mercoledì 5 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) L’altro 1968. La nascita del dissenso organizzato nella Chiesa Cattolica - di Massimo Introvigne
2) Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa - Con questo titolo è raccolta per la prima volta in un libro la predicazione di Benedetto XVI nelle messe e nei vespri, nell'arco di un anno. Una lettura d'obbligo per capire questo pontificato. Ecco la prefazione. Più una pagina d'assaggio - di Sandro Magister
3) La radicale unità tra esegesi e teologia [nelle omelie di Benedetto XVI, n.d.r.] di Camillo Ruini, l’Osservatore Romano, 5 novembre 2008
4) Il Cardinal Ruini e l'ambasciatrice statunitense dibattono su religione e libertà - Chiedono un modello positivo di Stato laico basato sulla libertà
5) 04/11/2008 13:20 – CINA - “Giro di vite” contro gli avvocati cinesi che lottano per i diritti umani - Guo Feixiong ha difeso i residenti contro gli abusi del capovillaggio. Ora è in carcere da 2 anni, sottoposto a torture, non può nemmeno vedere il suo avvocato. Cheng Hai e Li Subin hanno chiesto elezioni democratiche nell’Associazione degli avvocati e rischiano di perdere il lavoro.
6) Eutanasia, eugenetica, pillola del giorno dopo: i rischi di un'informazione tendenziosa - Obiezione di scienza e obiezione di coscienza - di Silvia Guidi, l’Osservatore, 5 novembre 2008
7) A colloquio con Vincenzo Saraceni, presidente dell'Amci - La malattia non è uno spettacolo – L’Osservatore Romano, 5 Novembre 2008
8) OBAMA/ Ora gli Usa chiedono un cambiamento. E la retorica non basterà - Alberto Simoni - mercoledì 5 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) UNIVERSITA'/ Modello inglese: un sistema statale, ma di successo. Qual è il segreto? - Emanuele Bracco - mercoledì 5 novembre 2008 - L’Università in Inghilterra è per la quasi totalità statale, eppure è tra le migliori al mondo: le migliori università inglesi sono seconde solo alle inarrivabili università americane dell’Ivy League. Qual è il loro segreto? I fattori sono molti e collegati. Proviamo punto per punto a vederne gli aspetti di forza e di debolezza.
10) SCUOLA/ Dopo lo sciopero del 30 ottobre, le ragioni per costruire - Fabrizio Foschi - mercoledì 5 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) SCIENZA&FEDE/ 1. Evoluzione e creazione, ecco la via per accordare due visioni considerate inconciliabili - Piero Benvenuti - mercoledì 5 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
12) OLTRE IL NICHILISMO/ L'ortolano di Havel ovvero il potere dei senza potere - Angelo Bonaguro - mercoledì 5 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) IL PAESE E LA CRISI - Segnali in controtendenza dai nuclei monogenitoriali e da quelli con a capo un lavoratore autonomo In Veneto l’incidenza della povertà è al 3%, mentre in Sicilia si raggiunge il 27% Oltre 7 milioni di poveri È allarme per le famiglie - DA ROMA BRUNO MASTRAGOSTINO – Avvenire, 5 novembre 2008
14) Cure palliative, Roccella: presto una legge - DA MESSINA -FRANCESCA LOZITO – avvenire, 5 novembre 2008
15) India: almeno 500 i cristiani uccisi in Orissa - Secondo il Governo le vittime ufficiali sono solo 31


L’altro 1968. La nascita del dissenso organizzato nella Chiesa Cattolica - di Massimo Introvigne
1. La contestazione conto l’Humanae vitae
Il 31 luglio 1968 i lettori del New York Times trovano a pagina 16 del loro quotidiano preferito — ma con un richiamo a pagina 1 — qualche cosa che cambia per sempre la storia della Chiesa Cattolica. Non si tratta di una nuova dichiarazione antireligiosa dei protagonisti delle lotte studentesche del 1968 in Europa. Con il titolo «Contro l’enciclica di Papa Paolo» («Against Pope Paul’s Encyclical» 1968) il quotidiano statunitense pubblica un appello datato 30 luglio, e firmato da oltre duecento teologi, che invita i cattolici a disubbidire a un’enciclica pontificia. Si tratta di qualche cosa che non si è mai visto nella lunga — e pur tormentata — storia della Chiesa. Certamente ci sono sempre stati dissidenti che hanno lasciato la Chiesa di Roma. Ma mai teologi, quasi tutti con cattedre in università cattoliche — che non hanno nessuna intenzione di abbandonare — e in molti casi sacerdoti, hanno esortato pubblicamente i fedeli a seguire il loro insegnamento e a schierarsi «contro» quello del Sommo Pontefice. Se l’essenza della rivoluzione culturale emblematicamente rappresentata dalla data 1968 è la contestazione in ogni ambito del principio di autorità, questo episodio segna in modo clamoroso l’esplodere del Sessantotto della Chiesa.
Infatti, dalla contestazione per la prima volta organizzata, da parte di un numero non maggioritario ma non modesto di docenti e di sacerdoti, dell’enciclica Humanae vitae (datata 25 luglio 1968 e pubblicata il successivo 29 luglio) di Paolo VI (1897-1978), che ribadisce l’illiceità per i cattolici della contraccezione artificiale, nasce l’idea, diffusa non solo in ristrette cerchie di cultori di teologia ma sui media internazionali, che dopo il Vaticano II (che è finito tre anni prima) i cattolici — o almeno, per usare un’espressione non solo italiana, i «cattolici adulti» — possano scegliere fra il magistero del Papa e il «magistero parallelo» dei teologi, un’espressione che sarà ripresa nel 1990 dall’Istruzione Donum Veritatis della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla vocazione ecclesiale del teologo (Congregazione per la Dottrina della Fede 1990). I teologi, in quanto più «progressisti» e avanzati, anticiperebbero semplicemente oggi quanto il magistero finirà fatalmente per accettare domani, e quindi potrebbero e dovrebbero essere seguiti con fiducia dai fedeli più maturi.
Dal momento che — per dire il meno — il Papa e la gerarchia non condividono questo punto di vista, ecco che nella Chiesa Cattolica vi sono dal 1968 due fonti di autorità (da una parte il Papa, dall’altra i gruppi di teologi che riescono a farsi percepire come maggioritari, lo siano o no), le quali certamente non sono sullo stesso piano dal punto di vista della dottrina insegnata dalla Chiesa stessa (e dal Concilio Ecumenico Vaticano II) ma sono presentate come se lo fossero dai media. La sociologia c’insegna che un’organizzazione dove i membri sono, per così dire, tirati in direzioni diverse da fonti di autorità percepite come alternative è un’organizzazione che non può funzionare in modo ottimale: di qui la sua crisi, che nei decenni successivi diventa sempre più evidente.
Ralph McInerny, uno dei più autorevoli filosofi cattolici contemporanei, in un piccolo ma importante libro — dal significativo titolo Che cosa è andato storto con il Vaticano II? (McInerny 1998) — insiste sul fatto che la questione decisiva nel 1968 non riguarda solo gli anticoncezionali, ma chi esercita l’autorità nella Chiesa e quale autorità i fedeli devono seguire. La gravità del caso Humanae vitae è confermata da un dato che riguarda la persona stessa di Papa Paolo VI: dopo la reazione a quel documento, il Pontefice — che pure regna ancora fino al 1978 —, evidentemente amareggiato, non pubblica per tutta la sua vita, cioè nei successivi dieci anni, alcun’altra enciclica (un fatto del tutto inconsueto per un Papa moderno) dopo che ne aveva pubblicate sette fra il 1964 e il 1968.
Il teologo (poi cardinale) Leo Scheffczyk (1920-2005) — intervenendo nel 1988 a Roma a un congresso nel ventennale della Humanae vitae, ai cui partecipanti rivolge un importante discorso lo stesso Pontefice Giovanni Paolo II (1920-2005) — spiega, in un modo particolarmente chiaro, il meccanismo (illustrato in termini analoghi anche da altri autori) utilizzato dai teologi dissidenti per costituirsi come magistero parallelo. Si tratta di un lento e ultimamente devastante lavorio teologico intorno alla nozione d’infallibilità definita dal precedente Concilio Vaticano I. Si «mette accanto al magistero infallibile un cosiddetto magistero fallibile, cosicché la fallibilità apparterrebbe a tale magistero quasi come un attributo permanente» (Scheffczyk 1989, 283). Posto che il magistero invoca molto raramente la sua infallibilità, e normalmente richiede l’assenso dei fedeli nei confronti della sua espressione in forma «autentica», da parte dei dissidenti «si costruisce l’equazione: infallibilità è incapacità di errore, autenticità invece è capacità di errore, e perciò anche incertezza e di per sé più esposta al rifiuto» (ibidem). Mentre i teologi dissidenti dal Vaticano I se la prendevano con l’infallibilità, i dissidenti del dopo-Vaticano II se ne fanno scudo per dichiarare che nell’insegnamento della Chiesa, tranne il pochissimo che è infallibile, tutto il resto è «fallibile» e si ha quindi il diritto di rifiutarlo. Beninteso, «secondo le regole della conoscenza questa equazione non è ammissibile» e il magistero, così, «ha perduto il suo significato» (ibidem). Né insegna questo il Vaticano II, anzi insegna precisamente il contrario: anche il magistero «autentico» è «rivestito dell’autorità di Cristo» e pertanto l’assenso è obbligatorio (ibidem; cfr. Lumen Gentium, n. 25).
Dunque, la crisi che s’inaugura per così dire ufficialmente il 31 luglio 1968 riguarda anzitutto chi esercita l’autorità nella Chiesa. Ma riguarda anche la questione della sessualità umana. In un intervento del 3 ottobre 2008 al convegno Humanae vitae: attualità di un’enciclica, organizzato a Roma dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione dei quarant’anni del testo di Paolo VI, il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, mostra come — anche in tema di sessualità — non si tratti solo di prescrizioni morali specifiche, ma di tre grandi questioni su cui si gioca il futuro stesso della «proposta evangelica» (Caffarra 2008). La prima riguarda l’unità di materia e spirito che si esprime nella persona umana, contro tutti gli gnosticismi — per cui l’uomo è solo spirito — e tutti i materialismi, per cui l’uomo è solo materia o corpo e lo spirito non esiste. Si tratta qui di una battaglia che la Chiesa combatte fin dai primi secoli e che ha a che fare con l’equilibrio stesso fra ragione e fede.
Se l’uomo è solo spirito, la sessualità è qualche cosa di cattivo, al massimo un male necessario. Personalmente non so se siano mai state usate o se si tratti di una leggenda, ma ho sentito parlare anch’io delle camicie da notte di cui si afferma che facessero parte del corredo di nozze di qualche bisnonna con la frase ricamata «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Ora, la negazione del ruolo positivo del piacere e della sessualità in ultima analisi non è solo ottusa: per quanto le bisnonne potessero non rendersene conto è gnostica, in quanto nega che il Dio Creatore sia il creatore anche del corpo e abbia voluto il corpo come cosa intrinsecamente buona (ancorché — ma questo vale per ogni tipo di realtà — il suo uso disordinato possa essere cattivo).
Il contributo dell’allora cardinale Karol Wojtyla — il futuro Papa Giovanni Paolo II — ai lavori preparatori per l’enciclica Humanae vitae consiste in un testo inviato a Roma che sarà alla base di un libro, Amore e responsabilità (Wojtyla 1978), il quale purtroppo non diventerà generalmente noto nella Chiesa se non dopo l’elezione del suo autore a Pontefice (in italiano, per esempio, sarà tradotto solo dieci anni dopo, nel 1978). Sull’effettiva influenza del testo di Wojtyla sulla Humanae vitae è ancora in corso un dibattito fra gli storici. Tuttavia alcune idee forza di Amore e responsabilità si ritrovano nell’enciclica (che, sia detto per inciso, pochissimi hanno letto). Vi è una valutazione positiva della sessualità umana — contro ogni gnosticismo — ma insieme la ferma difesa della dottrina tradizionale della Chiesa secondo cui questo apprezzamento, per sfuggire all’attrazione dell’errore opposto, il materialismo, deve essere radicato in una continua illustrazione della necessaria compresenza di libertà e istituzione, significato unitivo e significato procreativo dell’atto sessuale, passione e ragione.
Seguendo sempre lo schema del cardinale Caffarra, la seconda grande questione posta dall’Humanae vitae — collegata alla prima — è che i gesti umani della «dimensione fisica […] veicolano un senso spirituale». Per esempio, «se il bacio di Giuda ci sconvolge tanto profondamente è perché il gesto del baciare ha un suo significato proprio: compierlo dandogli un altro senso è avvertito come immorale e riprovevole» (Caffarra 2008). Ultimamente, la domanda qui è se i gesti umani, compresi quelli della sessualità, siano parte di un linguaggio «dotato di un significato proprio, di una sua grammatica», abbiano cioè una funzione che corrisponde allo schema naturale delle cose — e quindi, per converso, possano anche averne una contraria alla legge naturale e immorale — ovvero se ogni gesto sia accettabile se lo percepisco come utile o semplicemente se mi va di farlo in quel momento. Il mondo moderno e postmoderno è passato dall’utilitarismo al semplice anarchismo morale: «tutto alla fine è dichiarato giustificabile, purché sia liberamente voluto» (ibidem).
La pillola contraccettiva sta precisamente al centro — non alla periferia — di questo problema perché negli anni intorno al, e dopo il, 1968 è stata il veicolo della rivoluzione sessuale e del «tutto è lecito purché lo voglia liberamente». Prendendo la pillola a colazione, qualunque studentessa post-sessantottina pensa di potere «fare quello che vuole» senza porsi neppure il problema della eventuale gravidanza, cioè della responsabilità. Peraltro sbagliando: i numeri sono impietosi e dimostrano che quando Marco Pannella nel decennio successivo al 1968 sfilava con i cartelli «Pillola subito per non abortire, aborto libero per non morire» aveva, come spesso gli capita, torto. Per non andare troppo lontano da noi, in Italia — uno dei Paesi con la maggiore diffusione pro capite di anticoncezionali — all’aumento del consumo della pillola ha corrisposto un tasso che è rimasto molto alto del numero degli aborti. Nel 2005 per esempio, secondo il Rapporto Annuale del Ministero della Salute, ci sono stati 132.790 aborti procurati (per intenderci, è come se in un anno fosse sparita una città come Bergamo, con tutti gli abitanti del comune e anche di un paio di comuni più piccoli vicini), e un po’ più di una gravidanza italiana ogni sei si è conclusa con un aborto. La diffusione di massa degli anticoncezionali, infatti, non previene l’aborto ma crea una mentalità ostile al concepimento e alla vita, per cui se me la cavo con la pillola bene, diversamente c’è sempre l’aborto.
La terza questione è se amore del corpo e amore dello spirito — eros e agape, un tema che Benedetto XVI riprenderà nella sua prima enciclica, Deus caritas est — siano necessariamente correlati ovvero possano e debbano essere separati. La Chiesa rifiuta l’amore coniugale senza sesso di certe eresie gnostiche, ma rifiuta anche il sesso senza amore così tipico del nostro tempo. Né si tratta qui di una concezione romantica: la posta in gioco è molto più profonda. Infatti, puntualmente, dopo il sesso senza procreazione è venuta — appena la tecnica lo ha consentito — la procreazione senza sesso dei bambini in provetta, e oggi la scienza apre scenari sempre più inquietanti. Paolo VI appare qui al cardinale Caffarra assai più profetico, nel senso non solo di parlar chiaro ma in questo caso anche proprio di prevedere il futuro, dei teologi dissidenti. Ma sembra che molti di questi dissidenti si fossero ormai schierati — non solo sulla questione della pillola contraccettiva ma sui temi di fondo della sessualità, dell’esistenza di una legge naturale e della stessa persona umana — con la modernità relativista e non con il diritto naturale e cristiano.
2. La controversia sul Nuovo catechismo olandese
La contestazione contro la Humanae vitae non è l’unica manifestazione del Sessantotto nella Chiesa. Se negli Stati Uniti indubbiamente l’attacco all’enciclica di Paolo VI è percepito come il momento chiave dello scardinamento del principio di autorità nella Chiesa, in Europa viene in primo piano la contestazione teologica, il cui simbolo è la controversia sul Nuovo catechismo olandese del 1966, cui sono rimproverate affermazioni ambigue sul peccato, la redenzione, l’eucarestia, la verginità della Madonna, il ruolo della Chiesa e del Papa: in altre parole, su quasi tutti i punti essenziali della fede cattolica.
Anche su questo tema, la data chiave è proprio il 1968, che è l’anno in cui una commissione ad hoc di cardinali voluta da Paolo VI, in dialogo con i cardinali e vescovi olandesi, propone una serie d’integrazioni e di modifiche al Nuovo catechismo olandese, peraltro in modo molto cortese, lodando lo stile leggibile e innovativo del testo e riconoscendo ai suoi autori buone intenzioni di cui oggi — con il senno di poi — possiamo dire senza eccessiva malizia che forse non c’erano. Queste critiche sono clamorosamente contestate da una parte maggioritaria dell’establishment cattolico olandese, con alla testa il cardinale arcivescovo di Utrecht, Bernard Jan Alfrink (1900-1987), esponente di punta del progressismo cattolico internazionale e principale difensore del controverso Nuovo catechismo. Si può dire che il rifiuto delle correzioni romane è tanto più virulento in quanto la questione s’intreccia precisamente con quella della Humanae vitae.
L’insuccesso del dialogo si rivelerà all’inizio di gennaio del 1969, con la cosiddetta «Dichiarazione d’indipendenza» di Noordwijkerhout, la città olandese sul Mare del Nord dove si riuniscono i 109 membri del Consiglio Pastorale Olandese, un organismo creato nel 1967 e che comprende rappresentanti dei vescovi, dei sacerdoti e dei fedeli. Con il voto favorevole dei nove vescovi che ne fanno parte — compreso il cardinale Alfrink — il Consiglio invita i fedeli olandesi a rifiutare l’insegnamento della Humanae vitae. Nella stessa occasione — con l’astensione dei vescovi — il Consiglio Pastorale Olandese si schiera a favore del Nuovo catechismo olandese senza le correzioni suggerite da Roma, e chiede pure che la Chiesa rimanga aperta a «nuovi approcci radicali» sui temi morali, non citati nella mozione finale ma che emergono dai lavori del Consiglio come rapporti prematrimoniali, unioni omosessuali, aborto ed eutanasia. Tutto questo già all’inizio del 1969, non nel 1999 o nel 2009.
Nel giro di pochi mesi, si vede come il principio secondo cui singoli sacerdoti, teologi e anche vescovi possono erigersi in «magistero parallelo» ignorando completamente la dottrina della Chiesa si è esteso dagli anticoncezionali a tutti i temi morali che segneranno i successivi quarant’anni — nella «Dichiarazione d’indipendenza» dei teologi olandesi dal magistero romano c’è già tutto — e, attraverso il Nuovo catechismo, a temi dottrinali che riguardano l’essenziale della fede. Si tratta proprio del Sessantotto: una volta proclamato che ciascuno fa e dice quello che vuole, l’immaginazione va al potere — anche nella Chiesa.
I risultati della «Dichiarazione d’indipendenza» dell’Olanda da Roma sono stati disastrosi. Gli olandesi che dichiarano un’affiliazione alla Chiesa cattolica nel 1966, l’anno della pubblicazione del Nuovo catechismo, sono il 35%. Nel 2006 si sono più che dimezzati, e ridotti al 16%. Nel 2007, grazie all’immigrazione, i musulmani completano in Olanda il sorpasso sui cattolici. Nel frattempo, pur rimanendo meno dei cattolici, crescono i gruppi protestanti di tendenza evangelical, che su tutti i temi morali hanno opinioni opposte a quelle della «Dichiarazione d’indipendenza» (Vellenga 2008). Per la verità negli ultimi anni anche nella Chiesa cattolica olandese si stanno affermando tendenze piuttosto diverse da quelle del 1968. Ma ormai potrebbe essere troppo tardi: nel Paese dell’eutanasia libera è andata in scena dal 1968 in poi l’eutanasia di una Chiesa.
3. La teologia della liberazione
Coincidenza o no, il 1968 segna anche il vero e proprio «lancio» internazionale dell’espressione «teologia della liberazione» da parte del teologo peruviano Gustavo Gutiérrez Merino O.P. Insieme con la contestazione contro la Humanae vitae e la controversia sul Nuovo catechismo olandese, si tratta del terzo momento cruciale del Sessantotto nella Chiesa. Certo, l’espressione «teologia della liberazione» non corrisponde a una corrente unitaria ma a un insieme di sotto-correnti diverse. Non ci si può però nascondere che la corrente più influente sulla vita sociale e politica dell’Iberoamerica (e non solo) è quella che ha adottato come strumento di analisi privilegiato il marxismo.
In un articolo molto importante, apparso nel 2007 sulla Revista Eclesiástica Brasileira dopo la visita di Benedetto XVI in Brasile, padre Clodovis Boff O.S.M. — un tempo uno dei maggiori propagandisti, se non la maggiore «testa pensante» della corrente — non ha timore di denunciare nella «teologia della liberazione» «una funesta ambiguità» (Boff C. 2007, 1002) e una «trasformazione della fede in ideologia» (ibid., 1005), dove «il povero e la sua liberazione prendono il posto pre-eminente di Dio e della sua salvezza» (ibid., 1007-1008). Ora, mentre «da Cristo si va necessariamente al povero, dal povero non si va necessariamente a Cristo» (ibid., 1012). La «teologia della liberazione» è così scaduta in un «qualunquismo epistemologico» (ibid., 1008) che la ha svuotata di ogni contenuto specificamente religioso, e ha assunto secondo Clodovis Boff un «sapore maurrassiano» (che, osservo, per un teologo della liberazione dev’essere un insulto particolarmente bruciante: ibid., 1010). Se il pensatore e uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952) apprezzava la religione — o così pensa Clodovis Boff — come instrumentum regni al servizio di una certa politica, i teologi della liberazione hanno cambiato politica ma rivolgono lo stesso sguardo strumentale alla religione. Dove Maurras proclama politique d’abord, questa teologia ha adottato «come insegna libération d’abord» (ibidem). I risultati sono stati da una parte il sostegno ai regimi marxisti e ad «altre forme di povertà e di oppressione» (ibid., 1008) non migliori di quelle che si era partiti con il denunciare, dall’altra la «scarsa attrazione» che la «teologia della liberazione» ha finito per esercitare sui poveri in carne e ossa, così che ha perso «agenti, militanti e fedeli» fino a ritrovarsi oggi «storicamente anacronistica, cioè alienata dalla sua epoca» (ibid., 1007).
Con una svolta sorprendente rispetto alle sue posizioni solo di pochi anni prima, Clodovis Boff esprime apprezzamento per le posizioni di Benedetto XVI. Rintraccia le radici dell’«antropologismo modernizzante» (ibid., 1009), che arriva con la «teologia della liberazione» alle estreme conseguenze, nel soggettivismo di Martin Lutero (1483-1546), nel moralismo illuminista di Immanuel Kant (1724-1804), nel modernismo condannato da san Pio X (1835-1914) nell’enciclica Pascendi del 1907 e infine — ma ogni passaggio prepara quello successivo — nella cosiddetta svolta antropologica nella teologia di Karl Rahner S.J. (1904-1984). Senza dubbio Clodovis Boff non è passato — come invece, in una dura replica all’articolo, pensa, suo fratello, l’ex-francescano Leonardo Boff (Boff L. 2008) — «dall’altra parte» rispetto a una certa corrente culturale. Infatti, continua a considerare quelli che chiama il «divinismo» e il «totalitarismo teologico» (Boff C. 2007, 1010) della Chiesa pre-moderna — la «Chiesa della cristianità» (ibidem) — come elementi almeno parzialmente responsabili, in quanto avrebbero generato una reazione per molti versi comprensibile, del «mondanismo» (ibidem) e del totalitarismo politico che la modernità ha opposto alla Chiesa. Tuttavia, riconosce pure con Benedetto XVI che «grazie all’apertura conciliare l’estremismo della modernità è riuscito a entrare in modo virulento nel seno stesso della Chiesa, generando anche rotture» (ibid., 1010-1011).
Il testo di Clodovis Boff è così importante perché mostra che la «teologia della liberazione» — se si vuole, la sua corrente d’ispirazione marxista — si situa alla fine di un processo, il progressismo, che ha accompagnato tutta la storia della Chiesa nell’era moderna e contemporanea. Come il Sessantotto non si comprende se non come esito di un processo rivoluzionario plurisecolare, così anche il Sessantotto nella Chiesa non può essere capito a fondo se non lo s’inquadra in una lunga storia che da Lutero e dai cedimenti cattolici all’Illuminismo passa per il modernismo e per Karl Rahner prima di arrivare all’incontro con il marxismo. Gioca qui un ruolo cruciale, certo, un’interpretazione errata del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo quella «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto alla tradizione precedente denunciata da Benedetto XVI (Benedetto XVI 2005). E tuttavia il Sessantotto della Chiesa non è solo questione d’interpretazione del Concilio. Il dissenso sulla Humanae vitae, la controversia sul Nuovo catechismo olandese e la nascita della «teologia della liberazione» d’impronta marxista sono l’esito — che non casualmente si manifesta proprio nel 1968 — di processi più che secolari, di dinamiche che già esistevano prima del Concilio cui la stessa teologia preconciliare non aveva posto una argine sufficiente, così che la stessa reazione ai dissidenti da parte di un pensiero etico e teologico conservatore all’immediato indomani del 1968 manifesta una grave «inadeguatezza» (Caffarra 2008).
Infine, il Sessantotto nella Chiesa non è semplicemente il riflesso all’interno del mondo cattolico di avvenimenti nati al di fuori di esso. Gli eventi sono più complessi, e qualche volta le manifestazioni più deteriori del Sessantotto, che evidentemente si estendono agli anni successivi, non vanno dal mondo alla Chiesa ma nascono nella Chiesa per poi penetrare nel mondo. All’inizio degli anni 1990 un teologo cattolico potrà per esempio scrivere che la «rivoluzione culturale» del 1968 «non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dall’esterno contro la Chiesa bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo»; lo stesso «processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70», il cui legame con il 1968 è a sua volta decisivo, «rimane incomprensibile se si prescinde dalla crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare». Il teologo in questione è il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (Ratzinger 1992, 125-126).
Riferimenti
«Against Pope Paul’s Encyclical». 1968. The New York Times, 31-7-1968.
Benedetto XVI. 2005. Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato www.tinyurl.com/b8f72.
Boff, Clodovis M., OSM. 2007. «Teologia da Libertação e volta ao fundamento». Revista Eclesiástica Brasileira, vol. 67, n. 268, ottobre 2007, pp. 1001-1022.
Boff, Leonardo. 2008. «Pelos pobres contra a estreiteza do método». Pubblicato sul sito Internet dell’Instituto Humanitas Unisinos all’indirizzo abbreviato www.tinyurl.com/6hlajp.
Caffarra, Carlo. 2008. «Il sesso è libero, cioè relativo». Il Foglio, 7-10-2008.
Congregazione per la Dottrina della Fede. 1990. Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo «Donum veritatis», del 24-5-1990. Acta Apostolicae Sedis, vol. 82, pp. 1550-1570.
«Declaration of Independence». 1969. Time, 17-1-1969. Disponibile nell’archivio elettronico di Time all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/6ms3yh.
McInerny, Ralph. 1998. What Went Wrong with Vatican II? The Catholic Crisis Explained. Sophia Institute Press, Manchester (New Hampshire).
Ratzinger, Joseph. 1992. Svolta dell’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti. Trad. it. Edizioni Paoline, Milano.
Scheffczyk, Leo. 1989. «Responsabilità e autorità del teologo nel campo della teologia morale: il dissenso sull’enciclica “Humanae vitae”». In Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Università Lateranense - Centro Accademico Romano della Santa Croce, Università di Navarra, 1989, pp. 273-286.
Vellenga, Sipco J. 2008. «Religion in the Netherlands: Trends, Influences and Discussions». EuroTopics, 15-9-2008. Disponibile su Internet all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5gpgd2.

Wojtyla, Karol. 1978. Amore e responsabilità. Trad. it. Marietti, Torino.


Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa - Con questo titolo è raccolta per la prima volta in un libro la predicazione di Benedetto XVI nelle messe e nei vespri, nell'arco di un anno. Una lettura d'obbligo per capire questo pontificato. Ecco la prefazione. Più una pagina d'assaggio - di Sandro Magister
Le omelie liturgiche sono una vetta del pontificato di Benedetto XVI. La meno frequentata e conosciuta. Di lui hanno fatto notizia e rumore la lezione di Ratisbona, il libro su Gesù, l'enciclica sulla speranza. Molto meno, pochissimo, le prediche che egli rivolge ai fedeli nelle messe che celebra in pubblico.

Eppure, senza le omelie, il magistero di questo papa teologo resterebbe incomprensibile. Così come senza di esse non si capirebbero un san Leone Magno, il primo pontefice di cui sia giunta a noi la predicazione liturgica, un sant'Ambrogio, un sant'Agostino, tutti quei grandi pastori e teologi, colonne della Chiesa, che Joseph Ratzinger ha per maestri.

Anzitutto le omelie sono quanto di più genuino esce dalla mente di papa Benedetto. Le scrive quasi integralmente di suo pugno, talvolta le improvvisa. Ma soprattutto imprime in esse quel tratto inconfondibile che distingue le omelie da ogni altro momento del suo magistero: il loro essere parte di un'azione liturgica, anzi, esse stesse liturgia.

Benedetto XVI l'ha detto chiaro nell'omelia da lui pronunciata il 29 giugno 2008 nella festa dei santi Pietro e Paolo: la sua vocazione è di "servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti". L'espressione ardita è di Paolo nel capitolo 15 della Lettera ai Romani. E il papa l'ha fatta propria. Ha identificato la sua missione di successore degli Apostoli proprio nel farsi servitore di una "liturgia cosmica". Poiché "quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo".

È una visione da vertigine. Ma papa Ratzinger ha questa certezza incrollabile: quando celebra la messa sa che lì c'è tutto l'agire di Dio, intrecciato con i destini ultimi dell'uomo e del mondo. Per lui la messa non è un semplice rito officiato dalla Chiesa. È la Chiesa stessa, abitata dal Dio trinitario. È immagine e realtà della totalità dell'avventura cristiana. Non sbagliavano i pagani colti dei primi secoli, quando per identificare la cristianità la descrivevano nell'atto di celebrare. Perché questa era anche la fede di quei primi credenti. "Sine dominico non possumus", senza l'eucaristia della domenica non possiamo vivere, risposero i martiri di Abitene all'imperatore Diocleziano che proibiva loro di celebrare. E per questo sacrificarono la vita. Benedetto XVI ha richiamato questo episodio nell'omelia della sua prima messa celebrata fuori Roma da papa, a Bari, il 29 maggio del 2005.

In quella stessa omelia il papa definì la domenica "Pasqua settimanale". E con ciò la identificò come l'asse del tempo cristiano. La Pasqua, ossia la passione, la morte e la risurrezione di Gesù, è un atto unico nel tempo, compiuto una volta per tutte, ma è anche un atto compiuto "per sempre", come ben sottolinea la Lettera agli Ebrei. E questa contemporaneità si realizza nell'azione liturgica, dove "la Pasqua storica di Gesù entra nel nostro presente e a partire da lì vuole raggiungere e investire la vita di coloro che celebrano e, quindi, l'intera realtà storica". Da cardinale, nel libro "Introduzione allo spirito della liturgia", Ratzinger scrisse pagine suggestive sul "tempo della Chiesa", un tempo in cui "passato, presente e futuro si compenetrano e toccano l'eternità".

Il tempo della Chiesa è ritmato dalla domenica. Essa è "il primo giorno della settimana" (Matteo 28, 1) e quindi il primo dei sette giorni della creazione. Ma è anche l'ottavo giorno, il tempo nuovo che ha avuto principio con la risurrezione di Gesù. La domenica è dunque per i cristiani, dice Ratzinger, "la vera misura del tempo, l'unità di misura della loro vita", poiché in ogni messa domenicale irrompe la nuova creazione. Lì ogni volta la Parola di Dio si fa carne. Lo mostrano i dipinti di tante chiese del Medioevo e del Rinascimento: da un lato l'Angelo annunziante, dall'altro la Vergine annunziata, e al centro l'altare sul quale in ogni messa "Verbum caro factum est" per opera dello Spirito Santo. Ma anche la struttura della messa mostra ciò in modo lampante, come papa Benedetto ha ricordato in un suo commento alla cena di Gesù risorto con i discepoli di Emmaus, all'Angelus di domenica 6 aprile 2008. Nella prima parte della messa c'è l'ascolto delle Sacre Scritture, e nella seconda ci sono "la liturgia eucaristica e la comunione con Cristo presente nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue". Le due mense, della Parola e del Pane, sono indissolubilmente connesse.

L'omelia fa da ponte tra le due. Il modello è Gesù nella sinagoga di Cafarnao, nel capitolo 4 del Vangelo di Luca. Riavvolto il rotolo delle Scritture, "gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato". Nelle sue omelie, papa Benedetto fa la stessa cosa. Commenta le Scritture e dice che "oggi" esse si compiono nell'atto liturgico che si sta celebrando. Con il riverbero che ne consegue per la vita di tutti, poichè – ha scritto – "la celebrazione non è solo rito, non è solo un gioco liturgico, essa vuole essere 'logiké latreia', trasformazione della mia esistenza in direzione del Logos, contemporaneità interiore tra me e Cristo".

Le Scritture illustrate da Benedetto XVI in ogni omelia sono naturalmente quelle della messa del giorno, alla quale danno l'impronta. E qui entra in campo quell'altra grande articolazione del tempo della Chiesa che è il ciclo dell'anno liturgico. Sul ritmo fondante, quello settimanale delle domeniche, si è innestato fin dai primi secoli cristiani un secondo ritmo, a ciclicità annuale, che ha nella Pasqua il suo perno, e nel Natale e nella Pentecoste altri due centri di gravità. Questo secondo ritmo fa risplendere il mistero cristiano nei suoi aspetti e momenti distinti, lungo l'intero arco della storia sacra. Comincia con le settimane dell'Avvento e prosegue col tempo di Natale e dell'Epifania, con i quaranta giorni della Quaresima, con la Pasqua, con i cinquanta giorni del tempo pasquale, con la Pentecoste. Le domeniche al di fuori di questi tempi forti sono quelle del tempo ordinario, "per annum". In più vi sono le feste: come l'Ascensione, la Trinità, il Corpus Domini, i santi Pietro e Paolo, l'Immacolata, l'Assunta.

Ma l'anno liturgico è molto più che la narrazione a puntate di un'unica grande storia e dei suoi protagonisti. L'Avvento, ad esempio, non è solo memoria dell'attesa del Messia, perché Egli è già venuto e ancora verrà alla fine dei tempi. La Quaresima è sì preparazione alla Pasqua, ma anche al battesimo come matrice della vita cristiana di ciascuno, sacramento amministrato per antica tradizione nella veglia pasquale. L'umano e il divino, il tempo e l'eterno, Cristo e la Chiesa, la vicenda di tutti e di ciascuno sono sorprendentemente intrecciati in ogni momento dell'anno liturgico. Lo attesta una stupenda antifona della festa dell'Epifania: "Oggi allo Sposo celeste si è unita la Chiesa, perché nel Giordano Cristo lavò i suoi peccati. Corrono i Magi coi doni alle nozze regali e i convitati si allietano dell'acqua mutata in vino". I Magi, il battesimo di Gesù nel Giordano, le nozze di Cana, tutto diventa "epifania", manifestazione, dell'unione nuziale tra Dio e l'uomo, di cui la Chiesa è il segno e l'eucaristia il sacramento.

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In questo libro è per la prima volta raccolto un ciclo di omelie di Benedetto XVI. Sono quelle dell'anno liturgico che è iniziato con la prima domenica d'Avvento del 2007, o meglio, con i vespri della vigilia di questa domenica. Questa prima omelia e quella del successivo 31 dicembre sono state pronunciate dal papa durante i vespri, prima del Magnificat. Tutte le altre durante la messa, dopo il Vangelo. La maggior parte hanno avuto luogo a San Pietro, nella basilica o nella piazza; una nella Cappella Sistina; una a San Giovanni in Laterano; una a San Paolo fuori le Mura; quattro in altre chiese di Roma; una a Castel Gandolfo; una ad Albano; le altre in altre città dell'Italia e del mondo dove il papa era in visita: a New York, Genova, Brindisi, Sydney, Cagliari, Parigi.

In due occasioni Benedetto XVI, oltre che celebrare la messa, ha amministrato il battesimo a bambini ed adulti. Una volta ha conferito la cresima a dei giovani. Una volta ha ordinato dei sacerdoti. Un'altra volta ha consacrato gli oli per l'amministrazione dei sacramenti. Un'altra volta ancora ha imposto il pallio ai nuovi arcivescovi metropoliti. In un'occasione ha consacrato una nuova chiesa parrocchiale e in un'altra il nuovo altare di una cattedrale. In tutti questi casi il papa ha dedicato una parte dell'omelia a illustrare questi gesti.

Inoltre, per tre volte la messa è stata preceduta o seguita da una processione: il mercoledì delle Ceneri, la domenica delle Palme e il Corpus Domini. La sera del giovedì santo il papa ha lavato i piedi a dodici persone. La notte di Pasqua ha presieduto la liturgia della luce, con l'accensione del cero pasquale e il canto dell'Exultet.

Il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ha partecipato con lui alla messa – ma senza consacrare né fare la comunione – il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il quale si è anche associato all'omelia, parlando subito prima del papa.

In ogni caso, sempre Benedetto XVI ha poggiato le sue omelie sui brani della Scrittura letti nella messa del giorno o, analogamente, nei vespri. Il lettore troverà tali brani riprodotti al termine di ciascuna omelia: corredo indispensabile per situarla nel suo contesto liturgico. I brani quasi sempre coincidono con le letture del messale romano proclamate quello stesso giorno in quasi tutte le chiese cattoliche del mondo. Dopo le omelie dei vespri d'inizio d'Avvento e del 31 dicembre il lettore troverà anche i testi del Magnificat e del Te Deum.

A leggerle in modo continuato, le omelie di Benedetto XVI disegnano l'arco dell'anno liturgico, e quindi il mistero cristiano, con una nitidezza esemplare. Il disegno ha qua e là dei vuoti, perché in non poche domeniche e feste il papa non celebra in pubblico. Ma lui stesso mostra di voler colmare questi vuoti dedicando a tale scopo i messaggi che rivolge ai fedeli e al mondo tutte le domeniche mezzogiorno prima della preghiera dell'Angelus o, nel tempo pasquale, del Regina Cæli.

Questi messaggi sono spesso delle piccole omelie. Nelle quali Benedetto XVI commenta le letture della messa del giorno. Sono inconfondibilmente di suo pugno, veri gioielli di omiletica minore. In appendice al libro il lettore ne troverà raccolte alcune. E con esse arricchirà la visione di quel capolavoro che è l'anno liturgico narrato da papa Benedetto.

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Il libro, in vendita dal 6 novembre: Benedetto XVI, "Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa", a cura di Sandro Magister, Libri Scheiwiller, Milano, 2008, pp. 280, euro 15,00.

La sera del 5 novembre, a Roma, nella Sala del Cenacolo di Palazzo Valdina, il libro è stato presentato al pubblico dal cardinale Camillo Ruini e dal ministro della cultura del governo italiano, Sandro Bondi.

Lo stesso giorno "L'Osservatore Romano" ha pubblicato sia la prefazione di Sandro Magister, la stessa qui sopra riprodotta, sia il commento del cardinale Ruini.

Il 2 novembre l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura, ha ampiamente recensito il volume sul supplemento domenicale di "Il Sole 24 Ore", il più diffuso quotidiano economico e finanziario d'Italia e d'Europa.

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L'omelia che segue è un esempio splendente della predicazione di papa Joseph Ratzinger. Non è tra quelle raccolte nel volume, è dell'anno liturgico precedente, ma lo stile è lo stesso, inconfondibile. Questa volta Benedetto XVI non legge ma improvvisa, seguendo comunque una traccia accuratamente pensata. Ad ascoltarlo sono i fedeli della chiesa parrocchiale di San Tommaso da Villanova, nella piazza di Castel Gandolfo su cui si affaccia la Villa Pontificia nella quale il papa trascorre l'estate. La messa è iniziata alle 8 di mattina. E terminate le letture...


Omelia nella festa di Maria Assunta al Cielo, 15 agosto 2007 di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, nella sua grande opera "La Città di Dio", Sant’Agostino dice una volta che tutta la storia umana, la storia del mondo, è una lotta tra due amori: l’amore di Dio fino alla perdita di se stesso, fino al dono di se stesso, e l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, fino all’odio degli altri. Questa stessa interpretazione della storia come lotta tra due amori, tra l’amore e l’egoismo, appare anche nella lettura tratta dall’Apocalisse, che abbiamo sentito ora. Qui, questi due amori appaiono in due grandi figure. Innanzitutto vi è il dragone rosso fortissimo, con una manifestazione impressionante ed inquietante del potere senza grazia, senza amore, dell’egoismo assoluto, del terrore, della violenza.

Nel momento in cui san Giovanni scrisse l’Apocalisse, per lui questo dragone era realizzato nel potere degli imperatori romani anticristiani, da Nerone fino a Domiziano. Questo potere appariva illimitato; il potere militare, politico, propagandistico dell’impero romano era tale che davanti ad esso la fede, la Chiesa appariva come una donna inerme, senza possibilità di sopravvivere, tanto meno di vincere. Chi poteva opporsi a questo potere onnipresente, che sembrava in grado di fare tutto? E tuttavia, sappiamo che alla fine ha vinto la donna inerme, ha vinto non l’egoismo, non l’odio; ha vinto l’amore di Dio e l’impero romano si è aperto alla fede cristiana.

Le parole della Sacra Scrittura trascendono sempre il momento storico. E così, questo dragone indica non soltanto il potere anticristiano dei persecutori della Chiesa di quel tempo, ma le dittature materialistiche anticristiane di tutti i periodi. Vediamo di nuovo realizzato questo potere, questa forza del dragone rosso nelle grandi dittature del secolo scorso: la dittatura del nazismo e la dittatura di Stalin avevano tutto il potere, penetravano ogni angolo, l’ultimo angolo. Appariva impossibile che, a lunga scadenza, la fede potesse sopravvivere davanti a questo dragone così forte, che voleva divorare il Dio fattosi bambino e la donna, la Chiesa. Ma in realtà, anche in questo caso, alla fine, l’amore fu più forte dell’odio.

Anche oggi esiste il dragone in modi nuovi, diversi. Esiste nella forma delle ideologie materialiste che ci dicono: è assurdo pensare a Dio; è assurdo osservare i comandamenti di Dio; è cosa di un tempo passato. Vale soltanto vivere la vita per sé. Prendere in questo breve momento della vita tutto quanto ci è possibile prendere. Vale solo il consumo, l’egoismo, il divertimento. Questa è la vita. Così dobbiamo vivere. E di nuovo, sembra assurdo, impossibile opporsi a questa mentalità dominante, con tutta la sua forza mediatica, propagandistica. Sembra impossibile oggi ancora pensare a un Dio che ha creato l’uomo e che si è fatto bambino e che sarebbe il vero dominatore del mondo. Anche adesso questo dragone appare invincibile, ma anche adesso resta vero che Dio è più forte del dragone, che l’amore vince e non l’egoismo.

Avendo considerato così le diverse configurazioni storiche del dragone, vediamo ora l’altra immagine: la donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi, circondata da dodici stelle. Anche quest’immagine è multidimensionale.

Un primo significato senza dubbio è che è la Madonna, Maria vestita di sole, cioè di Dio, totalmente; Maria che vive in Dio, totalmente, circondata e penetrata dalla luce di Dio. Circondata dalle dodici stelle, cioè dalle dodici tribù d’Israele, da tutto il Popolo di Dio, da tutta la comunione dei santi, e ai piedi la luna, immagine della morte e della mortalità. Maria ha lasciato dietro di sé la morte; è totalmente vestita di vita, è assunta con corpo e anima nella gloria di Dio e così, posta nella gloria, avendo superato la morte, ci dice: Coraggio, alla fine vince l’amore! La mia vita era dire: Sono la serva di Dio, la mia vita era dono di me, per Dio e per il prossimo. E questa vita di servizio arriva ora nella vera vita. Abbiate fiducia, abbiate il coraggio di vivere così anche voi, contro tutte le minacce del dragone.

Questo è il primo significato della donna che Maria è arrivata ad essere. La "donna vestita di sole" è il grande segno della vittoria dell’amore, della vittoria del bene, della vittoria di Dio. Grande segno di consolazione.

Ma poi questa donna che soffre, che deve fuggire, che partorisce con un grido di dolore, è anche la Chiesa, la Chiesa pellegrina di tutti i tempi. In tutte le generazioni di nuovo essa deve partorire Cristo, portarlo al mondo con grande dolore in questo modo sofferto. In tutti i tempi perseguitata, vive quasi nel deserto perseguitata dal dragone. Ma in tutti i tempi la Chiesa, il Popolo di Dio vive anche della luce di Dio e viene nutrito – come dice il Vangelo – di Dio, nutrito in se stesso col pane della Santa Eucaristia. E così in tutta la tribolazione, in tutte le diverse situazioni della Chiesa nel corso dei tempi, nelle diverse parti del mondo, soffrendo vince. Ed è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo.

Vediamo certamente che anche oggi il dragone vuol divorare il Dio fattosi bambino. Non temete per questo Dio apparentemente debole. La lotta è già cosa superata. Anche oggi questo Dio debole è forte: è la vera forza. E così la festa dell’Assunta è l’invito ad avere fiducia in Dio ed è anche invito ad imitare Maria in ciò che Ella stessa ha detto: Sono la serva del Signore, mi metto a disposizione del Signore. Questa è la lezione: andare sulla sua strada; dare la nostra vita e non prendere la vita. E proprio così siamo sul cammino dell’amore che è un perdersi, ma un perdersi che in realtà è l’unico cammino per trovarsi veramente, per trovare la vera vita.

Guardiamo Maria, l’Assunta. Lasciamoci incoraggiare alla fede e alla festa della gioia: Dio vince. La fede apparentemente debole è la vera forza del mondo. L’amore è più forte dell’odio. E diciamo con Elisabetta: Benedetta sei tu fra tutte le donne. Ti preghiamo con tutta la Chiesa: Santa Maria, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.
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Tutte le omelie di Benedetto XVI, nel sito del Vaticano: > Omelie


La radicale unità tra esegesi e teologia [nelle omelie di Benedetto XVI, n.d.r.] di Camillo Ruini, l’Osservatore Romano, 5 novembre 2008
Per inquadrare e comprendere il significato, gli obiettivi e il contesto personale ed esistenziale delle omelie di Benedetto XVI, è molto importante la prefazione che egli stesso ha scritto per il primo volume della sua opera omnia, uscito pochi giorni fa in lingua tedesca e atteso tra pochi mesi in italiano.
Il Papa spiega anzitutto perché ha scelto di pubblicare per primo il volume con i suoi scritti sulla liturgia, uniformandosi all'ordine seguito dal concilio Vaticano II, la cui prima costituzione è stata quella sulla liturgia. Scrive Benedetto XVI: "La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l'attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico". Certo, come materia specifica del suo insegnamento egli aveva scelto la teologia fondamentale, perché voleva andare fino in fondo alla domanda "perché crediamo", ma in questa domanda "era inclusa fin dall'inizio l'altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino", ossia sulla liturgia. Benedetto XVI aggiunge: "Proprio da qui debbono essere intesi i miei lavori sulla liturgia. Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l'ancoraggio della liturgia nell'atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana". Perciò il suo interesse si è concentrato su tre ambiti fondamentali: l'intimo rapporto tra l'antico e il nuovo Testamento, il rapporto con le religioni del mondo e il carattere cosmico della liturgia, che "rappresenta qualcosa di più della semplice riunione di una cerchia più o meno grande di esseri umani; la liturgia - infatti - viene celebrata dentro l'ampiezza del cosmo, abbraccia creazione e storia allo stesso tempo".
Sandro Magister, nella sua prefazione, cita a questo proposito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI il 29 giugno di quest'anno, per la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, nella quale il Papa richiama il versetto 15, 6 della Lettera ai Romani, dove Paolo stesso esprime l'essenziale della sua missione dicendo che egli è chiamato "a servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti, amministrando da sacerdote il Vangelo di Dio, perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo". Magister ritiene giustamente che in quelle parole di san Paolo Benedetto XVI identifichi anche la propria vocazione e missione, e individua il tratto distintivo delle omelie, rispetto a tutto il restante magistero del Papa, nell'essere queste "parte di un'azione liturgica, anzi, esse stesse liturgia".
In realtà, Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, non solo per il suo profondo senso del mistero liturgico e quindi dell'azione liturgica, ma anche per le caratteristiche proprie della sua teologia, è sotto ogni profilo straordinariamente attrezzato e per così dire "orientato" verso il ministero dell'omelia. Nell'intervento fatto "a braccio" il 14 ottobre scorso al Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, egli ha sostenuto che la mancanza, nell'esegesi attuale, di un'ermeneutica della fede, sostituita da un'ermeneutica filosofica profana, "che nega la possibilità dell'ingresso e della presenza reale del Divino nella storia", provoca "una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie". Infatti, "dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento". Perciò, per la vita e la missione della Chiesa e per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare il dualismo tra esegesi e teologia.
Prima di averla affermata da Pontefice, Joseph Ratzinger questa intima unità tra esegesi e teologia l'aveva messa in pratica da teologo. Nel libro La mia vita, indicando i motivi della profonda diversità della sua teologia da quella di Karl Rahner, egli ha scritto: "Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico" (p. 93). Questo carattere essenzialmente biblico, patristico, liturgico e storico della sua teologia ha fatto di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI quello straordinario omileta e quello straordinario catechista che, con la semplicità e la sostanza della sua parola, spezza in modo comprensibile a tutti il pane della Parola di Dio e del mistero della nostra salvezza.
Aggiungo una precisazione che evita il rischio di un equivoco. L'indole essenzialmente storica del pensiero del teologo Ratzinger non è assolutamente da intendersi nel senso di un approccio storico che lascia le parole della Sacra Scrittura chiuse nel passato in cui sono state scritte. Al contrario, come egli stesso spiega ampiamente nel libro Gesù di Nazaret (pp.12-15), nella parola del passato si può e si deve percepire la domanda circa il suo oggi; nella parola dell'uomo, in concreto del singolo Autore sacro, risuona qualcosa di più grande, Dio che ci fa conoscere il suo volto per la nostra salvezza. In realtà Joseph Ratzinger elabora e fa vivere il grande patrimonio della fede biblica ed ecclesiale in un interscambio fecondo con le grandi problematiche del tempo che stiamo vivendo, di cui coglie in profondità il senso, le origini e i dinamismi. Per questo le sue omelie, come i suoi lavori teologici ed i suoi interventi magisteriali, ci interpellano e ci coinvolgono come luce e nutrimento per il cammino attuale della nostra vita.
In concreto, le omelie raccolte in questo agile volume mostrano come i testi delle letture bibliche delle singole celebrazioni possano essere compresi nel loro significato pieno e autentico, storico e teologico, proprio in quanto parte integrante dell'azione liturgica, e come a partire da questa loro pienezza possano vivere nel presente della fede e parlare a noi. Perciò la lettura e la meditazione delle omelie di Benedetto XVI è ormai per molti sacerdoti un aiuto prezioso e quasi un paradigma per la loro personale predicazione omiletica: al riguardo ho sperimentato io stesso quanto l'ascolto diretto di gran parte di queste omelie abbia giovato alla mia predicazione, migliorandone l'aggancio biblico e liturgico e stimolando l'attenzione e partecipazione dei presenti. Questo libro è pertanto anche un sussidio pratico che ogni sacerdote potrà facilmente procurarsi per avere un modello a cui ispirarsi nelle proprie omelie, non attraverso una ripetizione o imitazione pedissequa, ma come punto di riferimento per il proprio impegno personale nell'assimilare e comunicare la parola della nostra salvezza.
(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2008)


Il Cardinal Ruini e l'ambasciatrice statunitense dibattono su religione e libertà -
Chiedono un modello positivo di Stato laico basato sulla libertà
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 4 novembre 2008 (ZENIT.org).- Una retta visione della laicità, rapporto tra Chiesa e Stato in cui prevalga la libertà e non l'imposizione, è stata il tema di un dibattito tra l'ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, e il Cardinale Camillo Ruini, vicario emerito per la Diocesi di Roma.
La conferenza, sul tema "La religione e la libertà: Stati Uniti ed Europa", si è svolta il 28 ottobre a Roma.
Un retto rapporto Chiesa-Stato
Nel suo intervento, pronunciato al Centro di orientamento politico Gaetano Rebecchini, l'ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana ha citato l'esempio della Francia, il cui Stato, fin dall'Illuminismo, ha sperimentato la tendenza ad essere "ostile alla Chiesa e anche, non di rado, chiuso alla trascendenza".
Questa visione, ha aggiunto, fa sì che in Europa si guardi alla Chiesa come a un'istituzione che toglie libertà ai credenti.
Al contrario, negli Stati Uniti "è stata costruita in gran parte da gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema di Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti".
Si tratta dunque di un modello, perché "è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione delle persone".
Il porporato ha difeso la separazione tra Chiesa e Stato "reclamata dalla religione" come qualcosa di diverso dalla separazione "ostile" imposta dalla Rivoluzione Francese e dai sistemi statali che ad essa sono seguiti.
Il senso positivo dello Stato laico
Da parte sua, l'ambasciatrice Glendon ha citato le parole del pensatore francese Alexis de Tocqueville, che diceva che "tutti quelli che amano la libertà dovrebbero affrettarsi a chiamare la religione in loro aiuto. Poiché dovrebbero sapere che non si può stabilire il regno della libertà senza quello dei buoni costumi, né creare buoni costumi senza la fede".
L'ambasciatrice ha spiegato in questo modo che un concetto positivo di laicità "non solamente permette la coesistenza pacifica tra molte religioni, ma permette loro anche di prosperare".
Nel suo viaggio negli Stati Uniti, ha ricordato, Papa Benedetto XVI ha trovato "affascinante" il fatto che i fondatori del Paese avessero creato uno Stato laico "non perché erano ostili alla religione", ma "per amore della religione nella sua autenticità che può essere vissuta solo liberamente".
Nel corso della sua visita, il Pontefice ha affermato che negli Stati Uniti "la dimensione religiosa, nella diversità delle sue espressioni, è non soltanto tollerata, ma apprezzata come l'anima della nazione e come una garanzia fondamentale dei diritti e doveri umani".
La Glendon si è anche riferita al modello su cui è stata costruita la società statunitense, in cui "la maggioranza della popolazione era dispersa tra molte forme di protestantesimo" e si è profilato un sistema volto ad affrontare questa diversità.
Allo stesso tempo, ha denunciato, con il passare del tempo la Corte Suprema del Paese ha trasformato il concetto di laicismo.
Come esempio, ha citato la sentenza di questo organismo nel 1962, con cui si proibiva che le lezioni nelle scuole pubbliche iniziassero con una preghiera.
Questo concetto di laicità differente "voleva eliminare quasi tutte le vestigia di religiosità dalle istituzioni pubbliche in America".
Al fenomeno, ha riconosciuto, si somma il cambiamento sociale di questo decennio, che apre la strada al relativismo morale.
"La preservazione della società libera può dipendere - paradossalmente - dalla protezione di certe istituzioni che non sono organizzate sui principi liberali, cioè, famiglie, scuole, chiese, e tutti gli altri corpi intermediari della società civile", ha concluso.


04/11/2008 13:20 – CINA - “Giro di vite” contro gli avvocati cinesi che lottano per i diritti umani
Guo Feixiong ha difeso i residenti contro gli abusi del capovillaggio. Ora è in carcere da 2 anni, sottoposto a torture, non può nemmeno vedere il suo avvocato. Cheng Hai e Li Subin hanno chiesto elezioni democratiche nell’Associazione degli avvocati e rischiano di perdere il lavoro.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Nuova stretta della Cina contro gli avvocati che difendono i diritti umani. Human Rights Watch in China (Hrwc) denuncia che Guo Feixiong, in carcere, non ha potuto vedere il suo avvocato Hu Xiao, che ha viaggiato per oltre 1.500 chilometri per fare appello contro la sua condanna.
Nel 2005 Guo (nella foto), come avvocato, ha aiutato gli abitanti del villaggio di Taishi (Guangdong) a cacciare il corrotto capovillaggio. Nel settembre 2006 è stato arrestato per “attività commerciali illegali” e nel novembre 2007 condannato a 5 anni. Ora si è opposto alla detenzione e alla condanna, protestando che la sua confessione è stata estorta con la tortura. Hrwc denuncia che è stato: interrogato per 13 giorni consecutivi senza poter dormire, appeso al soffitto per braccia e gambe, sottoposto a scariche elettriche sui genitali, legato al letto per 42 giorni, pestato più volte in carcere. Lo scorso ottobre il suo avvocato da Pechino si è recato a trovarlo nella prigione di Meizhou (Guangdong), ma ha aspettato per più giorni senza essere autorizzato a vederlo.
Sempre Hrwc ha denunciato che il 30 ottobre agli avvocati attivisti Cheng Hai e Li Subin è stato “chiesto” di lasciare la Beijing Yitong Law Firm, l’associazione professionale ove lavorano. I 2 fanno parte dei 35 avvocati che il 26 agosto hanno pubblicato su internet un appello per l’elezione diretta dei dirigenti dell’Associazione degli Avvocati di Pechino, organo di autogoverno dei legali, oggi nominati dallo Stato. Già altri 5 legali firmatari si sono dimessi o sono stati cacciati dalla loro associazione professionale.
Li Subin ha raccontato che 6 o 7 funzionari dell’Ufficio di giustizia distrettuale di Haidian si sono recati presso il suo studio, hanno scattato fotografie e interrogato i presenti sulla loro attività.
A settembre un altro legale, Tang Jitian, pure firmatario dell’appello, ha lasciato l’associazione professionale dove lavorava, su pressante richiesta dei superiori, “per salvarne il futuro”. Il 24 settembre ha presentato una citazione contro l’Associazione degli avvocati di Pechino, denunciando che questa condotta viola i principi del diritto cinese e gli accordi internazionali. Ma il tribunale non ha ancora ammesso la causa.


Eutanasia, eugenetica, pillola del giorno dopo: i rischi di un'informazione tendenziosa - Obiezione di scienza e obiezione di coscienza - di Silvia Guidi, l’Osservatore, 5 novembre 2008
"Sì alla pillola del giorno dopo come farmaco da banco", titolavano i giornali qualche giorno fa sintetizzando i lavori dell'assemblea dei presidenti provinciali dell'Ordine dei medici che si è tenuta lo scorso 25 ottobre a Ferrara, e riassumendo i contenuti del documento finale "approvato all'unanimità". Nessuna delle due affermazioni è esatta; la frase sulla Norlevo declassata a farmaco da banco, come l'aspirina o le pastiglie per la tosse, nel testo approvato non c'è e anche l'espressione "unanimità dei consensi" deve essere presa con beneficio di inventario.
I cronisti, comunque, hanno colto lo spirito e le linee guida del testo; "i medici hanno l'obbligo di adoperarsi per tutelare l'accesso alla prescrizione nei tempi appropriati del Levonorgestrel alle donne che ne facciano richiesta" si legge nel documento "Etica e deontologia di inizio vita". Tradotto: formalmente è ancora possibile l'obiezione di coscienza alla prescrizione del medicinale ma sarà difficile sostenere a lungo questa posizione, perché il Norlevo è stato dichiarato - in modo erroneo, ma ufficialmente acquisito - come farmaco di emergenza. Non si tratta di un farmaco salvavita, anzi, a ben vedere non si tratta neanche di un farmaco in senso stretto, perché non cura da nessuna malattia, a meno di non classificare la gravidanza come una patologia.
"Sottolineo con grande gioia l'unanimità del consenso, consapevole delle molteplici sensibilità e culture che si muovono su tali materie" aveva dichiarato Amedeo Bianco, il presidente della Federazione all'indomani della riunione del Consiglio. Non condivide - e non ha condiviso neanche durante l'assemblea - la soddisfazione di Bianco Piergiorgio Fossale, presidente dell'ordine dei medici di Vercelli.
"In realtà si tratta di un'unanimità molto declamata ma poco sostanziata. Gli ordini nazionali sono 103, all'atto dell'appello erano presenti 59 presidenti. Molti, tra cui io, se ne sono andati prima del voto proprio per esprimere in modo inequivocabile il loro dissenso - precisa Fossale -. Per questo parlare di unanimità mi sembra inesatto. Le asserzioni contenute nel documento sono scritte in uno stile politicamente corretto, ma presuppongono un pensiero unico in cui non ci riconosciamo. Ai medici si ricorda che è loro dovere garantire la prescrizione della pillola del giorno dopo.
Zelo molto meno necessario, lascia capire il documento, per tutto ciò che riguarda la Legge 40 sulla fecondazione assistita; le linee guida possono essere interpretate privilegiando sempre e comunque il rapporto medico-paziente. Stesso atteggiamento superficiale e troppo trionfalista sulla Legge 194, descritta come lo strumento legislativo che ha debellato l'aborto clandestino - cosa ancora tutta da dimostrare - e lodata come la panacea per tutti i mali. Durante il dibattito c'è stata troppa superficialità nel trattare temi delicati" continua Fossale, citando un episodio che non ha lasciato traccia nel documento finale per dare un'idea del clima durante i lavori. "È stata sottoposta al voto una proposizione, poi bocciata, in cui si sosteneva che le difficoltà organizzative dei consultori sono provocate dagli obiettori di coscienza. Io, tra l'altro, preferisco parlare di obiezione di scienza più che di obiezione di coscienza, perché il rispetto della legge non basta, bisogna anche capire di cosa stiamo parlando. Televisione, internet, radio e giornali ci bombardano di informazioni che non sono conoscenza; il paziente deve essere aiutato dal medico a capire, non liquidato con una ricetta. Questo implica molto impegno, tanto lavoro sommerso, la disponibilità ad ascoltare, a mettersi in gioco; serve un'alleanza culturale con il paziente, avevamo formulato una proposta in questo senso ma è stata bocciata, nel documento finale è rimasta solo la formula "alleanza terapeutica"".
Non ci sono solo i possibili effetti collaterali dei nuovi farmaci, insistono i medici che non accettano di essere trasformati in erogatori automatici di ricette, c'è anche una conseguenza culturale di cui non si può non tener conto, come la banalizzazione dell'amore e di altri aspetti fondamentali della vita.
"Il tutto rientra nel vitalismo superficiale funzionale a una concezione dell'esistenza che si consuma e si realizza nell'istante - continua Fossale -. La vita non è un valore in sé ma soltanto in quanto corredata da aggettivi connotanti una sua utilità e efficienza. La morte collide con questo impianto concettuale, ne inceppa le finalità e pertanto la sua inesorabile essenza va oscurata. Andare in profondità nella riflessione sul vivere, distinguendo tra mezzi e fini, ricollegandosi alla filosofia e alla teologia può consentire un percorso stimolante volto alla conoscenza vera e alla verità".
Condivide la stessa preoccupazione per lo stato confusionale in cui versa spesso la comunicazione sui temi di bioetica anche il segretario nazionale dell'Associazione medici cattolici italiani, Franco Balzaretti: "In futuro dovremo avere un'attenzione particolare per la comunicazione, che nella nostra società ha assunto un ruolo essenziale, per una corretta informazione e per la difesa dei principi non negoziabili cristiani. La medicina è una scienza sacra perché sacro è l'uomo, realtà inscindibile di corpo, di intelletto-psiche e di spirito. La carità deve rappresentare un elemento peculiare della professione medica, soprattutto per i medici cattolici, insieme alla responsabilità, intesa nel suo senso originario di rispondere a un bisogno. Responsabilità per se stessi, ma anche per gli altri; serve un maggior spirito di solidarietà tra noi medici. La competitività esasperata non serve a nessuno: né a noi, né ai colleghi, né tantomeno ai pazienti".
"I medici, in particolare i più famosi - continua sulla stessa linea Fossale - hanno in parte smarrito il significato intimo e essenziale della loro missione (tra l'altro si ha ritrosia a pronunciare la parola missione!). Si sono, più o meno consapevolmente, messi a disposizione del sensazionalismo gridato dei mass media, credendo di acquisire così più prestigio e più potere. La salute diventa così un idolo, un totem, una divinità pervasiva e totalizzante, una strada verso una felicità impossibile. La salute al posto della salvezza. Il salutismo consumistico diventa un boomerang per la professione medica, crea delusioni, recriminazioni, colpevolizzazioni e apre la strada a maghi e ciarlatani vari. Un recupero della lettera e dello spirito del giuramento ippocratico, opportunamente aggiornato e perfezionato, può essere un valido antidoto al frustante e frustrato miracolismo corrente".
O ai "casi" da speciale tv in prima serata che alimentano il dibattito sull'eutanasia e dimostrano che "l'eterno conflitto tra la legge della pòlis (Creonte) e la legge morale (Antigone) è sempre attuale. Andrebbero sempre evitate le personalizzazioni di problematiche complesse; Eluana Englaro e Piergiorgio Welby sono stati cancellati come persone sofferenti e sono state trasformate in simboli e icone di battaglie e campagne non a difesa della dignità e del valore della vita ma a sostegno di proposte politiche e ideologiche; la soluzione sta nell'intimo rapporto tra il sofferente e il suo medico di fiducia".
Di temi molto meno appariscenti ma decisivi per la qualità della vita del malato, come le cure palliative, si parla molto meno. "Queste terapie - spiega Fossale - si stanno diffondendo tra ostacoli assurdi da ricercarsi in una burocrazia ridondante e paralizzante nel suo coacervo di norme e linee guida. Non circoscriverei comunque tutto alla miglior disponibilità della terapia del dolore; il malato cosiddetto terminale - brutta definizione - abbisogna di un approccio complessivo e armonico al suo soffrire. La delega a un farmaco o a un presidio tecnologico non esaurisce la vera domanda del sofferente che chiede la consolazione di una parola e di una presenza".
Ma spesso neanche gli studiosi e i ricercatori accettano un reale e leale dialogo sul loro lavoro. Un esempio fra tanti possibili: Ian Wilmut, lo scienziato che dieci anni fa ha fatto nascere la pecora clonata Dolly, ha messo la parola fine alla tecnica che lui stesso ha promosso nel mondo, la cosiddetta clonazione terapeutica, e ha nei fatti ipotecato quella ricerca scientifica che, in nome di future terapie, crea e distrugge embrioni umani. Wilmut ha dichiarato un anno fa che la strada "cento volte più promettente" per ottenere staminali embrionali non è quella di clonare embrioni, ma di utilizzare cellule adulte; ed è un dato di fatto che a tutt'oggi solo le staminali adulte stando dando concrete prospettive di cura. Stranamente però gli addetti ai lavori hanno dato poco risalto al dietro-front di Wilmut.
"L'orgoglio del chierico scientista non prevede ripensamenti - chiosa Piergiorgio Fossale - e ciò in dissonanza con il paradigma epistemologico basato sul principio della "falsificazione dell'ipotesi" teorizzato da Popper come metodologia per approssimarsi alla conoscenza. A ciò si aggiungono interessi economici che possono essere danneggiati e carriere accademiche che possono interrompersi. Gli stessi criteri valgono per la genetica. Il genoma è paragonabile a una biblioteca con centinaia di migliaia di libri, ma finché i libri rimangono negli scaffali e le informazioni non vengono lette, studiate e trasformate in proteine dalla fabbrica cellulare il conoscere un gene è piuttosto limitativo. Per questo si è passati dal genoma al proteoma per approdare al trascrittoma e andare ancora oltre.
I rischi che la genetica può comportare sono da individuarsi nel riduzionismo esclusivista dell'approccio frutto di una lettura semplicistica del dato empirico e della sua assolutizzazione acritica. Le potenzialità della genetica vanno ricercate nella sua dimensione di straordinario momento di conoscenza e di utile e sofisticato strumento da impiegare nella tutela della salute dell'uomo. Tutela della salute che però deve sempre essere collegata alla promozione dell'integrità della persona umana".
(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2008)


A colloquio con Vincenzo Saraceni, presidente dell'Amci - La malattia non è uno spettacolo – L’Osservatore Romano, 5 Novembre 2008
"In una storia di servizio alla Chiesa e al mondo della salute e della sofferenza che dura da oltre sessant'anni, potrei ricordare tanti eventi che hanno segnato il nostro cammino - spiega Vincenzo Saraceni, presidente dell'Associazione medici cattolici italiani (Amci), tracciando un breve bilancio degli anni trascorsi - voglio ricordare l'evento che ritengo più straordinario, quando Giovanni Paolo II venne al congresso mondiale dei medici cattolici organizzato dall'Amci a Roma nel 1982. Osammo chiedere al Papa un pronunciamento sul tema della sofferenza; credo di poter dire che la Dolentium hominum istitutiva del dicastero pontificio per la Pastorale degli Operatori Sanitari e la lettera apostolica Salvifici doloris rappresentano il frutto provvidenziale di quell'incontro.

Nel medioevo, al momento della morte di un monaco, tutto il monastero si riuniva per accompagnare la sua "nascita al cielo". La nostra cultura, invece, censura la morte e il dolore, o li rende un pretesto per battaglie ideologiche senza reale amore e rispetto per il singolo.

È vero che la cultura contemporanea, nella sua lettura massmediatica, vuole esorcizzare la morte di cui ha paura perché per essa non trova giustificazioni appaganti. In Italia, comunque, permangono ancora costumi che circondano la morte del suo significato sacrale, come le ancora molto diffuse manifestazioni popolari di omaggio rituale reso ai parenti defunti che non sono solo espressione spontanea di religiosità ma anche manifestazione di radicato convincimento di "colleganza" con i propri defunti. Credo che l'uomo, a prescindere dalle proprie convinzioni religiose, debba accettare che la morte è una delle componenti del vivere e che, anzi, il nostro vivere quotidiano cambia nella misura in cui si riflette su questo destino.

Al desiderio della vita eterna si sostituisce spesso il desiderio di una "vita interminabile". Colpa dei medici, degli scienziati o dei media?

L'aspetto più preoccupante è che la cultura della vita sia oscurata a tal punto che una donna possa decidere di usare un farmaco abortivo solo di fronte alla possibilità teorica di essere in gravidanza. È ancora più sconcertante che il messaggio che questo costume obiettivamente finisce con il lanciare è quello della banalizzazione della pratica abortiva che rimane, sotto qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare, comunque un dramma, una decisione sofferta, in cui troppo spesso la donna rimane sola.

Eluana Englaro è al centro di una battaglia giudiziaria che ha fatto da spartiacque nella giurisprudenza italiana, tanto da determinare la necessità di una legge sulla fine vita. Eluana è in stato vegetativo da sedici anni ma è viva e la sua condizione è un mistero. La sua presenza interroga tutti sul significato della vita, sul vero compito della medicina

Per noi cattolici la vita è sacra ma comunque essa deve costituire un bene non disponibile e il medico, secondo la plurimillenaria tradizione ippocratica, è posto a tutela della vita. Questo mi sembra sia scritto nella nostra Costituzione e abbiamo per questo sempre ritenuto che una legge sulla fine della vita non fosse necessaria e che la soluzione dei problemi difficili posti dalla sofferenza, a volte veramente atroce, possa ricercarsi nell'alleanza tra medico, malato e famiglia. Ma le recenti sentenze sul caso Englaro ci stanno orientando ad accettare una legge che con chiarezza escluda qualunque ipotesi di eutanasia.
(©L'Osservatore Romano - 5 novembre 2008)


OBAMA/ Ora gli Usa chiedono un cambiamento. E la retorica non basterà - Alberto Simoni - mercoledì 5 novembre 2008 – IlSussidiario.net
L’Ohio ha cambiato colore alle 21,18. In quel momento lo Stato che nel 2004 riconsegnò le chiavi della Casa Bianca a George W. Bush ha frantumato le speranze di vittoria di John McCain. La strada si era fatta in salita già mezz’ora prima con la conferma che la Pennsylvania aveva scelto Barack Obama. E il sentiero del senatore dell’Arizona, già stretto in verità alla vigilia, per approdare al 1600 di Pennsylvania Avenue era diventato ancora più irto. Quasi proibitivo.
Ha vinto quindi Barack Obama. Il 20 gennaio diventerà il 44esimo presidente americano, il 16esimo democratico. Ma quel che conta è che è il primo afroamericano a entrare da “padrone” nello Studio Ovale. Se l’America con queste elezioni voleva chiudere una volta per tutte la macchia, la colpa, della schiavitù e della segregazione, ci è riuscita.
Ora tocca a Obama mantenere la promessa del cambiamento e di riunire un Paese lacerato. Dovrà trasformare Washington da luogo della corruzione e dell’impopolarità all’ennesima potenza, nel salotto accogliente per tutti gli americani, poveri, minoranze e middle class.
Sfida non agevole: è più facile corteggiare le fasce deboli facendo il tribuno in giro per gli Stati Uniti, che dalla Casa Bianca. Da domani la retorica servirà poco.
Molto dipenderà dal Congresso, da quale maggioranza Barack avrà a disposizione. Camera e Senato sono in mano ai democratici. Ma la sinistra Usa ha mancato l’obiettivo più ambizioso (e difficile): raggiungere quota 60 senatori (serviva un balzo di +9) per bloccare l’ostruzionismo in aula dei repubblicani.
Per forza qualche concessione alla minoranza la dovrà fare il presidente Obama.
L’Amministrazione che il 20 gennaio entrerà in carica ha davanti a sé sfide immani. Non si illudano gli europei che il neopresidente cambierà la politica estera americana con la bacchetta magica. Muteranno forse i toni, non la sostanza. E non perché manchi la volontà. La complessità della macchina militare e diplomatica, l’adesione a trattati, intese e patti con i Paesi stranieri e le organizzazioni internazionali, non consente colpi di testa. Un presidente non può invertire rotta bruscamente. O non lo può fare un presidente Usa chiamato in primis e della Costituzione, a difendere la nazione e a tutelarne gli interessi.
E poi l’urgenza dell’America oggi non sono le truppe Usa in Iraq. Gli exit poll dicono che nella mente di 6 statunitensi su dieci nei seggi c’era l’economia, non la guerra al terrorismo.
E’ quindi l’ambiziosa agenda riformista sul fronte interno a invitare Obama all’azione. L’America ha scelto il cambiamento e ha chiesto maggior efficienza a Washington; più capacità di risolvere i problemi della gente. Obama dovrà affrontare la questione dell’assistenza sanitaria; della politica energetica; dei diritti civili e dei posti di lavoro.
Sarà giudicato su queste basi. E non servirà granché l’oratoria.



UNIVERSITA'/ Modello inglese: un sistema statale, ma di successo. Qual è il segreto? - Emanuele Bracco - mercoledì 5 novembre 2008 - L’Università in Inghilterra è per la quasi totalità statale, eppure è tra le migliori al mondo: le migliori università inglesi sono seconde solo alle inarrivabili università americane dell’Ivy League. Qual è il loro segreto? I fattori sono molti e collegati. Proviamo punto per punto a vederne gli aspetti di forza e di debolezza.
Gli studenti. Prima di tutto la selezione degli studenti. In una società tendenzialmente classista come quella inglese, gli studenti non fanno eccezione. Durante l’ultimo anno di liceo ogni studente fa domanda per un certo numero di università (ma o Oxford o Cambridge, per placare un po’ l’antagonismo tra i due atenei), e spera di essere accettato. Gli studenti migliori vanno nelle università migliori, e troveranno lavori migliori. Gli studenti mediocri, andranno a fare lavori mediocri. È impressionante vedere ad esempio quanti dei politici inglesi abbiano studiato PPE (Politics, Philosophy and Economics) a Oxford. Una lista (non esauriente) contiene Tony Blair, Jack Straw (ministro della Giustizia), David Cameron (capo dell’opposizione), George Osborne (ministro ombra dell’economia). Il problema si sposta quindi a come vengono valutati gli studenti: tendenzialmente sul voto degli esami di maturità, tutti scritti, e fatti in modo che a correggere ciascuno scritto siano due professori presi “a caso” su tutto il territorio nazionale. Questo rende un po’ più oggettivi i risultati, anche se ovviamente la casualità rimane, e avere una brutta maturità può veramente comportare conseguenze importanti per il resto della vita. Oxford e Cambridge ovviano a questa “rischiosità” del voto di maturità con colloqui individuali.
Le assunzioni. Come direbbe il nostro amico Brunetta “è il mercato, baby”. I migliori professori sono assunti dalle università migliori, che sono quelle in grado di offrire salari più alti. E all’interno della stessa facoltà professori di pari grado possono avere stipendi molto diversi fra loro (e che magari arrivano fino a 200.000 sterline all’anno). Le università con meno soldi possono ad esempio cercare di intercettare i “giovani talenti”, gli astri nascenti non ancora troppo cari, ma sicuramente promettenti ed in grado di produrre ricerca di alto livello. Certo è che lo studente modello, che andrà alle università migliori, riceverà un insegnamento di livello molto più alto, e sarà circondato da colleghi di pari livello, costruendo così utili relazioni per la propria vita professionale. Per contro, tendenzialmente nessuno viene bocciato. Non si possono rifiutare i voti. Gli esami si fanno una volta sola, a giugno (o a gennaio e giugno, a seconda delle università), e chi prende un’insufficienza può ripetere l’esame a settembre. Questo significa niente fuori corso e bassissima dispersione.
Le rette. L’università inglese, per le famiglie, è piuttosto economica. Fino a qualche anno fa la retta era di 1100 sterline all’anno (1500 euro circa) per tutti. Ora lo Stato ha permesso ad alcune università di alzare le rette, che possono arrivare fino a 3000 sterline (4000 euro). Per contro gli studenti possono avere facilmente accesso agli “students’ loan”, prestiti fatti apposta per finanziare la vita degli studenti, che lasciano la casa dei genitori a 18 anni tendenzialmente per non ritornarvi. Lo Stato per ogni studente ci mette del suo: circa 8000 sterline di finanziamento. La particolarità è che gli studenti extracomunitari, che non hanno quindi teoricamente finanziato con le tasse i finanziamenti dello Stato, pagano rette molto più alte: fino a 12.000 sterline l’anno (circa 16.000 euro). Questo vuol dire che i molti studenti cinesi, indiani, pachistani e quant’altro, hanno un ruolo fondamentale nel far pareggiare i bilanci. Ecco perché Oxford qualche anno fa ha deciso di aumentare la quota di extracomunitari per far quadrare i conti. E spesso (almeno per università come Oxford) questi studenti sono studenti di altissimo livello, provenienti dalle classi dirigenti di paesi ex-coloniali (tra tutti, il figlio di Benazir Bhutto a Oxford, ma anche sempre più figli di “oligarchi” russi).
I finanziamenti statali. Ogni tre anni ogni dipartimento universitario è visitato da una piccola truppa di professori di altre università, assoldata da un’autorità indipendente del Ministero dell’Educazione, che dà una pagella alla qualità della ricerca dell’insegnamento ed emette un voto, da 1 a 5 (con 5* per le università di eccellenza). Questo voto è dato in base a parametri oggettivi della qualità della ricerca. Il 30% dei finanziamenti statali dipenderà da questa valutazione. Tutti i dottorandi sanno che se cercheranno lavoro l’anno in cui questo “esame” sta per arrivare, sarà molto più difficile trovarlo: le università, per tenere alto il proprio punteggio, non vorranno assumere giovani senza pubblicazioni o quasi. Questo sistema si è rivelato molto efficiente, anche se ovviamente può generare qualche distorsione. I dipartimenti, proprio come ogni studente, potrebbero puntare a massimizzare il proprio voto piuttosto che la propria qualità. Ad esempio privilegiando risultati di breve periodo a fronte di investimenti più lungimiranti. Inoltre le ricerche al di fuori del mainstream, che non vengono pubblicate nei principali giornali della scienza “ortodossa” potrebbero essere svantaggiate (e su questo si può discutere se sia un bene o sia un male).
Gli altri finanziamenti. E poi ci sono i privati. La banca svizzera UBS co-finanzia un centro di ricerca della London School of Economics, così come la Toyota, danno finanziamenti ingenti.
E questi sono solo due piccoli esempi. Senza di questi le università inglesi difficilmente riuscirebbero ad essere all’altezza di quelle americane. Un'ulteriore fonte di finanziamento, che rende unico il caso inglese, è l’enorme patrimonio immobiliare e fondiario delle due più antiche università britanniche: Oxford e Cambridge. Secoli di lasciti e donazioni hanno creato un patrimonio immenso, che regge le finanze di queste istituzioni. Da ultimo c’è una fonte di finanziamento indiretta: il senso di appartenenza. Una volta usciti da un'università ci si sentirà sempre legati ad essa, e se il successo arrivasse, non sarebbe strano pensare di “dare indietro” qualcosa all’istituzione. Sotto forma di borse di studio (il fondatore di Easyjet alla London School of Economics, per citarne uno), o magari facendosi intitolare un’aula, uno studentato, un edificio.


SCUOLA/ Dopo lo sciopero del 30 ottobre, le ragioni per costruire - Fabrizio Foschi - mercoledì 5 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Lo sciopero che ha interessato il mondo della scuola il 30 ottobre, verificatosi il giorno dopo l’approvazione definitiva da parte del Senato della conversione in legge del decreto Gelmini, può segnare un punto di non ritorno se non si recuperano immediatamente, da parte della componente docenti, da una parte, e dei responsabili della politica scolastica, dall’altra, le ragioni per ri-costruire un clima di fiducia reciproca e di lavoro su obiettivi comuni.
Questo sciopero in realtà ha spaccato in due il mondo della scuola, come evidenziano anche le percentuali degli aderenti alla protesta sindacale: grosso modo il 57% degli insegnanti ha scelto di non entrare in classe, mentre il 43% lo ha fatto (dati forniti da Viale Trastevere). Se la bilancia sembra pendere decisamente da un lato (gli organizzatori delle proteste rivendicano addirittura il 70% di insegnanti che hanno incrociato le braccia), non bisogna dimenticare che l’astensione dal lavoro era proclamata dall’intero mondo sindacale e che non sono rari gli episodi di scuole materne ed elementari chiuse ad arte (con la benevola complicità dei rispettivi dirigenti) per non lasciare alternative a chi il decreto Gelmini, lungi dall’appoggiarlo a scatola chiusa, quantomeno voleva discuterlo.
Al di là dei singoli episodi, che andranno esaminati con attenzione per capire cosa sia successo, le fratture interne alla componente docente offrono la fotografia di una autoreferenzialità che la scuola italiana fa fatica a superare.
È come se nella scuola si combattesse una battaglia tutta ideologica e tutta interna al corpo docente, dove gli illuminati pretendono di dettare legge nei confronti di presunti tradizionalisti. Emblematica, nella scuola primaria, la difesa acritica dell’esistente per cui parole come “modulo” (cioè i tre insegnanti su due classi) o “tempo pieno” sono sbandierate senza la minima disponibilità ad una riflessione in chiave storica e pedagogica sugli effettivi benefici apportati dalla “rivoluzione degli anni ’90” al mondo della scuola elementare italiana.
Ma è tutto l’universo scolastico che dovrebbe essere aiutato a crescere nella consapevolezza degli obiettivi che intende realmente raggiungere.
A questo proposito, nella prospettiva di recuperare un terreno comune di lavoro che impegni tutti gli attori del processo educativo, il convegno dell’associazione Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica) svoltosi lo scorso 24 ottobre a Roma, alla presenza del Ministro Gelmini, ha offerto alcune piste programmatiche interessanti.
Le relazioni scientifiche (Ballio, Ramazza, Nicoli, Crema: cfr. www.diesse.org) hanno insistito sulla opportunità che la scuola si concentri sugli obiettivi che intende realizzare, piuttosto che su dinamiche interne legate alla riproduzione burocratica di meccanismi didattici o gestionali.
Il mondo sta mutando alla svelta e il mercato del lavoro (Ramazza) risente di una situazione determinata dalla progressiva impossibilità di fare fronte al saldo negativo di 200/300 mila posti di lavoro che ogni anno sono lasciati liberi e non si riescono a sostituire, se non con la forza lavoro straniera. Ma i giovani italiani non si adeguano alla realtà dei lavori in cui “ci si sporca le mani” e da noi l’idraulico Joe che in America rischia di far vincere le elezioni ad Obama e a McCain è quasi scomparso.
D’altra parte una oculata gestione delle pratiche di orientamento messe in atto assieme da scuola e università può consentire di individuare potenzialità e risorse dei giovani insospettabili.
Dice il falso (sostiene Ballio) chi afferma che tutti i giovani sono incapaci e impreparati. I giovani sono capaci di reagire, di studiare e di prepararsi. E’ sufficiente indicare loro un obbiettivo chiaro e fornire gli strumenti per raggiungerlo.
Da questo punto di vista vale la pena investire in orientamento, di cui gli insegnanti (di scuola superiore: ma l’orientamento inizia ben prima) sono la leva decisiva.
L’orientamento è l’altra faccia dell’apprendimento e questo nesso inscindibile si verifica più facilmente (secondo Nicoli) se la scuola e la classe sono un luogo ricco di relazioni che risveglia l’umanità dei giovani, sollecitandone il desiderio di sapere.
Emerge potentemente l’idea della scuola come una comunità di apprendimento, i cui membri sono liberi di dotarsi di metodi diversi per arrivare ad uno scopo comune: la consegna agli alunni di criteri di giudizio da trafficare nell’impatto con la realtà che cambia e si presenta sempre dissimile da come appare.
E non si tratta di una formula vuota, ma di esperienze già messe in atto in molteplici situazioni di scuole di qualità o di compagnie educative tra alunni e insegnanti.
È attorno a questi esempi già esistenti che dovrà essere riallacciato il dialogo tra centro e periferia nell’immediato. In caso contrario la scuola italiana rischia di smarrirsi definitivamente.


SCIENZA&FEDE/ 1. Evoluzione e creazione, ecco la via per accordare due visioni considerate inconciliabili - Piero Benvenuti - mercoledì 5 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
L’astronomo che cento anni fa avesse puntato il suo telescopio verso il cielo, pur osservando le stesse stelle e galassie che noi oggi osserviamo, non poteva sospettare – non ne aveva il modo – che ciò che stava vedendo era l’album fotografico temporale di una “storia”. Una storia vecchia di 14 miliardi di anni le cui tappe evolutive sono, incredibilmente, tutte presenti, fotografabili oggi in un’unica istantanea, quasi che il tempo per loro fosse sempre al presente. Persino Einstein, cent’anni fa, non riusciva a credere alle sue equazioni che indicavano un Universo in espansione, quindi in evoluzione, perché le evidenze osservative del tempo sembravano contraddirle. Le prime avvisaglie vennero, all’inizio del secolo scorso, dalle osservazioni dell’astronomo americano Edwin Hubble, che notò come tutte le galassie gli apparissero allontanarsi con una velocità tanto maggiore quanto maggiore era la loro distanza: segno inequivocabile di una espansione generalizzata di tutto il Cosmo.
Oggi, dopo cent’anni, grazie all’incredibile sviluppo della tecnologia e della capacità di osservazione dei nuovi telescopi terrestri e spaziali, siamo in grado di ricostruire il mosaico dell’evoluzione cosmica con grande precisione lungo un periodo di circa 14 miliardi di anni. Su questa evoluzione del Cosmo, si innesta l’evoluzione biologica e umana, che appare dunque come la logica continuazione di un’evoluzione globale: di fatti, anche se non possiamo ancora provare scientificamente che l’evoluzione del Cosmo sfoci necessariamente nel sorgere della vita sulla Terra e in altri luoghi, la sua storia, in particolare la sintesi degli elementi chimici, ne è comunque un presupposto necessario. Certo, non va sottaciuto il fatto che il grado di complessità, il numero degli anelli mancanti e dei salti ancora inspiegati dell’evoluzione biologica sono di gran lunga maggiori che nella storia evolutiva del Cosmo che, in paragone, appare di una semplicità e linearità quasi disarmante. Non dimentichiamo poi che, come già accennato, noi possiamo osservare le varie fasi evolutive dell’Universo al presente, nell’atto stesso in cui avvengono, come se avessimo congelato lo scorrere del tempo. Questa possibilità ci è concessa perché la luce, che trasporta le immagini del Cosmo, ha una velocità elevatissima per i nostri standard terrestri, ma ben piccola per le dimensioni dell’Universo. Così vediamo oggi com’era fatto il Cosmo 13, 10, 6 miliardi di anni fa.
Se ci manca ancora qualche fotogramma è perché non abbiamo ancora avuto il tempo (e le risorse finanziarie) per costruire la “macchina fotografica” adatta. Così non avviene nello studio dell’evoluzione biologica, per la quale dobbiamo basarci su reperti “morti”, i fossili, e non siamo in grado, almeno per il momento, di ricostruire con precisione le condizioni ambientali e gli eventi che hanno dato inizio alla vita. Nonostante queste difficoltà tuttora presenti, possiamo senz’altro affermare che l’evoluzione sia divenuta un carattere imprescindibile e inseparabile della realtà fenomenologica. Anche se la scoperta e la verifica scientifica del concetto di evoluzione sono relativamente recenti, queste si innestano su antiche radici di pensiero, che rinascono oggi con tralci rigogliosi i quali, uscendo dall’ambito della ricerca scientifica, invadono i terreni della filosofia, dell’antropologia, della teologia. Non dobbiamo meravigliarci quindi se l’incredibile e rapidissimo successo (in poche decine d’anni) del modello cosmologico ci abbia fatto, per così dire, insuperbire al punto da considerare la conoscenza scientifica come l’unica forma valida di accesso alla conoscenza della Verità. Scrive Stephen Hawking, notissimo cosmologo e divulgatore, nel suo libro “Breve storia del tempo”: «Comunque, se scopriremo una teoria completa, questa dovrebbe diventare comprensibile a tutti, non solamente da parte di pochi scienziati. Allora tutti, filosofi, scienziati e persone comuni, saremo in grado di prender parte alla discussione sul perché esistiamo e perché esiste un Universo. Se sapremo dare una risposta a quella domanda, allora assisteremo al trionfo finale della ragione umana – perché finalmente conosceremo la mente di Dio». Fermiamoci ora per un attimo e guardiamo al Cosmo e alla sua storia non da una prospettiva puramente scientifica, che contempla l’Uomo come una conseguenza, un prodotto, bensì da una prospettiva che parta dall’Uomo, che abbia come punto di partenza e di arrivo l’Uomo, da un punto di vista che oggi chiameremmo antropologico.
Il conflitto con il concetto di Creazione è antico ed è per così dire indipendente dalla conoscenza più o meno approfondita del Cosmo. Perché, mentre quest’ultima si evolve e assume, come abbiamo visto, sfaccettature inaspettate, una cosa l’uomo conosce da sempre: il suo limite spazio-temporale, la presenza ineluttabile della morte. Già nel VI secolo a.C. il Salmista scriveva (Salmo 8):
“Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”
Meditando sull’apparente inadeguatezza, quasi estraneità dell’Uomo rispetto ad un Cosmo immenso e irraggiungibile, nasce nella tradizione ebraica, durante l’esilio babilonese, l’intuizione, o meglio l’ispirazione, di riconoscere in JAHVE, il Dio dei Padri che agiva nella loro storia, il Creatore di ogni cosa, del Cielo e della Terra, appunto. Questa intuizione, descritta in immagini attraverso il racconto mitico della Genesi, permette di sperare in una via d’uscita all’angoscia dell’Uomo di fronte all’immensità misteriosa dell’Universo. Di qui segue il Salmista:
“Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;”
Non riesce però l’Uomo, da solo, a interpretare il significato profondo della creazione: a Giobbe che lo interroga insistentemente, il Dio del Primo Testamento risponde con lo sprezzante
“Ubi eras… - dov’eri tu quando ponevo i confini alla Terra e passeggiavo sul fondo del mare…”.
Bisognerà attendere il compimento della Rivelazione perché l’Evangelista Giovanni sia in grado di riprendere, con lo stesso incipit del libro della Genesi, “Bereshit – En archè – In principio”, il nuovo e definitivo racconto della Creazione, atto gratuito di auto comunicazione dell’Essente (“Io sono Colui che sono” aveva proclamato dal roveto ardente) che calandosi nello spazio-tempo offre alla sua creatura la possibilità di riconoscerne liberamente il significato – la Verità – e la Via per ottenere la Vita, con V maiuscola, ed uscire così dall’angosciante tunnel spazio-temporale della vita terrena.
Non c’è dubbio che se la Creazione ci fosse stata spiegata facendoci leggere e commentando il Prologo di Giovanni, molti conflitti tra Scienza e Fede si sarebbero potuti evitare. Ma è certamente più facile e rassicurante affidarsi all’affascinante racconto del “Fiat lux” e della creazione in sette giorni che inerpicarsi sulle algide pareti strapiombanti del Logos. Purtroppo, anche per banali motivi didattico-sociologici (dopo i giorni del catechismo, pochi rileggono la Genesi), è stato difficile allontanarsi da una interpretazione ingenuamente storica del racconto genesiaco. È abbastanza facile ora riconoscere gli elementi che stanno alle origini di un conflitto che, con connotazioni diverse ed alterni accenti, ci accompagna da quattro secoli: da un lato la difficoltà della Tradizione a far evolvere l’esegesi al passo con l’evolversi del pensiero scientifico, dall’altro la pretesa di quest’ultimo, alimentata dall’entusiasmante successo dei suoi risultati, di essere l’unica forma di accesso alla realtà oggettiva al punto da trasformarsi in alcuni casi in vera e propria moderna hybris – l’arroganza richiamata da Benedetto XVI pochi giorni orsono.
È giusto ricordare che Galileo, nella lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena, riconosceva i limiti della nascente nuova scienza, la quale rinunciava esplicitamente a “tentar l’essenza” – ad indagare la natura dell’essere – e si limitava ad interpretare razionalmente – con le “necessarie dimostrazioni” le “sensate esperienze” – per usare le sue parole. Un limite che, dopo la Relatività di Enstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg e il teorema di Gödel, è ancor più evidente oggi. Altrettanto chiaro era per Galileo come si dovesse interpretare l’azione dello Spirito Santo: «È l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al Cielo, e non come vadia il cielo». Bisognerà attendere l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII per trovare un primo accenno della moderna esegesi, purtroppo però subito stroncata nel 1905 dalla Pontificia Commissione Biblica del tempo. Finalmente la Costituzione “Dei Verbum” del Concilio Vaticano II, riconoscendo come direttamente ispirata tutta la Sacra Scrittura, definisce chiaramente lo scopo e la natura di questa ispirazione: “nostrae salutis causa”, unicamente per darci modo di trovare, oggi, durante la nostra vita, la via della salvezza. Ogni altro utilizzo della Scrittura Sacra, in particolare l’interpretazione letterale della Bibbia, è da considerarsi estraneo al concetto di “ispirazione”: come scriveva il Cardinal Ratzinger, allora Presidente della Pontificia Commissione Biblica, è da considerarsi quasi “un suicidio del pensiero”, o come inchiodarlo al pavimento della biblioteca, come l’ha plasticamente descritto Ermanno Olmi nel suo film “Centochiodi”.
Nonostante i notevoli progressi, soprattutto da parte esegetica, che avrebbero dovuto già rimuovere alla radice ogni possibile conflitto tra l’osservazione scientifica dell’evoluzione e il concetto di creazione, sussistono ancora due atteggiamenti, non conflittuali, ma precludenti un vero dialogo costruttivo. Li potremmo definire atteggiamenti di indipendenza, che considera la ricerca scientifica e quella teologico-esegetica come totalmente indipendenti e impenetrabili; e di “concordismo”, che tenta invece – disperatamente – di conciliare il quadro emergente dalle scienza con il concetto di creazione. Vedremo in un successivo intervento se e come è possibile superarli e avviare un fecondo dialogo.


OLTRE IL NICHILISMO/ L'ortolano di Havel ovvero il potere dei senza potere - Angelo Bonaguro - mercoledì 5 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Terminato nell'ottobre 1978, Il potere dei senza potere era stato pensato da Havel come introduzione a un’antologia del samizdat polacco-cecoslovacco. Ne è uscito un testo che costituisce una pietra miliare del dissenso, un’analisi profonda e precisa del sistema totalitario, un testo in grado di individuare una via d’uscita dall’appiattimento ideologico proprio perché non si basa su un’ideologia alternativa ma rilancia, sia per l’Est che per l’Ovest, il tema della verità e della responsabilità del singolo.
«Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: Proletari di tutto il mondo unitevi!» - scrive Havel individuando in questo ortolano il cittadino tipico di una società totalitaria. Egli contribuisce con il suo gesto a creare il panorama quotidiano di chi è a un tempo vittima e strumento del sistema che si regge sull'ideologia, la quale fornisce ai cittadini l’illusione di essere «in sintonia con l’ordine umano e con l’ordine dell’universo»: in fondo, cosa c'è di male che i proletari di tutto il mondo si uniscano? È una specie di «mondo dell’apparenza che viene spacciato per realtà» e riempie la vita di una rete di ipocrisie e di menzogne che l’ortolano deve sopportare senza essere tenuto a credervi: «La gente che passa davanti alla vetrina non si ferma certo per leggere che i proletari di tutto il mondo dovrebbero unirsi», anzi probabilmente non vede nemmeno gli slogan! Basta che il nostro ortolano abbia accettato la vita nella menzogna: «Già così ratifica il sistema, lo consolida, lo fa, lo è».
Se a un certo punto l'ortolano, ribellandosi alla vita nella menzogna, smettesse di esporre gli slogan che gli vengono consegnati, infrangerebbe le «regole del gioco» e subirebbe la punizione dovuta, dato che ogni evasione dalla vita nella menzogna «la nega come principio e la minaccia nella sua totalità»: l'espulsione di Solzenicyn dall'URSS - ricorda Havel - «fu il disperato tentativo di tamponare questa pericolosa sorgente di verità». L'ortolano, oltre che rifiutarsi di fare può anche cominciare a fare qualcosa di concreto, diventando così un «dissidente» secondo l'icastica descrizione haveliana: «Un uomo non diventa dissidente perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera, ma perché la responsabilità interiore combinata con tutto il complesso delle circostanze esterne finisce per inchiodarlo a questa posizione: viene espulso dalle strutture esistenti e messo in confronto con esse». Se - osserva ancora il drammaturgo - la maggioranza di questi tentativi restano nella fase elementare in cui l'uomo «semplicemente si raddrizza e vive più dignitosamente», qua e là sboccia qualche iniziativa civile più visibile che si trasforma «in un lavoro più cosciente, più strutturato e più risoluto», e che aspira a «servire la verità con coerenza e decisione». Il nostro ortolano può così riconoscersi in una comunanza di interessi con altri: «In una situazione in cui a coloro che hanno deciso per la “vita nella verità” è impedita qualunque incidenza diretta sulle strutture sociali… necessariamente questa vita “altra”, indipendente, deve cominciare a strutturarsi in un certo modo»: è l’idea di polis parallela. «Il punto di partenza dell’azione di questi movimenti… è l’azione sulla società (e non direttamente e subito sulla struttura del potere in quanto tale). Le iniziative indipendenti additano la “vita nella verità” come alternativa umana e sociale e le procurano uno spazio; facilitano il ridestarsi dell’autocoscienza civile». Si tratta di «strutture» che dovrebbero nascere dal basso «come esito di un'autentica auto-organizzazione sociale; dovrebbero vivere in un dialogo vivo con i bisogni reali da cui sono nate e scomparire con la scomparsa di quelli». Qui Havel si avvicina all'idea - diremmo oggi - di sussidiarietà, che riprenderà negli anni del suo mandato presidenziale. Al centro c’è ancora la persona: l’ortolano non è dispensato dal lavoro personale, perché «un cambiamento in meglio delle strutture che sia reale, profondo e stabile non può partire dall’affermarsi di un progetto politico tradizionale ma dovrà partire dall’uomo, dalla sostanziale ricostituzione della sua posizione nel mondo, del suo rapporto con se stesso, con gli altri uomini, con l’universo». Si tratta secondo Havel di un modello di rivoluzione esistenziale applicabile anche alla «classica democrazia parlamentare, come si è costituita nei paesi occidentali e come in essi sempre in un modo o in un altro fallisce». Il drammaturgo si chiede infatti se il grigiore totalitario non sia «una specie di memento per l'Occidente, che gli svela il suo latente destino»: «Là l’uomo gode certamente di libertà e sicurezze personali a noi ignote, ma alla fin fine questa libertà e queste sicurezze non gli servono a nulla: egli è incapace di mantenere la propria identità e di difendere la sua interiorità, di superare l’angustia della preoccupazione per la propria sopravvivenza e di diventare un fiero e responsabile membro della polis che partecipa realmente alla creazione del suo destino».


IL PAESE E LA CRISI - Segnali in controtendenza dai nuclei monogenitoriali e da quelli con a capo un lavoratore autonomo In Veneto l’incidenza della povertà è al 3%, mentre in Sicilia si raggiunge il 27% Oltre 7 milioni di poveri È allarme per le famiglie - DA ROMA BRUNO MASTRAGOSTINO – Avvenire, 5 novembre 2008
S ono quasi 2milioni e 700mila le famiglie povere in Italia (l’11,1 % del totale): in pra­tica 7milioni e mezzo di persone (12,8% della popolazione) che ogni giorno, oltre a dover rinunciare ai beni cosiddetti superflui, non han­no neanche la certezza di coniugare il pranzo con la cena. Ma un altro mi­lione circa di individui ri­schia ogni giorno di ca­dere nell’inferno dell’in­digenza, trovandosi ap­pena poco al di sopra della linea della povertà. E questo non solo perché basta uno sfratto, un ter­zo figlio o una separazio­ne per vedere ridotto se­riamente il reddito fami­liare e dunque i consumi, ma anche perché i dati diffusi ieri dall’Istat sulla povertà relativa si riferi­scono al 2007 e non rile­vano quindi gli effetti del terremoto finanziario ed economico che sta scuotendo il paese. Negli ul­timi cinque anni, comunque, il numero dei po­veri è rimasto stabile e immutate sono le carat­teristiche dei nuclei bisognosi che tali sono, spie­gano i tecnici di via Balbo, quando in una fami­glia di due persone la spesa media mensile non supera i 986,35 euro.
Non cambia dunque il panorama della povertà, anche se poi sotto le acque ferme, correnti preoc­cupanti ce ne sono comunque. La percentuale di indigenti rispetto al 2006 è invariata, ma co­minciano a farsi sentire i nuovi poveri come ad esempio i 'working poor', cioè i lavoratori a bas­so reddito che pur non essendo disoccupati han­no in ogni caso difficoltà ad arrivare a fine me­se. Basta poi pensare che le famiglie 'sicura­mente non povere' sono soltanto l’81% del to­tale, per comprendere come nel restante 19% si nascondano situazioni molto spesso critiche. Vi si trovano di certo le 884mila famiglie (3,7% del totale, ma erano il 3,9% nel 2006) al limite dei 986 euro, ma non sono tranquille neanche l’al­tro milione circa (4,2% del totale) che si trovano poco sopra, in pratica tutte famiglie che non ar­rivano a spendere più di 1.100 e 1.200 euro al mese.
Al Sud la situazione è di certo peggiore, in quel­l’area i sicuramente non poveri scendono dall’81 al 64,7%, mentre al Centro e al Nord salgono al 90% circa. Dai dati emerge inoltre che 1.170.000 famiglie (4,9% del totale nazionale) risultano si­curamente povere e circa i due terzi di esse ri­siedono nel Meridione. Se oltre al territorio si a­nalizzano specifici sottogruppi di famiglie, pro­segue l’Istat, emerge un peggioramento tra le ti­pologie familiari che tradizionalmente presen­tano una bassa diffusione del fenomeno e tra le quali, comunque, i livelli di povertà continuano a collocarsi al di sotto della media nazionale, in particolare le coppie con un figlio che passano dall’8,6% del 2006 al 10,6%. Segnali di migliora­mento si osservano, invece, tra le famiglie di mo­nogenitori (da 13,8 si passa a 11,3%) e tra quelle con a capo un lavoratore autonomo (da 7,5 a 6,3%).
Nel Nord il peggioramento della povertà, la cui incidenza passa da 5,2 a 5,5, è decisamente evi­dente tra le famiglie con cinque e più componenti (da 8,1 a 12,2%) e in particolare tra le famiglie con tre o più figli minori (da 8,2 a 16,4%). Nelle re­gioni del Centro l’inci­denza della povertà pas­sa dal 6,9 al 6,4% e il pro­gresso si fa sentire in par­ticolare tra le famiglie con a capo una persona con basso titolo di stu­dio (dal 12,4 al 10,3%). Nel Mezzogiorno (inci­denza dal 22,6 al 22,5%) si osservano segnali di deciso miglioramento tra le famiglie con cin­que e più componenti (da 37,5 a 32,9%), in par­ticolare coppie con tre o più figli (da 38 a 32,3%) e con tre o più figli mino­ri (da 48,9 a 36,7%).
A livello regionale, infine, l’incidenza della po­vertà è molto bassa in Veneto (3,3%) e Toscana (4%). Quest’ultima mette inoltre a segno il mi­glioramento più sensibile, era infatti al 6,8% nel 2006; è invece più alta in Sicilia (27,6%) e Basili­cata (26,3%).


Cure palliative, Roccella: presto una legge - DA MESSINA -FRANCESCA LOZITO – avvenire, 5 novembre 2008
U na legge nazionale sul­le cure palliative ci sarà al più presto. L’ha ri­badito dal XV congresso della Sicp (Società italiana di cure palliative) il sottosegretario al welfare con delega ai temi eti­ci Eugenia Roccella, attraver­so un messaggio (ieri i lavori parlamentari le hanno impe­dito di essere in Sicilia).
«L ’esperienza degli hospice – ha detto la Roccella – ci insegna che non è sufficiente finanzia­re un progetto per vederlo rea­lizzare come avremmo voluto. Quello di cui abbiamo bisogno è un programma articolato e di vasto respiro, che faccia in- contrare i tecnici del settore e gli esperti nazionali e regiona­li con i bisogni dei pazienti e delle loro famiglie, coinvol­gendo anche l’opinione pub­blica. Di tutto questo abbiamo intenzione di farci carico».
Alla Camera, infatti, sta an­dando avanti il percorso di un ddl, presto unificato rispetto ai tre disegni di legge presentati in precedenza, che è stato vo­lutamente separato dalla di­scussione sulle direttive anti­cipate, che invece procede al Senato.
Il presidente nazionale della Sicp Giovanni Zaninetta affer­ma di «vedere con favore la riapertura del dibattito in se­de parlamentare. L’auspicio è che abbia modo di incidere in maniera significativa sulla cre­scita del movimento hospice, ormai avviato in Italia, ma che necessita di un ulteriore con­solidamento soprattutto sul fronte dell’assistenza domici­liare ». Proprio questo ultimo tema poi è stato al centro dei lavori dell’assise dei palliativisti nel­la giornata di ieri a Giardini Naxos (Me).
«L’assistenza domiciliare in cu­re palliative ha bisogno di stan­dard assistenziali di qualità, fruibili su tutto il territorio e con una pronta disponibilità 24 ore su 24» ha affermato Gianlorenzo Scaccabarozzi, direttore del Dipartimento del­la fragilità dell’Ospedale di Lec­co. Il medico ribadisce la ne­cessità che il livello qualitativo alto dell’assistenza ai malati terminali in casa venga sanci­to attraverso il decreto sui Lea (le attività i servizi e le presta­zioni che il Servizio sanitario nazionale garantisce gratuita­mente ai cittadini, ndr) che si attende ormai, dopo lo stop ­era stato promulgato alla fine della scorsa legislatura, ma non era stato pubblicato in Gazzetta ufficiale e quindi non è entrato in vigore - e che do­vrebbe rimanere fermo sui punti fissati dalla precedente Commissione nazionale. «Og­gi non siamo più di fronte a u­no scenario in cui non esiste nulla: l’approvazione dei Livelli essenziali di assistenza ci por­terà ad esigerli in tutto il Pae­se » ha affermato ancora Scac­cabarozzi. Secondo i dati ri­portati da Silvia Arcà del mini­stero del Welfare, nelle cure do­miciliari «8 regioni su 17 sono ancora al di sotto dello stan­dard fissato dal tavolo Stato­Regioni che è di 4,5 punti». Standard in cui rientrano va­rie prestazioni, non definite ancora in maniera precisa nel­l’intensità assistenziale, di cui le cure palliative dovrebbero andare a rappresentare il livel­lo più completo e impegnati­vo per équipe e risorse in cam­po. Si va infatti dal 10,6 dell’E­milia Romagna al 1,2 della Si­cilia. «Per cento assistiti a do­micilio – ha detto ancora Arcà – ci sono otto infermieri in E­milia Romagna e 2 in Veneto».


India: almeno 500 i cristiani uccisi in Orissa - Secondo il Governo le vittime ufficiali sono solo 31
NUOVA DELHI, martedì, 4 novembre 2008 (ZENIT.org).- Le vittime dell'ondata di violenza anticristiana che ha colpito recentemente lo Stato indiano dell'Orissa sono almeno 500, ha reso noto un rappresentante del Governo locale, confessando di aver dato il permesso di cremare almeno 200 corpi.
L'uomo, ricorda l'agenzia AsiaNews.it, ha chiesto di mantenere l'anonimato e ha rivelato queste cifre a un gruppo del Partito comunista dell'India marxista-leninista (Cpi - Ml), che ha compiuto una visita-inchiesta nel distretto di Kandhamal. Secondo il Governo, le vittime ufficiali delle violenze sono solo 31.
Il 15 e il 16 ottobre, il Cpi- Ml ha visitato i villaggi distrutti e i campi di rifugiati, incontrando e intervistando anche magistrati e poliziotti. Il resoconto è stato pubblicato sul numero di novembre della rivista "Liberation", organo del Partito comunista indiano.
"Oltre alle dichiarazioni sul reale numero di morti, il resoconto descrive anche la differenza fra le assicurazioni del Governo sui campi di rifugio e la reale situazione", ricorda l'agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME).
Secondo il Governo, infatti, nei 15 campi profughi - che ospitano 12.641 persone fuggite alle devastazioni - ci sono cibo in abbondanza, dottori, medicine, scuola per i bambini. Visitando alcuni campi, invece, il gruppo ha notato razioni insufficienti, mancanza di medicine e nessun aiuto per donne gestanti, descrivendo anche "un'atmosfera piena di terrore fra i cristiani, che temono per la loro vita se osano tornare ai loro villaggi".
"I gruppi fondamentalisti vogliono rimandare indietro le forze di polizia inviate dal Governo centrale e stanno organizzandosi in gruppi armati, minacciando coloro che non si convertono all'induismo - ricorda AsiaNews -. Allo stesso tempo, i responsabili dei campi di rifugio spingono i profughi a tornare ai loro villaggi, assicurando che la vita è tornata alla normalità".
L'inchiesta del Cpi-Ml denuncia che il pogrom contro i cristiani era stato organizzato da tempo dalle organizzazioni Vishwa Hindu Parishad e dal Bajrang Dal. Per questo motivo, il gruppo chiede che il Governo centrale le metta al bando e le dichiari fuorilegge.