sabato 22 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 22/11/2008 12:14 – VATICANO - Papa: alla fine, il criterio col quale saremo giudicati sarà l’amore, la carità concreta - Il regno di Dio si estende sull’universo intero, ma è messo “a rischio” dalla libertà che ogni uomo ha di scegliere “con chi allearsi”, se con Gesù o con il diavolo. A Dio “non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.
2) Per Eluana - Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 21 novembre 2008 CulturaCattolica.it aderisce volentieri alla campagna proposta da SamizdatOnLine in difesa della vita di Eluana.
3) Eluana Englaro, un “segno di contraddizione” - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 21 novembre 2008 (ZENIT.org).- Prendendo spunto dal recente Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, ZENIT ha deciso di lanciare una rubrica dal titolo: “Parola e vita”, curata da padre Angelo del Favero, un cardiologo che nel 1978 fondò uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita all’ospedale Santa Chiara di Trento.
4) 22/11/2008 12:14 - PAKSITAN - PRO ORANTIBUS - La clausura degli Angeli, cara ai musulmani di Karachi - di Qaiser Felix - Nel Paese in cui il 95% della popolazione è musulmana, dal 1959 esiste un convento di contemplative domenicane. La clausura ospita nove suore di cui sette pachistane. Le religiose raccontano: “Molti fedeli islamici confidano nelle nostre preghiere e inoltre sostengono il nostro monastero”.
5) Perché l'obbedienza è un bene necessario - Senza l'autorità non si può vivere - di Massimo Camisasca - Superiore generale - della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo – L’Osservatore Romano, 22 Novembre 2008
6) SIAMO MUTI DAVANTI ALLA TRAGEDIA DI VERONA - Quali che siano le ragioni resta un salto incolmabile - MARINA CORRADI – Avvenire, 22 novembre 2008
7) Staminali contro la Sla. Vescovi: test nel 2009 - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 22 novembre 2008
8) «Vita e destino» arriva integrale dopo il Kgb - DI FULVIO PANZERI – Avvenire, 22 novembre 2008


22/11/2008 12:14 – VATICANO - Papa: alla fine, il criterio col quale saremo giudicati sarà l’amore, la carità concreta - Il regno di Dio si estende sull’universo intero, ma è messo “a rischio” dalla libertà che ogni uomo ha di scegliere “con chi allearsi”, se con Gesù o con il diavolo. A Dio “non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Alla fine, il “criterio del giudizio” col quale saremo esaminati sarà “l’amore, la carità concreta nei confronti del prossimo”, quel giudizio “sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena”, della scelta che ognuno compie, su “con chi vogliamo allearci: se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti”, attesi dal “fuoco eterno”.
Quella scelta, resa possibile dalla libertà dell’uomo, e le sue conseguenze nel Giudizio finale sono state evocate oggi da Benedetto XVI, che, ricevendo un pellegrinaggio di Amalfi, ha parlato della solennità di Cristo Re, che si celebra domani, e del passo di Matteo che descrive il ritorno “nella sua gloria” di Gesù, “pastore buono” e “giudice giusto”.
“Egli – ha sottolineato il Papa - è re dell’universo intero, ma il punto critico, la zona dove il suo regno è a rischio, è il nostro cuore, perché lì Dio si incontra con la nostra libertà. Noi, e solo noi, possiamo impedirgli di regnare su noi stessi, e quindi possiamo porre ostacolo alla sua regalità sul mondo: sulla famiglia, sulla società, sulla storia. Noi uomini e donne abbiamo la facoltà di scegliere con chi vogliamo allearci: se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti, per usare lo stesso linguaggio del Vangelo. Sta a noi decidere se praticare la giustizia o l’iniquità, se abbracciare l’amore e il perdono o la vendetta e l’odio omicida. Da questo dipende la nostra salvezza personale, ma anche la salvezza del mondo. Ecco perché Gesù vuole associarci alla sua regalità; ecco perchè ci invita a collaborare all’avvento del suo Regno di amore, di giustizia e di pace. Sta a noi rispondergli, non con le parole, ma con i fatti: scegliendo la via dell’amore fattivo e generoso verso il prossimo, noi permettiamo a Lui di estendere la sua signoria nel tempo e nello spazio”.
Quanto al momento del giudizio, “il Figlio dell’uomo nella sua gloria, circondato dai suoi angeli, si comporta come il pastore, che separa le pecore dalle capre e pone i giusti alla sua destra e i reprobi alla sinistra. I giusti li invita ad entrare nell’eredità preparata da sempre per loro, mentre i reprobi li condanna al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli altri angeli ribelli. Decisivo è il criterio del giudizio. Questo criterio è l’amore, la carità concreta nei confronti del prossimo, in particolare dei “piccoli”, delle persone in maggiore difficoltà: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. Il re dichiara solennemente a tutti che ciò che hanno fatto, o non hanno fatto nei loro confronti, l’hanno fatto o non fatto a Lui stesso. Cioè Cristo si identifica con i suoi ‘fratelli più piccoli’, e il giudizio finale sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena. Cari fratelli e sorelle, - ha concluso Benedetto XVI - è questo ciò che interessa a Dio. A Lui non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.


Per Eluana - Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 21 novembre 2008 CulturaCattolica.it aderisce volentieri alla campagna proposta da SamizdatOnLine in difesa della vita di Eluana.
Non ci stiamo. Ci sono fatti che non si possono ridurre ad una semplice contrapposizione tra chi ha fede e chi no. 
Ci sono fatti che, nel momento in cui creano un limite tra un “prima” e un “dopo”, interrogano anzitutto la ragione: la sentenza del caso Englaro è uno di questi.
Un confine è stato oltrepassato in ciò che sta alla base dell’umana convivenza. L’introduzione dell’eutanasia nel nostro Paese (perché di questo si tratta) avrà ben presto le sue ricadute maligne sull’intera società. Il suo impatto sulla vita di un intero popolo sarà pesante, si pensi all’importante, quanto urgente, questione educativa; nel momento in cui si impedisce di esercitare gratuitamente la carità a chi, in tutti questi anni, si è preso cura di Eluana, di fatto si trasmette un’immagine distorta della realtà: con che coraggio si potrà chiedere ai giovani il rispetto della vita propria e di quella altrui quando una donna viene fatta morire di fame e di sete con l'avallo dello Stato?
Non ci rassegniamo, dunque. Soprattutto non vogliamo rimanere spettatori passivi di tanta barbarie e proprio per questo riteniamo estremamente condivisibili le riflessioni espresse dalla Cei: “Si fa più urgente riflettere sulla convenienza di una legge sulla fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa, da elaborare con il più ampio consenso possibile da parte di tutti gli uomini di buona volontà”. Una legge che sia tanto chiara quanto semplice. Una legge che oltre a vietare espressamente l’eutanasia, entri nel merito delle “dichiarazioni anticipate” chiarendo, in modo incontrovertibile, come la nutrizione artificiale sia un sostegno vitale e non una terapia medica (e quindi non possa essere inclusa nelle “dichiarazioni anticipate”), e che tali “dichiarazioni” non debbano essere vincolanti per il medico, ma solo indicazioni di cui tenere conto.
In funzione di tali ragioni SamizdatOnLine aderisce alla “Petizione per la vita e la dignità dell'uomo” lanciata da: Movimento per la vita italiano, Scienza&vita, Forum delle associazioni familiari e dalle associazioni per la vita e la famiglia di quindici Paesi europei.
INVITIAMO tutti gli uomini e donne di buona volontà a fare altrettanto:
- sottoscrivendo la “Petizione” online,
 - aderendo all’iniziativa proposta da CulturaCattolica.it "Una candela accesa per Eluana" 
- inviando una mail personale al Presidente della Repubblica ed a vari giornali.
SamizdatOnLine
20/11/2008


Eluana Englaro, un “segno di contraddizione” - CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 21 novembre 2008 (ZENIT.org).- Prendendo spunto dal recente Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, ZENIT ha deciso di lanciare una rubrica dal titolo: “Parola e vita”, curata da padre Angelo del Favero, un cardiologo che nel 1978 fondò uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita all’ospedale Santa Chiara di Trento.
La rubrica funzionerà come un valido sussidio per i sacerdoti nel preparare le omelie della domenica, mettendo insieme la spiegazione delle Sacre Scritture con la difesa della vita e della famiglia.
Padre Angelo è diventato carmelitano nel 1984. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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XXXIV Domenica del tempo ordinario
NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO
Matteo 25,31-46
“Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere […] non lo avete fatto a me” (Mt 25,42.45). La Luce abbagliante di queste parole di Gesù ci illumina “senz’ombra di dubbio”, e fa “crollare i muri di inganni e di menzogne che nascondono agli occhi di tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e leggi ostili alla vita” (enciclica Evangelium Vitae, di Giovanni Paolo II, n° 100, 1995).
Collocata sul candelabro di quest’ultima domenica dell’anno liturgico, Solennità di “Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo”, questa Luce guida “alla verità tutta intera” (Gv 16,13) tutti coloro che desiderano sinceramente conoscerla, con particolare ed illuminante riferimento alla verità di Eluana Englaro, questa “bellissima ragazza…che ogni mattina apre gli occhi e alla sera li chiude”(Il Foglio, 17/11/2008, testimonianza di Marco Barbieri), diventata ormai “tutti noi”
La sentenza dei Giudici di Milano e quella delle Sezioni unite della Cassazione, “Quando il figlio dell’uomo verrà nella gloria con tutti i suoi angeli” (Mt 25,31) sarà valutata alla luce del Vangelo di Cristo, come in uno specchio. Allora, sia coloro che l’hanno scritta, sia quelli che l’hanno approvata nel loro cuore, riconosceranno la Verità tutta intera di Eluana, e comprenderanno che non si trattava solamente della figlia di Beppino Englaro, ma del Figlio di Dio che ha detto: “In verità vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45).
Se il sondino verrà staccato dal corpo di Eluana, Gesù morirà di fame e di sete. Il sacerdote anzitutto, ma anche ogni credente in Cristo, oggi più che mai deve saper imitare Paolo, l’apostolo dei pagani, in ciò che Benedetto XVI ha detto di lui aprendo l’Anno Paolino: “Paolo…non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima della sua lettere egli stesso dice: “Abbiamo avuto il coraggio…di annunziarvi il Vangelo di Dio in mezzo a molte lotte” (1Ts 2,2). La verità che aveva sperimentato nell’incontro con il Risorto ben meritava, per lui, la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore.
“In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuol schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza, senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e della purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore” (Omelia per l’apertura dell’Anno Paolino, 28 giugno 2008).
Alla luce della Parola di Dio e del Magistero della Chiesa che ne è lo sviluppo e le “linee guida”, comprendiamo che Eluana è stata scelta da Dio quale “segno di contraddizione”, e “sigillo di profezia”, non solamente “perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35), ma anche per essere strumento di grazia perché “quanti credono nel tuo Figlio sappiano annunciare con franchezza e amore agli uomini del nostro tempo il Vangelo della vita” (dalla preghiera conclusiva a Maria, che chiude l’enciclica Evangelium Vitae).


22/11/2008 12:14 - PAKSITAN - PRO ORANTIBUS - La clausura degli Angeli, cara ai musulmani di Karachi - di Qaiser Felix - Nel Paese in cui il 95% della popolazione è musulmana, dal 1959 esiste un convento di contemplative domenicane. La clausura ospita nove suore di cui sette pachistane. Le religiose raccontano: “Molti fedeli islamici confidano nelle nostre preghiere e inoltre sostengono il nostro monastero”.
Karachi (AsiaNews) - Esiste un solo convento di clausura in Pakistan. È il monastero degli Angeli di Karachi. Ospita nove suore domenicane: sette pachistane, una americana ed una srilankese. Dedicano la loro vita alla preghiera perpetua per i cristiani, ma non solo. Una di loro racconta ad AsiaNews: “Ad ogni ora del giorno c’è almeno una sorella presente nella cappella per la preghiera e l’adorazione perpetua del Santissimo. Le nostre preghiere non sono solo per i cristiani, ma per tutti senza alcuna distinzione. Persone di ogni credo vengono da noi a chiedere l’aiuto della nostra preghiera. Oltre ai cattolici vengono anche musulmani e protestanti. Molti ci scrivono lettere o telefonano, oppure mandano fax e mail per chiederci di pregare per loro”.
Il monastero degli Angeli è un luogo caro a molti musulmani. Raccontano le suore: “Molti fedeli islamici confidano nelle nostre preghiere e sono soliti venire da noi per chiederle oppure si servono di amici. Inoltre sostengono il nostro monastero. La nostra vita è dedicata alla preghiera e al sacrificio, per il Paese ed il mondo. Aiutiamo la società, la Chiesa ed il popolo nei loro bisogni e sofferenze attraverso la nostra preghiera. Noi non predichiamo, troviamo la soluzione ad ogni problema nella preghiera”.
La madre superiora del monastero e la sua assistente leggono i giornali per informarsi sulla situazione del mondo. “Comunicano alle altre sorelle le cose più importanti che sono successe come gli attentati, l’aumento dei prezzi o altri avvenimenti che sono motivo di bisogno o di sofferenza per la popolazione. Noi aggiungiamo questi fatti alle altre intenzioni di preghiera”.
Il monastero ha una casa di accoglienza dove singole persone, gruppi di religiosi o laici sono soliti andare per meditare e pregare. “Curiamo noi stesse l’accoglienza per i visitatori e cuciniamo anche per loro”. A separare le suore dal mondo esterno c’è sempre una grata. Le divide dagli ospiti che ricevono in visita, dal sacerdote che celebra per loro la messa, anche dai parenti che in giorni e tempi fissati vengono a trovarle
Parlando del ridotto numero di suore nel monastero le domenicane raccontano che molte famiglie vedono la vita monastica come una strada molto difficile e quindi sono solite scoraggiare le figlie che intendono intraprendere la via della comunità claustrale. A questo proposito padre Bonnie Mendes, anziano e stimato sacerdote cattolico della zona, spiega ad AsiaNews che “la vita di preghiera deve essere vista con gli occhi della fede per comprendere che le loro preghiere aiutano la Chiesa locale e la società”.
La vita quotidiana del convento è simile a quella delle altre clausure sparse nel mondo. Le suore sono solite fare pane, torte e dolci - padre Mendes ci tiene a dire che “sono di ottima qualità” - e producono particole e vino per le parrocchie. I "prodotti" vengono depositati in una piccola apertura da dove vengono prelevati da alcuni laici. Questi li consegnano ai fattorini per la distribuzione o li portano direttamente nelle parrocchie.
La storia della nascita del convento di Karachi inizia negli anni cinquanta. Fu il domenicano Francesco Benedetto Cialeo, missionario di origine avellinese divenuto poi vescovo di Faisalabad nel 1960, a cercare la strada per aprire un convento di clausura in Pakistan. Conobbe delle suore contemplative a Los Angeles e cercò di favorire il loro arrivo nel suo Paese d’adozione.
La fondazione della clausura avvenne però qualche anno dopo su iniziativa di monsignor Joseph Marie Anthony Cordeiro. Quando divenne arcivescovo di Karachi nel 1958, una delle sue prime decisioni fu quella di invitare una comunità di contemplative nella diocesi. Chiamo le suore di Los Angeles e due domenicane, madre Mary Gabriel e suor Mary Imelda, arrivarono a Karachi nell’aprile del 1959. Nel dicembre dello stesso anno nove contemplative del monastero di Los Angeles arrivarono in Pakistan fondando il monastero nella città. Dopo nove anni, il 20 luglio 1968, il convento venne trasferito da Ingle road alla sua sede attuale fuori Karachi (nella foto il gruppo delle suore nei primi anni dopo lo spostamento del monastero).



Perché l'obbedienza è un bene necessario - Senza l'autorità non si può vivere - di Massimo Camisasca - Superiore generale - della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo – L’Osservatore Romano, 22 Novembre 2008
Il rapporto con l'autorità e, più in generale, l'esperienza dell'obbedienza, sono ritenute oggi da molti impossibili a vivere o addirittura un male da rifuggire. Questo vale non solo nel mondo dell'educazione, della famiglia e del lavoro, ma anche talvolta all'interno della Chiesa.



Non sarebbe più facile vivere senza autorità? Non sarebbe più bello obbedire soltanto a ciò che istintivamente può sembrarci utile e opportuno, di momento in momento? Queste domande non sono domande retoriche. Educare all'autorità vuol dire innanzitutto aiutare la persona a scoprire la necessità di essa non solo per il bene della propria vita, ma per la vita stessa. Perché non si può vivere senza autorità? E quale è l'autorità "vitale" per noi? La vita dell'uomo, di ogni uomo, è costituita dalla tensione fra due poli: uno da cui veniamo, uno verso cui andiamo. Aiutare la persona a vivere tutto ciò nel presente, nel rapporto con le cose e con gli altri, è tutto il segreto dell'educazione.
Il primo passo è aiutarla a uscire da quell'autosufficienza che la rende infelice, malinconica. Don Giussani, in Tracce di esperienza cristiana, parla della solitudine come esperienza originaria. Allo stesso modo si è espresso Giovanni Paolo ii nelle sue catechesi a commento della creazione dell'uomo e della donna. La scoperta della nostra solitudine, della nostra incapacità ad affrontare da soli la vita, ci fa scoprire dipendenti. Dagli altri e poi non solo da essi. C'è una "dipendenza originaria" in ciascuno di noi. L'esperienza della vita apre in noi la domanda: essa è frutto di un caso o invece è mossa da un disegno, da una presenza buona, da un Tu che ci ha voluti e che ci ama? La "scoperta dell'amore come origine della vita" è decisiva nel cammino dell'uomo verso il riconoscimento di un'autorità e verso l'esperienza dell'obbedienza, come esperienza voluta e desiderata.
Nello stesso tempo noi scopriamo continuamente di essere attratti da qualcosa che è fuori di noi e che contemporaneamente è anche nel fondo del nostro essere. I nostri desideri rivelano delle attrattive, mettono in moto un movimento, indicano delle attese. Proprio qui si apre il posto dell'autorità. Di colui che Dio mette a fianco della nostra vita per accompagnarci in una scoperta dei nostri desideri più veri, in una purificazione di essi e in una strada di risposta. È chiaro che in questo contesto nella nostra vita si collocano molte persone. Non tutte hanno la stessa importanza. Si tratta di scoprire all'interno dell'infinito numero di autorità che la realtà ci presenta, quelle o quella più decisiva per noi che ci permette di raccogliere la voce di tutte le cose.
Obbedire a Dio o agli uomini?
Solo Dio può rappresentare in senso vero e pieno questa autorità. Perché egli soltanto è il nostro creatore e salvatore, colui da cui veniamo e che ci attende, colui che ci conosce fino in fondo e che costituisce perciò la felicità del nostro essere. Ma il rischio è grande: come obbedire a un Dio lontano, misterioso, senza cadere nel rischio di obbedire a noi stessi, all'idea che ci facciamo di lui, alla confusione fra nostri desideri e sua volontà? Non dimentichiamo poi che la presenza del peccato, originale e attuale, rende ancora questa ipotesi più realistica. Per salvarci da questo equivoco Dio si è fatto uomo e ha continuato la sua presenza tra noi attraverso degli uomini che lui ha scelto. Il suo metodo di presenza, da lui liberamente voluto, indica la strada fondamentale dell'obbedienza. Durante tutta la storia di Israele e più precisamente ancora durante la vita di Gesù, è stato chiaro che per obbedire a Dio bisognava obbedire a degli uomini. "Chi ascolta voi ascolta me" (cfr. Luca 10, 16).
Dobbiamo allora obbedire a Dio o agli uomini? Anche a questo apparente dilemma risponde la vita della Chiesa. Noi dobbiamo in senso proprio obbedire soltanto a Dio. Nessun uomo sulla terra infatti può arrogarsi il posto di autorità che ha Dio. In questo senso Gesù ha detto che non possiamo chiamare nessuno maestro se non lui (cfr. Matteo 23, 10). Ma nello stesso tempo è anche vero che, se non vogliamo limitarci ad obbedire alla nostra idea di Dio piuttosto che a Dio, di fatto ci troviamo ad obbedire a degli uomini. Potrei sintetizzare così: "dobbiamo obbedire solo a Dio, ma egli per obbedire a lui ci chiede di obbedire a degli uomini che lui sceglie".
L'autorità sono sempre persone scelte da Dio e in relazione con lui. A Dio devono rispondere, a lui devono portare le persone a loro affidate. Nessuna autorità si giustifica di per se stessa, ma sempre e soltanto in relazione al Creatore e al Salvatore. Questo è il significato vero dell'espressione: l'autorità è un servizio. Non quello sociologico che vede l'autorità come un primus inter pares destinato progressivamente a scomparire, ma quello teologico: l'autorità deve servire Dio per poter servire gli uomini.
L'obbedienza è un'attrattiva o una prova?
L'uomo è costantemente dilaniato tra l'esigenza di appartenere e la tentazione dell'autonomia, tra il bene che vede e che approva, come diceva il poeta latino, e il male che finisce per fare. Obbedire è naturale o richiede una rinascita? Come fa l'uomo a discernere quali siano le autorità che lo conducono verso la verità e il bene? Come fa a coniugare le attrattive che riverberano nella sua coscienza e gli inviti che vengono a lui dall'esterno, dalle autorità che lo circondano? Ho voluto qui delineare una serie di antinomie che dominano la problematica di sempre e soprattutto quella attuale nei confronti dell'obbedienza e dell'autorità. È possibile una composizione di esse? E come deve avvenire?
Soltanto colui che ci conosce, che ci ha creati, che ci salva, può aiutarci ad entrare in questo cammino dell'obbedienza, che è stato il suo stesso cammino di uomo ("imparò l'obbedienza da ciò che visse" cfr. Ebrei 5, 8). Dio è la nostra attrattiva perché è la nostra felicità. Egli ha posto dentro di noi la sete di lui, le esigenze di bene, verità, felicità, giustizia. Ha mandato suo figlio come strada per realizzare questa attrattiva. Questa strada coincide con un'aprirsi a dimensioni sempre nuove e sconosciute della vita, a una scoperta sempre più grande di Dio come felicità. Poiché si tratta di un Essere sempre nuovo, incommensurabile, infinito, poiché egli è una via che non coincide con la nostra, nasce in noi l'esigenza di uno strappo, di una prova, di una conversione verso un nuovo essere che è chiamato a dilatarsi lentamente e che implica mortificazione e sacrificio. È questo l'aspetto duro dell'obbedienza e dell'autorità, che possiamo attraversare perfino con letizia, se abbiamo chiara la promessa che ci è stata fatta e la realizzazione di essa nella vita che abbiamo già percorso.
È lo Spirito stesso che ci conduce a vivere con ilarità l'obbedienza, anche quando non capiamo o non capiamo tutto. Lui fa percepire in noi il fascino della felicità che ci attende, fa gustare in noi la voce di chi ci dice "vieni", permette l'esperienza della gioia anche nelle prove - penso a san Paolo quando dice sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni (cfr. 2 Corinzi 7, 4 e 12, 10) e all'esperienza della perfetta letizia in san Francesco.
Autorità e amicizia
Se è vero che l'autorità è scelta da Dio affinché io possa andare verso di lui, come avviene concretamente questo cammino? È l'autorità stessa che è chiamata a mostrare il suo cammino verso Dio e a coinvolgermi in esso. È la realtà dell'amicizia. Chi ha autorità crea connessione con le altre persone innanzitutto mostrandosi nel suo rapporto con il mistero. "Condivide se stesso con gli altri e si mette in ascolto di ciò che gli altri stanno vivendo". Senza perdere di vista il posto che Dio gli ha assegnato, vive un'amicizia che è segno di Dio, della sua infinità e imprevedibilità. Dall'autorità nasce un rapporto continuo, desiderato e pieno di iniziativa. È vero anche il reciproco: bisogna rendere presenti se stessi all'autorità: offrirsi cioè ad essa, attivamente, in un dialogo instancabile di collaborazione. È questa l'esperienza più importante che io ho vissuto negli ultimi venticinque anni della mia vita. Non è detto che essa sia l'unica modalità di rapporto tra educatore ed educando. A me sembra però quella che permette di entrare nelle apparenti antinomie sopra descritte e di superarle senza nessuna negazione delle differenze. In tale amicizia l'autorità resta tale, non abdica alle proprie responsabilità, non scade in un giovanilismo o in una compagneria, ma rischia realmente il proprio volto di fronte all'altro, come ha fatto il figlio di Dio diventando uomo. Si fa presente agli altri cercando un dialogo con loro. Mostra loro le ragioni del suo muoversi e gli itinerari che lo conducono alle sue decisioni. E così facendo li coinvolge nella sua vita. Paolo vi scrisse: "Il nostro tempo ha bisogno di maestri, ma essi sono più credibili se sono testimoni" (Evangelii Nuntiandi, iv, 41). Mi sembra un'espressione che si riconduca a ciò che voglio descrivere. Essere autorità, in altre parole, vuol dire offrire la propria vita, le ragioni del proprio vivere, i criteri delle proprie scelte e vuol dire anche entrare, con somma discrezione e sommo rispetto, nella vita degli altri, sapendo interpellare la loro umanità, offrendo alle attese dell'altro quelle risposte che io sono in grado di dare, in ragione della mia esperienza e della sapienza secolare della Chiesa.
Da questo punto di vista l'autorità da me esercitata è sempre stata, poco o tanto, una condivisione di responsabilità. Gesù ha cominciato a mandare avanti a sé gli apostoli. Per educarli a comprendere chi fosse lui, li ha mandati a parlare di lui. Affidare delle piccole o grandi responsabilità a colui che ci è consegnato da Dio si rivela come la strada più efficace per aiutarlo a vivere un rapporto giusto con l'autorità. Nessuno dà soltanto o soltanto riceve, ma tutti danno e ricevono in una misura decisa da Dio.
Quando Dio ha pensato alla Chiesa, a una compagnia guidata, ha pensato alla necessità costitutiva dell'essere umano di avere un padre e una madre. Sappiamo tutti quanto l'assenza o la latitanza o l'indebita ingerenza delle figure genitoriali creino nella persona insicurezza, paura, resistenza all'essere amati e guidati. Una autorità che guida secondo l'itinerario che ho tracciato può veramente diventare padre e madre e aiutare a scoprire la paternità di Dio e la maternità della Chiesa. Dobbiamo nello stesso tempo affermare con molta chiarezza che non dobbiamo mai permettere nella persona la censura nei confronti dei propri genitori carnali. Essi non devono mai essere dimenticati, né trascurati, ma accolti, amati e forse riscoperti. Rivissuti in un rapporto nuovo che esprima la verginità che si è abbracciata. In questo modo "la persona è portata a riconoscere il valore putativo di ogni paternità nei confronti della paternità di Dio, che è l'unico a cui propriamente può essere attribuito il nome di padre".
Amico e padre (o madre): queste espressioni con cui ho voluto descrivere la mia esperienza dell'autorità dicono anche la delicatezza di questo itinerario. Una paternità e un'amicizia non possono essere imposte, ma soltanto proposte. In una comunità, anche quando ha origine carismatica, "dobbiamo sempre coniugare il valore oggettivo dell'autorità con l'esercizio soggettivo dell'amicizia e della paternità". Dobbiamo sempre essere il segno della alterità di Dio che giunge agli altri attraverso la misericordiosa pazienza di Cristo. "Tutto ciò esige nell'autorità una grande maturità umana e cristiana", una grande discrezione e pazienza, una grande umiltà che sa riconoscere i propri errori. Esige anche il consiglio di tanti collaboratori e fratelli. L'autorità deve essere sempre il segno oggettivo di Cristo, colui che sa essere l'avvocato difensore delle differenze di tutti, colui che ha un rapporto personale con ciascuno e che sa valorizzare l'apporto di ciascuno.
I passi di un metodo
a) Educare significa certamente anche parlare. Un superiore deve sapere che le sue parole hanno un grande peso nella vita delle persone a lui affidate. Per questo occorre sempre prepararsi con cura, cercando di non lasciare nulla al caso, consapevoli che ogni frase può essere significativa in un senso o in un altro. Noto che in questi anni il tempo necessario per preparare i miei interventi e i miei colloqui, anziché diminuire in forza dell'esperienza, è aumentato. D'altronde credo sia esperienza di tutti: quando si è giovani, sui venti o trent'anni, si tende a parlare speditamente, senza pensare troppo a quello che si dice, mentre poi, col passare del tempo, parlare diventa più arduo, perché le cose che si dicono cominciano a pescare a una profondità tale che si preferirebbe tacere e occorre ogni volta rompere la crosta di se stessi. Allora parlare diviene un avvenimento, la ripresa di certe parole permette il riaccadere del loro significato.
b) In seminario ho sempre cercato di "insegnare la tradizione" proprio ripresentando l'insegnamento che io stesso ho ricevuto: il canto, l'apertura alla letteratura e alla poesia, l'apertura ai maestri. Don Giussani è stato un maestro per me. Le sue parole mi hanno sempre aperto ad altri magisteri, mi hanno introdotto a Leopardi, Pascoli, Pavese, Dante, Manzoni... Egli aveva capito che nessun uomo può essere un maestro esclusivo. Anzi, uno è tanto più maestro quanto più è capace di indicarne altri.
c) Per educare una persona non è necessario dire tutto subito, anzi, la fretta di giungere subito alle conclusioni risulta il più delle volte dannosa. Il vero insegnamento, infatti, non è che il dispiegarsi di un avvenimento già accolto, "l'esplicitarsi di un qualcosa che si è precedentemente sperimentato". L'esplicitare troppo anticipatamente uccide. Occorre piuttosto accompagnare le persone a scoprire esse stesse la verità, senza sostituirsi alla loro libertà, senza bruciare le tappe. Gesù non ha cominciato la sua missione dicendo frasi del tipo: "Dio esiste ed è il Padre", ma ha preferito dire: "Guardate gli uccelli del cielo, guardate i fiori della campagna: non tessono e non cuciono, eppure sono più belli di ogni cosa tessuta e cucita dall'uomo" (cfr. Matteo 6, 26-29). In ciascuna delle sue parole, anche se non esplicitata, vibrava la presenza del Padre che crea e governa ogni cosa. Egli riusciva a parlare di Dio parlando delle cose quotidiane, di quello che era sotto gli occhi di tutti, delle esperienze vissute ogni giorno da chi lo ascoltava. Infatti ogni sua parola andava dritto al cuore dell'uomo, come una proposta chiara e affascinante, che urgeva una decisione. "Il fascino di ciò che è implicito è più potente di ciò che è esplicito" ha lasciato scritto Eraclito.
b) Non farsi prendere dalla fretta di dire tutto subito significa anche porsi di fronte all'altro con grande rispetto, significa ricordarsi che ogni persona è creata a immagine e somiglianza di Dio e costituisce perciò un mistero insondabile, irriducibile a qualunque schema o progetto.
In sintesi vorrei dire così: essere autorità per un'altra persona significa conoscere la sua strada, aiutarla a riconoscere, ad affrontare i problemi che questa strada indica. In certi momenti, poiché la libertà dell'uomo è debole, occorre dare dei comandi, così che l'altro possa riconoscere ciò che ancora non gli risulta evidente.
Autorità e governo
L'autorità è una persona che accompagna e assieme una persona che sa decidere. Deve sapere dove portare chi gli è affidato, attraverso quali tappe, deve esercitare con chiarezza il discernimento sull'attitudine della persona alla strada che sta percorrendo. L'eventuale amicizia non deve mai fare velo alla giusta fermezza. Si tratta del bene dell'altro, della sua felicità e di rispondere a Dio dei compiti che ci ha consegnato.
Obbedienza o libertà
Se abbiamo seguito tutto l'itinerario che ho descritto, siamo arrivati a comprendere, al contrario di quello che pensano molti nostri contemporanei, che libertà non è semplicemente rispondere a se stessi. La non obbedienza non è la forma ideale di vita. Al contrario, obbedire solamente a se stessi diventa schiavitù, rende l'uomo facile preda del volere del mondo, lo asservisce alle logiche del mercato e al potere che tutto governa. Basti pensare alla forza invasiva della pubblicità. Chi crede di non dipendere da nulla finisce sempre con l'essere strumentalizzato dal potere della mentalità dominante. Sant'Ambrogio ha scritto: "a quanti signori finiscono per obbedire coloro che rifiutano servire l'unico Signore".
(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2008)


SIAMO MUTI DAVANTI ALLA TRAGEDIA DI VERONA - Quali che siano le ragioni resta un salto incolmabile - MARINA CORRADI – Avvenire, 22 novembre 2008
«U na cosa simile, non l’avevo mai vista». Le poche parole pronunciate dal questore di Verona uscito dalla villa di San Felice Extra dicono come anche il capo della polizia di una grossa città, con anni d’esperienza sulla malavita, resti ammutolito davanti a tre bambini uccisi in pigiama, sul punto di andare a dormire, dal loro stesso padre.
Uccisi insieme alla madre nella bella casa borghese di un professionista affermato, nel cuore benestante del Nord Est, mentre la tv in una sera come tante è accesa e la moglie guarda la tv con accanto il figlio più piccolo, che a letto non vuole andare. Lo hanno trovato, Jacopo, tre anni, riverso a terra accanto ai soldatini con cui stava giocando. Forse, speriamo, non ha saputo niente, preso dalla sua fantastica battaglia: un colpo secco, e poi il buio. E gli altri due, i più grandi, ritrovati nel letto con le lenzuola già rimboccate?
Forse come tutti i bambini contavano i giorni al Natale, e già andavano preparando una garbata ma circostanziata lista di sogni.
Più niente. L’irruzione del nulla in una casa tranquilla: dove tutto agli occhi dei vicini pareva felice e in ordine, e i bambini – tre, di fila, in pochi anni, a testimonianza di un progetto lieto e deciso – andavano a letto dopo aver lavato i denti, e augurato la buona notte. Per questo, perché la morte, e questa morte, stordisce come una bomba in una casa che sembra felice, il questore se ne è uscito da quella villa a spalle curve e a capo chino: la morte, con quella faccia, non l’aveva mai vista.
E nemmeno questa volta si può accusare banditi o predoni venuti dal buio, né invocare ronde, e ordine nelle strade. La porta, certo come ormai ovunque blindata, in quella villa non è stata toccata. Il male era dentro, ed è esploso dilaniando ogni cosa.
Ora ci si domanda, si investiga: si cercano fra amici e attoniti vicini tracce di liti, di gelosie, o di rovesci economici improvvisi. O si ipotizza in quell’uomo tranquillo una depressione psicotica, un abisso invisibile sotto i modi educati del professionista borghese. Ma, per qualsiasi strada sia arrivato quel padre a decidere di estrarre dai cassetti le pistole, qualsiasi razionale ragione sembra un nulla davanti a una simile strage. Un solo nome in realtà si può dare alla forza atroce che a Verona l’altra notte ha divelto ogni cosa.
Soltanto una disperazione possente, totale, tracimante dalle profondità dell’io come un’onda di piena, può spiegare tanta volontà di morte. Se anche si scopriranno i motivi che hanno sconvolto quell’uomo, è probabile che tra quei motivi e ciò che è stato resterà uno iato, un salto razionalmente incolmabile. Solo dentro un’ottica di disperazione, lucida o sorta in una accecata follia, quei cinque spari obbediscono a una lugubre logica: se il mondo e la nostra vita sono sbagliati irrimediabilmente e senza alcuna speranza, e siamo totalmente soli, se è così, allora occorre morire, e strappare a un inutile strazio i propri figli. Per gli psichiatri quello di Verona è 'suicidio allargato', cioè un gesto, nella mente di chi uccide, di assurdo amore: vi libero dalla sofferenza, non vi lascio qui a soffrire. La perversione di questo 'amore', sta nell’aver cancellato la speranza. Sta, nell’incalzare di disgrazie vere o nel martellio dell’ossessione, nel dare retta alla disperazione. Nel cederle, e non opporle più alcuna ragione logica e nemmeno il semplice istinto vitale.
L’humus del massacro di Verona è la resa a un nemico che insiste, argomenta, rode, tarla: 'non c’è alcun senso, non c’è alcun bene'. E poiché in tanti sentiamo dentro a tratti questo mormorio gelido, quei tre bambini e la madre e il padre, morti in una casa che pareva felice, ci ammutoliscono. E anche chi a fatica lo ricorda, può ritrovarsi a ripetere in sé, come d’istinto, le parole della più antica nostra preghiera. Quella che invoca, ostinata, 'liberaci dal male'.


Staminali contro la Sla. Vescovi: test nel 2009 - DA MILANO ENRICO NEGROTTI – Avvenire, 22 novembre 2008
T est clinici con cellule staminali neurali in pazienti affetti da scle­rosi laterale amiotrofica ( Sla) po­trebbero essere avviati nell’arco di qualche mese dal gruppo guidato dal professor Angelo Vescovi, docente di Biologia cellulare all’Università di Mi­lano- Bicocca. Si tratta di una delle prospettive di ricerca sulle cellule sta­minali adulte presentate ieri alla gior­nata di studio sulle biotecnologie del Premio Sapio per la ricerca italiana, giunto quest’anno alla decima edizio­ne. Accanto alle strategie terapeutiche con staminali del cordone ombelicale per la cura di malattie del sangue, al­le cure già avviate con i trapianti di staminali epiteliali geneticamente modificate per malattie della pelle, al­le sperimentazioni con staminali bioingegnerizzate su supporti bio­compatibili avviate su pazienti affetti da piorrea, i test annunciati da Vesco­vi sono stati al centro dell’attenzione di un folto pubblico nell’Auditorium dell’Università di Milano- Bicocca.
« Le cellule staminali neurali – ha spie­gato Vescovi – si sono dimostrate ca­paci di proliferare e di differenziarsi nei tre tipi di cellule nervose: neuro­ni, astrociti, oligodendrociti. Esperi­menti condotti su modelli animali hanno anche mostrato come in alcu­ne patologie, come la sclerosi multipla o i traumi spinali, il trapianto di sta­minali mostri un miglioramento cli­nico delle condizioni del topo. Certa­mente la rigenerazione nel cervello è più difficile che in altri organi perché i miliardi di cellule cerebrali hanno centinaia di migliaia di relazioni reci­proche » . Una volta ottenute le auto­rizzazioni Gmp ( Good manifacturing practises, buone pratiche di fabbrica­zione), nel 2009 il laboratorio del pro­fessor Vescovi potrebbe dare l’avvio ai test clinici sulla Sla: « Abbiamo dovu­to rimandare più volte l’avvio della sperimentazione – dice Vescovi – per problemi di finanziamento. Ora ci siamo quasi: è questione di mesi. Fa­remo tutto secondo i criteri della me­dicina occidentale: il reclutamento dei pazienti ( non più di 10 in fase 1) è af­fidato ai clinici, in particolare dell’o­spedale Niguarda di Milano, di Pado­va e di Trento. Comunque il 1° dicem­bre faremo un convegno per attirare l’attenzione con la onlus Neurothon che finanzia le ricerche » .
Sempre problemi di fondi rallentano il proseguimento della terapia genica di una grave malattia dermatologica, l’e­pidermiolisi bollosa giunzionale, di cui ha parlato Michele De Luca, do­cente di Biochimica all’Università di Modena e direttore del centro « Stefa­no Ferrari » per la medicina rigenera­tiva, inaugurato meno di un mese fa nella città emiliana. « È in corso l’ac­creditamento Gmp, che costa tempo e denaro, necessario perché queste te­rapie sono assimilate a farmaci e de­ve essere garantita la massima qua­lità » . E da Monza ( Milano) Ettore Bia­gi, direttore del laboratorio di terapia cellulare « Stefano Verri » ( certificato Gmp), ha illustrato i primi test per la ricostituzione di tessuto osseo otte­nuto con staminali di midollo osseo fatte espandere su un supporto bio­compatibile ( scaffold) eseguiti all’o­spedale « San Gerardo » .
«Aspettiamo solo l’accreditamento del laboratorio per la produzione delle cellule per uso clinico (Gmp) Inizieremo gli esperimenti di fase uno su una decina di pazienti»


«Vita e destino» arriva integrale dopo il Kgb - DI FULVIO PANZERI – Avvenire, 22 novembre 2008
Q uando lavorava a quello che non solo è il suo capo­lavoro, ma anche uno dei capolavori della letteratura del Novecento, Vasilij Grossman, non sembrava stes­se usando una penna, ma un un grosso martello per riuscire a edificare questa 'cattedrale del nostro tempo' che il suo romanzo, Vita e destino, rappresenta, da molti considerato una sorta di Guerra e pace del ventesimo se­colo. Chi lo aveva conosciuto ricorda le sue mani grandi e forti, da operaio, quelle che hanno messo insieme questa grande epopea sulla battaglia di Stalingrado, durante la Se­conda Guerra Mondiale, scritta da Grossman negli anni che hanno preceduto il caso 'Pasternak' e la pubblicazione in Italia del Dottor Zivago, uno spiraglio di possibilità che con­vince lo scrittore russo di origini ebree a terminare la sua colossale opera e a spedirla ad una rivista. Era il 1960. Il mi­racolo che era capitato a Pasternak non si era ri­petuto per Grossman che vide, l’anno do­po, l’irruzione degli agenti del Kgb nella sua casa che gli sequestra­rono, non solo i dattiloscrit­ti del libri, ma anche tutti i brogliacci che gli erano serviti per la stesura definitiva di questo romanzo, la cui forza dirompente e eversiva era chiarissima, perché rispon­deva ad un im­perativo che viene così e­spresso da un personaggio: «Era tempo, per ciascuno di noi, di sbarazzarsi del­lo schiavo che è in noi».
Grossman costruisce l’opera che mette alla berlina tutti i totalitarismi, che indaga i rapporti tra le fin­zioni del potere e la verità della vi­ta, che distingue tra bene e male. Pur parlando della battaglia di Stalingrado che è il nodo centrale del romanzo, ne dà una interpretazione terribile, portando a compimento il disegno potente di in­tuizioni che avevano già avuto altri scrittori dell’area slava (si veda Liberazione di Sandor Marai, recentemente tradotto da Adelphi), vale a dire che l’effettiva contrapposizione tra vincitori e vinti in realtà non esisteva, in quanto i due tota­litarismi, il Nazismo e il Comunismo staliniano, sono par­te di uno stesso specchio. Se Marai, nel romanzo scritto al­l’indomani della guerra, accennava a questo concetto, Gros­sman ne scolpisce la lucidissima verità, spiegandone le ra­gioni, facendo confluire, attraverso i molti personaggi che appaiono nel libro, con le loro terribili e a volte assurde e­sperienze, il senso di questa invettiva all’interno dell’inte­ra storia russa. Nel momento in cui il comunismo si presenta come una spe­ranza di salvezza per il mondo da un regime dittatoriale che rischia di travolgere tutto nella sua catastrofica follia, Gros­sman mette in luce quanto questa 'speranza comunista' sia essenzialmente una finzione e dimostra, attraverso le testimonianze dei suoi 'eroi' umiliati e vinti, come nazismo e comunismo abbiano inquietanti punti in comune: pur opponendosi dal punto di vista delle finalità ideologiche, all’atto pratico dimostrano di agire allo stesso modo.
Ci sono voluti vent’anni per 'sdoganare' il dattiloscritto 'rubato' dal regime comunista ad un grande scrittore co­me Grossman che se era andato, malato di tumore, senza veder pubblicata la sua opera capitale. La forza di questo libro non poteva però passare inosservata. Le sue parole potevano restare nascoste, ma non cancellate, anche se il Kgb aveva sequestrato nella sua casa persino i fogli di car­ta carbone usati per le copie, proprio per evitare che si po­tesse ricostruire leggendo in controluce i segni delle paro­le rimasti sulla carta copiativa. Vita e destino esce negli anni Ottanta. Il curatore di quella prima edizione, uscita in Italia pres­so Jaca Book, Efim Etkind, scris­se che «la confisca di un ro­manzo è il più alto rico­noscimento che il pote­re dello Stato possa accordare ad un’o­pera letteraria».
Questo grande af­fresco dell’uomo che si oppone allo Stato era stato recupera­to in due copie che erano riu­scite a sfuggire fortunosamen­te dalla prigione di cemento di Lubjanka in cui e­rano rinchiuse. Il curatore della prima edizione sottolinea che uno studio attento a­veva messo in luce quanto entrambe risultavano man­canti di pagine, righe, paragrafi, interi capitoli e solo un lavoro accura­to di filologia aveva permesso di colmare qua­si tutti i 'vuoti' e di ricostruire «un solo testo, sintentico». Ora, dopo che il romanzo è diventato anche un evento tea­trale, possiamo leggerlo nella sua versione definitiva e in­tegrale, in una nuova traduzione, a cura di Claudia Zon­ghetti, proposta da Adelphi, in cui troviamo diversi capito­li nuovi, una differente numerazione e la decifrazione de­finitiva di molte parole che prima erano illeggibili, una pro­spettiva filologica definitiva che questo capolavoro merita e possibile grazie alla liberalizzazione degli archivi russi.
Vasilij Grossman
VITA E DESTINO
Adelphi. Pagine 830. Euro 34,00