo luogo – il parlamento sul “fine vita” sta legiferando. Cioè al Senato è aperta una procedura legislativa che vede la Commissione Sanità impegnarsi a fronte di diversi progetti di legge che sono stati presentati nell’elaborare una legge. E’ proprio questo l’aspetto grave che Onida dovrebbe sottolineare: neanche noi vogliamo entrare nel merito della questione Englaro, ma osserviamo con molta amarezza e gravità il fatto che proprio mentre un potere dello Stato stava esercitando le proprie funzioni legiferando su questo tema, un altro potere dello stato, quello giudiziario, gli si sostituisce.
Non sembra dello stesso avviso Paolo Ferrero (Segretario Prc) che ha parlato di una “sentenza di civiltà” ringraziando “di cuore ai giudici della Corte di Cassazione” che ha rispettato “lo spirito di umanità e il rispetto del diritto e delle volontà delle persone che anima l'intera nostra Costituzione”…
Ecco, l’amico ed esimio costituzionalista Onida che prima citava dovrebbe preoccuparsi proprio di dichiarazioni come questa. Dichiarazioni del genere sono la dimostrazione di come un rappresentante di una cultura relativista che non rispetta il diritto alla vita e la dignità della persona, vedendosi nell’impossibilità di usare il giusto e unico strumento per poter affermare le proprie idee e tradurle in legge, che è il parlamento, utilizza impropriamente un altro strumento, che è la magistratura, per affermare queste idee. Non è possibile, né pensabile che una legge possa affermare – perché ciò è contro la Costituzione – il diritto a morire, perché le leggi sostengono sempre e comunque il diritto alla vita e il sostegno alla vita né che un tribunale, che non ha un potere creativo della legislazione possa permettersi di sostituirsi al potere legislativo. Il problema vero, però è solo uno ed è che nel nostro paese sarà permesso che la vita di una giovane donna venga spenta da una morte per fame e per sete. Questa è la cosa davvero più grave.
Crede che questa sentenza sia sintomo di una deriva culturale del paese?
Io credo che nel nostro Paese ci sia ancora una sensibilità culturale che vede il rispetto della vita e la dignità della persona ancora prevalere anche se questa è una responsabilità individuale, di ciascuno. E’ una responsabilità di tutti coloro che vivono un’esperienza in cui la vita e la persona sono qualcosa di “più grande” e che devono essere sempre e comunque rispettati. Queste persone devono capire che hanno una grande responsabilità, cioè quella di testimoniare con il loro impegno e - di più – costruire fatti che testimoniano questo attaccamento e rispetto per la vita, indipendente dalla cultura dominante e da coloro che senza rispettare le regole democratiche vogliono dettare le regole del gioco.
Mons. Rino Fisichella ha auspicato che si arrivi al più presto a "formulare una legge, il più possibile condivisa, perché venga evitata qualsiasi esperienza di eutanasia passiva o attiva nel nostro Paese". Cosa pensa di questa dichiarazione, e della posizione della Chiesa?
Io credo che a questo punto sia indispensabile e urgente procedere a una iniziativa legislativa da parte del parlamento. Ma questa legge, come tutte e forse più di altre, non deve dimenticare alcuni punti cardine. Anzitutto, la difesa della dignità e del diritto alla vita anche quando questa si va a spegnere: non è, e non può essere considerata, un peso per la nostra società la parte finale di una vita. Anzi, la società deve guardare alla fine di una vita con grande responsabilità, perché questa sia accompagnata, sostenuta e difesa nella sua dignità. In secondo luogo, deve essere chiarito inequivocabilmente una volta per tutte che alimentazione e idratazione non sono cure mediche, sono elementi essenziali (mangiare e bere) per la vita umana. Terzo, l’autodeterminazione come principio per la propria vita e la propria morte non può mai essere affermato per legge e in ogni caso deve essere sempre e comunque garantito - al di là dell’espressione di una volontà che deve essere reiterata - il diritto-dovere del medico a scegliere come e quando curare.
L’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà avrà un ruolo particolare in questo dibattito?
Questo confronto aperto a tutti è già approdato nelle commissioni (in particolare la commissione Sanità del Senato) e li si sta svolgendo. Quello che bisogna tener presente è che su questo argomento non tiene la logica dello schieramento ma , al contrario il tema è assolutamente trasversale e in questo senso l’esperienza, lo spirito e i rapporti nati e cresciuti nell’intergruppo saranno una testimonianza. C’è una concezione comune che è trasversale e che è indipendente dal fatto di essere laici o cattolici, di centrodestra o di centrosinistra e da cui tutti dobbiamo partire: la concezione della dignità della vita, del valore della persona, della sua dignità e della sua responsabilità. Ognuno di noi quindi darà il suo contributo come già avvenuto per la legge 40 sapendo che non è uno scontro tra idee diverse ma un lavoro di approfondimento su questi temi
A proposito di questo lavoro di confronto comune, pensa che ci sia una spaccatura nel mondo cattolico sul tema della legge sul fine vita? Se c’è, è superabile?
Io credo che dovremo lavorare tutti insieme per arrivare ad avere una legge il più possibile condivisa e che possa essere una legge sul fine vita per la difesa e la dignità della vita. Da cattolici noi sappiamo che, come è avvenuto per la legge 40 che ho ricordato prima, dobbiamo agire con estremo realismo e per arrivare a ottenere il male minore da questo punto di vista, proprio per evitare che ci sia una deriva eutanasica nel nostro Paese. Credo che sia sbagliata una gara a “chi è più ortodosso”, ma occorre invece una coscienza comune ed agire in maniera responsabile rispetto al nostro ruolo di politici e credenti
Eluana morirà, da oggi c'è l'eutanasia, di Massimo De Manzoni – Il Giornale.it, 14 Novembre 2008
Milano - Ieri in Italia è stata introdotta l’eutanasia. Vi diranno che non è vero, che la sentenza con la quale la Cassazione ha definitivamente autorizzato il padre a staccare il sondino che da oltre 16 anni nutre e tiene in vita Eluana Englaro riguarda solo ed esclusivamente questo caso particolare. E formalmente è così. Lo ribadisce anche la motivazione con la quale la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della Procura di Milano: l’impugnazione è inammissibile perché la vicenda in questione non riguarda «un interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale».
Ma nei fatti da ieri nel nostro Paese si può provocare la morte di una persona senza incorrere nelle norme previste dal diritto vigente, vale a dire un’accusa di omicidio. Come afferma il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, «per la prima volta un cittadina della Repubblica italiana morirà per una sentenza».
Giusto? Sbagliato? La vicenda di Eluana, con le sue molteplici sfumature, pare fatta apposta per lacerare le coscienze. C’è una giovane donna da quasi 17 anni in stato vegetativo. C’è un padre straziato che attraversa quotidianamente un inferno personale, sostiene che la figlia mai avrebbe voluto essere tenuta in vita in queste condizioni e porta testimonianze di come, quando era consapevole, più volte Eluana abbia espresso tale convinzione. C’è un Paese che si interroga e si divide sui confini della vita e della morte, sulla dignità dell’esistenza, sulla pietà, sul diritto di trasformare questi rovelli in una legge che, in ultima analisi, dia a qualcuno il potere di decidere sulla vita di un altro.
Questa legge non c’è. Giusto? Sbagliato? Visto come sono andate le cose, si può dire che sarebbe stato meglio se il Parlamento avesse fatto prima quel che si accinge a fare nei prossimi mesi, e cioè mettere, attraverso il cosiddetto testamento biologico, paletti il più possibile precisi (per quanto si possa essere precisi in questa materia) sul «diritto a morire». Nel vuoto legislativo, infatti, si sono infilati i giudici (prima quelli della prima sezione di Cassazione, poi quelli della Corte d’Appello di Milano, infine ancora quelli della Cassazione ma stavolta a sezioni unite), colmando per sentenza quello che hanno percepito come una lacuna giuridica, forzando e adeguando il Codice alla «mutata coscienza sociale».
Questo è avvenuto, al netto dei formalismi giuridici e comunque la si pensi sull’eutanasia. I magistrati si sono sostituiti al Parlamento e, interpretando quello che ritengono essere il comune sentire («dimostrando di essere in sintonia con la maggioranza del Paese», come dice la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni), hanno stabilito che quel che fino a ieri per la legge era omicidio, oggi per chi la legge è chiamato ad applicare non lo è più. Questo è avvenuto. E, per il modo, qualche brivido dovrebbe correre nella schiena anche di chi può essere totalmente d’accordo con la sostanza del provvedimento.
Quello di Eluana Englaro è un caso limite. E proprio per questo è diventato un caso simbolo. Sul suo corpo si è combattuta una battaglia etica e ideologica che aveva come fine ultimo cambiare il nostro ordinamento. Ora la breccia è stata aperta. Dove verrà posta la prossima, necessaria frontiera è un’incognita e Camera e Senato sono chiamati a un compito delicatissimo. Ma questo dopo. Oggi risuonano ancora le grida di guerra. E mentre dai campi opposti volano le accuse, Eluana si accinge a essere staccata dal sondino che la tiene in vita e lasciata morire. Nell’arco di 10-15 giorni. Di fame. Perché anche questo hanno di brutto le leggi fatte per sentenza: che sono necessariamente approssimative. Si voleva l’eutanasia. Avremo una lunga agonia: tutto meno che una «dolce morte».
IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA - AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 novembre 2008
Ci sarà modo nei prossimi giorni di approfondire la valenza propriamente giuridica della sentenza della Cassazione sul 'caso Eluana'. Avremo modo di verificare se l’agonia cui Eluana appare ormai irrimediabilmente condannata sarà paragonabile a quella, atroce per la sua lunghezza, di Terry Schiavo. Per ora limitiamoci a richiamare le obiettive ricadute biogiuridiche e soprattutto bioetiche di questa sentenza. Ribadisco: bioetiche e non teologiche, non dogmatiche, non spirituali, non religiose. Non perché queste ricadute non ci siano (anzi, sono le più importanti), ma perché prima di approdare al piano della teologia e della spiritualità abbiamo il dovere, come cittadini di una società laica e pluralista, di soffermarci e di ragionare pacatamente sul piano della comune ragione umana, quel piano che tutti ci accomuna, credenti e non credenti, quel piano che i magistrati di Cassazione hanno obiettivamente offeso. A seguito dell’iter processuale cui questa sentenza sembra aver posto fine è stato introdotto in Italia un principio che non solo non appartiene alla nostra tradizione giuridica, ma che ripugna alla logica stessa del diritto: quello della disponibilità della vita umana e soprattutto della vita umana malata. In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia, senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome. Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un 'trattamento', ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina. E comunque, il solo fatto che esista l’opinione diffusa, anche tra autorevoli medici e scienziati, secondo cui alimentare e idratare un malato in stato vegetativo è una forma primaria di sostegno vitale e non una terapia in senso stretto, avrebbe dovuto indurre tutti (e i giudici di Cassazione in primo luogo) ad adottare un criterio interpretativo restrittivo e non estensivo dell’articolo 32, 2° comma, della Costituzione, che riconosce sì al paziente, come ormai a tutti è noto, il diritto di rifiutare trattamenti sanitari coercitivi, ma non gli dà il diritto di disporre della propria vita.
Continueremo a sentirci ripetere che con questa sentenza si è reso omaggio alla volontà di Eluana. A parte il fatto che la Cassazione ha ritenuto accettabili, per fornire la prova di tale volontà, testimonianze e indicazioni sullo stile di vita della povera ragazza che sarebbero ritenute risibili ove si dovesse accertare una volontà testamentaria di tipo patrimoniale (ma la vita non conta più del denaro?), si deve instancabilmente ribadire che l’autodeterminazione non può avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile come quella della morte. È la vita, infatti, e non la morte l’orizzonte nel quale si colloca il diritto. Se diciamo no alla pena capitale, non è perché riteniamo che non sia possibile che esistano criminali che la meritino, ma perché è atroce che attraverso una condanna giudiziaria il diritto si faccia strumento di morte. La Cassazione, probabilmente con serena inconsapevolezza, a tanto invece è giunta. E ancora. Confermando che al padre di Eluana va riconosciuto il potere di ordinare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della figlia, la Cassazione ha alterato irrimediabilmente la figura del tutore, cioè di colui cui il diritto affida il compito di tutelare soggetti fragili, deboli, incapaci, inabilitati, interdetti, alla condizione però di agire sempre e comunque nel loro esclusivo interesse. Condannandola a morire di inedia, il tutore non solo sottrae a Eluana il bene della vita, ma soffoca ogni sia pur minima speranza di poter fuoriuscire da uno stato, come quello vegetativo, che non a caso la scienza definisce 'permanente', non 'irreversibile'. Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritenere ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate. Non è così che si rende omaggio alla verità. Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità. È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita. Che il signor Englaro, e con lui i magistrati che hanno avallato le sue richieste, abbiano perso questa nobile e antica consapevolezza, prima che suscitare critiche o sdegno suscita un profondo dolore.
ETICA E GIUSTIZIA - il fatto «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona - «Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo» - Il neurologo Dolce: si prepara l’eutanasia su una persona indifesa – DI PAOLO LAMBRUSCHI - Avvenire, 14 novembre 2008
Forse una speranza c’è ed è contenuta in un appello a Strasburgo per far rispettare il diritto alla vita in Italia. Non si perde certo d’animo Giuliano Dolce, 80 anni, neurologo di fama internazionale, direttore scientifico del «Sant’Anna» di Crotone e presidente dell’associazione di bioetica Vive. Anzitutto è determinato a denunciare il medico che staccherà il sondino nasogastrico che alimenta Eluana e il direttore sanitario della struttura o dell’Asl che ospiterà la giovane in stato vegetativo «perché negli ospedali pubblici italiani si va per farsi curare, non per venire uccisi». E, insieme a 34 associazioni, annuncia un ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro la sentenza che, per la prima volta, autorizza la morte di una cittadina italiana.
Professore, dunque assisteremo nei prossimi giorni a un altro calvario come quello dell’americana Terri Schiavo?
«Precisamente. Si prospetta purtroppo un’agonia lunga perché Eluana è giovane ed è stata assistita bene in questi anni dalle suore di Lecco. Siamo davanti a una situazione paradossale. Questa persona, che oggi vive senza l’aiuto di farmaci e macchinari, può essere uccisa levandole il sondino che la alimenta. Non c’è accanimento terapeutico su di lei, i sanitari infatti la nutrono come è loro dovere. Invece la magistratura italiana, a dispetto delle convenzioni internazionali, ritiene che nutrire una persona al massimo grado di disabilità sia un atto terapeutico e non un atto dovuto. Ora, per non infliggerle le sofferenze della disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle farmaci. Si finirà così con il curarla per farla morire 'bene'.
Ma questa non è eutanasia, pratica vietata in Italia?
«Sì ed è una forma di eutanasia crudele, per giunta, perché prolungata e praticata su una persona indifesa che potrebbe vivere almeno altri 16 anni in stato vegetativo e non su un malato terminale.
Che non ha lasciato neppure un ipotetico testamento biologico, facendo sapere che rinuncia volontariamente a ogni forma di alimentazione».
Eppure Riccio, l’anestesista che ha aiutato a morire Welby, garantisce che non soffrirà, poiché è priva di coscienza...
«E allora ci spieghi perché sedarla e perché i giudici milanesi, nella sentenza dello scorso giugno, hanno prescritto minuziosamente i dettagli da seguire per arrivare alla morte. Già che c’è, questo signore mi spieghi anche come può un medico togliere l’alimentazione a un paziente. Oggi Eluana vive grazie a mille calorie fornitele quotidianamente da un liquido che ha il color del latte e che è ricco di minerali, grassi e zuccheri. Ma se frullassero del cibo e glielo fornissero, potrebbe assumerlo.
Morirà di fame e di sete, inutile trovare eufemismi».
Qualche tempo fa alla donna, che oggi ha quasi 38 anni, è tornato il ciclo mestruale. Qualcosa sta avvenendo nel suo stato vegetativo?
«Scientificamente non vi è alcuna correlazione. Ma è altrettanto vero che generalmente negli stati vegetativi il ciclo ritorna dopo pochi mesi, non ho mai sentito di un ciclo che ritorna dopo quasi 17 anni. È un caso unico, a mia memoria.
Significa che qualcosa è successo nell’ipofisi e nell’ipotalamo di Eluana. Questo non vuol dire, però, che potrebbe riprendere coscienza. Avanzo un’ipotesi suggestiva di carattere psicanalitico: non avendo altre forme di comunicazione, forse ha voluto avvertirci con il suo corpo che non vuole morire. Ma è solo l’ipotesi di un vecchio medico che da mezzo secolo sta in corsia accanto a chi vive in stato vegetativo».
In questi mesi lei, con tanti altri, si è battuto perché non finisse così. Come ha reagito alla sentenza?
«Non è una vittoria, come hanno detto i legali del padre e neppure una sconfitta dell’associazionismo e del mondo medico scientifico contrario a far morire la giovane. La Cassazione non si è pronunciata ed è stata, a mio avviso, una scelta pilatesca dei giudici perché si sono appellati a un vizio di forma. Non è cambiato nulla rispetto allo scorso luglio, il padre poteva decidere di togliere il sondino ieri come potrà farlo domani.
Piuttosto, il loro problema è dove trovare un posto 'adatto', come dice la sentenza ad ospitare Eluana per morire.
Non l’hanno trovato in Lombardia, in Piemonte, neppure nelle regioni laiche come Emilia e Toscana. Siccome si dice che andrà all’ospedale civile di Udine, in Friuli, mi risulta che una struttura pubblica non possa ospitare una persona, un cittadino della Repubblica, per farla morire anziché curarla. Quindi, sono intenzionato a denunciare i sanitari e i dirigenti che permetteranno che la donna muoia. E non è l’unica cosa che faremo».
Quali altre iniziative avete progettato?
«Oggi stesso presenteremo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Oltre all’associazione Vive, abbiamo il sostegno di 33 realtà tra cui la Federazione nazionale trauma cranico. Abbiamo qualche speranza, i requisiti per accogliere d’urgenza il ricorso ci sono tutti. Non ci illudiamo, ma la Corte europea potrebbe ancora fermare tutto e riaffermare il diritto di questa donna ad essere nutrita».
Su cosa si fonda il ricorso?
«Noi rappresentiamo chi si prende cura dei 30 mila pazienti in stato vegetativo e riteniamo che con la sentenza di ieri l’Italia abbia violato diversi trattati internazionali. Uno su tutti, la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006. Eluana dal punto di vista medico è una persona in stato vegetativo persistente ed è clinicamente guarita, ma in maniera imperfetta ed è affetta da disabilità al massimo grado. La convenzione, sottoscritta dall’Italia un anno fa, le garantisce, in un comma dell’articolo 25, il diritto ad assumere cibo e fluidi. Purtroppo i giudici milanesi ignoravano tutto ciò e anche quelli della Cassazione. Bisogna allora andare fuori dai nostri confini per chiedere di riaffermare il suo diritto alla vita. E anche per tutelare migliaia di persone in stato vegetativo. Perché questa sentenza rischia di fare da apripista ad altre, può mettere migliaia di vite inermi come la sua su un piano inclinato e farle scivolare verso la morte perché un giudice ha stabilito che non sono degne di vivere».
«Non c’è accanimento terapeutico, i sanitari che la nutrono fanno il loro dovere Inutile usare eufemismi, togliendo il sondino morirà di fame e di sete» «Per non infliggerle le sofferenze legate alla disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle dei farmaci Così si finirà con il curarla per farla morire 'bene'»
il medico - Maltoni dell’hospice di Forlì: un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici Chi dice che Eluana non sente nulla, è vittima di un’ideologia - Così molte vite sono a rischio - DI FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 14 novembre 2008
È triste e amareggiato Marco Maltoni, primario dell’Unità di cure palliative dell’Ospedale Pierantoni di Forlì. Triste, perché quella di Eluana Englaro è una «vicenda drammatica da cui tutti usciamo sconfitti». Amareggiato perché lui, come molti suoi colleghi italiani che praticano la medicina palliativa in hospice, i malati che vanno verso la morte li cura fino all’ultimo istante assicurando loro assistenza e dignità. E per questo dice no alla possibilità che proprio in hospice Eluana viva i suoi ultimi giorni.
La Cassazione ha dato il via libera all’interruzione di idratazione e alimentazione ad Eluana: qual è la sua prima reazione a questa notizia?
Una reazione di tristezza, di paura, e di rabbia allo stesso tempo. Penso a tutti i pazienti nelle condizioni di Eluana, ai pazienti oncologici inguaribili, alle persone dementi, agli anziani fragili, ai sofferenti psichici. E a tutti quelli che tenacemente, amorevolmente, fedelmente, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, li stanno assistendo. Oggi sono tutti un pochino più esposti, meno garantiti, meno “di valore” perché c’è chi li ha giudicati meno umani di quelli che stanno bene. Ma c’è anche chi continuerà a riconoscerli come l’espressione più alta, ancorché misteriosa, di un’umanità degna di essere accudita da una responsabilità affezionata.
Pensa allora che questa sentenza non possa che fare giurisprudenza?
A questa domanda a caldo non posso rispondere, non lo so. Ma so che cosa potrebbe succedere anche tra i nostri malati, grazie alla valenza “pedagogica” di ogni sentenza: l’eco mediatica del caso Englaro è stata talmente tale e tanta che un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici. E magari, anche in contesti in cui sia possibile garantire una buona qualità della vita fino agli ultimi giorni, potrebbe farsi strada una richiesta di abbandono della cura per una scelta frutto di una resa, piuttosto che un comune affronto di un naturale corso delle cose.
Questi rischi da chi ha sollevato tutto il polverone sono stati valutati?
Tra le prime reazioni a caldo dei medici c’è quella di Mario Riccio, l’anestesista tristemente famoso per aver staccato il respiratore a Piergiorgio Welby. Dice che: «Eluana non soffrirà né la fame né la sete, perché non ha nessuna sensazione, né può provarla».
Cosa ribatte a questa affermazione da esperto?
Tutti i dati più recenti ci dicono che il livello di consapevolezza dei pazienti in stato vegetativo persistente, anche se variabile, non è certo nullo. Purtroppo non vi sono elementi per credere che questa morte procurata per fame e per sete sia indolore. La letteratura internazionale non sa dircelo ... ma nemmeno le evidenze profane lo potrebbero affermare. Ricordo la testimonianza a questo proposito di un sacerdote presente alla morte di Terry Schiavo, il quale era convinto, in base a quello che vedeva che stesse provando dolore: se non si sa nulla come si fa a dirlo con certezza?
Come morirà Eluana?
È molto probabile che il destino che attende questa giovane donna sia quello di un progressivo processo di sofferente inedia e disidratazione. La situazione è talmente difficile e misteriosa che un prudente accudimento non avrebbe mai e poi mai potuto essere sostituito da un violento intervento attivo di interruzione di supporto vitale. Chi afferma con sicurezza che Eluana non sente nulla è vittima di una ideologia non confermata dai fatti.
Che cosa pensa rispetto alla possibilità che questa
sentenza di morte venga eseguita in una struttura simile alla sua, un hospice, come dispone la sentenza?
Mi atterrisce sia l’idea che Eluana venga fatta morire nel modo di cui abbiamo parlato, sia quella che qualcuno venga coinvolto per rendere farmacologicamente più tollerabile il processo di morte, divenendo in certo qual modo corresponsabile. Non si rimedia una situazione che depone per un arbitrio del più forte sul più debole. L’hospice e le cure palliative, comunque, sono fatti per la cura della vita fino all’ultimo istante. Si cerchino altrove i luoghi di morte, in hospice c’è affettuosa e premurosa assistenza.
Imputato: il diritto alla vita - di Riccardo Cascioli - Una potente lobby internazionale ha scelto come strategia le iniziative giudiziarie per imporre ai singoli Paesi la legalizzazione di aborto, eutanasia ed unioni omosessuali. Dall’America Latina all’Europa sempre più spesso i giudici scavalcano governi e parlamenti su questo tema. Un orizzonte da tenere presente nel dibattito italiano sul “fine vita”. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
«Alla legge, alla legge», è il grido che si è alzato dopo la sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre 2007 e della Corte di Appello di Milano del luglio 2008 sul caso Eluana Englaro che, di fatto, aprono la porta all’eutanasia. La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso della giovane lecchese in coma dal 1992 in seguito a incidente stradale e alimentata con un sondino, ha detto che questo si può staccare a due condizioni: se lo stato vegetativo è irreversibile, cioè se la scienza medica stabilisce che Eluana non potrà mai tornare indietro, e se si accerta che lei non avrebbe mai accettato sostegni vitali per vivere in condizioni simili, preferendo piuttosto morire. La Corte di Appello di Milano ha poi decretato che nel caso di Eluana le condizioni ci sono. Da qui la scelta, anche della Conferenza episcopale italiana, di invocare un intervento legislativo in modo da evitare la deriva dell’eutanasia.
La scelta non è stata indolore e numerose sono state le polemiche e i dibattiti al proposito tra chi difende il diritto alla vita, cattolici e non.
Non vogliamo qui entrare nel cuore della discussione sui contenuti di una eventuale legge sul “fine vita” (come la chiamano il presidente delta Conferenza episcopale italiana, card. Angelo Bagnasco e il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella) o sul “testamento biologico”, come la chiamano un po’ quasi tutti gli altri.
Vogliamo invece affrontare la questione da un’angolazione diversa, iniziando dall’atto che ha dato il via al dibattito, ovvero la sentenza della Cassazione, sono stati in molti a stigmatizzare questa invasione di campo del giudici che con il pretesto dell’interpretazione — di fatto ridisegnano la legge a modo toro saltando il Parlamento, espressione della volontà popolare e unico organo legittimato a decidere le leggi.
La domanda che dobbiamo porci allora è: possiamo ritenere questa “invasione di campo” un semplice incidente? O è parte di una strategia più ampia per forzare le leggi e imporre in questo modo princìpi e norme che attraverso la volontà popolare non passerebbero così facilmente?
Sicuramente in Italia dai tempi di Tangentopoli assistiamo a un continuo tentativo del potere giudiziario sostituirsi al potere politico, e questo ha senza dubbio creato un’abitudine, un’inclinazione. In questo caso, il discorso sarebbe più o meno questo: “Visto che di testamento biologico ed eutanasia si parla tempo ma in Parlamento non si arriva a nulla, ci pensiamo noi con una bella sentenza, che diventa un precedente per tutti i casi analoghi”. In fondo si tratterebbe di un incidente dovuto a una anomalia tutta italiana.
Per verificare la correttezza di questa ipotesi è necessario confrontare ciò che sta avvenendo nel nostro Paese con ciò che avviene altrove. Ed è allora che scopriamo che a livello internazionale già da anni opera una potente ed efficace lobby contro la vita che ha scelto la via giudiziaria per scardinare le legislazioni nazionali che ancora resistono alla cultura della morte. Il massimo dello sforzo si concentra sull’aborto, che si vuole “promuovere” a diritto umano universale, ma per l’eutanasia la strada non è diversa. Senza contare che se davvero l’aborto venisse riconosciuto quale diritto fondamentale, lo stesso principio dell’autodeterminazione si applicherebbe tale a quale all’eutanasia.
Ad esempio, negli Stati Uniti ha sede una organizzazione, The Center for Reproductive Rights (CRR), che può contare sull’apporto di decine e decine di avvocati che studiano sia la singole legislazioni nazionali sia le convenzioni internazionali al solo scopo di trovare i cavilli che permettano di forzare le leggi e di fornire le interpretazioni “corrette” ai documenti firmati dai governi sotto l’egida dell’ONU. Il CRR è collegato a numerose organizzazioni non governative nazionali che si avvalgono della sua consulenza: obiettivo principale sono le legislazioni dell’America Latina — che ancora sono le più favorevoli alla vita — ma il CRR ha avuto una parte importante anche nella prima stesura delta Costituzione del neonato stato del Kosovo, dove si cercava di introdurre in modo subdolo sia l’aborto sia il matrimonio omosessuale. Solo pochi mesi fa, in marzo, il CAR ha pubblicato un documento (“Bringing Rights to Bear”, fare dei diritti una realtà) in cui intende dimostrare che, in base a una sane di raccomandazioni fatte dalle Commissioni ONU, i singoli Paesi sarebbero obbligati a legalizzare l’aborto in quanto parte degli impegni giuridici internazionali sottoscritti.
Il CRR, creato nel 1992, è da sempre in prima linea nel condurre una strategia “mascherata” per ridefinire il diritto alla vita, ma è soprattutto dopo la metà degli anni ‘90 che la sua azione ha moltiplicato la propria efficacia. Il motivo e soprattutto nel fatto che l’azione del CRR diventava strategica per un gruppo di agenzie dell’ONU che, dopo le Conferenze internazionali del Cairo (sulla popolazione, 1994) e di Pechino (sulla donna, 1995), aveva deciso una strategia per integrare l’ideologia radicale nel diritto internazionale in materia di diritti umani (della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ai trattati più recenti). Tale strategia è il risultato di una conferenza tenutasi nel dicembre 1996 a Glen Cove, New York, organizzata da Fondo Onu per la Popolazione (UNFPA), Alto Commissariato per i Diritti umani e Divisione Onu per la Promozione della Donna (DAW). Tutti i dettagli di questo incontro e della strategia messa in atto si possono leggere in un interessante libro bianco pubblicato dal Catholic Family and Human Rights Institute (scaricabile dal sito dell’istituto www.c-fam.org) dal titolo “Rights by Stealth”. Ciò che è comunque importante sapere è che in questa strategia è fondamentale il ruolo delle organizzazioni non governative che in ogni Paese si incaricano poi di pressare governi e parlamenti, anche attraverso iniziative giudiziarie. L’America Latina è piena di esempi al proposito e non solo per quel che riguarda l’aborto: basti ricordare che in Colombia l’eutanasia è stata introdotta da una sentenza della Corte Costituzionale undici anni fa malgrado la forte opposizione sociale. Tanto che soltanto in questi mesi il Parlamento sta dando seguito a quella sentenza con una legge che, al momento in cui scriviamo, attende l’approvazione definitiva in Parlamento.
La stessa strategia viene seguita nell’ambito dell’Unione Europea, come ad esempio nel tentativo di eliminare la possibilità dell’obiezione di coscienza del personale sanitario in materia di aborto (cfr. Il Timone, n. 51, pp. 18-19) o di imporre la legalizzazione dei matrimoni omosessuali.
Se questo è l’orizzonte in cui ci si muove, appare evidente che se ne debba tenere ben conto in Italia nel momento in cui si propone una legge sul fine vita. Non c’è dubbio che qualsiasi minimo cedimento nella direzione voluta dalla succitata lobby non potrà che incoraggiare altre iniziative giudiziarie e rafforzare il “partito della morte”.
® Il Timone
Il Decalogo nero dell’ideologia anti-life - di Tommaso Scandroglio - Una strategia nichilista per far accettare le pratiche contro la vita: dall’aborto all’eutanasia, dalla Fivet alle sperimentazioni embrionali. Un compendio in dieci punti degli elementi essenziali della cultura di morte. Un «segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (Evangelium vitae, n. 58). [Da «Studi Cattolici» n. 569/70, luglio-agosto 2008]
Pirandello era dell'opinione che la vita fosse regolata dal caso. Tommaso d'Aquino gli avrebbe risposto che solo alcune cose avvengono per caso ma non tutte (1). Tra queste ultime con sicurezza devono essere annoverate quelle sconfitte culturali e giuridiche subite, a livello nazionale e non, nel campo della bioetica e più in generale in quello della morale naturale. Aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, contraccezione, divorzio, riconoscimento giuridico delle convivenze comprese quelle omosessuali, legalizzazione della cannabis, et simìlia sono realtà su cui già si è legiferato - o si ha intenzione di farlo - oppure sono fenomeni ampiamente accettati dal sentire comune. Ma come si è arrivati a questo punto? Per caso? No di certo. Infatti per raggiungere simili risultati occorre una strategia coerente e ben strutturata. Proviamo ora a vedere quali sono gli elementi di questa strategia, una sorta di decalogo nero che disconosce le verità fondamentali sull'uomo (2).
1. Un passo alla volta. È la soluzione tattica più frequentemente usata, dagli effetti assai perniciosi e su cui perciò ci soffermeremo un poco più a lungo. Parte da una costatazione evidente: la vetta si conquista pian piano, metro per metro. Di questo sono ben coscienti coloro che vogliono sovvertire l'ordine naturale del creato. Si tratta della famosa teoria del piano inclinato. Provate a mettere una biglia su un piano inclinato: questa all'inizio si muoverà lentamente ma poi acquisterà sempre più velocità. Tale principio è rinvenibile nella legge 194 che permette l'aborto procurato.
Se si legge con superficialità tale norma, l'aborto risulta essere l’extrema ratio, l'ultima spiaggia, e non la prima soluzione a cui ricorrere per chi affronta una gravidanza indesiderata. Il fronte pro-choice in modo furbesco ha convinto un po' tutti che è lecito abortire solo dopo aver percorso obbligatoriamente un iter che prospetta alla donna una serie efficace di alternative per ovviare alla scelta abortiva: non riconoscere il figlio, chiedere aiuto per mezzo dei consultori agli enti locali e non, obbligo dei consultori di rimuovere tutti quegli ostacoli, di qualsiasi natura essi siano, che possano impedire la nascita del bambino, ecc.
Purtroppo la maggior parte di tali oneri vengono in essere solo se la donna si rivolge ai consultori. Se invece, come accade il più delle volte, si reca da un medico di fiducia (non necessariamente il medico di famiglia) o presso una struttura socio-sanitaria, molti di questi adempimenti evaporano. Così ai nemici della vita è bastato dipingere nella 194 la possibilità di abortire come ultima chance, o meglio: farla percepire alla gente come tale, ben sicuri che in poco tempo da ultima opzione si sarebbe trasformata in quella privilegiata, mutando poi gli eventuali obblighi di legge in mere formalità da trascurare.
È anche ciò che sta accadendo per il dibattito sull'eutanasia: molte forze progressiste hanno proposto progetti di legge in cui non si fa menzione esplicita della possibilità di ricorrere all'eutanasia ma si propone solo lo strumento del testamento biologico. Questo sarà il primo passo, la testa di ponte per avere l'eutanasia a tutti gli effetti. Così ha previsto Piergiorgio Welby nel suo Lasciatemi morire (3). Ecco infatti gli steps che egli suggerisce per arrivare alla legalizzazione della dolce morte. Avere una legge sul testamento biologico (fase giuridica); assegnare alla Commissione Sanità lo studio degli aspetti legati a nutrizione e idratazione (fase medica); indagine sull'eutanasia clandestina (fase sociologica); formare i medici (fase pedagogica); legge sull'eutanasia (fase finale giuridica).
L'effetto domino - fai cadere una tessera e cadranno tutte le altre — è ben riscontrabile in questa materia fuori dai confini del nostro Paese, dove sono venuti in essere scenari realmente inquietanti. In Olanda la depenalizzazione dell'eutanasia risale al 1993. Dieci anni dopo, nel giugno 2003, la prestigiosa rivista scientifica Lancet ci comunica che il 2,6% dei certificati di morte redatti in Olanda nell'anno 2001 erano da addebitarsi ad atti eutanasici (3.647 persone) di cui lo 0,7% senza consenso del paziente (982 persone).
Come vuole la logica del «un passo dopo l'altro» l'ordinamento giuridico del Paese dei tulipani cercò apparentemente di mettere riparo alla situazione rendendo lecite nel 2001 le pratiche eutanasiche ma nel rispetto di rigorose condizioni. Tale legge infatti prevedeva per la richiesta di volontaria soppressione una serie di requisiti - i famigerati paletti tanto invocati anche da molti politicanti nostrani -così stringenti e severi che parevano a prova di bomba: soggetto cosciente e maggiorenne, volontà reiterata, firma di due medici, stadio terminale, solo per atroci sofferenze e senza prospettive di miglioramento. Passa qualche anno ed Eduard Verhagen, autore del protocollo Groningen sull'eutanasia infantile in Olanda ci informa dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 marzo 2005 che questi paletti sono saltati tutti: su 1.000 bambini che muoiono in un anno, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica.
Libido di morte
La libido di morte è poi di per sé diffusiva, ed è aiutata anche da una prassi abortiva che in Europa ha assunto i toni della normalità. Infatti all'inizio di quest'anno il Sunday Times rendeva nota un'intervista a John Harris, medico inglese, professore di bioetica dell'Università di Manchester, membro della Commissione governativa Human Genetic, il quale si domandava retoricamente perché possiamo uccidere il feto malformato e non un neonato malformato. Sulla stessa scia omicida si pongono i recenti pareri del Royal College di Ostetricia e Ginecologia e del Nuffield Council on Bioethics.
Il primo propone l'eutanasia attiva per i neonati disabili, così si risparmiano ai parenti shock emozionali e dissesti finanziari, affermando che una bambino disabile è una famiglia disabile (4).
Il secondo suggerisce per i prematuri nati sotto la 23a settimana la non assistenza perché hanno poche possibilità di salvezza. Proposte a cui fa eco la decisione della ginecologa Giovanna Scassellati del San Camillo di Roma, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza, la quale ha affermato che nel suo reparto chi decide per un aborto tardivo firma un «consenso informato» per non far rianimare il piccolo, qualora sopravvivesse (5).
Insomma: provocate una fessura nella parete di una diga e prima o poi crollerà la diga intera. Lo scivolamento verso il basso e sempre più accelerato è ben visibile nelle tecniche di fecondazione artificiale. Nate in principio per soddisfare il desiderio del figlio si sono trasformate ben presto in strumenti per soddisfare le voglie di maternità di donne single o appartenenti a coppie lesbiche, oppure di vedove che possono utilizzare gameti del marito morto da una dozzina di mesi (si veda per questi ultimi tre casi per esempio la legislazione in Spagna [6]).
Poi si sono involute in tecniche per l'uccisione di embrioni al fine di trovare improbabili terapie per malattie a oggi incurabili, magari attraverso la cosiddetta clonazione terapeutica come avviene sempre in terra iberica (7). E infine in mezzi per creare mostri. Infatti all'inizio del settembre 2007 la Hfea, forse la massima autorità di bioetica inglese, si era dichiarata favorevole alla creazione di ibridi attraverso un procedimento di clonazione: ovocita di mucca con all'interno Dna totalmente umano.
Il risultato sarebbe un essere (umano?) con il 99,9% di patrimonio genetico umano e una minima frazione di percentuale, lo 0,01%, di patrimonio genetico animale (8). «Percentuale variabile di umanità» si legge sulla prima pagina de Il Foglio di mercoledì 5 settembre. Trascorrono pochi mesi e nel maggio 2008 il Parlamento inglese ha votato a favore degli ibridi umano-animali. Anche riguardo allo snaturamento dell'istituto matrimoniale si è scelto di procedere con prudenza. Grillini nel luglio 2002 fu il primo firmatario di una proposta di legge (9) che prevedeva sic et simpliciter il matrimonio omosessuale.
Resosi conto che i tempi erano prematuri per un simile passo si risolse a chiedere successivamente forme attenuate dello stesso, cioè il riconoscimento delle convivenze anche per gli omosessuali. Infatti così lo stesso Grillini motiva la sua strategia nella Proposta di legge denominata «Disciplina dell'Unione affettiva» dell'aprile 2003 (10): «Si è [...] ritenuto di optare per un criterio gradualistico e realistico (tale cioè di rendere realistica la possibilità che la proposta di legge venga presa in seria considerazione, e che essa non possa anzi essere ignorata o accantonata)».
2. Chiedi 100 per ottenere 50. È una strategia opposta alla precedente. Nel suo enunciato è semplice: se chiedi molto qualcosa avrai. Così le forze politiche, che oggi si ha il vezzo di chiamare «della sinistra radicale», al tempo della legalizzazione dell'aborto procurato chiedevano che si potesse interrompere la gravidanza sempre e comunque. I cattolici, almeno quelli veri, si opponevano all'aborto, in modo esattamente speculare, sempre e comunque. Il legislatore si pose nel mezzo cercando, con malcelato spirito liberale, di accontentare tutti o scontentare tutti: aborto sì, ma a certe condizioni. Stessa idea è oggi perseguita dai radicali per il dibattito sul testamento di fine vita: chiedono l'eutanasia per avere perlomeno il Dat, le dichiarazioni anticipate di trattamento. Si possono rintracciare i segni di questa particolare tattica culturale anche nelle affermazioni dell'onorevole Fassino pronunciate nella puntata dell'8 febbraio 2006 di Otto e mezzo il quale ammise che se non fossero divenuti legge i Pacs forse era sperabile che perlomeno i Contratti di convivenza solidale proposti da Rutelli potessero passare perché forma meno radicale rispetto ai primi.
Normale = giusto
3. Rendere lecito ciò che accade nella prassi. Se un comportamento è diffuso nei costumi delle persone vuoi dire che è normale, quindi giusto (11). Se è giusto sotto il profilo morale allora non si vede la ragione per non renderlo lecito dal punto di vista giuridico. Il sillogismo per nulla aristotelico è stato applicato molte volte nel passato e suggerito spesso nel presente. L'aborto e l'eutanasia clandestina, le separazioni di fatto all'interno dei nuclei familiari, l'uso di droghe erroneamente definite leggere, la diffusione della convivenza prematrimoniale, il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale, legittimano di per sé il parlamentare a produrre norme per rendere lecito ciò che è già presente come comportamento tra la gente, o supposto come tale.
L'ottica perversa attraverso la quale si vuole avere una legge afferma che è sicuramente buono ciò che accade (12). Lo Stato quindi non sceglie più quali azioni punire o semmai tollerare perché lesive del bene comune, ma semplicemente prende atto di «come vanno le cose», registra le condotte degli individui e quando queste raggiungono un numero rilevante non può che legittimarle con tanto di carta bollata. Il ragionamento è diventato verità dogmatica soprattutto riguardo alla fecondazione artificiale. Quante volte infatti abbiamo sentito o letto che la legge 40 poneva ordine in una situazione da «far west» e quindi era da salutarsi come una buona legge?
Pochi sono stati coloro che hanno invece obiettato che di fronte alle pratiche diffuse della procreazione artificiale l'opzione della legittimazione della stessa non era lecita moralmente dovendo il legislatore all'opposto vietarla (13). I costumi però mutano negli anni, o, come si sente spesso ripetere, se i tempi cambiano, cambia anche la morale. È di questo avviso Grillini che nella seduta del 21 luglio 2005 della Commissione Giustizia fa intendere che la Costituzione non parla esplicitamente di coppie conviventi dato che il fenomeno sociale era pressoché inesistente. Oggi invece essendo le convivenze numericamente più diffuse lo Stato non può far altro che tutelarle giuridicamente.
Seguendo dunque la logica che sono le condotte diffuse nella società a dettar legge è doveroso domandarsi a quando la legalizzazione di furti e omicidi, dato che — a quanto ci risulta — sono assai diffusi?
4. Rispettare l'opinione della maggioranza. In regime di democrazia l'unica voce che conta è quella del popolo, e poco importa che questo spesso, ma non sempre, sia bue. Caso paradigmatico in questo senso è quello della legge spagnola n. 35/88 in tema di tecniche riproduttive che parla di «un'etica di carattere civico o civile con attenzione al consenso sociale vigente». Ed ecco allora per suffragare le proprie decisioni politiche snocciolare i dati di sondaggi i quali con previdenza non possono che portare acqua al proprio mulino. Per citare uno tra i tanti casi, facciamo riferimento a un'indagine svolta dall'Eurispes su eutanasia, accanimento terapeutico e testamento biologico, svolta tra metà novembre e metà dicembre 2006.
Ben il 74% degli italiani intervistati si mostrava favorevole all'eutanasia. Peccato che la domanda fosse equivoca, potendo essere interpretata dall'uomo della strada sia come rifiuto a trattamenti che configurerebbero l'accanimento terapeutico, sia come accettazione di pratiche eutanasiche (14) Peccato poi che il sondaggio si svolse proprio nel periodo in cui il caso Welby era caldissimo, influenzando molto le risposte, date sull'onda emotiva delle immagini di Welby sofferente che milioni di italiani vedevano quotidianamente in Tv o sui principali giornali nazionali. Infatti proprio un anno prima era stata condotta un'indagine simile dando risultati ben diversi: solo 4 italiani su 10 si mostravano favorevoli alla dolce morte.
Senza contare il fatto che i dati delle ricerche vanno resi pubblici unicamente se sono di conforto alle proprie tesi. Nella bufera sui Dico di circa un anno fa, ben pochi organi di informazione resero noto che, secondo un sondaggio della società Codres di Roma (febbraio 2007), su 1.000 intervistati solo il 6% riteneva i Dico una questione importante. Tale risultato faceva da riscontro al dato della sparuta percentuale del 3,9% delle coppie di fatto che hanno voluto la registrazione della propria situazione di convivenza nel Registro delle Unioni civili, già esistente in alcuni comuni italiani così come previsto da una legge del '90 (15).
Ma se il destro non può venire dai sondaggi, rimangono sempre i referendum su cui fare affidamento. Quelli persi su divorzio e aborto vengono sempre citati per sostenere la tesi che «così vuole il popolo». Quello invece riguardante la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, disertato da più del 70% dell'elettorato, chissà perché è già caduto in prescrizione. Insomma pare proprio che la maggioranza debba essere ascoltata solo se la pensa come il politico progressista.
5. Sfruttare l'emozione del caso limite. È la ragione che è deputata a determinare quali atti sono leciti o illeciti sotto il profilo morale. Non il sentimento. Far leva sulle emozioni è invece una strategia furba e iniqua. Argomentare che l'aborto volontario è sempre iniquo comporta passaggi logici complessi e spesso lunghi. Raccontare invece la storia di una donna violentata che ha scelto di abortire porta molti più consensi e più velocemente. Spiegare le differenze tra atti eutanasici e accanimento terapeutico è laborioso, sbattere in prima pagina il viso gonfio e privo di espressione di Welby invece cattura più facilmente l'attenzione del telespettatore e lo recluta all'istante tra le file dei filo-eutanasici.
È inutile poi domandarsi perché solo alcuni casi pietosi hanno i meriti sufficienti per avere gli onori della ribalta. Che dire infatti di quel gruppetto di pazienti affetti dalla stessa malattia di Welby che nel settembre del 2006, mentre quest'ultimo scriveva a Napolitano, furono portati in barella davanti alla sede del Ministero della Sanità chiedendo non di morire ma più soldi per la ricerca? Che dire del professor Melazzini, primario oncologo, anch'egli colpito da sclerosi laterale amiotrofica, che muove solo tre dita e vuole continuare a vivere? Anche in questo caso i media hanno assunto come propria la regola del «due pesi e due misure».
Una specialità dei radicali
6. Mentire. È un trucco che si impara fin da piccoli. Il problema diventa serio quando tale comportamento viene assunto da persone adulte, con responsabilità pubbliche e su temi importanti. La menzogna è una specialità propria dei radicali. Ancor oggi è possibile ascoltare qualche loro esponente il quale asserisce con sicumera che grazie alla 194 gli aborti clandestini sono diminuiti del 79%. Questo è un clamoroso autogol. Infatti come si può sapere con tale precisione a quanto ammontavano, o a quanto ammontano, gli aborti clandestini dato che sono clandestini e che quindi non esistono documenti, carte o testimonianze le quali ci potrebbero fornire qualche numero a riguardo? Senza poi tenere in considerazione il fatto che all'anno vengono celebrati nel nostro Paese dai 30 ai 50 processi per aborto clandestino.
Segno inequivocabile che il numero di interventi praticati in strutture non idonee è assai più rilevante che 30 o 50, dato che si finisce davanti a un giudice solo se qualcosa è andato storto. È insomma una prova indiretta che la 194 è ben lungi dall'aver eliminato il fenomeno delle interruzioni delle gravidanze «al buio». Falsa è anche la cifra di 25.000 donne che ogni anno morivano per aborto clandestino prima della 194. Se il numero di aborti clandestini non si può contare, non così avviene per il numero di donne che muoiono nell'arco di 12 mesi.
È bastato andare a vedere le statistiche sulle cause di morte e si è scoperto che la mortalità femminile annua, delle donne in età fertile, negli anni Settanta era attestata sui 10.000-15.000 decessi, provocati non solo dall'aborto ma a seguito di qualsiasi altro fattore quali malattie, incidenti, omicidi, ecc. Menzognera è infine l'affermazione che la legalizzazione dell'aborto ha causato una diminuzione delle richieste di interrompere la gravidanza. Si affermava che prima del 1978, anno in cui fu approvata la legge 194, si praticavano 3.000.000 di aborti, quando invece nel primo anno di applicazione della legge si arrivò alla cifra di 187.000. È ben difficile immaginare che nel giro di un solo anno si sia passati da 3 milioni di aborti a 187.000, soprattutto per il fatto che prima della 194 l'aborto era reato e poteva prevedere anche la reclusione.
L'escamotage della menzogna è stato usato con successo anche nell'attuale battaglia per il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto. Grillini, nella già citata proposta di legge dell'aprile 2003 riguardante la disciplina delle «Unioni affettive», afferma per rassicurare gli animi che in questo documento non si chiede la possibilità che una coppia omosessuale possa adottare un bambino aggiungendo che «nessuno degli ormai numerosi progetti di legge presentati negli scorsi anni alle Camere in questa materia su sollecitazione delle associazioni gay italiane ha mai affrontato la questione» (16).
Peccato che fu lo stesso Grillini a chiedere qualche mese prima, precisamente nel luglio 2002, l'adozione per la coppie omosessuali all'art. 3 della Proposta di legge n. 2.982: «Al rapporto di unione civile e al matrimonio fra persone dello stesso sesso sono estesi i diritti spettanti al nucleo familiare, secondo criteri di parità di trattamento. In particolare si applicano le norme civili, penali, amministrative, processuali e fiscali, vigenti per le coppie che hanno contratto matrimonio, ivi compresi l'accesso agli istituti dell'adozione e dell'affidamento» (17). Senza poi contare le due proposte dell'onorevole De Simone, quella dell'onorevole Malarba e un disegno di legge Malarba-Sodano, tutte antecedenti all'aprile 2003 e che chiedevano l'adozione per le coppie omosessuali.
In sintesi: la menzogna poggia su una duplice e realistica considerazione. In primo luogo pochi andranno a verificare l'affermazione fatta, e in secondo luogo è molto più facile mentire che contestare punto per punto una falsità dato che ciò comporta studio, tempo e fatica.
7. Usare il volto noto. Le più riuscite campagne pubblicitarie sono quelle in cui il prodotto da vendere è presentato da un personaggio conosciuto. Il viso noto sponsorizza l'articolo da mettere in commercio. Tale strategia di marketing è usata spesso anche nelle battaglie sulle questioni etiche. Pensiamo al caso della sorridente coppia Veronesi-Ferilli che si è spesa per la modifica della legge 40 al tempo del referendum del 2005; o al solo Veronesi ideatore della costituzione di un Registro nazionale per i testamenti biologici; o al presentatore Cecchi Paone e all'attore Lino Banfi, alias nonno Libero, in prima linea per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.
Lo sfruttamento di questi e altri testimonial si incardina su un fondamentale punto di ordine psicologico: si estende indebitamente la competenza professionale del personaggio famoso in un ambito invece che non gli è proprio (18). In tal modo la fiducia che l'uomo della strada accredita alla celebrità a motivo delle sue doti di oncologo o di showman si trasferisce poi illogicamente in campi non strettamente pertinenti allo loro attività. Le tesi più contrarie al buon senso si ammantano di autorevolezza.
Chiamare per esempio Margherita Hack, come è avvenuto in una puntata di un'edizione del Maurizio Costanzo show, a pronunciarsi sulla liceità dell'eutanasia produce uno sconfinamento delle competenze della scienziata, la quale sarà pure un'eminenza nell'astrofisica ma nel campo della morale naturale non può vantare uguale preparazione. E così l'opinione dell'accademico VIP diventa tesi scientifica assolutamente credibile. Di frequente poi la presenza del volto noto si accompagna ad atti provocatori: Pannella che distribuisce hashish ai passanti di Piazza Navona; il filosofo Gianni Vattimo che fa da testimone insieme a Grillini alla celebrazione di fìnte nozze gay da parte di due signori presso il Consolato francese a Roma, avvenuto aderendo al Pacs made in Francia, con tanto di scambio di fedi nuziali sullo scalone del Consolato a vantaggio degli obiettivi dei reporter.
Rivoluzione linguistica
8. Le parole. Cambiare il senso delle parole porta a cambiare la percezione della realtà. Nella battaglia culturale è di primaria importanza la rivoluzione linguistica (19). Più che il significato dei termini è importante il loro suono, la loro eufonia. Non più omicidio prenatale, ma aborto. Anzi: interruzione volontaria della gravidanza che scolora nell'ancor più asettico e mite acronimo Ivg. Non omicidio del consenziente o aiuto al suicidio: assolutamente meglio eutanasia. Ma dato che quest'ultima può evocare spettri nazisti si preferiscono le perifrasi «dolce morte», «testamento biologico» (insieme al suo «zio d'America» living will), o i termini coniati da Welby quali biodignità, ecomorire, fine cosciente (20).
Non fecondazione artificiale ma procreazione medicalmente assistita che rappresenta in modo falso la realtà dato che il medico non aiuta la coppia a procreare ma si sostituisce a essa in questo atto. Non convivenza more uxorio ma patti civili di solidarietà, così chi fosse contrario a essi verrebbe tacciato di essere incivile e poco solidale. Non marito e moglie ma semplicemente coniugi, termine che annulla in sé le differenze di sesso potendo essere i coniugi entrambi maschi o entrambe femmine. Non droghe punto e basta. Ma droghe leggere, quasi che la salute o la vita fossero cose di poco conto, pari al peso minimo di uno spinello.
9. L'esterofilia. Per sapere se le nostre leggi sono buone la pietra di paragone non è il bene comune, bensì spesso sono gli ordinamenti giuridici di altri Stati. L'Italia - così si sente ripetere come un mantra - è all'ultimo posto in Europa nella sperimentazione sugli embrioni, nell'accesso alle tecniche di fecondazione artificiale, nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali ecc. L'argomentazione è con evidenza debolissima: se il mio vicino di pianerottolo ammazza e ruba significa che anch'io posso ammazzare e rubare? Strano poi che anche in questo caso si faccia a monte una selezione all'ingresso delle leggi straniere che dovrebbero essere emulate nei nostri confini. Chissà perché non si ode un simile vociare per importare da noi le norme che permettono in Francia lo sfruttamento dell'energia nucleare, o quelle cinesi sul lavoro subordinato.
Il nemico da abbattere
10. Il nemico è la Chiesa. In ogni guerra c'è un nemico. Nel conflitto culturale quale miglior nemico da scegliere se non la Chiesa cattolica? Nell'immaginario collettivo la Chiesa è frequentemente dipinta come nemica del progresso, antagonista della felicità dell'uomo, misogina, sessuofoba, colpevole di posizioni discriminatorie contro gli omosessuali (21), ostinatamente e insensatamente contraria alla ricerca scientifica, gelosa depositaria di oscure verità inconfessabili. È lei che ha negato i funerali a Welby, è lei che fa ingerenza nella politica italiana, è lei che con una straordinaria azione di plagio parrocchiale ha mobilitato più di un milione di persone al Family Day (22).
Se la Chiesa è il nemico occorrerà ovviamente far di tutto per indebolirla. Per citare solo alcuni esempi tra i tanti: all'indomani della sconfitta sul referendum della legge 40, i radicali, non potendosela prendere con gli italiani (è sempre poco elegante avercela con l'elettorato), indirizzarono tutto il loro rancore verso Santa Romana Chiesa chiedendo a più riprese la revisione del Concordato. Questo atteggiamento polemico fece eco a una posizione emersa nell'agosto 2003 a una riunione all'Onu dell'Unglobe, associazione dei dipendenti Onu di solo orientamento omosessuale o bisessuale, in cui si individuò il principale nemico da abbattere nella Chiesa. A questo proposito è bene sottolineare che le lobbies gay esercitano un po’ dovunque e in molti ambiti.
In Scozia, per esempio, a seguito dell'Equality Act 2006 le agenzie cattoliche per l'adozione potrebbero essere obbligate ad affidare bambini anche a coppie omosessuali. Infine — a mo’ di paradigma delle discriminazioni che devono subire gli organismi di ispirazione cattolica - ricordiamo il caso di Mukesh Haikerwal della Australian Medical Association, il quale recentemente ha auspicato che gli enti legati alla Chiesa cattolica non gestiscano più gli ospedali di non forniscono servizi quali l’aborto, la sterilizzazione e la fecondazione in vitro.
Dieci mosse per mettere in scacco la cultura cristiana e ancor prima il senso comune. Ma dalle nefandezze degli altri si può sempre imparare qualcosa di utile: perché non rubare a costoro qualche trucchetto e usarlo a fin di bene?
(1) Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, I, q. 2, a. 3.
(2) Cfr M. Palmaro, Il male radicale, in Il Timone, n. 41, marzo (2005), pp. 12-13.
(3) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, Rizzoli, Milano 2006, pp. 111-112.
(4) II vescovo anglicano Tom Butler, della diocesi di Southwark, concorda con le posizioni eutanasiche del Royal College. Infatti il prelato rende noto attraverso le colonne del Sunday Times del 12 novembre del 2006 che «in alcune circostanze può essere giusto fermare o togliere una cura, sapendo che è possibile, probabile o anche certo che ciò provocherà la morte. [...] Ci sono situazioni in cui, per un cristiano, la compassione deve prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi». L'articolo chiarisce che il vescovo non si riferisce all'accanimento terapeutico bensì all'eutanasia omissiva.
(5) Cfr Corriere della Sera, 10 marzo 2007. Sul tema dell'eutanasia neonatale cfr L. Guerrini, Eutanasia neonatale, in I quaderni di Scienza & Vita, n. 3 (giugno 2007), pp. 93-107.
(6) Cfr artt. 6 e 9 Legge n. 14/2006.
(7) Cfr Ley de investigacìon biomédica, del 15/06/07.
(8) La percentuale animale deriverebbe dal patrimonio genetico mitocondriale contenuto nell'ovocita bovino.
(9) Proposta di legge n. 2.982 dell'8 luglio 2002.
(10) Proposta di legge n. 3.893 del 14 aprile 2003, p. 8.
(11) Per Benedetto Croce la storia non è giustiziera ma giustificatrice. Cfr B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 1989.
(12) II reale è razionale, affermava Hegel. Cfr G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995.
(13) Tutta ancora da provare, a parere irrilevante di chi scrive, l'affermazione che la legge 40 costituisse in quel frangente il maggior bene possibile e l'unica scelta percorribile, evitando così mali peggiori.
(14) La domanda era così formulata: «Lei è favorevole o contrario all'eutanasia, la possibilità cioè di concludere la vita di un'altra persona dietro sua richiesta allo scopo di diminuirne le sofferenze negli ultimi momenti di vita?». Riportiamo a margine, come prova della confusione in cui versavano gli intervistati su questo tema, che per il 32% di costoro tenere in vita una persona in coma era considerato accanimento terapeutico.
(15) Anche le amministrazioni comunali si mostrano scettiche nei confronti di Dico, Pacs e Cus dato che solo una trentina di comuni a oggi ha aderito in tutta Italia a tale Registro.
(16) Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003, p. 8.
(17) Proposta di legge n. 2982 dell’8 luglio 2002, art. 3.
(18) Cfr T. Scandroglio, Tv accesa Cervello spento, Edizioni Art Milano 2005, p. 58.
(19) P.G. Liverani, La società multicaotica con il Dizionario dell’antilingua, Ares, Milano 2005.
(20) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, cit., p. 103. Due pagine prima l’autore così motiva i neologismi: «Dobbiamo arrenderci all'evidenza, la parola “eutanasia” non piace, anzi, stimola repulsa».
(21) Cfr Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003: «Disciplina Unioni affettive», p. 8, in cui Grillini parla di «facile demagogia di gruppi clericali o razzisti».
(22) Valutazione tra l'altro un poco precisa, dato che la grande affluenza del 12 maggio è da accreditarsi soprattutto ad altre realtà diverse da quelle parrocchiali, quali movimenti, associazioni e gruppi di preghiera.
La morte: tappa o termine della vita? - di Mons Alessando Maggiolini - Ricordiamo la figura di monsignor Alessandro Maggiolini (1931-2008) con l'ultimo articolo scritto per Il Timone. Ci uniamo alla richiesta del direttore del Timone Gianpaolo Barra e invitiamo alla preghiera per un grande pastore e Defensor fidei. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.
Mi metto sul bordo di Viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella - questo è il ritornello - e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l'abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l'ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C'è posto».
Non c'è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?
Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stessa: è un vettore - se si vuoi parlare in termini scientifici - che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All'ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l'eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.
Ed ecco l'interrogativo sul "dopo" che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.
Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l'uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?
Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione. La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?
Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un'ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.
Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l'Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.
Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.
Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c'è bisogno di tradurre?
«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C'è bisogno di tradurre?
A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità - anche dell'attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?
Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi - se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l'attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.
® Il Timone www.iltimone.org
Il dibattito sulla vita umana - Aperti alla ragione senza fondamentalismi, di Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, 14 Novembre 2008
Le tematiche di natura etica rimarranno in primo piano per ancora molto tempo. Pensare che si possano ridurre a un dibattito televisivo di pochi minuti o a un lancio di agenzia non può rendere ragione della profondità che questi temi richiedono. Alla base è necessaria, in primo luogo, la competenza su quanto si discute, superando spinte emotive suscitate, volta per volta, da singoli casi. L'importanza della posta in gioco non può sfuggire a nessuno: né allo scienziato che vuole procedere alla sperimentazione, né al legislatore che con le sue leggi crea di fatto una cultura. Pensare che su tali questioni la competenza sia esclusiva degli uomini di scienza porta con sé un vizio di fondo che è difficile negare. Non esiste una posizione neutrale della scienza: in nessun ambito, e tanto meno in quello che tocca direttamente la vita umana, che come tale comporta delle implicazioni etiche. La scienza vive di ricerca e non avremmo raggiunto alcune tappe fondamentali del progresso attuale senza il suo apporto faticoso, a volte difficile, ma sempre necessario. La scienza, tuttavia, non vive senza regole; alcune le raggiunge a partire da sé, altre deve necessariamente richiederle. Una scienza che volesse sperimentare sulla vita umana senza sentire il bisogno di un richiamo etico si porrebbe da se stessa fuori gioco, perché presterebbe il fianco al sospetto di essere al servizio del potente di turno e non del bene di tutta l'umanità. È inutile ricordare che anche l'economia e la finanza - che hanno investito e investono molto in questi ambiti - hanno loro pure bisogno di criteri etici. Quando oggetto di sperimentazione è l'uomo, allora gli stessi scienziati devono convincersi che è necessario l'apporto di quanti avanzano una competenza antropologica. Questa esigenza non può essere rifiutata, e tanto meno schernita o emarginata. Davanti alla promozione e alla difesa della vita umana non si deve parlare di ingerenza nei confronti degli Stati, né esistono ragioni di opportunità politica per impedire di esprimere un giudizio in proposito. La libertà degli Stati nel legiferare in materia bioetica non può certo essere intaccata da elementi esterni ai propri sistemi giuridici. Allo stesso modo, la libertà della Chiesa di esprimere il proprio insegnamento non può essere limitata dall'arroganza di alcuni scienziati o intellettuali, i quali ritengono che su tali contenuti non dobbiamo parlare. La vita possiede per i cristiani una sua sacralità perché è innanzi tutto mistero, e dal suo inizio sino alla sua fine evidenzia quanto la natura abbia in sé qualcosa di talmente inintelligibile, che ancora sfugge all'analisi più critica e alla macchina più precisa e, proprio per questo, deve essere rispettata da tutti. Quando si parla di vita umana, insomma, non si è mai in presenza di pura materia manipolabile; c'è in essa una dignità intrinseca che merita almeno il rispetto. Che senso ha dividersi sulla necessità di difendere la vita quando tutti ne sentiamo profondamente la responsabilità per il suo giusto sviluppo e per la conservazione della sua dignità? Non saranno le vaghe promesse di guarigione che alcuni avanzano, sapendo pietosamente di mentire, a poter permettere l'utilizzo di embrioni per la ricerca, fossero anche quelli che per l'avidità di alcuni sono stati congelati e di cui ora ci si ricorda come panacea, per suscitare ulteriori emozioni. Su alcune questioni vitali tacere sarebbe ipocrita e questo non ci appartiene. Molte cose si possono rimproverare agli uomini di Chiesa in diversi momenti della sua storia bimillenaria, ma su questi temi la nostra posizione permane da sempre cristallina, immutata e proprio per questo credibile. Non siamo soliti fare promesse che non possiamo mantenere. Qualcuno potrà sorridere davanti alla nostra fede. Ne siamo abituati. Da duemila anni veniamo sbeffeggiati e fino ai nostri giorni proprio per questo motivo molti cristiani vengono uccisi ed emarginati. Ma questa è la nostra forza e ci rende - come disse Paolo vi davanti alle Nazioni Unite - esperti in umanità. Se altri trovano le loro certezze nella scienza non troveranno certo in noi degli oppositori. Solo desideriamo con grande rispetto ricordare che anche la scienza non ha certezze definitive e che il mistero dell'esistenza umana, con le sue domande inevitabili di senso, vale anche per loro. Non necessariamente dovranno dare ascolto alla Chiesa cattolica, ma se mantengono aperta la loro ragione e danno spazio alla forza del ragionamento a noi basta: non andranno lontano dalle nostre posizioni. Questo, alla fine, sarà anche lo spartiacque per verificare chi aderisce a fondamentalismi confessionali o laicisti; questi infatti non servono per approdare a una visione condivisa per la salvaguardia e il rispetto della vita umana. Ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno è la capacità di ascoltare gli uni le ragioni degli altri. Questo è un punto fermo. Al contrario non è per nulla vero che abbia ragione chi grida di più, forse perché a corto di argomentazioni, oppure chi sbandiera un consenso scientifico che non si vede all'orizzonte.
(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
OLTRE LA CRISI/ Recuperare il senso del lavoro - Bernhard Scholz - venerdì 14 novembre 2008 – Sussidiario.net
Per cominciare a risalire la china in cui siamo stati spinti dalla crisi finanziaria occorre innanzitutto recuperare il senso del lavoro. Improvvisamente ci siamo accorti di quali danni abbia generato una concezione del lavoro tutta tesa al solo risultato del profitto, funzionale unicamente al successo e ai risultati a breve termine, slegati da qualsiasi base reale.
Occorre invece che al centro del lavoro venga rimessa la persona. Non si può ripartire se non dal soggetto, il soggetto che lavora, e che nel rapporto con la realtà cerca di rispondere ai suoi desideri, cerca la verità di sé; e sa assumersi una responsabilità verso se stesso, verso chi sta con lui, verso il lavoro e tutta la realtà.
È per questo motivo che abbiamo scelto come titolo dell’Assemblea Generale di Compagnia delle Opere, che si tiene domenica 16 novembre a Milano, “Il tuo lavoro è un’opera”.
Ora che sul futuro di tutti pesano le incertezze sugli effetti della crisi finanziaria, occorre ricominciare a costruire insieme un piccolo pezzo di una realtà economica che metta al centro la persona, il bene delle persone, il loro valore, i loro talenti, la loro creatività e la loro tenacia e non più la sola logica del profitto.
Questa attenzione al soggetto, alla singola persona, è l’unica fonte di un benessere equilibrato e duraturo e quindi di una ricchezza che può diventare anche un patrimonio per le future generazioni, ma che è capace di ricreare fiducia da subito.
Per chi fa impresa significa, ad esempio, ripartire da una capacità di relazione e di costruzione positiva, che la crisi ha prostrato ma che fa parte del Dna di ogni imprenditore. Un esempio?
Da lunedì 17 novembre, per tre giorni, circa 2.000 imprenditori si raduneranno a Fiera Milano per dare vita a Matching, un appuntamento nato quattro anni fa grazie a Compagnia delle Opere con l’obiettivo principale di favorire le relazioni di business.
In un momento tanto difficile per tutti, e in particolare per chi fa impresa, Matching 2008 rappresenta un contributo concreto e significativo perché si possa riprendere fiducia in un’economia reale basata davvero sul lavoro e su uno scambio autentico di beni e di servizi validi.
Matching infatti è un’enorme piazza dove gli imprenditori si incontrano, valutano opportunità di collaborazione, trovano clienti, fornitori, partner, scambiano informazioni ed esperienze creando in questo modo una rete tessuta dal protagonismo responsabile di ognuno.
E questo è il contributo concreto che CDO porta alla difficile situazione della nostra economia. Non bastano gli appelli. Se vogliamo imboccare la strada che ci porterà fuori da questa crisi, ognuno deve iniziare a contribuire con le forze a sua disposizione, poche o tante che siano.
Al sistema bancario, ad esempio, in questo momento di difficoltà chiediamo di aiutare chi dimostra di saper intraprendere e di non abbandonare le Piccole e medie imprese, che sono l’unica garanzia per una ripresa dell’economia reale e quindi per una ripresa del sistema Paese.
Il tessuto imprenditoriale italiano è un patrimonio unico al mondo, e lo ha dimostrato anche negli anni recenti quando ha saputo reagire alla sfida della globalizzazione e dei mercati emergenti mettendo in campo una capacità di innovazione che ci ha trascinato fuori dalle secche e ha stupito molti osservatori.
Anche oggi tante delle nostre imprese continuano a innovare giorno per giorno. Sanno bene che l’alternativa sarebbe una sola: uscire dal mercato.
La situazione attuale è una grande prova, ma potrebbe anche diventare un’opportunità per il futuro. Perché lo diventi davvero, c’è una sola cosa da fare: cominciare a lavorarci.
MEDIOEVO/ Quando la fiducia era alla base della società - Guido Cariboni - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Paolo Grossi in un bel libro di qualche anno fa – L’ordine giuridico medievale - ha posto l’accento sulle dinamiche culturali che guidavano la società medievale. Nell’età di mezzo chi era chiamato a governare la cosa pubblica non doveva tanto puntare sulle sue innovative qualità di leader. Per la buona riuscita dell’impresa egli doveva piuttosto farsi tramite, interprete di un ordine buono che era già presente nel mondo e a cui era necessario conformarsi.
Ogni attività umana poggiava su quest’ordine unificatore e la fiducia che ciascuno accordava alle istituzioni, dipendeva dal fatto che esse si presentassero come un riflesso, pure imperfetto, di tale armonia.
Uno strumento permetteva a quest’ordine di entrare in contatto con la realtà umana. Si trattava del simbolo. Il simbolo, nella sua accezione più ampia, era qualcosa di estremamente concreto, un oggetto, ma anche un’azione, un rituale, che, oltre alla semplice funzione strumentale, rimandava ad un ideale superiore o, meglio ancora, lo incarnava, lo rendeva materialmente presente. Così la Carità divina poteva riflettersi nel colore di un vestito, la Povertà in un determinato cibo, l’Umiltà in un’attività lavorativa particolare e così via.
Ad esempio, in molti comuni medievali italiani, presso il palazzo sede del potere pubblico, era gelosamente conservato un libro manoscritto che conteneva le consuetudini e gli statuti della città. Nella mente dei cittadini tale codice, al di là della sua funzione strumentale, ossia quella di conservare un testo legislativo consultabile, rappresentava in sé simbolicamente uno dei pilastri portanti su cui si fondavano i diritti comunali. Esso incarnava la certezza di una libertà faticosamente raggiunta e apparentemente inalienabile. L’oggetto stesso, che soltanto in pochissimi avevano potuto materialmente sfogliare, veniva quindi investito di un valore superiore al suo pratico uso. Al di là del contenuto esso rappresentava un elemento fondamentale per l’identità di un popolo o, meglio ancora, la garanzia su cui si fondava la fiducia di tutti verso un governo.
Naturalmente non sempre i simboli erano utilizzati in modo corretto e leale. Dante nel canto XXIII dell’inferno, nella bolgia degli ipocriti, incontra due strani personaggi “colorati”, che camminavano lentamente sopraffatti dal peso di pesantissimi abiti monastici con i cappucci abbassati sugli occhi. Tali vesti in superficie di uno splendente colore dorato, erano all’interno foderate di piombo. Si tratta dei frati gaudenti Catalano dei Malavolti e Loderigo degli Andalò. Secondo una pratica molto comune in età comunale, essi erano stati scelti nel 1266 in qualità di religiosi, e quindi per la loro imparzialità, quali rettori di Firenze nel tentativo di trovare un accordo tra le diverse fazioni che si fronteggiavano in città. La loro opera era stata però tutt’altro che onesta e super partes. Essi avevano, infatti, favorito partigianamente un gruppo di potere a scapito degli amici di Dante. Il giudizio del poeta, testimoniato dal contrappasso che essi subiscono, non è semplicemente un giudizio moralistico del tipo: “Belli fuori, ma brutti dentro”, o meglio ancora: “Sepolcri imbiancati”. Il riferimento all’abito è estremamente significativo. Dante prende il saio quale simbolo concreto che comunicava la natura essenziale dei due religiosi che era quella di portare la pace. Essi però avevano usato il loro abito per truffare la fiducia dei cittadini. Un simbolo, che tutti conoscevano e a cui tutti avevano accordato fiducia era stato rotto, la finzione aveva preso il posto dell’ideale.
Entrambi gli esempi, per quanto diversi, mostrano come i simboli nel medioevo non fossero semplicemente uno strumento di propaganda o di comunicazione spicciola per attirare un consenso effimero. Essi agivano più profondamente lanciando un ponte che metteva in comunicazione i singoli con quei valori identitari che erano la solida base della fiducia comune.
Dinamiche molto simili applicate i giorni nostri non sempre danno i risultati sperati. Basta osservare in Francia il fallimento del referendum sulla costituzione europea del giugno 2005. In quell’occasione la costituzione non è stata bocciata in quanto testo giuridico, cioè perché non si è condiviso questo o quell’articolo. Nonostante gli sforzi del governo francese in pochi l’avevano veramente letta. Ad essere rifiutata è stata piuttosto l’idea di Europa che il testo costituzionale simbolicamente e quindi sinteticamente veicolava. Il simbolo ha quindi fallito il suo compito perché non si è data fiducia all’ordine superiore in esso riflesso. O forse, ancora peggio, l’uomo comune di questo fantomatico ordine non ha neppure colto l’esistenza.
IRAQ/ Cervellera: due sorelle uccise perché cristiane in una lotta per il potere che miete sempre le solite vittime - INT. Bernardo Cervellera - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Un commando composto da ragazzi di appena 17, 18 anni ha fatto irruzione in una casa di Mosul uccidendo due sorelle, Lamia e Walàa Sobhy Salloha appartenenti alla chiesa siro-cattolica della città. Le due ragazze lavoravano per il tesoriere della municipalità di Wala. La madre, accoltellata, è stata soccorsa ed è fuori pericolo. Il padre e il fratello delle due vittime sono riusciti a fuggire dall'aggressione della banda e a rifugiarsi in un luogo sicuro. Ora la famiglia è disperata. Ma è una delle tante famiglie martoriate in una terra in cui sembra davvero impossibile condurre un'esistenza tranquilla, tanto meno se si è cristiani. Padre Bernardo Cervellera, direttore dell'agenzia giornalistica AsiaNews, conosce molto bene quella triste realtà.
Padre Cervellera, un omicidio in una zona, quella di Mosul, in cui sembra che i cristiani siano particolarmente presi di mira. Per quale motivo?
Noi di AsiaNews siamo stati i primi a dare la notizia in Italia delle due sorelle uccise, del loro padre e del loro fratello che sono riusciti a fuggire, oltre che della situazione in generale, coinvolgendo informatori locali il cui nome non è prudente qui rivelare. Direi che Mosul è un posto piuttosto disgraziato perché da anni, in questa città, si sovrappongono più conflitti legati alle più disparate cause. Quindi fornire un'analisi precisa ai fini di cercare di capire il movente di un gesto così violento e drammatico non è cosa per niente facile. Sicuramente questo duplice omicidio rappresenta anche un segnale politico in previsione delle prossime elezioni provinciali in cui contano anche le posizioni delle minoranze. Ma di certo Mosul ha la sfortuna di trovarsi al centro di moltissime tensioni.
Può spiegare quali sono le principali cause che rendono “calda” questa zona?
Anzitutto vi è la guerra condotta da Al Qaeda e dai fondamentalisti islamici delle più diverse associazioni. Mosul è un luogo dove c'è sempre stata una comunità cristiana, è anzi una delle prime e più antiche comunità cristiane. È poi una città che vede per storia e tradizione una convivenza molto forte fra cristiani e musulmani. Per questo motivo Al Qaeda l'ha scelta come un luogo dove tentare di rompere questa esemplare unità e dividere l'Irak fra cristiani, curdi e musulmani. Si aggiunga che uno degli obiettivi di questi fondamentalisti consiste nel ripristinare la piena attuazione della sharia nei confronti di tutti gli abitanti della città. Questo spiega l'elevato numero di omicidi a sfondo confessionale che si sono susseguiti in questi anni. Uno fra tutti quello del vescovo Raho. Ma non si debbono dimenticare tutti quei cristiani e quei sacerdoti ortodossi, cattolici, caldei e protestanti che hanno pagato con la vita la “colpa” di non essersi sottomessi all'islam.
Era così anche sotto il regime di Saddam?
La situazione è addirittura peggiorata, perché, da quando c'è stata l'operazione surge, del generale Petraeus, a Baghdad quasi tutti i fondamentalisti si sono rifugiati a Mosul per cui la città è diventata una specie di terra di nessuno in mano a questi terroristi senza la minima pietà.
Lei però accennava a motivi di tensione ulteriori rispetto alla sola questione religiosa
C'è un secondo aspetto della “guerra” in atto. Mosul appartiene alla zona di Kirkuk che era una zona originariamente curda. Saddam Hussein cacciò via i curdi e fece “colonizzare” gli arabi in quel territorio. Il motivo di una simile operazione risiedeva nel timore che il dittatore irakeno aveva nei confronti dei curdi e del loro indipendentismo. Adesso i curdi vorrebbero riprendersi Mosul e quindi c'è in ballo la questione della promozione di un referendum su Kirkuk, il giacimento, per stabilire a chi debba appartenere. È chiaro che per vari motivi tutte le etnie lì presenti vorrebbero possedere Kirkuk, non solo perché alcuni sono originari di quella zona, ma anche e soprattutto perché rappresenta il giacimento di petrolio più importante che ci sia in Irak nonché uno dei più importanti del mondo. Immaginiamoci l'immenso desiderio che hanno sunniti e sciiti di prenderne possesso. Chi possiede Kirkuk possiede anche il potere economico e un quasi monopolio del petrolio nazionale. I curdi spingono dunque sempre di più in direzione di un'autonomia reale, mentre sciiti e sunniti hanno paura che ciò rafforzi sempre di più il loro potere facendo perdere all'Irak una grossissima fetta di benefici economici. Qui a rimetterci di più sono proprio i cristiani.
Per quale motivo?
Per tre ordini di fattori: non hanno milizia e sono dunque più deboli, si trovano in mezzo a una guerra per motivi storici perché gran parte dei cristiani vive al nord da secoli, e in terzo luogo ciascuna delle due parti, curda e irakena, cerca di portare a casa i loro voti accusando l'un l'altro della responsabilità degli attentati di cui sono vittime i seguaci di Cristo. In poche parole l'uccisione di queste due ragazze rientra in una questione di potere locale che contempla più aspetti intersecati l'un l'altro.
Nel resto dell'Irak invece, dopo la guerra del 2003, com'è la situazione delle minoranze cristiane?
Non molto buona, basti pensare che in parlamento viene portato avanti un progetto da parte di alcuni sedicenti deputati cristiani che non lascia sperare nulla di buono. Si tratta dell'attuazione di un programma territoriale che è quello cosiddetto della “piana di Ninive”.
Secondo alcuni di questi deputati i cristiani dell'Irak dovrebbero essere tutti trasferiti nella piana circostante la città di Ninive. L'intento di questi politici sarebbe la realizzazione di una specie di “regione cuscinetto” tra curdi e sunniti. Inutile dire che questa “piana di Ninive” non la vuole nessuno fra i cristiani. I vescovi si sono dichiarati molto contrari, il Vaticano ha già condannato il progetto e inoltre sarebbe davvero un'operazione contraria alla stessa cultura e storia dell'Irak che si è sviluppato dentro una tradizione di convivenza fra popoli e mescolanza di religioni.
Non ci sono mai state zone geografiche definite da parametri “religiosi” e una sorta di ghetto cristiano sarebbe ancor più pericoloso per coloro che vi dimorerebbero dal momento in cui, se crescessero ancora, com'è probabile, ondate di fondamentalismo, è ovvio che si concentrerebbero in quella regione.
Non si può dunque dire che la condizione delle minoranze non musulmane sia migliorata di molto. La colpa è attribuibile anche alla scarsa attenzione o efficienza delle forze americane?
Saddam Hussein prima di fuggire ha liberato tutte le prigioni Irakene. Ciò significa che ci sono ancora in giro criminali, assassini e bande armate. A Mosul ci sono numerosissimi criminali che spesso rapiscono gente per questioni economiche. Gli americani si sono parecchio dati da fare per ristabilire, con Petraeus, la sicurezza nel Paese. Ma i loro sforzi si sono per lo più concentrati a Baghdad, dove ci sono le ambasciate e i centri di potere. La loro politica, dove è presente, sta dando buoni frutti, gli attentati nella capitale sono ormai davvero pochi. Il problema è il resto dell'Irak.
Quanto avvenuto a Mosul è però solo l'ultimo episodio di un atteggiamento colpevole non tanto degli americani, quanto del governo Irakeno e di Nuri Al-Maliki, il quale promise attenzione per le minoranze cristiane alla vigilia delle elezioni, ma ha di fatto lasciato indifese le loro città.
14/11/2008 09:22 – MYANMAR- Continua la repressione della dittatura birmana contro monaci e dissidenti - Nove religiosi sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Portavoce della Nld conferma l’incriminazione di 14 attivisti del partito di opposizione e annuncia nuovi arresti. Il giro di vite dei militari intende “dissuadere” le voci contrarie al regime in vista delle elezioni del 2010.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Nove monaci buddisti birmani sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Lo rivela Nyan Win, portavoce della Lega nazionale per la democrazia (Nld), spiegando che essi sono stati incriminati per aver preso parte alle manifestazioni del settembre 2007 contro il regime militare. Egli conferma anche l’incriminazione di 14 esponenti della Nld, il partito di opposizione in Myanmar guidato dalla premio Nobel Aung San Suu Kyi, con condanne tra i quattro e i 10 anni di prigione.
Le sentenze di questi ultimi giorni, più di 50 secondo fonti locali da lunedì 10 novembre a oggi, confermano il giro di vite impresso dalla giunta militare al potere nella ex-Birmania verso i dissidenti.
Secondo un diplomatico in Myanmar, la nuova repressione decisa dalla dittatura intende avere un “effetto dissuasivo” verso quanti invocano democrazia nel Paese in vista delle elezioni politiche in programma nel 2010.
“Quattordici membri della Nld e quattro monaci – afferma Nyan Win – sono stati condannati ieri [giovedì 13 novembre]. Per i monaci vi sono state condanne a otto anni di galera”. Altri cinque religiosi del monastero Ngwe Kyar Yan, a Yangon, sono stati invece condannati martedì 11 novembre a sei anni e mezzo di carcere. Lo stesso giorno il tribunale della prigione di Insein ha emesso una sentenza di 65 anni di reclusione a carico di 14 attivisti di “generazione 88” – tra i quali cinque donne – per la loro battaglia a favore della democrazia durante la “rivoluzione zafferano” del settembre del 2007. “Vi saranno nuove pene” riferisce Nyan Win, che denuncia “ulteriori pressioni sui militanti politici e pesanti minacce per la popolazione”.
Vita e morte nel grembo di Maria - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008
Il tempo liturgico che precede l’inizio dell’Avvento è accompagnato dai testi dell’Apocalisse che aprono lo sguardo del credente non al mistero della fine del mondo, bensì al mistero delle cose ultime, cioè del destino eterno dell’uomo.
Centro e cuore dell’apocalisse è il mistero dell’Agnello e della donna partorisce un figlio maschio: Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto (Ap 12,1-2) Questa donna, che la tradizione cristiana ha sempre identificato con la Vergine Maria che ha dato alla Luce il Salvatore, è anche l’immagine della Chiesa che nel deserto della storia partorisce a Cristo nuovi figli.
Il testo biblico continua, infatti, così: Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. (Ap 12, 3-6)
Nell’icona di questa donna, a ben vedere, vita e morte giocano l’ultimo duello ed è la parabola più efficace per il mese di novembre che mentre ci fa riflettere sul nostro destino ultimo, cioè quella della morte con la festa dei Santi e dei Defunti ci apre lo sguardo a quella vita che non muore misteriosamente fiorita nel grembo della vergine.
Recenti episodi come quello della decisione di sospendere l’alimentazione a Eluana Englaro e, dunque in sostanza, condannarla alla morte per fame e sete rendono questo duello tra vita e morte drammaticamente attuale.
Per questo invece di commentare un dipinto vorrei fermare la nostra attenzione su un’immagine Achiropita (cioè non fatta da mano d’uomo) straordinaria: la tilma di Juan Diego cioè la cosiddetta Madonna di Guadalupe la cui festa ricorre proprio a metà dell’avvento il 12 dicembre.
Questa immagine, che è stata studiata con i più potenti mezzi della scienza e della tecnica, continua a stupire non meno della Sindone e del volto straordinario del Cristo di Manoppello.
La vicenda è nota: Juan Diego, umile indio della terra azteca, incontra una giovane Signora dalla quale viene ripetutamente inviato dal vescovo pregandolo di costruire per lei una cappella in quel luogo. Il vescovo non pare prendere sul serio la richiesta fino a quando Juan Diego non gli porta, in pieno inverno, un mazzo di rose bianche raccolte nella tilma, una sorta di poncho usato dagli indios. Quando le rose rovesciano a terra sulla tilma dell’uomo compare l’immagine della Vergine di Guadalupe.
La tilma è costituita da due teli di ayate - un rozzo tessuto di fibre d’agave, usato in Messico dagli indios poveri per fabbricare abiti - cuciti insieme con filo sottile. Su di essa si vede l’immagine della Vergine, di dimensioni leggermente inferiori al naturale - la statura è di 143 centimetri - e di carnagione un po’ scura, donde l’appellativo popolare messicano di Virgen Morena.
La Vergine appare circondata dai raggi del sole e con la luna sotto i suoi piedi, secondo la figura della Donna dell’Apocalisse, i tratti del volto non sono né di tipo europeo né di tipo indio, ma piuttosto meticcio - cosa “profetica” al tempo dell’apparizione - così che oggi, dopo secoli di commistioni fra le due razze, la Vergine di Guadalupe appare tipicamente “messicana”. Sotto la falce argentata della luna un angelo, le cui ali sono ornate di lunghe penne rosse, bianche e verdi, sorregge la Vergine che, sotto un manto verde-azzurro coperto di stelle dorate, indossa una tunica rosa “ricamata” di fiori in boccio dai contorni dorati, e stretta sopra la vita da una cintura color viola scuro.
Questa immagine, poco decifrabile per un europeo, nasconde per l’indio una miriade di significati.
La Vergine appare con la testa leggermente reclinata sulla spalla destra atteggiamento proprio delle schiave indio, anche la cintura viola annodata sopra la vita è un tipico “segno di riconoscimento” presso gli aztechi delle donne incinte di umili origini. Al collo, la misteriosa giovane, porta un gioiello, una giada, simbolo della vita presso gli aztechi, al centro della quale compare una croce cristiana, ma può essere anche il quicunce, simbolo di Quetzalcoatl. Questa donna si presenta dunque come serva e regina ad un tempo.
Dalla posizione delle mani e dal capo inclinato, possiamo dedurre che la Vergine riverisce Qualcuno più grande di lei. Il manto, simbolo del cielo e del potere, la copre completamente ed è dello stesso colore di quello che portavano i re aztechi (tlatoani). D’altra parte la Signora appartiene alla terra, come indica il colore della tunica: rosato come l’aurora nella Valle di Messico.
In particolare la posizione delle mani della Vergine nel linguaggio indigeno significava “cerco casa” . Cerca casa in terra ma, sul manto, ella porta una vera e propria mappa del cielo stellato. Alcuni astronomi dell’osservatorio di Laplace (Città del Messico) hanno riscontrato che la posizione delle stelle sul manto corrisponde alle costellazioni presenti sopra Città di Messico al solstizio d’inverno del 1531 - solstizio che, dato il calendario giuliano allora vigente, cadeva il 12 dicembre - viste però non secondo la normale prospettiva “geocentrica”, ma secondo una prospettiva “cosmocentrica”, ossia come le vedrebbe un osservatore posto “al di sopra della volta celeste” .
Secondo don Mario Rojas Sánchez, traduttore dei testi náhuatl sull’apparizione e studioso della cultura azteca, i grandi fiori in boccio visibili sulla tunica della Vergine sono straordinariamente simili al simbolo azteco del tépetl, cioè del monte, e la loro ubicazione sulla tunica disegnerebbe una “mappa” dei principali vulcani del Messico.
La giovane donna con la molteplicità del linguaggio figurato invita l’indio a contemplare i principali misteri della fede cristiana. Ella è serva e regina: serva di un Dio che “cerca casa” fra gli uomini e regina dei cieli e della terra, questa Regina parla però al suo interlocutore, un povero indio appunto, in piedi e non seduta come voleva il costume azteco, maya e spagnolo. L’indio cioè percepisce che la nobiltà di questa donna non è la stessa dei dominatori. Anzi ella si rivolge a lui prima di rivolgersi al Vescovo. La dignità dell’indio è sottolineata anche dal nome con cui la Vergine lo chiama: «Juantzin», «Juandiegotzin», parole normalmente tradotte con Juanito, Juandieguito. Però in nahuatl la desinenza -tzin è anche indice di riverenza e di rispetto.
La Vergine sta in piedi sopra quella che appare una mezza luna, ma è in realtà una cometa, simbolo di Quetzalcoatl e appare fra canti melodiosi d’uccello.
Il Dio annunciato dalla Vergine di Guadalupe porta nomi ben conosciuti dagli aztechi: - la madre del Dio di verità - la madre del datore della vita - la madre del creatore degli uomini - la madre del Signore della vicinanza e dell’unità - la madre del Signore del cielo e della terra. Nomi che parlano dell’essenza di Dio nella sua relazione con il mondo e con l’uomo.
La Vergine del Tepeyac è modello per tutti quelli che non accettano passivamente le circostanze avverse della vita personale e sociale, ma proclamano con lei che «Dio innalza gli umili» e «rovescia i potenti dai troni». Come madre, la Vergine esprime il desiderio di essere presente tra i suoi figli in modo permanente, di stabilire un dialogo, una comunione, e di vedere realizzata l’unità dei credenti. Per questo chiede che in quel luogo venga costruito un tempio, una casa che sia punto di riferimento a cui accorrere per invocare l’unico vero Dio da lei annunciato. Lì vuole essere amata e invocata, lì vuole che i suoi figli imparino a confidare in lei: regina e serva tra gli uomini.
Afferma la Gaudium et Spes: «Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però dalla rivelazione, che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella debolezza e nella corruzione rivestirà l’incorruzione: e restando la carità con i suoi frutti, saranno liberate dalla schiavitù del male tutte quelle creature, che Dio ha fatto appunto per l’uomo».
Allora, ogni vita e ogni respiro troverà il suo senso. Nulla è causale nel piano di Dio neppure le vite spezzate come quella di Eluana. Colui che vede le cose dall’alto, al di sopra dei cieli, come attesta il manto della Vergine, le vede anche dal basso cioè dall’umile prospettiva dei piccoli come Juan Diego.
SCIOPERI/ La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Il vicolo cieco di Epifani&Co. - Renato Farina - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Voleva radunare il mondo intorno a sé, e si è trovata sola come una ladra.
Era già accaduto sulla vicenda dell’Alitalia con il noto rifiuto di firma sull’accordo con la Cai (con dietrofront poco dignitoso). Ora Epifani ci riprova con una tigna da ultimi giorni di Pompei, giocando il tutto per tutto sull’università.
Sciopero, rifiutando ogni dialogo. È come se cercasse di fermare la ruota della storia, cercando di cavalcare la famosa Onda, dove ritrovare linfe giovani visto che la maggioranza degli iscritti al suo sindacato sono pensionati.
Ma questa scelta di Epifani ci aiuta a capir bene che la citata Onda è una onda di riflusso e di risucchio, che non pulisce la spiaggia ma serve a impedire alle belle vele di andare al largo.
Un’onda di pirateria insomma che vuole impedire a chi ha desideri ed energie di uscire dal porto, fosse pure attraverso mosse violente: come chi voglia sfuggire alla realtà, non vederla, sognare l’utopia del passato.
La Repubblica ieri ha pubblicato un articolo di Massimo Giannini in cui ci sono un paio di frasi interessanti: «La crisi morde più duramente i ceti meno abbienti, che vanno difesi con tutti gli strumenti possibili. Ma è ormai chiaro che molti (tra gli ultimi, i penultimi e comunque i più deboli) sono fuori e lontani dal perimetro della rappresentanza confederale. E dunque le piattaforme rivendicative e le “azioni di lotta” di Cgil, Cisl e Uil, tanto più se frammentate e contraddittorie tra loro, finiscono per assumere una fisionomia fatalmente corporativa, che spesso tutela chi è già tutelato e magari lascia scoperto chi non gode di alcuna protezione sociale».
Giannini mette nello stesso sacco i tre sindacati, ed è dunque ingeneroso verso Cisl e Uil, ma coglie il segno. I sindacati difendono se stessi, la loro posizione sociale. Tali e quali i baroni universitari che vogliono garantirsi attraverso il movimentismo degli studenti il mantenimento dello status quo.
Un sindacato che ha perso il contatto con la realtà, non riconosce più i veri bisogni, e finisce per impazzire. L’ira di Epifani è quella di un uomo che non sa rassegnarsi alla fine di un mondo. Non c’è di mezzo la difesa delle classi più deboli, ma la volontà di puntellare l’ideologia pansindacale. Da cui l’impopolarità crescente.
Anche i vergognosi attacchi personali al ministro Gelmini culminati nell’insulto infame di Andrea Camilleri («Non è un essere umano») contribuiscono alla frana del consenso, perché di fatto la Cgil copre questa deriva da guerra civile verbale e simbolica, che può tracimare facilmente in violenza conclamata. Come dicono anche gli scontri alla stazione Centrale di Milano.
A Genova ci sarà una processione con un fantoccio alto quattro metri con la effigie della Gelmini, e che alla fine sarà bruciata come una strega. La Repubblica scrive: «Una processione irriverente». Irriverente? Chiunque capisce che è un atto odioso e incivile. Tutto questo erode consenso perché l’Italia resta alla fine un Paese che non sopporta i linciaggi.
Una linea, quella di Epifani che punta a egemonizzare la piazza a dispetto di una qualsiasi formi di dialogo, che è elogiata solo dal Manifesto, non a caso il giornale sotto la cui testata campeggia “quotidiano comunista”, che scrive: «Meglio soli». Che a pensarci è lo slogan consolatorio dei perdenti.
ALITALIA/ L’Europa e i contribuenti italiani spianano la strada a Cai - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
La Commissione Europea ha bocciato il prestito ponte di 300 milioni di euro che il 22 aprile scorso era stato concesso all’Alitalia con una decisione bipartisan da parte del Governo uscente guidato da Romano Prodi su richiesta del neopremier Silvio Berlusconi.
La decisione era inevitabile, poiché le motivazioni alla base di questo finanziamento erano alquanto discutibili. Si affermava infatti che il prestito era concesso per garantire la continuità territoriale del servizio aereo, quando in realtà questa era già assicurata dal mercato e dagli oneri di servizio pubblico; la seconda motivazione riguardava invece il mantenimento dell’ordine pubblico, ma essa si configurava come priva di senso poiché implicitamente veniva detto che non poteva essere lasciata fallire una compagnia aerea senza che lo Stato fosse in grado di mantenere l’ordine pubblico.
La Commissione Europea, lo scorso 12 Novembre, ha quindi preso una decisione ovvia e inevitabile nel dichiarare aiuto di Stato il prestito ponte; lo Stato dovrà a questo punto rimborsare i 300 milioni di euro a se stesso; infatti il prestito non ricade sulla nuova Alitalia o sulla Compagnia Aerea Italiana guidata da Roberto Colaninno, ma sarà un ulteriore debito che la Bad Company dovrà ripagare.
L’offerta Cai, che valuta Alitalia un miliardo di euro senza dare alcun valore economico agli slot, copre tuttavia solamente una parte limitata di tutti i debiti dell’ex vettore di bandiera e quindi i soldi immessi tramite il prestito ponte non verranno mai recuperati.
Gli stessi politici nel giustificare il prestito ponte affermavano incautamente che questo avrebbe permesso alla compagnia di sopravvivere 12 mesi; a distanza di 6 mesi tutti i 300 milioni di euro sono stati consumati da una compagnia che non è in grado di competere sul mercato; Alitalia inoltre non ha evitato il proprio destino ed è stata commissariata a fine agosto e gli effetti sono stati evidenti sul trasporto aereo nazionale.
Il prestito ponte dunque non ha raggiunto nessuno degli obiettivi per il quale era stato concesso dai Governi e si è dimostrato l’ennesimo errore dovuto all’intromissione della politica nella gestione della compagnia aerea.
La commissione Europea ha tuttavia preso una decisione in favore di CAI; nella sua sentenza del 12 novembre ha infatti affermato che la discontinuità tra l’ex vettore nazionale e la Compagnia Aerea Italiana è ammissibile; questa scelta è di notevole importanza per i soci della cordata italiana che l’avevano posta anche come condizione sospensiva per l’offerta all’acquisto degli asset Alitalia. In questo modo la CAI non dovrà rimborsare i debiti dell’ex vettore di bandiera, che resteranno in capo alla Bad Company, cioè ai contribuenti italiani e ai creditori della compagnia guidata dal Commissario Straordinario Augusto Fantozzi.
La Commissione Europea ha sottolineato che gli asset devono essere venduti a prezzi di mercato e il fatto che l’offerta di Cai non dia un valore agli slot è certamente una violazione a questa decisione europea ma non è detto che essa sarà messa in evidenza e censurata dalla Autorità comunitarie; la vendita quasi certamente si concluderà con l’esito voluto dal Governo Italiano.
Gli “imprenditori di Stato” della cordata Cai si apprestano pertanto ad incassare un grosso regalo a spese dei contribuenti italiani e dei creditori e azionisti privati di Alitalia: il 100% degli slot detenuti dalla vecchia Alitalia nonostante l’offerta Cai si prenda in carico solo il 60% degli aerei delle vecchia compagnia. Una parte non trascurabile degli slot riguarda inoltre aeroporti europei di primaria importanza, dato che l’ex vettore di bandiera ha ancora 42 coppie di slot negli aeroporti di Parigi, Londra, Monaco, Francoforte, Madrid e Barcellona oltre alla posizione di oligopolista detenuta nell’aeroporto di Milano Linate.
Il Commissario Europeo ai trasporti Antonio Tajani ha affermato che l’offerta di CAI è trasparente e di mercato perché sono state presentate 60 offerte per i diversi asset di Alitalia; per evidenti ragioni di trasparenza il Commissario Straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi dovrebbe pubblicarle, come ha fatto per quella arrivata dalla cordata italiana, in modo che sia possibile evidenziare se qualche offerta sia di importo superiore per i preziosi slot della compagnia di bandiera o per altre singole parti del gruppo.
Ciò che invece in sede europea non è stato rimarcato è il fatto che il Governo italiano ha espressamente escluso che la proprietà dell’azienda potesse ricadere in mani non italiane, assumendo una posizione in contrasto con la normativa comunitaria la quale si limita a prevedere che il controllo delle aziende aeronautiche titolari di licenza sui cieli dell’Unione debba essere in capo a soggetti comunitari e non ammette restrizioni ulteriori a questa previsione.
L’atteggiamento ingiustificatamente nazionalista ha scoraggiato la manifestazione di offerte alternative a Cai per l’intero gruppo Alitalia in quanto nessun operatore attento alla propria redditività si metterebbe contro i voleri del regolatore di un mercato nazionale. In tal modo sono stati danneggiati i creditori di Alitalia e i suoi azionisti di minoranza e di maggioranza, questi ultimi identificabili nei contribuenti italiani.
Le prossime settimane saranno decisive per la nascita della nuova Compagnia Aerea Italiana; comincerà infatti a proporre ai singoli dipendenti un contratto di lavoro al fine di trovare il personale necessario a decollare. Attualmente il vettore non ha ancora tutti i piloti necessari a fare partire la nuova società e difficilmente riuscirà a trovare sul mercato centinaia di piloti che siano in grado di pilotare i modelli di aeromobili che la CAI avrà nella propria flotta.
La compagnia, inoltre, con l’amministratore delegato Rocco Sabelli, non ha ancora la licenza di volo, ma tuttavia è molto probabile che entro fine novembre l’ENAC gliela fornisca. Gli ultimatum di Vito Riggio, presidente dell’Ente Nazionale dell’Aviazione Civile, degli scorsi mesi sembrano indirizzare la gestione dell’ente a favore della cordata italiana.
Un ulteriore punto ancora in sospeso di primaria importanza è la valutazione di Alitalia da parte di Banca Leonardo; l’advisor vede come azionisti anche alcuni soci della cordata italiana e questo non depone a favore di una totale indipendenza nella decisione che verrà adottata.
La valutazione degli asset dell’ex compagnia di bandiera è la seconda condizione sospensiva dell’offerta Cai per Alitalia; molto probabilmente Banca Leonardo darà un valore pari a zero per gli slot ed è la ragione per la quale l’offerta Cai potrebbe risultare pari al valore “di mercato” valutato dall’advisor. Questa decisione potrà essere impugnata da una qualunque compagnia aerea qualora risultasse aver presentato un’offerta maggiore per tali asset della fallimentare Alitalia.
L’ultima sospensiva di Cai nella propria offerta per la compagnia gestita da Augusto Fantozzi riguarda l’impossibilità di intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato anche nel caso il nuovo operatore abbia una posizione dominante e ne estragga una rendita. La legge 166 del 2008 all’articolo 10 comma 4 quinquies pone al riparo dall’intervento dell’antitrust Cai almeno fino al luglio 2009. L’apertura e la conclusione dei lavori tuttavia non si avranno prima dell’anno successivo, quando l’alta velocità ferroviaria tra Torino-Milano-Roma-Salerno sarà conclusa e di fatto la decisione non potrà non essere condizionata da questa modificazione della concorrenza tra treno e aereo.
L’offerta Cai è stata presentata lo scorso 31 ottobre e nonostante le molteplici difficoltà è molto probabile che vada in porto. Le problematiche esistenti verranno risolte a scapito non solo del mercato e della concorrenza, ma soprattutto dei viaggiatori e dei contribuenti italiani. L’italianità avrà infatti un costo, a carico di contribuenti e consumatori, di circa 1,3 miliardi di euro all’anno per i prossimi cinque anni, oltre il quadruplo di quanto è costata mediamente all’anno al contribuente la vecchia Alitalia tra il 2003 e il 2007.
1) ELUANA MORIRA'. Lo ha stabilito la legge - Autore: Buggio, Nerella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008 - Definitivo il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza a sospendere l'alimentazione artificiale che tiene in vita la ragazza. Soddisfatto il padre che dichiara: "E' la conferma che viviamo in uno stato di diritto".
2) Caso Englaro: omicidio perpetrato per via legale - La società civile si oppone alla condanna a morte di Eluana - di Antonio Gaspari
3) Eluana condannata a morire di sete e di fame - Sentenza della Cassazione sul caso della ragazza in stato vegetativo dal ’92 - di Antonio Gaspari
4) 14/11/2008 7.49.53 – Radio vaticana - Italia. Eluana: dalla Cassazione via libera all'interruzione di alimentazione e idratazione. Mons. Fisichella: è un fatto gravissimo
5) ELUANA/ Ecco un'altra vittima della guerra dei diritti ad ogni costo - Assuntina Morresi - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) ELUANA/ 1. Melazzini: anch'io mangio grazie a un sondino, e dico che questa sentenza è un omicidio - INT. Mario Melazzini - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ 2. Lupi: così la Cassazione uccide un’innocente, ora la legge per evitare che accada di nuovo - INT. Maurizio Lupi - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) Eluana morirà, da oggi c'è l'eutanasia, di Massimo De Manzoni – Il Giornale.it, 14 Novembre 2008
9) IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA - AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 novembre 2008
10) ETICA E GIUSTIZIA - il fatto «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona - «Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo» - Il neurologo Dolce: si prepara l’eutanasia su una persona indifesa – DI PAOLO LAMBRUSCHI - Avvenire, 14 novembre 2008
11) il medico - Maltoni dell’hospice di Forlì: un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici Chi dice che Eluana non sente nulla, è vittima di un’ideologia - Così molte vite sono a rischio - DI FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 14 novembre 2008
12) Imputato: il diritto alla vita - di Riccardo Cascioli - Una potente lobby internazionale ha scelto come strategia le iniziative giudiziarie per imporre ai singoli Paesi la legalizzazione di aborto, eutanasia ed unioni omosessuali. Dall’America Latina all’Europa sempre più spesso i giudici scavalcano governi e parlamenti su questo tema. Un orizzonte da tenere presente nel dibattito italiano sul “fine vita”. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
13) Il Decalogo nero dell’ideologia anti-life - di Tommaso Scandroglio - Una strategia nichilista per far accettare le pratiche contro la vita: dall’aborto all’eutanasia, dalla Fivet alle sperimentazioni embrionali. Un compendio in dieci punti degli elementi essenziali della cultura di morte. Un «segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (Evangelium vitae, n. 58). [Da «Studi Cattolici» n. 569/70, luglio-agosto 2008]
14) La morte: tappa o termine della vita? - di Mons Alessando Maggiolini - Ricordiamo la figura di monsignor Alessandro Maggiolini (1931-2008) con l'ultimo articolo scritto per Il Timone. Ci uniamo alla richiesta del direttore del Timone Gianpaolo Barra e invitiamo alla preghiera per un grande pastore e Defensor fidei. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
15) Il dibattito sulla vita umana - Aperti alla ragione senza fondamentalismi, di Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, 14 Novembre 2008
16) OLTRE LA CRISI/ Recuperare il senso del lavoro - Bernhard Scholz - venerdì 14 novembre 2008 – Sussidiario.net
17) MEDIOEVO/ Quando la fiducia era alla base della società - Guido Cariboni - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
18) IRAQ/ Cervellera: due sorelle uccise perché cristiane in una lotta per il potere che miete sempre le solite vittime - INT. Bernardo Cervellera - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
19) 14/11/2008 09:22 – MYANMAR- Continua la repressione della dittatura birmana contro monaci e dissidenti - Nove religiosi sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Portavoce della Nld conferma l’incriminazione di 14 attivisti del partito di opposizione e annuncia nuovi arresti. Il giro di vite dei militari intende “dissuadere” le voci contrarie al regime in vista delle elezioni del 2010.
20) Vita e morte nel grembo di Maria - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008
21) SCIOPERI/ La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Il vicolo cieco di Epifani&Co. - Renato Farina - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
22) ALITALIA/ L’Europa e i contribuenti italiani spianano la strada a Cai - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
ELUANA MORIRA'. Lo ha stabilito la legge - Autore: Buggio, Nerella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008 - Definitivo il decreto della Corte di Appello di Milano che autorizza a sospendere l'alimentazione artificiale che tiene in vita la ragazza. Soddisfatto il padre che dichiara: "E' la conferma che viviamo in uno stato di diritto".
Ora cosa faranno?
Non ci sono “spine da staccare”, si dovrà smettere di alimentarla, di darle da bere.
La sederanno perché non soffra troppo la fame e la sete, sicuri che se questo gesto è permesso per legge sia un gesto giusto, buono, sacro?
Questo vuol dire vivere in uno Stato di diritto?
Quale diritto? Quello di smettere di alimentare una donna, quello di lasciare che la sua vita se ne vada piano, che si spenga come un lume acceso che ostinatamente ripete che la vita c’è.
Può un giudice "spegnere il lume", può un uomo arrogarsi questo potere?
Può un giudice chiamare l’eutanasia, perché di questo si tratta, in un altro modo e renderla possibile?
E tutte le altre Eluane?
E Moira, di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi, dovranno sperare che nessuno si rivolga alla legge?
Che il sole baci ancora il loro giovane volto, che le carezze di madri premurose solchino il loro viso, che i baci di chi le ama si posino sul loro collo incuranti di come va il mondo.
Chi sostiene la sfida delle loro famiglie?
Quel quotidiano amare, accudire, cantare, raccontare, il loro coraggioso andare controcorrente, contro chi ritiene che il custodire quelle figlie, quei figli così "faticosi" sia gesto inutile.
Che ce ne facciamo di uno Stato di diritto che serve a stabilire che ci sono vite e vite, questa è una breccia nel muro che sposta il confine e domani chissà.
Qualcuno potrà dire che quando eravate sani e attivi vi lasciaste sfuggire in una conversazione che piuttosto che affrontare gli acciacchi della vecchiaia avreste preferito morire e questa dichiarazione potrebbe esservi fatale.
Accendiamo un lume su tutte le finestre, perché nessuno dimentichi che c’è una donna che sta morendo, lo ha stabilito la legge, infischiandosene di chi voleva prendersene cura. Ditelo a tutti gli amici, mandate messaggi con i vostri SMS.
Caso Englaro: omicidio perpetrato per via legale - La società civile si oppone alla condanna a morte di Eluana - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 13 novembre 2008 (ZENIT.org).- Durissimi i commenti alla sentenza in merito al pronunciamento della Cassazione su Eluana Englaro, reso pubblico nel pomeriggio di questo giovedì, 13 novembre.
In un comunicato diffuso in serata, l'Associazione Medicina & Persona parla del "primo caso di omicidio legale in Italia".
"Non esistendo in Italia una legge sull'eutanasia - osserva -, quello di Eluana è un omicidio perpetrato per via legale, ottenuto cioè con l'autorizzazione dei giudici".
Le conseguenze di un atto di questo tipo sono gravissime. "Da oggi nel nostro Paese si potrà uccidere - quando si vorrà - malati stabili, cronici, inguaribili: pazienti in stato vegetativo, pazienti in condizioni terminali, anziani non più utili alla società, insomma chiunque abbia ‘presumibilmente' chiesto di poter morire e in condizioni di non poter più cambiare idea o di chiedere aiuto, mediante la sospensione di acqua e cibo, magari dopo aver consultato un giudice".
Il comunicato della libera Associazione fra Operatori Sanitari solleva la domanda cruciale: "E' questa la società che volevamo, quella in cui vogliamo vivere?".
Secondo Medicina & Persona, i giudici hanno: "delegittimato la Costituzione Italiana"e "agito contro il Codice Civile e contro il Codice Penale".
L'Associazione fra Operatori Sanitari denuncia la logica sottesa, che è la stessa "adottata durante la Seconda Guerra Mondiale" in cui "si eliminano i più deboli e gli indifesi".
Il comunicato dell'Associazione sottolinea la gravità delle sentenza perché "ormai certi giudici aggirano le leggi - anche quelle esistenti - e creano una nuova era, quella dell'etica del più forte sul più debole, con l'ausilio del diritto".
A denunciare la condanna a morte di Eluana anche Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), il quale ha dichiarato che "si è sentenziata la condanna a morte di una indifesa cittadina italiana. Da oggi il diritto alla vita soggiacerà al potere della legge che sconfina nella sfera più inviolabile della persona umana".
"Che triste Italia appare dinanzi a noi - ha commentato il presidente nazionale del RnS -... Sempre più colpevolmente protesa ad inoculare una cultura della morte, incapace di affermare democraticamente il diritto alla vita".
"Mi chiedo: è davvero questo il sentire degli italiani? Non può dirsi solidarietà sopprimere i deboli, né giustizia rimuovere le ragioni più profonde del vivere comune, proprio a partire dalla condivisione delle angosce e delle sofferenze che ci rendono davvero uomini degni di stare al mondo", ha concluso.
Eluana condannata a morire di sete e di fame - Sentenza della Cassazione sul caso della ragazza in stato vegetativo dal ’92 - di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 13 novembre 2008 (ZENIT.org).- Indignazione e sconcerto ha suscitato la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione in riferimento al caso di Eluana Englaro, e resa nota nel tardo pomeriggio di questo giovedì.
L’associazione Scienza & Vita ha diffuso un comunicato in cui afferma che “si tratta di una vera e propria condanna a morte in età repubblicana”.
In maniera provocatoria ha poi chiesto che “come accade nei Paesi che prevedono la pena di morte per i propri cittadini” sia consentito di assistere all’esecuzione pubblica e di registrare tutto in video.
Scienza & Vita ha spiegato che in questo modo “i nostri figli e i nostri nipoti potranno scoprire come un cittadino italiano possa essere condannato da un giudice di uno Stato civile e democratico a morire di fame e di sete”.
“La decisione della Suprema Corte – ha rilevato l’associazione – di fatto autorizza la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione che restano secondo noi, e anche per una larghissima parte dell’opinione pubblica italiana, semplici sostegni vitali e non terapie”.
Secondo Scienza & Vita, “da questa scelta consegue un’interpretazione riduttiva della vita, quale non degna di essere vissuta. E soprattutto l’idea che la vita umana sia disponibile. Ovvero, che ciascuno di noi possa esercitare addirittura un diritto di morire con il corrispettivo dovere di uccidere (perché qualcuno deve pure eseguire la sentenza)”.
“Diritto di morire che non è contemplato nella Costituzione e che sfida il criterio umanistico del favor vitae a cui essa si ispira”, si precisa nella nota.
Unanime lo sgomento anche nel Movimento per la Vita (Mpv). Il Presidente Carlo Casini ha rilevato che “nascondersi dietro schermi formali non serve a mascherare la realtà” perché “é una sentenza che ha come presupposto ed effetto quello di discriminare tra vite umane più o meno degne di vivere”.
Il Presidente del MpV ha sottolineato che “questa decisione mette in pericolo le altre migliaia di Eluane accudite amorosamente dai congiunti, le migliaia e migliaia di vite di persone gravemente handicappate che dipendono dalla capacità di accoglienza da parte dell’intera società. In definitiva mette in pericolo tutti noi quando diventiamo marginali ed inutili”.
In merito alle misure da prendere per impedire un’atroce condanna a morte, Casini ha detto che “allo stato attuale è ancora possibile un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che però non ha effetto sospensivo”.
“Per cui – ha concluso il Presidente del MpV – sarà necessario impegnarsi subito con grande vigore per l’approvazione di una legge la quale, restituendo verità all’articolo 32 della Costituzione, impedisca che si verifichino ancora altri drammatici abbandoni di persone in stato di grave disabilità come Eluana”.
14/11/2008 7.49.53 – Radio vaticana - Italia. Eluana: dalla Cassazione via libera all'interruzione di alimentazione e idratazione. Mons. Fisichella: è un fatto gravissimo
La Corte di Cassazione a sezioni unite ha dichiarato ieri inammissibile per difetto di legittimazione il ricorso sulla vicenda di Eluana Englaro, autorizzando così la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della giovane donna in stato vegetativo da quasi 17 anni. Numerosi i commenti politici. Il servizio è di Giampiero Guadagni: Si tratta di un fatto di una gravità assoluta, secondo il presidente della Pontificia accademia per la vita, mons. Rino Fisichella. Ascoltiamolo, nell’intervista di Francesca Sabatinelli
E sul caso Englaro è intervenuta anche la Conferenza Episcopale Italiana. Mentre partecipiamo con delicato rispetto e profonda compassione alla sua dolorosa vicenda – si legge in un comunicato diffuso ieri – non possiamo fare a meno di richiamare alla loro responsabilità morale quanti si stanno adoperando per porre termine all’esistenza di Eluana. La convinzione – aggiungono i vescovi italiani - che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscano una forma di accanimento terapeutico è stata più volte, anche di recente, resa manifesta dalla Chiesa e non può che essere riaffermata anche in questo tragico momento. In tale contesto – prosegue il comunicato - si fa più urgente riflettere sulla convenienza di una legge sulla fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa, da elaborare con il più ampio consenso possibile da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
ELUANA/ Ecco un'altra vittima della guerra dei diritti ad ogni costo - Assuntina Morresi - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Eluana Englaro morirà di fame e di sete. Impiegherà «grossomodo 15-20 giorni […] anche se non è possibile stabilire esattamente il tempo»: ce lo ha spiegato Mario Riccio, il medico che ha sospeso la ventilazione a Piergiorgio Welby e che giudica positivamente la conclusione della vicenda.
Alcune settimane di agonia, quindi, per Eluana, dopo quest’ultimo, definitivo pronunciamento della Cassazione, che segna una delle pagine più nere della giustizia italiana.
Ora tutto dipende da Beppino Englaro: resta valida la sentenza della Corte di Appello del luglio scorso, secondo la quale il padre di Eluana non è obbligato a sospendere la nutrizione artificiale, ma solo autorizzato a farlo “in hospice o in altro luogo di ricovero confacente”. In altre parole: secondo i giudici Beppino Englaro può lasciare morire di fame e di sete sua figlia in strutture sanitarie pubbliche o private, e pure a casa sua, purché il luogo scelto sia adeguato, ma nessuno è obbligato ad eseguire la sentenza e lui stesso potrebbe ancora decidere di fermarsi, e non andare avanti.
Chi accoglierà la richiesta del padre di Eluana e lo aiuterà a sospendere l’alimentazione di sua figlia, quindi, lo farà per una scelta libera e consapevole e se ne assumerà tutta la responsabilità, politica e morale, davanti al popolo italiano.
Dire che in questo modo Eluana sarà “lasciata andare” e morirà naturalmente non corrisponde alla realtà dei fatti: Eluana sarebbe morta naturalmente subito dopo l’incidente stradale per via del trauma cranico e di una emorragia cerebrale, solo se non fosse stata rianimata, come invece era doveroso da parte dei medici. La morte per mancanza di nutrizione di Eluana, adesso, non ha niente di naturale.
D’altra parte non è possibile parlare di alimentazione ed idratazione come di terapie mediche, solo perché vengono somministrate con un atto medico (con l’uso del sondino naso gastrico o anche con un “tubo nello stomaco”, come spesso viene detto), così come il parto continua ad essere naturale anche se viene fatto in ospedale, con il battito cardiaco del feto monitorato, e con interventi e manovre del ginecologo, più o meno invasive.
Se Eluana, pure in stato vegetativo, fosse ancora in grado di deglutire, potremmo dire che la sua alimentazione è “naturale” solo perché le suore che la accudiscono potrebbero usare un cucchiaio anziché un sondino?
E comunque, che differenza c’è fra Eluana, incapace di relazionarsi con il mondo esterno e completamente dipendente dalle persone che la accudiscono, e un grave disabile mentale, o anche un malato di Alzhaimer, incapaci anch’essi di relazione, senza consapevolezza di ciò che li circonda, e privi di qualsiasi autonomia?
Siamo sicuri che le sentenze dei vari tribunali su Eluana Englaro non si possano estendere molto presto anche ad altri disabili gravi?
E’ oramai evidente a tutti che solo approvando una legge che entri nel merito delle dichiarazioni anticipate di trattamento si può cercare di correggere la deriva eutanasica che è entrata nel nostro ordinamento giuridico. Come abbiamo già avuto modo di dire nei mesi passati, paradossalmente anche una norma che vieti esplicitamente l’eutanasia non impedirebbe la sospensione della nutrizione artificiale ad Eluana Englaro che morirà, secondo la giustizia italiana, non per eutanasia ma perché sarà rispettata la sua volontà, e cioè il rifiuto dei trattamenti a cui è sottoposta.
Le sentenze relative al caso di Eluana Englaro non nascono dal nulla, ma sono l’esito inevitabile di una interpretazione estrema del concetto di autodeterminazione della persona, nel quale le libertà di cui ogni essere umano dispone si trasformano in diritti: con la legge 40 sulla fecondazione assistita il punto in questione era il diritto al figlio (e pure sano). Con i DICO era in gioco invece il diritto ad essere riconosciuti come famiglia, indipendentemente dagli impegni assunti e dal sesso, mentre con Welby prima ed Eluana adesso si è passati dalla libertà di cura al diritto a morire, basandosi su una giurisprudenza che negli ultimi anni si è sempre più orientata in questo senso.
E intanto il Consiglio Superiore della Magistratura si è organizzato per difendere i giudici della Corte di Cassazione dagli attacchi che si sono levati nei loro confronti: è stata già formalizzata all’interno del Csm la richiesta di un intervento a tutela dei giudici della Cassazione che si sono pronunciati sul caso di Eluana Englaro.
Un’iniziativa a dir poco inquietante, e sicuramente insolita. Sappiamo bene che la legge va rispettata. Ma speriamo che, di fronte a una sentenza che lascia morire di fame e di sete una persona in base a frasi pronunciate vent’anni prima, e che introduce di fatto l’eutanasia nel nostro paese, rimanga almeno la libertà di criticare, anche energicamente, e di prendere pubblicamente posizione.
ELUANA/ 1. Melazzini: anch'io mangio grazie a un sondino, e dico che questa sentenza è un omicidio - INT. Mario Melazzini - venerdì 14 novembre 2008
«Ricorso inammissibile»: due parole tremende, per dire che tornare indietro non si può. La sentenza che condanna a morte Eluana Englaro non può essere cancellata, e il suo tragico effetto non può essere bloccato. Questo ha deciso ieri sera la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso della procura di Milano.
Potrebbe essere l’ultimo atto, epilogo di una lunga vicenda in cui nessuno esce vincitore, e solo una persona, di certo, esce sconfitta: Eluana stessa. Di questa sconfitta è convinto Mario Melazzini, presidente della Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), e malato di Sla dal 2002. Una sconfitta che suona particolarmente tragica per chi, come lui, condivide con Eluana l’aspetto centrale di tutta questa vicenda: il fatto di mangiare e bere grazie all’aiuto di un sondino.
Dottor Melazzini, che cos’ha provato sentendo questa ultima sentenza?
Enorme tristezza. Anche se da qualcuno potrà essere vissuta come una vittoria, io dico che in queste situazioni non ci possono essere né vinti né vincitori, ma solo sconfitti. E una cosa esce sconfitta in particolare: la vita. Sentendo dichiarazioni di vittoria fatte anche da persone non direttamente coinvolte, mi vien da dire che forse dobbiamo interrogarci, come società che si dice civile, su quale sia il valore che diamo alla vita. È o no un valore assoluto? Alcuni dicono che è stata fatta la volontà di Eluana: ma come si fa a desumere la volontà, come accade nella sentenza, in base solo ed esclusivamente a modelli di vita? A me come cittadino, come persona e anche come malato questa cosa fa molto, molto male: la vita vista come accettabile solo se adeguata a certi modelli.
Cosa si sentirebbe di dire alla famiglia di Eluana?
Io mi sento vicino a quella povera famiglia, indipendentemente da tutto. Non so cosa faranno ora, e se effettivamente metteranno in pratica l’ultimo atto, che non sarà un accompagnamento ma un vero e proprio omicidio. Questo mi sembra doveroso dirlo, come uomo ma anche e soprattutto come medico: l’alimentazione e l’idratazione non sono strumenti terapeutici, e come tali non sono mai identificabili come atto di accanimento terapeutico. Eluana non è una persona malata: Eluana è solo disabile.
Ciò che ieri ha stupito è l’aridità di una sentenza che giudica tecnicamente inammissibile un ricorso: un semplice meccanismo giuridico, che decide della vita di una persona.
Questa è la cosa che io trovo veramente assurda, e cioè che riguardo a un valore e un bene inalienabile e indisponibile si possa decidere sul da farsi solo ed esclusivamente in base a uno strumento giuridico. Questo sia detto con tutto il rispetto per il lavoro della magistratura. Ma il fatto che i magistrati giudichino inammissibile il ricorso solo dal punto di vista procedurale, e non per i contenuti, forse dovrebbe far concludere che non abbiano preso bene in visione quello che dice l’articolo 2 della Costituzione. Si cita sempre e solo l’articolo 32, e non si ricorda mai che all’articolo 2 si parla di «diritti inalienabili» da riconoscere e garantire. Comunque, fa male e dà molto da pensare il fatto che in un’aula fredda di tribunale vengano decisi alcuni valori che sono indiscutibili.
Cosa accadrà ora? Molti pensano che sia un semplice automatismo: si stacca una spina e tutto finisce. Ma cosa accadrà realmente ad Eluana, se si dovesse dare esecuzione alla sentenza?
L’idea che il tutto possa risolversi con una sorta di automatismo è figlia di una concezione, gravissima, secondo cui in realtà Eluana non è più una persona viva. Basta staccare una spina, il sondino, e punto e a capo. Non sarà così: morirà di fame e di sete, cioè con una delle morti più atroci che ci possono essere. Questo è doloroso ma deve essere detto, visto che molti pensano e affermano che quella di Eluana non è vita. Io posso affermare, come medico, che sarà una morte atroce, e dovrà essere “controllata”, come accaduto nel caso di Terry Schiavo. Alcuni fautori di questa sentenza e presunti uomini di scienza sostengono che il danno subito da Eluana a livello corticale, cioè della corteccia cerebrale, coinvolgerebbe anche le strutture deputate al controllo della sete e di alcune sensazioni, come il dolore. Ma se fosse così non ci sarebbe ragione di trattare con analgesici maggiori le ultime ore della vita, come accaduto con la povera Terry Schiavo. A Terry furono date forti dosi di morfina. È come mettersi a posto la coscienza, nel caso in cui quella teoria fosse erronea. Significa che presumiamo che lei proverà grande dolore.
La sua malattia costringe anche lei, come Eluana, alla nutrizione attraverso il sondino: che effetto le fa sentire che questa condizione possa essere considerata in contrasto con la dignità della vita?
Mi sento profondamente offeso come malato, e non solo per me, ma anche per i tanti malati che si trovano in condizioni simili a quelle di Eluana, con alimentazione e idratazione artificiale. Tutte queste persone hanno la loro vita; e la vita ha un valore intorno al quale non possono essere prese decisioni, come se la dignità fosse legata al concetto di qualità. Io ne sono estremamente convinto: la dignità di ogni vita ha un carattere intrinseco, ontologico. Mi è rimasta impressa un’intervista fatta alle persone che accudiscono Eluana. Dicevano: «oggi Eluana è molto bella». Perché nessuno parla del fatto che ci sono persone che si occupano di lei, che la vestono, la cambiano, le fanno fare fisioterapia. Per una persona morta sarebbe tempo sprecato Ma Eluana è viva. Purtroppo si pesa spesso che casi come questo, che danno molto disagio, sia molto meglio risolverli. E la cosa più grave è che tutto questo ci distrae da tutti gli altri soggetti che sono a carico delle famiglie, le quali hanno bisogno di strumenti e di sostegno economico per portare avanti queste situazione. Sono costretti a lottare per essere liberi di vivere. È un paradosso: è più tutelata la decisione di interrompere una vita che non la scelta di chi vuole continuare ad esercitare un diritto sacrosanto, come la vita stessa. E così la scelta della vita diventa una battaglia quotidiana.
ELUANA/ 2. Lupi: così la Cassazione uccide un’innocente, ora la legge per evitare che accada di nuovo - INT. Maurizio Lupi - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera dei Deputati è stato il principale artefice del conflitto di attribuzione sul caso di Eluana Englaro, votato da Camera e Senato ed è stato uno del primi personaggi politici a intervenire sulle agenzie con una durissima presa di posizione poco dopo aver appreso la notizia della decisione della Cassazione di rigettare l’ammissibilità del ricorso contro la sentenza che consente a Beppino Englaro di sospendere l’idratazione e l’alimentazione assistita alla figlia.
Onorevole Lupi, lei ieri ha dichiarato senza mezzi termini: “la Cassazione ha deciso di uccidere Eluana”. E’ tutto finito dunque?
Purtroppo ci troviamo di fronte ad una sentenza gravissima e che costituisce un precedente altrettanto grave: la possibilità che un tribunale decida della vita e della morte di una persona sostituendosi alle leggi del nostro Paese. In Italia, infatti, la legge vieta in maniera esplicita l’eutanasia, cioé il fatto che un terzo determini la possibilità di vita o di morte di una persona. E’ tutto finito? Sembra, per Eluana, di sì: assisteremo alla drammatica morte di fame e di sete di una persona, di una donna. Questa è la situazione in cui ci troviamo.
Lei come giudica l’operato della magistratura in questi anni e, in particolar modo, in questi ultimi mesi sul caso di Eluana Englaro?
Giudicare l’operato della magistratura in questa vicenda vuol dire innanzitutto guardare a cosa siamo di fronte: siamo di fronte all’esproprio di una sua prerogativa da parte di un potere dello Stato ai danni di un altro potere dello Stato, che è il Parlamento. La magistratura non ha il compito di sostituirsi al legislatore: ha, nel nostro ordinamento, il compito di attuare le leggi. In questo caso il tribunale si è arrogato il potere di decidere di sostituirsi al parlamento. Credo che questo fatto sia tanto più grave perché c’è il rischio che si individuino come una sorta di “scorciatoie” per legiferare rispetto all’unica strada possibile in un paese democratico come il nostro, che è quella di seguire un iter parlamentare. Legiferare spetta al parlamento, che essendo eletto dal popolo è il luogo in cui si dibattono e definiscono le leggi di un paese: oggi viviamo invece il rischio di vedere diventare la magistratura braccio armato di una cultura dominante relativista che non accetta le regole della democrazia.
Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, ritiene che le accuse mosse da alcuni esponenti del centrodestra o del mondo cattolico contro la decisione della Cassazione sul caso di Eluana traggano origine da una "confusione tra il merito della questione Englaro e il tema del rapporto giurisdizione-legsilazione" e sostiene che "Se il Parlamento ha le idee chiare sul fine vita e sul testamento biologico allora faccia la legge e introduca nuove regole". Cosa ne pensa?
A Onida, che è sempre osservatore attento dei fatti giuridici e costituzionali, forse è sfuggito un piccolo particolare, cioè che innanzitutto ci sono delle leggi vigenti nel nostro Paese che vietano l’eutanasia e che – in secondo luogo – il parlamento sul “fine vita” sta legiferando. Cioè al Senato è aperta una procedura legislativa che vede la Commissione Sanità impegnarsi a fronte di diversi progetti di legge che sono stati presentati nell’elaborare una legge. E’ proprio questo l’aspetto grave che Onida dovrebbe sottolineare: neanche noi vogliamo entrare nel merito della questione Englaro, ma osserviamo con molta amarezza e gravità il fatto che proprio mentre un potere dello Stato stava esercitando le proprie funzioni legiferando su questo tema, un altro potere dello stato, quello giudiziario, gli si sostituisce.
Non sembra dello stesso avviso Paolo Ferrero (Segretario Prc) che ha parlato di una “sentenza di civiltà” ringraziando “di cuore ai giudici della Corte di Cassazione” che ha rispettato “lo spirito di umanità e il rispetto del diritto e delle volontà delle persone che anima l'intera nostra Costituzione”…
Ecco, l’amico ed esimio costituzionalista Onida che prima citava dovrebbe preoccuparsi proprio di dichiarazioni come questa. Dichiarazioni del genere sono la dimostrazione di come un rappresentante di una cultura relativista che non rispetta il diritto alla vita e la dignità della persona, vedendosi nell’impossibilità di usare il giusto e unico strumento per poter affermare le proprie idee e tradurle in legge, che è il parlamento, utilizza impropriamente un altro strumento, che è la magistratura, per affermare queste idee. Non è possibile, né pensabile che una legge possa affermare – perché ciò è contro la Costituzione – il diritto a morire, perché le leggi sostengono sempre e comunque il diritto alla vita e il sostegno alla vita né che un tribunale, che non ha un potere creativo della legislazione possa permettersi di sostituirsi al potere legislativo. Il problema vero, però è solo uno ed è che nel nostro paese sarà permesso che la vita di una giovane donna venga spenta da una morte per fame e per sete. Questa è la cosa davvero più grave.
Crede che questa sentenza sia sintomo di una deriva culturale del paese?
Io credo che nel nostro Paese ci sia ancora una sensibilità culturale che vede il rispetto della vita e la dignità della persona ancora prevalere anche se questa è una responsabilità individuale, di ciascuno. E’ una responsabilità di tutti coloro che vivono un’esperienza in cui la vita e la persona sono qualcosa di “più grande” e che devono essere sempre e comunque rispettati. Queste persone devono capire che hanno una grande responsabilità, cioè quella di testimoniare con il loro impegno e - di più – costruire fatti che testimoniano questo attaccamento e rispetto per la vita, indipendente dalla cultura dominante e da coloro che senza rispettare le regole democratiche vogliono dettare le regole del gioco.
Mons. Rino Fisichella ha auspicato che si arrivi al più presto a "formulare una legge, il più possibile condivisa, perché venga evitata qualsiasi esperienza di eutanasia passiva o attiva nel nostro Paese". Cosa pensa di questa dichiarazione, e della posizione della Chiesa?
Io credo che a questo punto sia indispensabile e urgente procedere a una iniziativa legislativa da parte del parlamento. Ma questa legge, come tutte e forse più di altre, non deve dimenticare alcuni punti cardine. Anzitutto, la difesa della dignità e del diritto alla vita anche quando questa si va a spegnere: non è, e non può essere considerata, un peso per la nostra società la parte finale di una vita. Anzi, la società deve guardare alla fine di una vita con grande responsabilità, perché questa sia accompagnata, sostenuta e difesa nella sua dignità. In secondo luogo, deve essere chiarito inequivocabilmente una volta per tutte che alimentazione e idratazione non sono cure mediche, sono elementi essenziali (mangiare e bere) per la vita umana. Terzo, l’autodeterminazione come principio per la propria vita e la propria morte non può mai essere affermato per legge e in ogni caso deve essere sempre e comunque garantito - al di là dell’espressione di una volontà che deve essere reiterata - il diritto-dovere del medico a scegliere come e quando curare.
L’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà avrà un ruolo particolare in questo dibattito?
Questo confronto aperto a tutti è già approdato nelle commissioni (in particolare la commissione Sanità del Senato) e li si sta svolgendo. Quello che bisogna tener presente è che su questo argomento non tiene la logica dello schieramento ma , al contrario il tema è assolutamente trasversale e in questo senso l’esperienza, lo spirito e i rapporti nati e cresciuti nell’intergruppo saranno una testimonianza. C’è una concezione comune che è trasversale e che è indipendente dal fatto di essere laici o cattolici, di centrodestra o di centrosinistra e da cui tutti dobbiamo partire: la concezione della dignità della vita, del valore della persona, della sua dignità e della sua responsabilità. Ognuno di noi quindi darà il suo contributo come già avvenuto per la legge 40 sapendo che non è uno scontro tra idee diverse ma un lavoro di approfondimento su questi temi
A proposito di questo lavoro di confronto comune, pensa che ci sia una spaccatura nel mondo cattolico sul tema della legge sul fine vita? Se c’è, è superabile?
Io credo che dovremo lavorare tutti insieme per arrivare ad avere una legge il più possibile condivisa e che possa essere una legge sul fine vita per la difesa e la dignità della vita. Da cattolici noi sappiamo che, come è avvenuto per la legge 40 che ho ricordato prima, dobbiamo agire con estremo realismo e per arrivare a ottenere il male minore da questo punto di vista, proprio per evitare che ci sia una deriva eutanasica nel nostro Paese. Credo che sia sbagliata una gara a “chi è più ortodosso”, ma occorre invece una coscienza comune ed agire in maniera responsabile rispetto al nostro ruolo di politici e credenti
Eluana morirà, da oggi c'è l'eutanasia, di Massimo De Manzoni – Il Giornale.it, 14 Novembre 2008
Milano - Ieri in Italia è stata introdotta l’eutanasia. Vi diranno che non è vero, che la sentenza con la quale la Cassazione ha definitivamente autorizzato il padre a staccare il sondino che da oltre 16 anni nutre e tiene in vita Eluana Englaro riguarda solo ed esclusivamente questo caso particolare. E formalmente è così. Lo ribadisce anche la motivazione con la quale la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della Procura di Milano: l’impugnazione è inammissibile perché la vicenda in questione non riguarda «un interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale».
Ma nei fatti da ieri nel nostro Paese si può provocare la morte di una persona senza incorrere nelle norme previste dal diritto vigente, vale a dire un’accusa di omicidio. Come afferma il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, «per la prima volta un cittadina della Repubblica italiana morirà per una sentenza».
Giusto? Sbagliato? La vicenda di Eluana, con le sue molteplici sfumature, pare fatta apposta per lacerare le coscienze. C’è una giovane donna da quasi 17 anni in stato vegetativo. C’è un padre straziato che attraversa quotidianamente un inferno personale, sostiene che la figlia mai avrebbe voluto essere tenuta in vita in queste condizioni e porta testimonianze di come, quando era consapevole, più volte Eluana abbia espresso tale convinzione. C’è un Paese che si interroga e si divide sui confini della vita e della morte, sulla dignità dell’esistenza, sulla pietà, sul diritto di trasformare questi rovelli in una legge che, in ultima analisi, dia a qualcuno il potere di decidere sulla vita di un altro.
Questa legge non c’è. Giusto? Sbagliato? Visto come sono andate le cose, si può dire che sarebbe stato meglio se il Parlamento avesse fatto prima quel che si accinge a fare nei prossimi mesi, e cioè mettere, attraverso il cosiddetto testamento biologico, paletti il più possibile precisi (per quanto si possa essere precisi in questa materia) sul «diritto a morire». Nel vuoto legislativo, infatti, si sono infilati i giudici (prima quelli della prima sezione di Cassazione, poi quelli della Corte d’Appello di Milano, infine ancora quelli della Cassazione ma stavolta a sezioni unite), colmando per sentenza quello che hanno percepito come una lacuna giuridica, forzando e adeguando il Codice alla «mutata coscienza sociale».
Questo è avvenuto, al netto dei formalismi giuridici e comunque la si pensi sull’eutanasia. I magistrati si sono sostituiti al Parlamento e, interpretando quello che ritengono essere il comune sentire («dimostrando di essere in sintonia con la maggioranza del Paese», come dice la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni), hanno stabilito che quel che fino a ieri per la legge era omicidio, oggi per chi la legge è chiamato ad applicare non lo è più. Questo è avvenuto. E, per il modo, qualche brivido dovrebbe correre nella schiena anche di chi può essere totalmente d’accordo con la sostanza del provvedimento.
Quello di Eluana Englaro è un caso limite. E proprio per questo è diventato un caso simbolo. Sul suo corpo si è combattuta una battaglia etica e ideologica che aveva come fine ultimo cambiare il nostro ordinamento. Ora la breccia è stata aperta. Dove verrà posta la prossima, necessaria frontiera è un’incognita e Camera e Senato sono chiamati a un compito delicatissimo. Ma questo dopo. Oggi risuonano ancora le grida di guerra. E mentre dai campi opposti volano le accuse, Eluana si accinge a essere staccata dal sondino che la tiene in vita e lasciata morire. Nell’arco di 10-15 giorni. Di fame. Perché anche questo hanno di brutto le leggi fatte per sentenza: che sono necessariamente approssimative. Si voleva l’eutanasia. Avremo una lunga agonia: tutto meno che una «dolce morte».
IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA - AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 14 novembre 2008
Ci sarà modo nei prossimi giorni di approfondire la valenza propriamente giuridica della sentenza della Cassazione sul 'caso Eluana'. Avremo modo di verificare se l’agonia cui Eluana appare ormai irrimediabilmente condannata sarà paragonabile a quella, atroce per la sua lunghezza, di Terry Schiavo. Per ora limitiamoci a richiamare le obiettive ricadute biogiuridiche e soprattutto bioetiche di questa sentenza. Ribadisco: bioetiche e non teologiche, non dogmatiche, non spirituali, non religiose. Non perché queste ricadute non ci siano (anzi, sono le più importanti), ma perché prima di approdare al piano della teologia e della spiritualità abbiamo il dovere, come cittadini di una società laica e pluralista, di soffermarci e di ragionare pacatamente sul piano della comune ragione umana, quel piano che tutti ci accomuna, credenti e non credenti, quel piano che i magistrati di Cassazione hanno obiettivamente offeso. A seguito dell’iter processuale cui questa sentenza sembra aver posto fine è stato introdotto in Italia un principio che non solo non appartiene alla nostra tradizione giuridica, ma che ripugna alla logica stessa del diritto: quello della disponibilità della vita umana e soprattutto della vita umana malata. In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia, senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome. Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un 'trattamento', ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina. E comunque, il solo fatto che esista l’opinione diffusa, anche tra autorevoli medici e scienziati, secondo cui alimentare e idratare un malato in stato vegetativo è una forma primaria di sostegno vitale e non una terapia in senso stretto, avrebbe dovuto indurre tutti (e i giudici di Cassazione in primo luogo) ad adottare un criterio interpretativo restrittivo e non estensivo dell’articolo 32, 2° comma, della Costituzione, che riconosce sì al paziente, come ormai a tutti è noto, il diritto di rifiutare trattamenti sanitari coercitivi, ma non gli dà il diritto di disporre della propria vita.
Continueremo a sentirci ripetere che con questa sentenza si è reso omaggio alla volontà di Eluana. A parte il fatto che la Cassazione ha ritenuto accettabili, per fornire la prova di tale volontà, testimonianze e indicazioni sullo stile di vita della povera ragazza che sarebbero ritenute risibili ove si dovesse accertare una volontà testamentaria di tipo patrimoniale (ma la vita non conta più del denaro?), si deve instancabilmente ribadire che l’autodeterminazione non può avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile come quella della morte. È la vita, infatti, e non la morte l’orizzonte nel quale si colloca il diritto. Se diciamo no alla pena capitale, non è perché riteniamo che non sia possibile che esistano criminali che la meritino, ma perché è atroce che attraverso una condanna giudiziaria il diritto si faccia strumento di morte. La Cassazione, probabilmente con serena inconsapevolezza, a tanto invece è giunta. E ancora. Confermando che al padre di Eluana va riconosciuto il potere di ordinare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della figlia, la Cassazione ha alterato irrimediabilmente la figura del tutore, cioè di colui cui il diritto affida il compito di tutelare soggetti fragili, deboli, incapaci, inabilitati, interdetti, alla condizione però di agire sempre e comunque nel loro esclusivo interesse. Condannandola a morire di inedia, il tutore non solo sottrae a Eluana il bene della vita, ma soffoca ogni sia pur minima speranza di poter fuoriuscire da uno stato, come quello vegetativo, che non a caso la scienza definisce 'permanente', non 'irreversibile'. Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritenere ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate. Non è così che si rende omaggio alla verità. Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità. È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita. Che il signor Englaro, e con lui i magistrati che hanno avallato le sue richieste, abbiano perso questa nobile e antica consapevolezza, prima che suscitare critiche o sdegno suscita un profondo dolore.
ETICA E GIUSTIZIA - il fatto «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona - «Scelta pilatesca delle toghe faremo ricorso a Strasburgo» - Il neurologo Dolce: si prepara l’eutanasia su una persona indifesa – DI PAOLO LAMBRUSCHI - Avvenire, 14 novembre 2008
Forse una speranza c’è ed è contenuta in un appello a Strasburgo per far rispettare il diritto alla vita in Italia. Non si perde certo d’animo Giuliano Dolce, 80 anni, neurologo di fama internazionale, direttore scientifico del «Sant’Anna» di Crotone e presidente dell’associazione di bioetica Vive. Anzitutto è determinato a denunciare il medico che staccherà il sondino nasogastrico che alimenta Eluana e il direttore sanitario della struttura o dell’Asl che ospiterà la giovane in stato vegetativo «perché negli ospedali pubblici italiani si va per farsi curare, non per venire uccisi». E, insieme a 34 associazioni, annuncia un ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro la sentenza che, per la prima volta, autorizza la morte di una cittadina italiana.
Professore, dunque assisteremo nei prossimi giorni a un altro calvario come quello dell’americana Terri Schiavo?
«Precisamente. Si prospetta purtroppo un’agonia lunga perché Eluana è giovane ed è stata assistita bene in questi anni dalle suore di Lecco. Siamo davanti a una situazione paradossale. Questa persona, che oggi vive senza l’aiuto di farmaci e macchinari, può essere uccisa levandole il sondino che la alimenta. Non c’è accanimento terapeutico su di lei, i sanitari infatti la nutrono come è loro dovere. Invece la magistratura italiana, a dispetto delle convenzioni internazionali, ritiene che nutrire una persona al massimo grado di disabilità sia un atto terapeutico e non un atto dovuto. Ora, per non infliggerle le sofferenze della disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle farmaci. Si finirà così con il curarla per farla morire 'bene'.
Ma questa non è eutanasia, pratica vietata in Italia?
«Sì ed è una forma di eutanasia crudele, per giunta, perché prolungata e praticata su una persona indifesa che potrebbe vivere almeno altri 16 anni in stato vegetativo e non su un malato terminale.
Che non ha lasciato neppure un ipotetico testamento biologico, facendo sapere che rinuncia volontariamente a ogni forma di alimentazione».
Eppure Riccio, l’anestesista che ha aiutato a morire Welby, garantisce che non soffrirà, poiché è priva di coscienza...
«E allora ci spieghi perché sedarla e perché i giudici milanesi, nella sentenza dello scorso giugno, hanno prescritto minuziosamente i dettagli da seguire per arrivare alla morte. Già che c’è, questo signore mi spieghi anche come può un medico togliere l’alimentazione a un paziente. Oggi Eluana vive grazie a mille calorie fornitele quotidianamente da un liquido che ha il color del latte e che è ricco di minerali, grassi e zuccheri. Ma se frullassero del cibo e glielo fornissero, potrebbe assumerlo.
Morirà di fame e di sete, inutile trovare eufemismi».
Qualche tempo fa alla donna, che oggi ha quasi 38 anni, è tornato il ciclo mestruale. Qualcosa sta avvenendo nel suo stato vegetativo?
«Scientificamente non vi è alcuna correlazione. Ma è altrettanto vero che generalmente negli stati vegetativi il ciclo ritorna dopo pochi mesi, non ho mai sentito di un ciclo che ritorna dopo quasi 17 anni. È un caso unico, a mia memoria.
Significa che qualcosa è successo nell’ipofisi e nell’ipotalamo di Eluana. Questo non vuol dire, però, che potrebbe riprendere coscienza. Avanzo un’ipotesi suggestiva di carattere psicanalitico: non avendo altre forme di comunicazione, forse ha voluto avvertirci con il suo corpo che non vuole morire. Ma è solo l’ipotesi di un vecchio medico che da mezzo secolo sta in corsia accanto a chi vive in stato vegetativo».
In questi mesi lei, con tanti altri, si è battuto perché non finisse così. Come ha reagito alla sentenza?
«Non è una vittoria, come hanno detto i legali del padre e neppure una sconfitta dell’associazionismo e del mondo medico scientifico contrario a far morire la giovane. La Cassazione non si è pronunciata ed è stata, a mio avviso, una scelta pilatesca dei giudici perché si sono appellati a un vizio di forma. Non è cambiato nulla rispetto allo scorso luglio, il padre poteva decidere di togliere il sondino ieri come potrà farlo domani.
Piuttosto, il loro problema è dove trovare un posto 'adatto', come dice la sentenza ad ospitare Eluana per morire.
Non l’hanno trovato in Lombardia, in Piemonte, neppure nelle regioni laiche come Emilia e Toscana. Siccome si dice che andrà all’ospedale civile di Udine, in Friuli, mi risulta che una struttura pubblica non possa ospitare una persona, un cittadino della Repubblica, per farla morire anziché curarla. Quindi, sono intenzionato a denunciare i sanitari e i dirigenti che permetteranno che la donna muoia. E non è l’unica cosa che faremo».
Quali altre iniziative avete progettato?
«Oggi stesso presenteremo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Oltre all’associazione Vive, abbiamo il sostegno di 33 realtà tra cui la Federazione nazionale trauma cranico. Abbiamo qualche speranza, i requisiti per accogliere d’urgenza il ricorso ci sono tutti. Non ci illudiamo, ma la Corte europea potrebbe ancora fermare tutto e riaffermare il diritto di questa donna ad essere nutrita».
Su cosa si fonda il ricorso?
«Noi rappresentiamo chi si prende cura dei 30 mila pazienti in stato vegetativo e riteniamo che con la sentenza di ieri l’Italia abbia violato diversi trattati internazionali. Uno su tutti, la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006. Eluana dal punto di vista medico è una persona in stato vegetativo persistente ed è clinicamente guarita, ma in maniera imperfetta ed è affetta da disabilità al massimo grado. La convenzione, sottoscritta dall’Italia un anno fa, le garantisce, in un comma dell’articolo 25, il diritto ad assumere cibo e fluidi. Purtroppo i giudici milanesi ignoravano tutto ciò e anche quelli della Cassazione. Bisogna allora andare fuori dai nostri confini per chiedere di riaffermare il suo diritto alla vita. E anche per tutelare migliaia di persone in stato vegetativo. Perché questa sentenza rischia di fare da apripista ad altre, può mettere migliaia di vite inermi come la sua su un piano inclinato e farle scivolare verso la morte perché un giudice ha stabilito che non sono degne di vivere».
«Non c’è accanimento terapeutico, i sanitari che la nutrono fanno il loro dovere Inutile usare eufemismi, togliendo il sondino morirà di fame e di sete» «Per non infliggerle le sofferenze legate alla disidratazione, dovranno sedarla, quindi somministrarle dei farmaci Così si finirà con il curarla per farla morire 'bene'»
il medico - Maltoni dell’hospice di Forlì: un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici Chi dice che Eluana non sente nulla, è vittima di un’ideologia - Così molte vite sono a rischio - DI FRANCESCA LOZITO – Avvenire, 14 novembre 2008
È triste e amareggiato Marco Maltoni, primario dell’Unità di cure palliative dell’Ospedale Pierantoni di Forlì. Triste, perché quella di Eluana Englaro è una «vicenda drammatica da cui tutti usciamo sconfitti». Amareggiato perché lui, come molti suoi colleghi italiani che praticano la medicina palliativa in hospice, i malati che vanno verso la morte li cura fino all’ultimo istante assicurando loro assistenza e dignità. E per questo dice no alla possibilità che proprio in hospice Eluana viva i suoi ultimi giorni.
La Cassazione ha dato il via libera all’interruzione di idratazione e alimentazione ad Eluana: qual è la sua prima reazione a questa notizia?
Una reazione di tristezza, di paura, e di rabbia allo stesso tempo. Penso a tutti i pazienti nelle condizioni di Eluana, ai pazienti oncologici inguaribili, alle persone dementi, agli anziani fragili, ai sofferenti psichici. E a tutti quelli che tenacemente, amorevolmente, fedelmente, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, li stanno assistendo. Oggi sono tutti un pochino più esposti, meno garantiti, meno “di valore” perché c’è chi li ha giudicati meno umani di quelli che stanno bene. Ma c’è anche chi continuerà a riconoscerli come l’espressione più alta, ancorché misteriosa, di un’umanità degna di essere accudita da una responsabilità affezionata.
Pensa allora che questa sentenza non possa che fare giurisprudenza?
A questa domanda a caldo non posso rispondere, non lo so. Ma so che cosa potrebbe succedere anche tra i nostri malati, grazie alla valenza “pedagogica” di ogni sentenza: l’eco mediatica del caso Englaro è stata talmente tale e tanta che un inconscio spirito di emulazione potrebbe affacciarsi nelle scelte di persone, anche semplici. E magari, anche in contesti in cui sia possibile garantire una buona qualità della vita fino agli ultimi giorni, potrebbe farsi strada una richiesta di abbandono della cura per una scelta frutto di una resa, piuttosto che un comune affronto di un naturale corso delle cose.
Questi rischi da chi ha sollevato tutto il polverone sono stati valutati?
Tra le prime reazioni a caldo dei medici c’è quella di Mario Riccio, l’anestesista tristemente famoso per aver staccato il respiratore a Piergiorgio Welby. Dice che: «Eluana non soffrirà né la fame né la sete, perché non ha nessuna sensazione, né può provarla».
Cosa ribatte a questa affermazione da esperto?
Tutti i dati più recenti ci dicono che il livello di consapevolezza dei pazienti in stato vegetativo persistente, anche se variabile, non è certo nullo. Purtroppo non vi sono elementi per credere che questa morte procurata per fame e per sete sia indolore. La letteratura internazionale non sa dircelo ... ma nemmeno le evidenze profane lo potrebbero affermare. Ricordo la testimonianza a questo proposito di un sacerdote presente alla morte di Terry Schiavo, il quale era convinto, in base a quello che vedeva che stesse provando dolore: se non si sa nulla come si fa a dirlo con certezza?
Come morirà Eluana?
È molto probabile che il destino che attende questa giovane donna sia quello di un progressivo processo di sofferente inedia e disidratazione. La situazione è talmente difficile e misteriosa che un prudente accudimento non avrebbe mai e poi mai potuto essere sostituito da un violento intervento attivo di interruzione di supporto vitale. Chi afferma con sicurezza che Eluana non sente nulla è vittima di una ideologia non confermata dai fatti.
Che cosa pensa rispetto alla possibilità che questa
sentenza di morte venga eseguita in una struttura simile alla sua, un hospice, come dispone la sentenza?
Mi atterrisce sia l’idea che Eluana venga fatta morire nel modo di cui abbiamo parlato, sia quella che qualcuno venga coinvolto per rendere farmacologicamente più tollerabile il processo di morte, divenendo in certo qual modo corresponsabile. Non si rimedia una situazione che depone per un arbitrio del più forte sul più debole. L’hospice e le cure palliative, comunque, sono fatti per la cura della vita fino all’ultimo istante. Si cerchino altrove i luoghi di morte, in hospice c’è affettuosa e premurosa assistenza.
Imputato: il diritto alla vita - di Riccardo Cascioli - Una potente lobby internazionale ha scelto come strategia le iniziative giudiziarie per imporre ai singoli Paesi la legalizzazione di aborto, eutanasia ed unioni omosessuali. Dall’America Latina all’Europa sempre più spesso i giudici scavalcano governi e parlamenti su questo tema. Un orizzonte da tenere presente nel dibattito italiano sul “fine vita”. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
«Alla legge, alla legge», è il grido che si è alzato dopo la sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre 2007 e della Corte di Appello di Milano del luglio 2008 sul caso Eluana Englaro che, di fatto, aprono la porta all’eutanasia. La Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso della giovane lecchese in coma dal 1992 in seguito a incidente stradale e alimentata con un sondino, ha detto che questo si può staccare a due condizioni: se lo stato vegetativo è irreversibile, cioè se la scienza medica stabilisce che Eluana non potrà mai tornare indietro, e se si accerta che lei non avrebbe mai accettato sostegni vitali per vivere in condizioni simili, preferendo piuttosto morire. La Corte di Appello di Milano ha poi decretato che nel caso di Eluana le condizioni ci sono. Da qui la scelta, anche della Conferenza episcopale italiana, di invocare un intervento legislativo in modo da evitare la deriva dell’eutanasia.
La scelta non è stata indolore e numerose sono state le polemiche e i dibattiti al proposito tra chi difende il diritto alla vita, cattolici e non.
Non vogliamo qui entrare nel cuore della discussione sui contenuti di una eventuale legge sul “fine vita” (come la chiamano il presidente delta Conferenza episcopale italiana, card. Angelo Bagnasco e il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella) o sul “testamento biologico”, come la chiamano un po’ quasi tutti gli altri.
Vogliamo invece affrontare la questione da un’angolazione diversa, iniziando dall’atto che ha dato il via al dibattito, ovvero la sentenza della Cassazione, sono stati in molti a stigmatizzare questa invasione di campo del giudici che con il pretesto dell’interpretazione — di fatto ridisegnano la legge a modo toro saltando il Parlamento, espressione della volontà popolare e unico organo legittimato a decidere le leggi.
La domanda che dobbiamo porci allora è: possiamo ritenere questa “invasione di campo” un semplice incidente? O è parte di una strategia più ampia per forzare le leggi e imporre in questo modo princìpi e norme che attraverso la volontà popolare non passerebbero così facilmente?
Sicuramente in Italia dai tempi di Tangentopoli assistiamo a un continuo tentativo del potere giudiziario sostituirsi al potere politico, e questo ha senza dubbio creato un’abitudine, un’inclinazione. In questo caso, il discorso sarebbe più o meno questo: “Visto che di testamento biologico ed eutanasia si parla tempo ma in Parlamento non si arriva a nulla, ci pensiamo noi con una bella sentenza, che diventa un precedente per tutti i casi analoghi”. In fondo si tratterebbe di un incidente dovuto a una anomalia tutta italiana.
Per verificare la correttezza di questa ipotesi è necessario confrontare ciò che sta avvenendo nel nostro Paese con ciò che avviene altrove. Ed è allora che scopriamo che a livello internazionale già da anni opera una potente ed efficace lobby contro la vita che ha scelto la via giudiziaria per scardinare le legislazioni nazionali che ancora resistono alla cultura della morte. Il massimo dello sforzo si concentra sull’aborto, che si vuole “promuovere” a diritto umano universale, ma per l’eutanasia la strada non è diversa. Senza contare che se davvero l’aborto venisse riconosciuto quale diritto fondamentale, lo stesso principio dell’autodeterminazione si applicherebbe tale a quale all’eutanasia.
Ad esempio, negli Stati Uniti ha sede una organizzazione, The Center for Reproductive Rights (CRR), che può contare sull’apporto di decine e decine di avvocati che studiano sia la singole legislazioni nazionali sia le convenzioni internazionali al solo scopo di trovare i cavilli che permettano di forzare le leggi e di fornire le interpretazioni “corrette” ai documenti firmati dai governi sotto l’egida dell’ONU. Il CRR è collegato a numerose organizzazioni non governative nazionali che si avvalgono della sua consulenza: obiettivo principale sono le legislazioni dell’America Latina — che ancora sono le più favorevoli alla vita — ma il CRR ha avuto una parte importante anche nella prima stesura delta Costituzione del neonato stato del Kosovo, dove si cercava di introdurre in modo subdolo sia l’aborto sia il matrimonio omosessuale. Solo pochi mesi fa, in marzo, il CAR ha pubblicato un documento (“Bringing Rights to Bear”, fare dei diritti una realtà) in cui intende dimostrare che, in base a una sane di raccomandazioni fatte dalle Commissioni ONU, i singoli Paesi sarebbero obbligati a legalizzare l’aborto in quanto parte degli impegni giuridici internazionali sottoscritti.
Il CRR, creato nel 1992, è da sempre in prima linea nel condurre una strategia “mascherata” per ridefinire il diritto alla vita, ma è soprattutto dopo la metà degli anni ‘90 che la sua azione ha moltiplicato la propria efficacia. Il motivo e soprattutto nel fatto che l’azione del CRR diventava strategica per un gruppo di agenzie dell’ONU che, dopo le Conferenze internazionali del Cairo (sulla popolazione, 1994) e di Pechino (sulla donna, 1995), aveva deciso una strategia per integrare l’ideologia radicale nel diritto internazionale in materia di diritti umani (della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ai trattati più recenti). Tale strategia è il risultato di una conferenza tenutasi nel dicembre 1996 a Glen Cove, New York, organizzata da Fondo Onu per la Popolazione (UNFPA), Alto Commissariato per i Diritti umani e Divisione Onu per la Promozione della Donna (DAW). Tutti i dettagli di questo incontro e della strategia messa in atto si possono leggere in un interessante libro bianco pubblicato dal Catholic Family and Human Rights Institute (scaricabile dal sito dell’istituto www.c-fam.org) dal titolo “Rights by Stealth”. Ciò che è comunque importante sapere è che in questa strategia è fondamentale il ruolo delle organizzazioni non governative che in ogni Paese si incaricano poi di pressare governi e parlamenti, anche attraverso iniziative giudiziarie. L’America Latina è piena di esempi al proposito e non solo per quel che riguarda l’aborto: basti ricordare che in Colombia l’eutanasia è stata introdotta da una sentenza della Corte Costituzionale undici anni fa malgrado la forte opposizione sociale. Tanto che soltanto in questi mesi il Parlamento sta dando seguito a quella sentenza con una legge che, al momento in cui scriviamo, attende l’approvazione definitiva in Parlamento.
La stessa strategia viene seguita nell’ambito dell’Unione Europea, come ad esempio nel tentativo di eliminare la possibilità dell’obiezione di coscienza del personale sanitario in materia di aborto (cfr. Il Timone, n. 51, pp. 18-19) o di imporre la legalizzazione dei matrimoni omosessuali.
Se questo è l’orizzonte in cui ci si muove, appare evidente che se ne debba tenere ben conto in Italia nel momento in cui si propone una legge sul fine vita. Non c’è dubbio che qualsiasi minimo cedimento nella direzione voluta dalla succitata lobby non potrà che incoraggiare altre iniziative giudiziarie e rafforzare il “partito della morte”.
® Il Timone
Il Decalogo nero dell’ideologia anti-life - di Tommaso Scandroglio - Una strategia nichilista per far accettare le pratiche contro la vita: dall’aborto all’eutanasia, dalla Fivet alle sperimentazioni embrionali. Un compendio in dieci punti degli elementi essenziali della cultura di morte. Un «segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (Evangelium vitae, n. 58). [Da «Studi Cattolici» n. 569/70, luglio-agosto 2008]
Pirandello era dell'opinione che la vita fosse regolata dal caso. Tommaso d'Aquino gli avrebbe risposto che solo alcune cose avvengono per caso ma non tutte (1). Tra queste ultime con sicurezza devono essere annoverate quelle sconfitte culturali e giuridiche subite, a livello nazionale e non, nel campo della bioetica e più in generale in quello della morale naturale. Aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, contraccezione, divorzio, riconoscimento giuridico delle convivenze comprese quelle omosessuali, legalizzazione della cannabis, et simìlia sono realtà su cui già si è legiferato - o si ha intenzione di farlo - oppure sono fenomeni ampiamente accettati dal sentire comune. Ma come si è arrivati a questo punto? Per caso? No di certo. Infatti per raggiungere simili risultati occorre una strategia coerente e ben strutturata. Proviamo ora a vedere quali sono gli elementi di questa strategia, una sorta di decalogo nero che disconosce le verità fondamentali sull'uomo (2).
1. Un passo alla volta. È la soluzione tattica più frequentemente usata, dagli effetti assai perniciosi e su cui perciò ci soffermeremo un poco più a lungo. Parte da una costatazione evidente: la vetta si conquista pian piano, metro per metro. Di questo sono ben coscienti coloro che vogliono sovvertire l'ordine naturale del creato. Si tratta della famosa teoria del piano inclinato. Provate a mettere una biglia su un piano inclinato: questa all'inizio si muoverà lentamente ma poi acquisterà sempre più velocità. Tale principio è rinvenibile nella legge 194 che permette l'aborto procurato.
Se si legge con superficialità tale norma, l'aborto risulta essere l’extrema ratio, l'ultima spiaggia, e non la prima soluzione a cui ricorrere per chi affronta una gravidanza indesiderata. Il fronte pro-choice in modo furbesco ha convinto un po' tutti che è lecito abortire solo dopo aver percorso obbligatoriamente un iter che prospetta alla donna una serie efficace di alternative per ovviare alla scelta abortiva: non riconoscere il figlio, chiedere aiuto per mezzo dei consultori agli enti locali e non, obbligo dei consultori di rimuovere tutti quegli ostacoli, di qualsiasi natura essi siano, che possano impedire la nascita del bambino, ecc.
Purtroppo la maggior parte di tali oneri vengono in essere solo se la donna si rivolge ai consultori. Se invece, come accade il più delle volte, si reca da un medico di fiducia (non necessariamente il medico di famiglia) o presso una struttura socio-sanitaria, molti di questi adempimenti evaporano. Così ai nemici della vita è bastato dipingere nella 194 la possibilità di abortire come ultima chance, o meglio: farla percepire alla gente come tale, ben sicuri che in poco tempo da ultima opzione si sarebbe trasformata in quella privilegiata, mutando poi gli eventuali obblighi di legge in mere formalità da trascurare.
È anche ciò che sta accadendo per il dibattito sull'eutanasia: molte forze progressiste hanno proposto progetti di legge in cui non si fa menzione esplicita della possibilità di ricorrere all'eutanasia ma si propone solo lo strumento del testamento biologico. Questo sarà il primo passo, la testa di ponte per avere l'eutanasia a tutti gli effetti. Così ha previsto Piergiorgio Welby nel suo Lasciatemi morire (3). Ecco infatti gli steps che egli suggerisce per arrivare alla legalizzazione della dolce morte. Avere una legge sul testamento biologico (fase giuridica); assegnare alla Commissione Sanità lo studio degli aspetti legati a nutrizione e idratazione (fase medica); indagine sull'eutanasia clandestina (fase sociologica); formare i medici (fase pedagogica); legge sull'eutanasia (fase finale giuridica).
L'effetto domino - fai cadere una tessera e cadranno tutte le altre — è ben riscontrabile in questa materia fuori dai confini del nostro Paese, dove sono venuti in essere scenari realmente inquietanti. In Olanda la depenalizzazione dell'eutanasia risale al 1993. Dieci anni dopo, nel giugno 2003, la prestigiosa rivista scientifica Lancet ci comunica che il 2,6% dei certificati di morte redatti in Olanda nell'anno 2001 erano da addebitarsi ad atti eutanasici (3.647 persone) di cui lo 0,7% senza consenso del paziente (982 persone).
Come vuole la logica del «un passo dopo l'altro» l'ordinamento giuridico del Paese dei tulipani cercò apparentemente di mettere riparo alla situazione rendendo lecite nel 2001 le pratiche eutanasiche ma nel rispetto di rigorose condizioni. Tale legge infatti prevedeva per la richiesta di volontaria soppressione una serie di requisiti - i famigerati paletti tanto invocati anche da molti politicanti nostrani -così stringenti e severi che parevano a prova di bomba: soggetto cosciente e maggiorenne, volontà reiterata, firma di due medici, stadio terminale, solo per atroci sofferenze e senza prospettive di miglioramento. Passa qualche anno ed Eduard Verhagen, autore del protocollo Groningen sull'eutanasia infantile in Olanda ci informa dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 marzo 2005 che questi paletti sono saltati tutti: su 1.000 bambini che muoiono in un anno, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica.
Libido di morte
La libido di morte è poi di per sé diffusiva, ed è aiutata anche da una prassi abortiva che in Europa ha assunto i toni della normalità. Infatti all'inizio di quest'anno il Sunday Times rendeva nota un'intervista a John Harris, medico inglese, professore di bioetica dell'Università di Manchester, membro della Commissione governativa Human Genetic, il quale si domandava retoricamente perché possiamo uccidere il feto malformato e non un neonato malformato. Sulla stessa scia omicida si pongono i recenti pareri del Royal College di Ostetricia e Ginecologia e del Nuffield Council on Bioethics.
Il primo propone l'eutanasia attiva per i neonati disabili, così si risparmiano ai parenti shock emozionali e dissesti finanziari, affermando che una bambino disabile è una famiglia disabile (4).
Il secondo suggerisce per i prematuri nati sotto la 23a settimana la non assistenza perché hanno poche possibilità di salvezza. Proposte a cui fa eco la decisione della ginecologa Giovanna Scassellati del San Camillo di Roma, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza, la quale ha affermato che nel suo reparto chi decide per un aborto tardivo firma un «consenso informato» per non far rianimare il piccolo, qualora sopravvivesse (5).
Insomma: provocate una fessura nella parete di una diga e prima o poi crollerà la diga intera. Lo scivolamento verso il basso e sempre più accelerato è ben visibile nelle tecniche di fecondazione artificiale. Nate in principio per soddisfare il desiderio del figlio si sono trasformate ben presto in strumenti per soddisfare le voglie di maternità di donne single o appartenenti a coppie lesbiche, oppure di vedove che possono utilizzare gameti del marito morto da una dozzina di mesi (si veda per questi ultimi tre casi per esempio la legislazione in Spagna [6]).
Poi si sono involute in tecniche per l'uccisione di embrioni al fine di trovare improbabili terapie per malattie a oggi incurabili, magari attraverso la cosiddetta clonazione terapeutica come avviene sempre in terra iberica (7). E infine in mezzi per creare mostri. Infatti all'inizio del settembre 2007 la Hfea, forse la massima autorità di bioetica inglese, si era dichiarata favorevole alla creazione di ibridi attraverso un procedimento di clonazione: ovocita di mucca con all'interno Dna totalmente umano.
Il risultato sarebbe un essere (umano?) con il 99,9% di patrimonio genetico umano e una minima frazione di percentuale, lo 0,01%, di patrimonio genetico animale (8). «Percentuale variabile di umanità» si legge sulla prima pagina de Il Foglio di mercoledì 5 settembre. Trascorrono pochi mesi e nel maggio 2008 il Parlamento inglese ha votato a favore degli ibridi umano-animali. Anche riguardo allo snaturamento dell'istituto matrimoniale si è scelto di procedere con prudenza. Grillini nel luglio 2002 fu il primo firmatario di una proposta di legge (9) che prevedeva sic et simpliciter il matrimonio omosessuale.
Resosi conto che i tempi erano prematuri per un simile passo si risolse a chiedere successivamente forme attenuate dello stesso, cioè il riconoscimento delle convivenze anche per gli omosessuali. Infatti così lo stesso Grillini motiva la sua strategia nella Proposta di legge denominata «Disciplina dell'Unione affettiva» dell'aprile 2003 (10): «Si è [...] ritenuto di optare per un criterio gradualistico e realistico (tale cioè di rendere realistica la possibilità che la proposta di legge venga presa in seria considerazione, e che essa non possa anzi essere ignorata o accantonata)».
2. Chiedi 100 per ottenere 50. È una strategia opposta alla precedente. Nel suo enunciato è semplice: se chiedi molto qualcosa avrai. Così le forze politiche, che oggi si ha il vezzo di chiamare «della sinistra radicale», al tempo della legalizzazione dell'aborto procurato chiedevano che si potesse interrompere la gravidanza sempre e comunque. I cattolici, almeno quelli veri, si opponevano all'aborto, in modo esattamente speculare, sempre e comunque. Il legislatore si pose nel mezzo cercando, con malcelato spirito liberale, di accontentare tutti o scontentare tutti: aborto sì, ma a certe condizioni. Stessa idea è oggi perseguita dai radicali per il dibattito sul testamento di fine vita: chiedono l'eutanasia per avere perlomeno il Dat, le dichiarazioni anticipate di trattamento. Si possono rintracciare i segni di questa particolare tattica culturale anche nelle affermazioni dell'onorevole Fassino pronunciate nella puntata dell'8 febbraio 2006 di Otto e mezzo il quale ammise che se non fossero divenuti legge i Pacs forse era sperabile che perlomeno i Contratti di convivenza solidale proposti da Rutelli potessero passare perché forma meno radicale rispetto ai primi.
Normale = giusto
3. Rendere lecito ciò che accade nella prassi. Se un comportamento è diffuso nei costumi delle persone vuoi dire che è normale, quindi giusto (11). Se è giusto sotto il profilo morale allora non si vede la ragione per non renderlo lecito dal punto di vista giuridico. Il sillogismo per nulla aristotelico è stato applicato molte volte nel passato e suggerito spesso nel presente. L'aborto e l'eutanasia clandestina, le separazioni di fatto all'interno dei nuclei familiari, l'uso di droghe erroneamente definite leggere, la diffusione della convivenza prematrimoniale, il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale, legittimano di per sé il parlamentare a produrre norme per rendere lecito ciò che è già presente come comportamento tra la gente, o supposto come tale.
L'ottica perversa attraverso la quale si vuole avere una legge afferma che è sicuramente buono ciò che accade (12). Lo Stato quindi non sceglie più quali azioni punire o semmai tollerare perché lesive del bene comune, ma semplicemente prende atto di «come vanno le cose», registra le condotte degli individui e quando queste raggiungono un numero rilevante non può che legittimarle con tanto di carta bollata. Il ragionamento è diventato verità dogmatica soprattutto riguardo alla fecondazione artificiale. Quante volte infatti abbiamo sentito o letto che la legge 40 poneva ordine in una situazione da «far west» e quindi era da salutarsi come una buona legge?
Pochi sono stati coloro che hanno invece obiettato che di fronte alle pratiche diffuse della procreazione artificiale l'opzione della legittimazione della stessa non era lecita moralmente dovendo il legislatore all'opposto vietarla (13). I costumi però mutano negli anni, o, come si sente spesso ripetere, se i tempi cambiano, cambia anche la morale. È di questo avviso Grillini che nella seduta del 21 luglio 2005 della Commissione Giustizia fa intendere che la Costituzione non parla esplicitamente di coppie conviventi dato che il fenomeno sociale era pressoché inesistente. Oggi invece essendo le convivenze numericamente più diffuse lo Stato non può far altro che tutelarle giuridicamente.
Seguendo dunque la logica che sono le condotte diffuse nella società a dettar legge è doveroso domandarsi a quando la legalizzazione di furti e omicidi, dato che — a quanto ci risulta — sono assai diffusi?
4. Rispettare l'opinione della maggioranza. In regime di democrazia l'unica voce che conta è quella del popolo, e poco importa che questo spesso, ma non sempre, sia bue. Caso paradigmatico in questo senso è quello della legge spagnola n. 35/88 in tema di tecniche riproduttive che parla di «un'etica di carattere civico o civile con attenzione al consenso sociale vigente». Ed ecco allora per suffragare le proprie decisioni politiche snocciolare i dati di sondaggi i quali con previdenza non possono che portare acqua al proprio mulino. Per citare uno tra i tanti casi, facciamo riferimento a un'indagine svolta dall'Eurispes su eutanasia, accanimento terapeutico e testamento biologico, svolta tra metà novembre e metà dicembre 2006.
Ben il 74% degli italiani intervistati si mostrava favorevole all'eutanasia. Peccato che la domanda fosse equivoca, potendo essere interpretata dall'uomo della strada sia come rifiuto a trattamenti che configurerebbero l'accanimento terapeutico, sia come accettazione di pratiche eutanasiche (14) Peccato poi che il sondaggio si svolse proprio nel periodo in cui il caso Welby era caldissimo, influenzando molto le risposte, date sull'onda emotiva delle immagini di Welby sofferente che milioni di italiani vedevano quotidianamente in Tv o sui principali giornali nazionali. Infatti proprio un anno prima era stata condotta un'indagine simile dando risultati ben diversi: solo 4 italiani su 10 si mostravano favorevoli alla dolce morte.
Senza contare il fatto che i dati delle ricerche vanno resi pubblici unicamente se sono di conforto alle proprie tesi. Nella bufera sui Dico di circa un anno fa, ben pochi organi di informazione resero noto che, secondo un sondaggio della società Codres di Roma (febbraio 2007), su 1.000 intervistati solo il 6% riteneva i Dico una questione importante. Tale risultato faceva da riscontro al dato della sparuta percentuale del 3,9% delle coppie di fatto che hanno voluto la registrazione della propria situazione di convivenza nel Registro delle Unioni civili, già esistente in alcuni comuni italiani così come previsto da una legge del '90 (15).
Ma se il destro non può venire dai sondaggi, rimangono sempre i referendum su cui fare affidamento. Quelli persi su divorzio e aborto vengono sempre citati per sostenere la tesi che «così vuole il popolo». Quello invece riguardante la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, disertato da più del 70% dell'elettorato, chissà perché è già caduto in prescrizione. Insomma pare proprio che la maggioranza debba essere ascoltata solo se la pensa come il politico progressista.
5. Sfruttare l'emozione del caso limite. È la ragione che è deputata a determinare quali atti sono leciti o illeciti sotto il profilo morale. Non il sentimento. Far leva sulle emozioni è invece una strategia furba e iniqua. Argomentare che l'aborto volontario è sempre iniquo comporta passaggi logici complessi e spesso lunghi. Raccontare invece la storia di una donna violentata che ha scelto di abortire porta molti più consensi e più velocemente. Spiegare le differenze tra atti eutanasici e accanimento terapeutico è laborioso, sbattere in prima pagina il viso gonfio e privo di espressione di Welby invece cattura più facilmente l'attenzione del telespettatore e lo recluta all'istante tra le file dei filo-eutanasici.
È inutile poi domandarsi perché solo alcuni casi pietosi hanno i meriti sufficienti per avere gli onori della ribalta. Che dire infatti di quel gruppetto di pazienti affetti dalla stessa malattia di Welby che nel settembre del 2006, mentre quest'ultimo scriveva a Napolitano, furono portati in barella davanti alla sede del Ministero della Sanità chiedendo non di morire ma più soldi per la ricerca? Che dire del professor Melazzini, primario oncologo, anch'egli colpito da sclerosi laterale amiotrofica, che muove solo tre dita e vuole continuare a vivere? Anche in questo caso i media hanno assunto come propria la regola del «due pesi e due misure».
Una specialità dei radicali
6. Mentire. È un trucco che si impara fin da piccoli. Il problema diventa serio quando tale comportamento viene assunto da persone adulte, con responsabilità pubbliche e su temi importanti. La menzogna è una specialità propria dei radicali. Ancor oggi è possibile ascoltare qualche loro esponente il quale asserisce con sicumera che grazie alla 194 gli aborti clandestini sono diminuiti del 79%. Questo è un clamoroso autogol. Infatti come si può sapere con tale precisione a quanto ammontavano, o a quanto ammontano, gli aborti clandestini dato che sono clandestini e che quindi non esistono documenti, carte o testimonianze le quali ci potrebbero fornire qualche numero a riguardo? Senza poi tenere in considerazione il fatto che all'anno vengono celebrati nel nostro Paese dai 30 ai 50 processi per aborto clandestino.
Segno inequivocabile che il numero di interventi praticati in strutture non idonee è assai più rilevante che 30 o 50, dato che si finisce davanti a un giudice solo se qualcosa è andato storto. È insomma una prova indiretta che la 194 è ben lungi dall'aver eliminato il fenomeno delle interruzioni delle gravidanze «al buio». Falsa è anche la cifra di 25.000 donne che ogni anno morivano per aborto clandestino prima della 194. Se il numero di aborti clandestini non si può contare, non così avviene per il numero di donne che muoiono nell'arco di 12 mesi.
È bastato andare a vedere le statistiche sulle cause di morte e si è scoperto che la mortalità femminile annua, delle donne in età fertile, negli anni Settanta era attestata sui 10.000-15.000 decessi, provocati non solo dall'aborto ma a seguito di qualsiasi altro fattore quali malattie, incidenti, omicidi, ecc. Menzognera è infine l'affermazione che la legalizzazione dell'aborto ha causato una diminuzione delle richieste di interrompere la gravidanza. Si affermava che prima del 1978, anno in cui fu approvata la legge 194, si praticavano 3.000.000 di aborti, quando invece nel primo anno di applicazione della legge si arrivò alla cifra di 187.000. È ben difficile immaginare che nel giro di un solo anno si sia passati da 3 milioni di aborti a 187.000, soprattutto per il fatto che prima della 194 l'aborto era reato e poteva prevedere anche la reclusione.
L'escamotage della menzogna è stato usato con successo anche nell'attuale battaglia per il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto. Grillini, nella già citata proposta di legge dell'aprile 2003 riguardante la disciplina delle «Unioni affettive», afferma per rassicurare gli animi che in questo documento non si chiede la possibilità che una coppia omosessuale possa adottare un bambino aggiungendo che «nessuno degli ormai numerosi progetti di legge presentati negli scorsi anni alle Camere in questa materia su sollecitazione delle associazioni gay italiane ha mai affrontato la questione» (16).
Peccato che fu lo stesso Grillini a chiedere qualche mese prima, precisamente nel luglio 2002, l'adozione per la coppie omosessuali all'art. 3 della Proposta di legge n. 2.982: «Al rapporto di unione civile e al matrimonio fra persone dello stesso sesso sono estesi i diritti spettanti al nucleo familiare, secondo criteri di parità di trattamento. In particolare si applicano le norme civili, penali, amministrative, processuali e fiscali, vigenti per le coppie che hanno contratto matrimonio, ivi compresi l'accesso agli istituti dell'adozione e dell'affidamento» (17). Senza poi contare le due proposte dell'onorevole De Simone, quella dell'onorevole Malarba e un disegno di legge Malarba-Sodano, tutte antecedenti all'aprile 2003 e che chiedevano l'adozione per le coppie omosessuali.
In sintesi: la menzogna poggia su una duplice e realistica considerazione. In primo luogo pochi andranno a verificare l'affermazione fatta, e in secondo luogo è molto più facile mentire che contestare punto per punto una falsità dato che ciò comporta studio, tempo e fatica.
7. Usare il volto noto. Le più riuscite campagne pubblicitarie sono quelle in cui il prodotto da vendere è presentato da un personaggio conosciuto. Il viso noto sponsorizza l'articolo da mettere in commercio. Tale strategia di marketing è usata spesso anche nelle battaglie sulle questioni etiche. Pensiamo al caso della sorridente coppia Veronesi-Ferilli che si è spesa per la modifica della legge 40 al tempo del referendum del 2005; o al solo Veronesi ideatore della costituzione di un Registro nazionale per i testamenti biologici; o al presentatore Cecchi Paone e all'attore Lino Banfi, alias nonno Libero, in prima linea per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.
Lo sfruttamento di questi e altri testimonial si incardina su un fondamentale punto di ordine psicologico: si estende indebitamente la competenza professionale del personaggio famoso in un ambito invece che non gli è proprio (18). In tal modo la fiducia che l'uomo della strada accredita alla celebrità a motivo delle sue doti di oncologo o di showman si trasferisce poi illogicamente in campi non strettamente pertinenti allo loro attività. Le tesi più contrarie al buon senso si ammantano di autorevolezza.
Chiamare per esempio Margherita Hack, come è avvenuto in una puntata di un'edizione del Maurizio Costanzo show, a pronunciarsi sulla liceità dell'eutanasia produce uno sconfinamento delle competenze della scienziata, la quale sarà pure un'eminenza nell'astrofisica ma nel campo della morale naturale non può vantare uguale preparazione. E così l'opinione dell'accademico VIP diventa tesi scientifica assolutamente credibile. Di frequente poi la presenza del volto noto si accompagna ad atti provocatori: Pannella che distribuisce hashish ai passanti di Piazza Navona; il filosofo Gianni Vattimo che fa da testimone insieme a Grillini alla celebrazione di fìnte nozze gay da parte di due signori presso il Consolato francese a Roma, avvenuto aderendo al Pacs made in Francia, con tanto di scambio di fedi nuziali sullo scalone del Consolato a vantaggio degli obiettivi dei reporter.
Rivoluzione linguistica
8. Le parole. Cambiare il senso delle parole porta a cambiare la percezione della realtà. Nella battaglia culturale è di primaria importanza la rivoluzione linguistica (19). Più che il significato dei termini è importante il loro suono, la loro eufonia. Non più omicidio prenatale, ma aborto. Anzi: interruzione volontaria della gravidanza che scolora nell'ancor più asettico e mite acronimo Ivg. Non omicidio del consenziente o aiuto al suicidio: assolutamente meglio eutanasia. Ma dato che quest'ultima può evocare spettri nazisti si preferiscono le perifrasi «dolce morte», «testamento biologico» (insieme al suo «zio d'America» living will), o i termini coniati da Welby quali biodignità, ecomorire, fine cosciente (20).
Non fecondazione artificiale ma procreazione medicalmente assistita che rappresenta in modo falso la realtà dato che il medico non aiuta la coppia a procreare ma si sostituisce a essa in questo atto. Non convivenza more uxorio ma patti civili di solidarietà, così chi fosse contrario a essi verrebbe tacciato di essere incivile e poco solidale. Non marito e moglie ma semplicemente coniugi, termine che annulla in sé le differenze di sesso potendo essere i coniugi entrambi maschi o entrambe femmine. Non droghe punto e basta. Ma droghe leggere, quasi che la salute o la vita fossero cose di poco conto, pari al peso minimo di uno spinello.
9. L'esterofilia. Per sapere se le nostre leggi sono buone la pietra di paragone non è il bene comune, bensì spesso sono gli ordinamenti giuridici di altri Stati. L'Italia - così si sente ripetere come un mantra - è all'ultimo posto in Europa nella sperimentazione sugli embrioni, nell'accesso alle tecniche di fecondazione artificiale, nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali ecc. L'argomentazione è con evidenza debolissima: se il mio vicino di pianerottolo ammazza e ruba significa che anch'io posso ammazzare e rubare? Strano poi che anche in questo caso si faccia a monte una selezione all'ingresso delle leggi straniere che dovrebbero essere emulate nei nostri confini. Chissà perché non si ode un simile vociare per importare da noi le norme che permettono in Francia lo sfruttamento dell'energia nucleare, o quelle cinesi sul lavoro subordinato.
Il nemico da abbattere
10. Il nemico è la Chiesa. In ogni guerra c'è un nemico. Nel conflitto culturale quale miglior nemico da scegliere se non la Chiesa cattolica? Nell'immaginario collettivo la Chiesa è frequentemente dipinta come nemica del progresso, antagonista della felicità dell'uomo, misogina, sessuofoba, colpevole di posizioni discriminatorie contro gli omosessuali (21), ostinatamente e insensatamente contraria alla ricerca scientifica, gelosa depositaria di oscure verità inconfessabili. È lei che ha negato i funerali a Welby, è lei che fa ingerenza nella politica italiana, è lei che con una straordinaria azione di plagio parrocchiale ha mobilitato più di un milione di persone al Family Day (22).
Se la Chiesa è il nemico occorrerà ovviamente far di tutto per indebolirla. Per citare solo alcuni esempi tra i tanti: all'indomani della sconfitta sul referendum della legge 40, i radicali, non potendosela prendere con gli italiani (è sempre poco elegante avercela con l'elettorato), indirizzarono tutto il loro rancore verso Santa Romana Chiesa chiedendo a più riprese la revisione del Concordato. Questo atteggiamento polemico fece eco a una posizione emersa nell'agosto 2003 a una riunione all'Onu dell'Unglobe, associazione dei dipendenti Onu di solo orientamento omosessuale o bisessuale, in cui si individuò il principale nemico da abbattere nella Chiesa. A questo proposito è bene sottolineare che le lobbies gay esercitano un po’ dovunque e in molti ambiti.
In Scozia, per esempio, a seguito dell'Equality Act 2006 le agenzie cattoliche per l'adozione potrebbero essere obbligate ad affidare bambini anche a coppie omosessuali. Infine — a mo’ di paradigma delle discriminazioni che devono subire gli organismi di ispirazione cattolica - ricordiamo il caso di Mukesh Haikerwal della Australian Medical Association, il quale recentemente ha auspicato che gli enti legati alla Chiesa cattolica non gestiscano più gli ospedali di non forniscono servizi quali l’aborto, la sterilizzazione e la fecondazione in vitro.
Dieci mosse per mettere in scacco la cultura cristiana e ancor prima il senso comune. Ma dalle nefandezze degli altri si può sempre imparare qualcosa di utile: perché non rubare a costoro qualche trucchetto e usarlo a fin di bene?
(1) Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, I, q. 2, a. 3.
(2) Cfr M. Palmaro, Il male radicale, in Il Timone, n. 41, marzo (2005), pp. 12-13.
(3) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, Rizzoli, Milano 2006, pp. 111-112.
(4) II vescovo anglicano Tom Butler, della diocesi di Southwark, concorda con le posizioni eutanasiche del Royal College. Infatti il prelato rende noto attraverso le colonne del Sunday Times del 12 novembre del 2006 che «in alcune circostanze può essere giusto fermare o togliere una cura, sapendo che è possibile, probabile o anche certo che ciò provocherà la morte. [...] Ci sono situazioni in cui, per un cristiano, la compassione deve prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi». L'articolo chiarisce che il vescovo non si riferisce all'accanimento terapeutico bensì all'eutanasia omissiva.
(5) Cfr Corriere della Sera, 10 marzo 2007. Sul tema dell'eutanasia neonatale cfr L. Guerrini, Eutanasia neonatale, in I quaderni di Scienza & Vita, n. 3 (giugno 2007), pp. 93-107.
(6) Cfr artt. 6 e 9 Legge n. 14/2006.
(7) Cfr Ley de investigacìon biomédica, del 15/06/07.
(8) La percentuale animale deriverebbe dal patrimonio genetico mitocondriale contenuto nell'ovocita bovino.
(9) Proposta di legge n. 2.982 dell'8 luglio 2002.
(10) Proposta di legge n. 3.893 del 14 aprile 2003, p. 8.
(11) Per Benedetto Croce la storia non è giustiziera ma giustificatrice. Cfr B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 1989.
(12) II reale è razionale, affermava Hegel. Cfr G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995.
(13) Tutta ancora da provare, a parere irrilevante di chi scrive, l'affermazione che la legge 40 costituisse in quel frangente il maggior bene possibile e l'unica scelta percorribile, evitando così mali peggiori.
(14) La domanda era così formulata: «Lei è favorevole o contrario all'eutanasia, la possibilità cioè di concludere la vita di un'altra persona dietro sua richiesta allo scopo di diminuirne le sofferenze negli ultimi momenti di vita?». Riportiamo a margine, come prova della confusione in cui versavano gli intervistati su questo tema, che per il 32% di costoro tenere in vita una persona in coma era considerato accanimento terapeutico.
(15) Anche le amministrazioni comunali si mostrano scettiche nei confronti di Dico, Pacs e Cus dato che solo una trentina di comuni a oggi ha aderito in tutta Italia a tale Registro.
(16) Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003, p. 8.
(17) Proposta di legge n. 2982 dell’8 luglio 2002, art. 3.
(18) Cfr T. Scandroglio, Tv accesa Cervello spento, Edizioni Art Milano 2005, p. 58.
(19) P.G. Liverani, La società multicaotica con il Dizionario dell’antilingua, Ares, Milano 2005.
(20) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, cit., p. 103. Due pagine prima l’autore così motiva i neologismi: «Dobbiamo arrenderci all'evidenza, la parola “eutanasia” non piace, anzi, stimola repulsa».
(21) Cfr Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003: «Disciplina Unioni affettive», p. 8, in cui Grillini parla di «facile demagogia di gruppi clericali o razzisti».
(22) Valutazione tra l'altro un poco precisa, dato che la grande affluenza del 12 maggio è da accreditarsi soprattutto ad altre realtà diverse da quelle parrocchiali, quali movimenti, associazioni e gruppi di preghiera.
La morte: tappa o termine della vita? - di Mons Alessando Maggiolini - Ricordiamo la figura di monsignor Alessandro Maggiolini (1931-2008) con l'ultimo articolo scritto per Il Timone. Ci uniamo alla richiesta del direttore del Timone Gianpaolo Barra e invitiamo alla preghiera per un grande pastore e Defensor fidei. [Da «il Timone» n. 77, Novembre 2008]
Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.
Mi metto sul bordo di Viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella - questo è il ritornello - e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l'abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l'ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C'è posto».
Non c'è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?
Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stessa: è un vettore - se si vuoi parlare in termini scientifici - che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All'ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l'eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.
Ed ecco l'interrogativo sul "dopo" che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.
Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l'uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?
Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione. La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?
Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un'ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.
Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l'Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.
Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.
Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c'è bisogno di tradurre?
«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C'è bisogno di tradurre?
A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità - anche dell'attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?
Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi - se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l'attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.
® Il Timone www.iltimone.org
Il dibattito sulla vita umana - Aperti alla ragione senza fondamentalismi, di Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, 14 Novembre 2008
Le tematiche di natura etica rimarranno in primo piano per ancora molto tempo. Pensare che si possano ridurre a un dibattito televisivo di pochi minuti o a un lancio di agenzia non può rendere ragione della profondità che questi temi richiedono. Alla base è necessaria, in primo luogo, la competenza su quanto si discute, superando spinte emotive suscitate, volta per volta, da singoli casi. L'importanza della posta in gioco non può sfuggire a nessuno: né allo scienziato che vuole procedere alla sperimentazione, né al legislatore che con le sue leggi crea di fatto una cultura. Pensare che su tali questioni la competenza sia esclusiva degli uomini di scienza porta con sé un vizio di fondo che è difficile negare. Non esiste una posizione neutrale della scienza: in nessun ambito, e tanto meno in quello che tocca direttamente la vita umana, che come tale comporta delle implicazioni etiche. La scienza vive di ricerca e non avremmo raggiunto alcune tappe fondamentali del progresso attuale senza il suo apporto faticoso, a volte difficile, ma sempre necessario. La scienza, tuttavia, non vive senza regole; alcune le raggiunge a partire da sé, altre deve necessariamente richiederle. Una scienza che volesse sperimentare sulla vita umana senza sentire il bisogno di un richiamo etico si porrebbe da se stessa fuori gioco, perché presterebbe il fianco al sospetto di essere al servizio del potente di turno e non del bene di tutta l'umanità. È inutile ricordare che anche l'economia e la finanza - che hanno investito e investono molto in questi ambiti - hanno loro pure bisogno di criteri etici. Quando oggetto di sperimentazione è l'uomo, allora gli stessi scienziati devono convincersi che è necessario l'apporto di quanti avanzano una competenza antropologica. Questa esigenza non può essere rifiutata, e tanto meno schernita o emarginata. Davanti alla promozione e alla difesa della vita umana non si deve parlare di ingerenza nei confronti degli Stati, né esistono ragioni di opportunità politica per impedire di esprimere un giudizio in proposito. La libertà degli Stati nel legiferare in materia bioetica non può certo essere intaccata da elementi esterni ai propri sistemi giuridici. Allo stesso modo, la libertà della Chiesa di esprimere il proprio insegnamento non può essere limitata dall'arroganza di alcuni scienziati o intellettuali, i quali ritengono che su tali contenuti non dobbiamo parlare. La vita possiede per i cristiani una sua sacralità perché è innanzi tutto mistero, e dal suo inizio sino alla sua fine evidenzia quanto la natura abbia in sé qualcosa di talmente inintelligibile, che ancora sfugge all'analisi più critica e alla macchina più precisa e, proprio per questo, deve essere rispettata da tutti. Quando si parla di vita umana, insomma, non si è mai in presenza di pura materia manipolabile; c'è in essa una dignità intrinseca che merita almeno il rispetto. Che senso ha dividersi sulla necessità di difendere la vita quando tutti ne sentiamo profondamente la responsabilità per il suo giusto sviluppo e per la conservazione della sua dignità? Non saranno le vaghe promesse di guarigione che alcuni avanzano, sapendo pietosamente di mentire, a poter permettere l'utilizzo di embrioni per la ricerca, fossero anche quelli che per l'avidità di alcuni sono stati congelati e di cui ora ci si ricorda come panacea, per suscitare ulteriori emozioni. Su alcune questioni vitali tacere sarebbe ipocrita e questo non ci appartiene. Molte cose si possono rimproverare agli uomini di Chiesa in diversi momenti della sua storia bimillenaria, ma su questi temi la nostra posizione permane da sempre cristallina, immutata e proprio per questo credibile. Non siamo soliti fare promesse che non possiamo mantenere. Qualcuno potrà sorridere davanti alla nostra fede. Ne siamo abituati. Da duemila anni veniamo sbeffeggiati e fino ai nostri giorni proprio per questo motivo molti cristiani vengono uccisi ed emarginati. Ma questa è la nostra forza e ci rende - come disse Paolo vi davanti alle Nazioni Unite - esperti in umanità. Se altri trovano le loro certezze nella scienza non troveranno certo in noi degli oppositori. Solo desideriamo con grande rispetto ricordare che anche la scienza non ha certezze definitive e che il mistero dell'esistenza umana, con le sue domande inevitabili di senso, vale anche per loro. Non necessariamente dovranno dare ascolto alla Chiesa cattolica, ma se mantengono aperta la loro ragione e danno spazio alla forza del ragionamento a noi basta: non andranno lontano dalle nostre posizioni. Questo, alla fine, sarà anche lo spartiacque per verificare chi aderisce a fondamentalismi confessionali o laicisti; questi infatti non servono per approdare a una visione condivisa per la salvaguardia e il rispetto della vita umana. Ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno è la capacità di ascoltare gli uni le ragioni degli altri. Questo è un punto fermo. Al contrario non è per nulla vero che abbia ragione chi grida di più, forse perché a corto di argomentazioni, oppure chi sbandiera un consenso scientifico che non si vede all'orizzonte.
(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)
OLTRE LA CRISI/ Recuperare il senso del lavoro - Bernhard Scholz - venerdì 14 novembre 2008 – Sussidiario.net
Per cominciare a risalire la china in cui siamo stati spinti dalla crisi finanziaria occorre innanzitutto recuperare il senso del lavoro. Improvvisamente ci siamo accorti di quali danni abbia generato una concezione del lavoro tutta tesa al solo risultato del profitto, funzionale unicamente al successo e ai risultati a breve termine, slegati da qualsiasi base reale.
Occorre invece che al centro del lavoro venga rimessa la persona. Non si può ripartire se non dal soggetto, il soggetto che lavora, e che nel rapporto con la realtà cerca di rispondere ai suoi desideri, cerca la verità di sé; e sa assumersi una responsabilità verso se stesso, verso chi sta con lui, verso il lavoro e tutta la realtà.
È per questo motivo che abbiamo scelto come titolo dell’Assemblea Generale di Compagnia delle Opere, che si tiene domenica 16 novembre a Milano, “Il tuo lavoro è un’opera”.
Ora che sul futuro di tutti pesano le incertezze sugli effetti della crisi finanziaria, occorre ricominciare a costruire insieme un piccolo pezzo di una realtà economica che metta al centro la persona, il bene delle persone, il loro valore, i loro talenti, la loro creatività e la loro tenacia e non più la sola logica del profitto.
Questa attenzione al soggetto, alla singola persona, è l’unica fonte di un benessere equilibrato e duraturo e quindi di una ricchezza che può diventare anche un patrimonio per le future generazioni, ma che è capace di ricreare fiducia da subito.
Per chi fa impresa significa, ad esempio, ripartire da una capacità di relazione e di costruzione positiva, che la crisi ha prostrato ma che fa parte del Dna di ogni imprenditore. Un esempio?
Da lunedì 17 novembre, per tre giorni, circa 2.000 imprenditori si raduneranno a Fiera Milano per dare vita a Matching, un appuntamento nato quattro anni fa grazie a Compagnia delle Opere con l’obiettivo principale di favorire le relazioni di business.
In un momento tanto difficile per tutti, e in particolare per chi fa impresa, Matching 2008 rappresenta un contributo concreto e significativo perché si possa riprendere fiducia in un’economia reale basata davvero sul lavoro e su uno scambio autentico di beni e di servizi validi.
Matching infatti è un’enorme piazza dove gli imprenditori si incontrano, valutano opportunità di collaborazione, trovano clienti, fornitori, partner, scambiano informazioni ed esperienze creando in questo modo una rete tessuta dal protagonismo responsabile di ognuno.
E questo è il contributo concreto che CDO porta alla difficile situazione della nostra economia. Non bastano gli appelli. Se vogliamo imboccare la strada che ci porterà fuori da questa crisi, ognuno deve iniziare a contribuire con le forze a sua disposizione, poche o tante che siano.
Al sistema bancario, ad esempio, in questo momento di difficoltà chiediamo di aiutare chi dimostra di saper intraprendere e di non abbandonare le Piccole e medie imprese, che sono l’unica garanzia per una ripresa dell’economia reale e quindi per una ripresa del sistema Paese.
Il tessuto imprenditoriale italiano è un patrimonio unico al mondo, e lo ha dimostrato anche negli anni recenti quando ha saputo reagire alla sfida della globalizzazione e dei mercati emergenti mettendo in campo una capacità di innovazione che ci ha trascinato fuori dalle secche e ha stupito molti osservatori.
Anche oggi tante delle nostre imprese continuano a innovare giorno per giorno. Sanno bene che l’alternativa sarebbe una sola: uscire dal mercato.
La situazione attuale è una grande prova, ma potrebbe anche diventare un’opportunità per il futuro. Perché lo diventi davvero, c’è una sola cosa da fare: cominciare a lavorarci.
MEDIOEVO/ Quando la fiducia era alla base della società - Guido Cariboni - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Paolo Grossi in un bel libro di qualche anno fa – L’ordine giuridico medievale - ha posto l’accento sulle dinamiche culturali che guidavano la società medievale. Nell’età di mezzo chi era chiamato a governare la cosa pubblica non doveva tanto puntare sulle sue innovative qualità di leader. Per la buona riuscita dell’impresa egli doveva piuttosto farsi tramite, interprete di un ordine buono che era già presente nel mondo e a cui era necessario conformarsi.
Ogni attività umana poggiava su quest’ordine unificatore e la fiducia che ciascuno accordava alle istituzioni, dipendeva dal fatto che esse si presentassero come un riflesso, pure imperfetto, di tale armonia.
Uno strumento permetteva a quest’ordine di entrare in contatto con la realtà umana. Si trattava del simbolo. Il simbolo, nella sua accezione più ampia, era qualcosa di estremamente concreto, un oggetto, ma anche un’azione, un rituale, che, oltre alla semplice funzione strumentale, rimandava ad un ideale superiore o, meglio ancora, lo incarnava, lo rendeva materialmente presente. Così la Carità divina poteva riflettersi nel colore di un vestito, la Povertà in un determinato cibo, l’Umiltà in un’attività lavorativa particolare e così via.
Ad esempio, in molti comuni medievali italiani, presso il palazzo sede del potere pubblico, era gelosamente conservato un libro manoscritto che conteneva le consuetudini e gli statuti della città. Nella mente dei cittadini tale codice, al di là della sua funzione strumentale, ossia quella di conservare un testo legislativo consultabile, rappresentava in sé simbolicamente uno dei pilastri portanti su cui si fondavano i diritti comunali. Esso incarnava la certezza di una libertà faticosamente raggiunta e apparentemente inalienabile. L’oggetto stesso, che soltanto in pochissimi avevano potuto materialmente sfogliare, veniva quindi investito di un valore superiore al suo pratico uso. Al di là del contenuto esso rappresentava un elemento fondamentale per l’identità di un popolo o, meglio ancora, la garanzia su cui si fondava la fiducia di tutti verso un governo.
Naturalmente non sempre i simboli erano utilizzati in modo corretto e leale. Dante nel canto XXIII dell’inferno, nella bolgia degli ipocriti, incontra due strani personaggi “colorati”, che camminavano lentamente sopraffatti dal peso di pesantissimi abiti monastici con i cappucci abbassati sugli occhi. Tali vesti in superficie di uno splendente colore dorato, erano all’interno foderate di piombo. Si tratta dei frati gaudenti Catalano dei Malavolti e Loderigo degli Andalò. Secondo una pratica molto comune in età comunale, essi erano stati scelti nel 1266 in qualità di religiosi, e quindi per la loro imparzialità, quali rettori di Firenze nel tentativo di trovare un accordo tra le diverse fazioni che si fronteggiavano in città. La loro opera era stata però tutt’altro che onesta e super partes. Essi avevano, infatti, favorito partigianamente un gruppo di potere a scapito degli amici di Dante. Il giudizio del poeta, testimoniato dal contrappasso che essi subiscono, non è semplicemente un giudizio moralistico del tipo: “Belli fuori, ma brutti dentro”, o meglio ancora: “Sepolcri imbiancati”. Il riferimento all’abito è estremamente significativo. Dante prende il saio quale simbolo concreto che comunicava la natura essenziale dei due religiosi che era quella di portare la pace. Essi però avevano usato il loro abito per truffare la fiducia dei cittadini. Un simbolo, che tutti conoscevano e a cui tutti avevano accordato fiducia era stato rotto, la finzione aveva preso il posto dell’ideale.
Entrambi gli esempi, per quanto diversi, mostrano come i simboli nel medioevo non fossero semplicemente uno strumento di propaganda o di comunicazione spicciola per attirare un consenso effimero. Essi agivano più profondamente lanciando un ponte che metteva in comunicazione i singoli con quei valori identitari che erano la solida base della fiducia comune.
Dinamiche molto simili applicate i giorni nostri non sempre danno i risultati sperati. Basta osservare in Francia il fallimento del referendum sulla costituzione europea del giugno 2005. In quell’occasione la costituzione non è stata bocciata in quanto testo giuridico, cioè perché non si è condiviso questo o quell’articolo. Nonostante gli sforzi del governo francese in pochi l’avevano veramente letta. Ad essere rifiutata è stata piuttosto l’idea di Europa che il testo costituzionale simbolicamente e quindi sinteticamente veicolava. Il simbolo ha quindi fallito il suo compito perché non si è data fiducia all’ordine superiore in esso riflesso. O forse, ancora peggio, l’uomo comune di questo fantomatico ordine non ha neppure colto l’esistenza.
IRAQ/ Cervellera: due sorelle uccise perché cristiane in una lotta per il potere che miete sempre le solite vittime - INT. Bernardo Cervellera - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Un commando composto da ragazzi di appena 17, 18 anni ha fatto irruzione in una casa di Mosul uccidendo due sorelle, Lamia e Walàa Sobhy Salloha appartenenti alla chiesa siro-cattolica della città. Le due ragazze lavoravano per il tesoriere della municipalità di Wala. La madre, accoltellata, è stata soccorsa ed è fuori pericolo. Il padre e il fratello delle due vittime sono riusciti a fuggire dall'aggressione della banda e a rifugiarsi in un luogo sicuro. Ora la famiglia è disperata. Ma è una delle tante famiglie martoriate in una terra in cui sembra davvero impossibile condurre un'esistenza tranquilla, tanto meno se si è cristiani. Padre Bernardo Cervellera, direttore dell'agenzia giornalistica AsiaNews, conosce molto bene quella triste realtà.
Padre Cervellera, un omicidio in una zona, quella di Mosul, in cui sembra che i cristiani siano particolarmente presi di mira. Per quale motivo?
Noi di AsiaNews siamo stati i primi a dare la notizia in Italia delle due sorelle uccise, del loro padre e del loro fratello che sono riusciti a fuggire, oltre che della situazione in generale, coinvolgendo informatori locali il cui nome non è prudente qui rivelare. Direi che Mosul è un posto piuttosto disgraziato perché da anni, in questa città, si sovrappongono più conflitti legati alle più disparate cause. Quindi fornire un'analisi precisa ai fini di cercare di capire il movente di un gesto così violento e drammatico non è cosa per niente facile. Sicuramente questo duplice omicidio rappresenta anche un segnale politico in previsione delle prossime elezioni provinciali in cui contano anche le posizioni delle minoranze. Ma di certo Mosul ha la sfortuna di trovarsi al centro di moltissime tensioni.
Può spiegare quali sono le principali cause che rendono “calda” questa zona?
Anzitutto vi è la guerra condotta da Al Qaeda e dai fondamentalisti islamici delle più diverse associazioni. Mosul è un luogo dove c'è sempre stata una comunità cristiana, è anzi una delle prime e più antiche comunità cristiane. È poi una città che vede per storia e tradizione una convivenza molto forte fra cristiani e musulmani. Per questo motivo Al Qaeda l'ha scelta come un luogo dove tentare di rompere questa esemplare unità e dividere l'Irak fra cristiani, curdi e musulmani. Si aggiunga che uno degli obiettivi di questi fondamentalisti consiste nel ripristinare la piena attuazione della sharia nei confronti di tutti gli abitanti della città. Questo spiega l'elevato numero di omicidi a sfondo confessionale che si sono susseguiti in questi anni. Uno fra tutti quello del vescovo Raho. Ma non si debbono dimenticare tutti quei cristiani e quei sacerdoti ortodossi, cattolici, caldei e protestanti che hanno pagato con la vita la “colpa” di non essersi sottomessi all'islam.
Era così anche sotto il regime di Saddam?
La situazione è addirittura peggiorata, perché, da quando c'è stata l'operazione surge, del generale Petraeus, a Baghdad quasi tutti i fondamentalisti si sono rifugiati a Mosul per cui la città è diventata una specie di terra di nessuno in mano a questi terroristi senza la minima pietà.
Lei però accennava a motivi di tensione ulteriori rispetto alla sola questione religiosa
C'è un secondo aspetto della “guerra” in atto. Mosul appartiene alla zona di Kirkuk che era una zona originariamente curda. Saddam Hussein cacciò via i curdi e fece “colonizzare” gli arabi in quel territorio. Il motivo di una simile operazione risiedeva nel timore che il dittatore irakeno aveva nei confronti dei curdi e del loro indipendentismo. Adesso i curdi vorrebbero riprendersi Mosul e quindi c'è in ballo la questione della promozione di un referendum su Kirkuk, il giacimento, per stabilire a chi debba appartenere. È chiaro che per vari motivi tutte le etnie lì presenti vorrebbero possedere Kirkuk, non solo perché alcuni sono originari di quella zona, ma anche e soprattutto perché rappresenta il giacimento di petrolio più importante che ci sia in Irak nonché uno dei più importanti del mondo. Immaginiamoci l'immenso desiderio che hanno sunniti e sciiti di prenderne possesso. Chi possiede Kirkuk possiede anche il potere economico e un quasi monopolio del petrolio nazionale. I curdi spingono dunque sempre di più in direzione di un'autonomia reale, mentre sciiti e sunniti hanno paura che ciò rafforzi sempre di più il loro potere facendo perdere all'Irak una grossissima fetta di benefici economici. Qui a rimetterci di più sono proprio i cristiani.
Per quale motivo?
Per tre ordini di fattori: non hanno milizia e sono dunque più deboli, si trovano in mezzo a una guerra per motivi storici perché gran parte dei cristiani vive al nord da secoli, e in terzo luogo ciascuna delle due parti, curda e irakena, cerca di portare a casa i loro voti accusando l'un l'altro della responsabilità degli attentati di cui sono vittime i seguaci di Cristo. In poche parole l'uccisione di queste due ragazze rientra in una questione di potere locale che contempla più aspetti intersecati l'un l'altro.
Nel resto dell'Irak invece, dopo la guerra del 2003, com'è la situazione delle minoranze cristiane?
Non molto buona, basti pensare che in parlamento viene portato avanti un progetto da parte di alcuni sedicenti deputati cristiani che non lascia sperare nulla di buono. Si tratta dell'attuazione di un programma territoriale che è quello cosiddetto della “piana di Ninive”.
Secondo alcuni di questi deputati i cristiani dell'Irak dovrebbero essere tutti trasferiti nella piana circostante la città di Ninive. L'intento di questi politici sarebbe la realizzazione di una specie di “regione cuscinetto” tra curdi e sunniti. Inutile dire che questa “piana di Ninive” non la vuole nessuno fra i cristiani. I vescovi si sono dichiarati molto contrari, il Vaticano ha già condannato il progetto e inoltre sarebbe davvero un'operazione contraria alla stessa cultura e storia dell'Irak che si è sviluppato dentro una tradizione di convivenza fra popoli e mescolanza di religioni.
Non ci sono mai state zone geografiche definite da parametri “religiosi” e una sorta di ghetto cristiano sarebbe ancor più pericoloso per coloro che vi dimorerebbero dal momento in cui, se crescessero ancora, com'è probabile, ondate di fondamentalismo, è ovvio che si concentrerebbero in quella regione.
Non si può dunque dire che la condizione delle minoranze non musulmane sia migliorata di molto. La colpa è attribuibile anche alla scarsa attenzione o efficienza delle forze americane?
Saddam Hussein prima di fuggire ha liberato tutte le prigioni Irakene. Ciò significa che ci sono ancora in giro criminali, assassini e bande armate. A Mosul ci sono numerosissimi criminali che spesso rapiscono gente per questioni economiche. Gli americani si sono parecchio dati da fare per ristabilire, con Petraeus, la sicurezza nel Paese. Ma i loro sforzi si sono per lo più concentrati a Baghdad, dove ci sono le ambasciate e i centri di potere. La loro politica, dove è presente, sta dando buoni frutti, gli attentati nella capitale sono ormai davvero pochi. Il problema è il resto dell'Irak.
Quanto avvenuto a Mosul è però solo l'ultimo episodio di un atteggiamento colpevole non tanto degli americani, quanto del governo Irakeno e di Nuri Al-Maliki, il quale promise attenzione per le minoranze cristiane alla vigilia delle elezioni, ma ha di fatto lasciato indifese le loro città.
14/11/2008 09:22 – MYANMAR- Continua la repressione della dittatura birmana contro monaci e dissidenti - Nove religiosi sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Portavoce della Nld conferma l’incriminazione di 14 attivisti del partito di opposizione e annuncia nuovi arresti. Il giro di vite dei militari intende “dissuadere” le voci contrarie al regime in vista delle elezioni del 2010.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Nove monaci buddisti birmani sono stati condannati a pene che variano dai sei anni e mezzo agli otto anni di galera. Lo rivela Nyan Win, portavoce della Lega nazionale per la democrazia (Nld), spiegando che essi sono stati incriminati per aver preso parte alle manifestazioni del settembre 2007 contro il regime militare. Egli conferma anche l’incriminazione di 14 esponenti della Nld, il partito di opposizione in Myanmar guidato dalla premio Nobel Aung San Suu Kyi, con condanne tra i quattro e i 10 anni di prigione.
Le sentenze di questi ultimi giorni, più di 50 secondo fonti locali da lunedì 10 novembre a oggi, confermano il giro di vite impresso dalla giunta militare al potere nella ex-Birmania verso i dissidenti.
Secondo un diplomatico in Myanmar, la nuova repressione decisa dalla dittatura intende avere un “effetto dissuasivo” verso quanti invocano democrazia nel Paese in vista delle elezioni politiche in programma nel 2010.
“Quattordici membri della Nld e quattro monaci – afferma Nyan Win – sono stati condannati ieri [giovedì 13 novembre]. Per i monaci vi sono state condanne a otto anni di galera”. Altri cinque religiosi del monastero Ngwe Kyar Yan, a Yangon, sono stati invece condannati martedì 11 novembre a sei anni e mezzo di carcere. Lo stesso giorno il tribunale della prigione di Insein ha emesso una sentenza di 65 anni di reclusione a carico di 14 attivisti di “generazione 88” – tra i quali cinque donne – per la loro battaglia a favore della democrazia durante la “rivoluzione zafferano” del settembre del 2007. “Vi saranno nuove pene” riferisce Nyan Win, che denuncia “ulteriori pressioni sui militanti politici e pesanti minacce per la popolazione”.
Vita e morte nel grembo di Maria - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 13 novembre 2008
Il tempo liturgico che precede l’inizio dell’Avvento è accompagnato dai testi dell’Apocalisse che aprono lo sguardo del credente non al mistero della fine del mondo, bensì al mistero delle cose ultime, cioè del destino eterno dell’uomo.
Centro e cuore dell’apocalisse è il mistero dell’Agnello e della donna partorisce un figlio maschio: Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto (Ap 12,1-2) Questa donna, che la tradizione cristiana ha sempre identificato con la Vergine Maria che ha dato alla Luce il Salvatore, è anche l’immagine della Chiesa che nel deserto della storia partorisce a Cristo nuovi figli.
Il testo biblico continua, infatti, così: Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. (Ap 12, 3-6)
Nell’icona di questa donna, a ben vedere, vita e morte giocano l’ultimo duello ed è la parabola più efficace per il mese di novembre che mentre ci fa riflettere sul nostro destino ultimo, cioè quella della morte con la festa dei Santi e dei Defunti ci apre lo sguardo a quella vita che non muore misteriosamente fiorita nel grembo della vergine.
Recenti episodi come quello della decisione di sospendere l’alimentazione a Eluana Englaro e, dunque in sostanza, condannarla alla morte per fame e sete rendono questo duello tra vita e morte drammaticamente attuale.
Per questo invece di commentare un dipinto vorrei fermare la nostra attenzione su un’immagine Achiropita (cioè non fatta da mano d’uomo) straordinaria: la tilma di Juan Diego cioè la cosiddetta Madonna di Guadalupe la cui festa ricorre proprio a metà dell’avvento il 12 dicembre.
Questa immagine, che è stata studiata con i più potenti mezzi della scienza e della tecnica, continua a stupire non meno della Sindone e del volto straordinario del Cristo di Manoppello.
La vicenda è nota: Juan Diego, umile indio della terra azteca, incontra una giovane Signora dalla quale viene ripetutamente inviato dal vescovo pregandolo di costruire per lei una cappella in quel luogo. Il vescovo non pare prendere sul serio la richiesta fino a quando Juan Diego non gli porta, in pieno inverno, un mazzo di rose bianche raccolte nella tilma, una sorta di poncho usato dagli indios. Quando le rose rovesciano a terra sulla tilma dell’uomo compare l’immagine della Vergine di Guadalupe.
La tilma è costituita da due teli di ayate - un rozzo tessuto di fibre d’agave, usato in Messico dagli indios poveri per fabbricare abiti - cuciti insieme con filo sottile. Su di essa si vede l’immagine della Vergine, di dimensioni leggermente inferiori al naturale - la statura è di 143 centimetri - e di carnagione un po’ scura, donde l’appellativo popolare messicano di Virgen Morena.
La Vergine appare circondata dai raggi del sole e con la luna sotto i suoi piedi, secondo la figura della Donna dell’Apocalisse, i tratti del volto non sono né di tipo europeo né di tipo indio, ma piuttosto meticcio - cosa “profetica” al tempo dell’apparizione - così che oggi, dopo secoli di commistioni fra le due razze, la Vergine di Guadalupe appare tipicamente “messicana”. Sotto la falce argentata della luna un angelo, le cui ali sono ornate di lunghe penne rosse, bianche e verdi, sorregge la Vergine che, sotto un manto verde-azzurro coperto di stelle dorate, indossa una tunica rosa “ricamata” di fiori in boccio dai contorni dorati, e stretta sopra la vita da una cintura color viola scuro.
Questa immagine, poco decifrabile per un europeo, nasconde per l’indio una miriade di significati.
La Vergine appare con la testa leggermente reclinata sulla spalla destra atteggiamento proprio delle schiave indio, anche la cintura viola annodata sopra la vita è un tipico “segno di riconoscimento” presso gli aztechi delle donne incinte di umili origini. Al collo, la misteriosa giovane, porta un gioiello, una giada, simbolo della vita presso gli aztechi, al centro della quale compare una croce cristiana, ma può essere anche il quicunce, simbolo di Quetzalcoatl. Questa donna si presenta dunque come serva e regina ad un tempo.
Dalla posizione delle mani e dal capo inclinato, possiamo dedurre che la Vergine riverisce Qualcuno più grande di lei. Il manto, simbolo del cielo e del potere, la copre completamente ed è dello stesso colore di quello che portavano i re aztechi (tlatoani). D’altra parte la Signora appartiene alla terra, come indica il colore della tunica: rosato come l’aurora nella Valle di Messico.
In particolare la posizione delle mani della Vergine nel linguaggio indigeno significava “cerco casa” . Cerca casa in terra ma, sul manto, ella porta una vera e propria mappa del cielo stellato. Alcuni astronomi dell’osservatorio di Laplace (Città del Messico) hanno riscontrato che la posizione delle stelle sul manto corrisponde alle costellazioni presenti sopra Città di Messico al solstizio d’inverno del 1531 - solstizio che, dato il calendario giuliano allora vigente, cadeva il 12 dicembre - viste però non secondo la normale prospettiva “geocentrica”, ma secondo una prospettiva “cosmocentrica”, ossia come le vedrebbe un osservatore posto “al di sopra della volta celeste” .
Secondo don Mario Rojas Sánchez, traduttore dei testi náhuatl sull’apparizione e studioso della cultura azteca, i grandi fiori in boccio visibili sulla tunica della Vergine sono straordinariamente simili al simbolo azteco del tépetl, cioè del monte, e la loro ubicazione sulla tunica disegnerebbe una “mappa” dei principali vulcani del Messico.
La giovane donna con la molteplicità del linguaggio figurato invita l’indio a contemplare i principali misteri della fede cristiana. Ella è serva e regina: serva di un Dio che “cerca casa” fra gli uomini e regina dei cieli e della terra, questa Regina parla però al suo interlocutore, un povero indio appunto, in piedi e non seduta come voleva il costume azteco, maya e spagnolo. L’indio cioè percepisce che la nobiltà di questa donna non è la stessa dei dominatori. Anzi ella si rivolge a lui prima di rivolgersi al Vescovo. La dignità dell’indio è sottolineata anche dal nome con cui la Vergine lo chiama: «Juantzin», «Juandiegotzin», parole normalmente tradotte con Juanito, Juandieguito. Però in nahuatl la desinenza -tzin è anche indice di riverenza e di rispetto.
La Vergine sta in piedi sopra quella che appare una mezza luna, ma è in realtà una cometa, simbolo di Quetzalcoatl e appare fra canti melodiosi d’uccello.
Il Dio annunciato dalla Vergine di Guadalupe porta nomi ben conosciuti dagli aztechi: - la madre del Dio di verità - la madre del datore della vita - la madre del creatore degli uomini - la madre del Signore della vicinanza e dell’unità - la madre del Signore del cielo e della terra. Nomi che parlano dell’essenza di Dio nella sua relazione con il mondo e con l’uomo.
La Vergine del Tepeyac è modello per tutti quelli che non accettano passivamente le circostanze avverse della vita personale e sociale, ma proclamano con lei che «Dio innalza gli umili» e «rovescia i potenti dai troni». Come madre, la Vergine esprime il desiderio di essere presente tra i suoi figli in modo permanente, di stabilire un dialogo, una comunione, e di vedere realizzata l’unità dei credenti. Per questo chiede che in quel luogo venga costruito un tempio, una casa che sia punto di riferimento a cui accorrere per invocare l’unico vero Dio da lei annunciato. Lì vuole essere amata e invocata, lì vuole che i suoi figli imparino a confidare in lei: regina e serva tra gli uomini.
Afferma la Gaudium et Spes: «Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però dalla rivelazione, che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella debolezza e nella corruzione rivestirà l’incorruzione: e restando la carità con i suoi frutti, saranno liberate dalla schiavitù del male tutte quelle creature, che Dio ha fatto appunto per l’uomo».
Allora, ogni vita e ogni respiro troverà il suo senso. Nulla è causale nel piano di Dio neppure le vite spezzate come quella di Eluana. Colui che vede le cose dall’alto, al di sopra dei cieli, come attesta il manto della Vergine, le vede anche dal basso cioè dall’umile prospettiva dei piccoli come Juan Diego.
SCIOPERI/ La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Il vicolo cieco di Epifani&Co. - Renato Farina - venerdì 14 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Voleva radunare il mondo intorno a sé, e si è trovata sola come una ladra.
Era già accaduto sulla vicenda dell’Alitalia con il noto rifiuto di firma sull’accordo con la Cai (con dietrofront poco dignitoso). Ora Epifani ci riprova con una tigna da ultimi giorni di Pompei, giocando il tutto per tutto sull’università.
Sciopero, rifiutando ogni dialogo. È come se cercasse di fermare la ruota della storia, cercando di cavalcare la famosa Onda, dove ritrovare linfe giovani visto che la maggioranza degli iscritti al suo sindacato sono pensionati.
Ma questa scelta di Epifani ci aiuta a capir bene che la citata Onda è una onda di riflusso e di risucchio, che non pulisce la spiaggia ma serve a impedire alle belle vele di andare al largo.
Un’onda di pirateria insomma che vuole impedire a chi ha desideri ed energie di uscire dal porto, fosse pure attraverso mosse violente: come chi voglia sfuggire alla realtà, non vederla, sognare l’utopia del passato.
La Repubblica ieri ha pubblicato un articolo di Massimo Giannini in cui ci sono un paio di frasi interessanti: «La crisi morde più duramente i ceti meno abbienti, che vanno difesi con tutti gli strumenti possibili. Ma è ormai chiaro che molti (tra gli ultimi, i penultimi e comunque i più deboli) sono fuori e lontani dal perimetro della rappresentanza confederale. E dunque le piattaforme rivendicative e le “azioni di lotta” di Cgil, Cisl e Uil, tanto più se frammentate e contraddittorie tra loro, finiscono per assumere una fisionomia fatalmente corporativa, che spesso tutela chi è già tutelato e magari lascia scoperto chi non gode di alcuna protezione sociale».
Giannini mette nello stesso sacco i tre sindacati, ed è dunque ingeneroso verso Cisl e Uil, ma coglie il segno. I sindacati difendono se stessi, la loro posizione sociale. Tali e quali i baroni universitari che vogliono garantirsi attraverso il movimentismo degli studenti il mantenimento dello status quo.
Un sindacato che ha perso il contatto con la realtà, non riconosce più i veri bisogni, e finisce per impazzire. L’ira di Epifani è quella di un uomo che non sa rassegnarsi alla fine di un mondo. Non c’è di mezzo la difesa delle classi più deboli, ma la volontà di puntellare l’ideologia pansindacale. Da cui l’impopolarità crescente.
Anche i vergognosi attacchi personali al ministro Gelmini culminati nell’insulto infame di Andrea Camilleri («Non è un essere umano») contribuiscono alla frana del consenso, perché di fatto la Cgil copre questa deriva da guerra civile verbale e simbolica, che può tracimare facilmente in violenza conclamata. Come dicono anche gli scontri alla stazione Centrale di Milano.
A Genova ci sarà una processione con un fantoccio alto quattro metri con la effigie della Gelmini, e che alla fine sarà bruciata come una strega. La Repubblica scrive: «Una processione irriverente». Irriverente? Chiunque capisce che è un atto odioso e incivile. Tutto questo erode consenso perché l’Italia resta alla fine un Paese che non sopporta i linciaggi.
Una linea, quella di Epifani che punta a egemonizzare la piazza a dispetto di una qualsiasi formi di dialogo, che è elogiata solo dal Manifesto, non a caso il giornale sotto la cui testata campeggia “quotidiano comunista”, che scrive: «Meglio soli». Che a pensarci è lo slogan consolatorio dei perdenti.
ALITALIA/ L’Europa e i contribuenti italiani spianano la strada a Cai - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 14 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
La Commissione Europea ha bocciato il prestito ponte di 300 milioni di euro che il 22 aprile scorso era stato concesso all’Alitalia con una decisione bipartisan da parte del Governo uscente guidato da Romano Prodi su richiesta del neopremier Silvio Berlusconi.
La decisione era inevitabile, poiché le motivazioni alla base di questo finanziamento erano alquanto discutibili. Si affermava infatti che il prestito era concesso per garantire la continuità territoriale del servizio aereo, quando in realtà questa era già assicurata dal mercato e dagli oneri di servizio pubblico; la seconda motivazione riguardava invece il mantenimento dell’ordine pubblico, ma essa si configurava come priva di senso poiché implicitamente veniva detto che non poteva essere lasciata fallire una compagnia aerea senza che lo Stato fosse in grado di mantenere l’ordine pubblico.
La Commissione Europea, lo scorso 12 Novembre, ha quindi preso una decisione ovvia e inevitabile nel dichiarare aiuto di Stato il prestito ponte; lo Stato dovrà a questo punto rimborsare i 300 milioni di euro a se stesso; infatti il prestito non ricade sulla nuova Alitalia o sulla Compagnia Aerea Italiana guidata da Roberto Colaninno, ma sarà un ulteriore debito che la Bad Company dovrà ripagare.
L’offerta Cai, che valuta Alitalia un miliardo di euro senza dare alcun valore economico agli slot, copre tuttavia solamente una parte limitata di tutti i debiti dell’ex vettore di bandiera e quindi i soldi immessi tramite il prestito ponte non verranno mai recuperati.
Gli stessi politici nel giustificare il prestito ponte affermavano incautamente che questo avrebbe permesso alla compagnia di sopravvivere 12 mesi; a distanza di 6 mesi tutti i 300 milioni di euro sono stati consumati da una compagnia che non è in grado di competere sul mercato; Alitalia inoltre non ha evitato il proprio destino ed è stata commissariata a fine agosto e gli effetti sono stati evidenti sul trasporto aereo nazionale.
Il prestito ponte dunque non ha raggiunto nessuno degli obiettivi per il quale era stato concesso dai Governi e si è dimostrato l’ennesimo errore dovuto all’intromissione della politica nella gestione della compagnia aerea.
La commissione Europea ha tuttavia preso una decisione in favore di CAI; nella sua sentenza del 12 novembre ha infatti affermato che la discontinuità tra l’ex vettore nazionale e la Compagnia Aerea Italiana è ammissibile; questa scelta è di notevole importanza per i soci della cordata italiana che l’avevano posta anche come condizione sospensiva per l’offerta all’acquisto degli asset Alitalia. In questo modo la CAI non dovrà rimborsare i debiti dell’ex vettore di bandiera, che resteranno in capo alla Bad Company, cioè ai contribuenti italiani e ai creditori della compagnia guidata dal Commissario Straordinario Augusto Fantozzi.
La Commissione Europea ha sottolineato che gli asset devono essere venduti a prezzi di mercato e il fatto che l’offerta di Cai non dia un valore agli slot è certamente una violazione a questa decisione europea ma non è detto che essa sarà messa in evidenza e censurata dalla Autorità comunitarie; la vendita quasi certamente si concluderà con l’esito voluto dal Governo Italiano.
Gli “imprenditori di Stato” della cordata Cai si apprestano pertanto ad incassare un grosso regalo a spese dei contribuenti italiani e dei creditori e azionisti privati di Alitalia: il 100% degli slot detenuti dalla vecchia Alitalia nonostante l’offerta Cai si prenda in carico solo il 60% degli aerei delle vecchia compagnia. Una parte non trascurabile degli slot riguarda inoltre aeroporti europei di primaria importanza, dato che l’ex vettore di bandiera ha ancora 42 coppie di slot negli aeroporti di Parigi, Londra, Monaco, Francoforte, Madrid e Barcellona oltre alla posizione di oligopolista detenuta nell’aeroporto di Milano Linate.
Il Commissario Europeo ai trasporti Antonio Tajani ha affermato che l’offerta di CAI è trasparente e di mercato perché sono state presentate 60 offerte per i diversi asset di Alitalia; per evidenti ragioni di trasparenza il Commissario Straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi dovrebbe pubblicarle, come ha fatto per quella arrivata dalla cordata italiana, in modo che sia possibile evidenziare se qualche offerta sia di importo superiore per i preziosi slot della compagnia di bandiera o per altre singole parti del gruppo.
Ciò che invece in sede europea non è stato rimarcato è il fatto che il Governo italiano ha espressamente escluso che la proprietà dell’azienda potesse ricadere in mani non italiane, assumendo una posizione in contrasto con la normativa comunitaria la quale si limita a prevedere che il controllo delle aziende aeronautiche titolari di licenza sui cieli dell’Unione debba essere in capo a soggetti comunitari e non ammette restrizioni ulteriori a questa previsione.
L’atteggiamento ingiustificatamente nazionalista ha scoraggiato la manifestazione di offerte alternative a Cai per l’intero gruppo Alitalia in quanto nessun operatore attento alla propria redditività si metterebbe contro i voleri del regolatore di un mercato nazionale. In tal modo sono stati danneggiati i creditori di Alitalia e i suoi azionisti di minoranza e di maggioranza, questi ultimi identificabili nei contribuenti italiani.
Le prossime settimane saranno decisive per la nascita della nuova Compagnia Aerea Italiana; comincerà infatti a proporre ai singoli dipendenti un contratto di lavoro al fine di trovare il personale necessario a decollare. Attualmente il vettore non ha ancora tutti i piloti necessari a fare partire la nuova società e difficilmente riuscirà a trovare sul mercato centinaia di piloti che siano in grado di pilotare i modelli di aeromobili che la CAI avrà nella propria flotta.
La compagnia, inoltre, con l’amministratore delegato Rocco Sabelli, non ha ancora la licenza di volo, ma tuttavia è molto probabile che entro fine novembre l’ENAC gliela fornisca. Gli ultimatum di Vito Riggio, presidente dell’Ente Nazionale dell’Aviazione Civile, degli scorsi mesi sembrano indirizzare la gestione dell’ente a favore della cordata italiana.
Un ulteriore punto ancora in sospeso di primaria importanza è la valutazione di Alitalia da parte di Banca Leonardo; l’advisor vede come azionisti anche alcuni soci della cordata italiana e questo non depone a favore di una totale indipendenza nella decisione che verrà adottata.
La valutazione degli asset dell’ex compagnia di bandiera è la seconda condizione sospensiva dell’offerta Cai per Alitalia; molto probabilmente Banca Leonardo darà un valore pari a zero per gli slot ed è la ragione per la quale l’offerta Cai potrebbe risultare pari al valore “di mercato” valutato dall’advisor. Questa decisione potrà essere impugnata da una qualunque compagnia aerea qualora risultasse aver presentato un’offerta maggiore per tali asset della fallimentare Alitalia.
L’ultima sospensiva di Cai nella propria offerta per la compagnia gestita da Augusto Fantozzi riguarda l’impossibilità di intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato anche nel caso il nuovo operatore abbia una posizione dominante e ne estragga una rendita. La legge 166 del 2008 all’articolo 10 comma 4 quinquies pone al riparo dall’intervento dell’antitrust Cai almeno fino al luglio 2009. L’apertura e la conclusione dei lavori tuttavia non si avranno prima dell’anno successivo, quando l’alta velocità ferroviaria tra Torino-Milano-Roma-Salerno sarà conclusa e di fatto la decisione non potrà non essere condizionata da questa modificazione della concorrenza tra treno e aereo.
L’offerta Cai è stata presentata lo scorso 31 ottobre e nonostante le molteplici difficoltà è molto probabile che vada in porto. Le problematiche esistenti verranno risolte a scapito non solo del mercato e della concorrenza, ma soprattutto dei viaggiatori e dei contribuenti italiani. L’italianità avrà infatti un costo, a carico di contribuenti e consumatori, di circa 1,3 miliardi di euro all’anno per i prossimi cinque anni, oltre il quadruplo di quanto è costata mediamente all’anno al contribuente la vecchia Alitalia tra il 2003 e il 2007.