Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione - Intervento in occasione dell'Udienza del mercoledì
2) ELUANA/ Socci: la testimonianza delle suore che la accudiscono vale più di ogni discorso - INT. Antonio Socci - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) Eluana: lettera di un protagonista - Autore: Steccato, Gian Piero Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Libertà, 19 novembre 2008 - mercoledì 19 novembre 2008
4) Distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura della persona (idratazione e alimentazione) - Togliere cibo e acqua? C’è profilo di omicidio - Caffarra:omissione etica e, spero, anche giuridica - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 16 novembre 2008
5) USA/ Temi pro life e libertà della Chiesa, prime spine per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) ISTRUZIONE/ Sui fondi riservati alle scuole paritarie il governo dimostra una grave debolezza culturale - Vincenzo Silvano - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) MONACHESIMO/ Lavoro manuale, cultura e fraternità: così pochi uomini hanno creato un'intera civiltà - INT. Giorgio Picasso - mercoledì 19 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
8) Rivelazioni sull'“Operazione carte false” per salvare gli ebrei - Memorie di Mirjam Viterbi Ben Orin nell'Italia del nazifascismo
9) Cardinale brasiliano: occorre far emergere le ragioni del credere - L'Arcivescovo di Salvador invita ad approfondire il messaggio cristiano
10) I Vescovi congolesi denunciano il “genocidio silenzioso” - Gli scontri provocano ogni mese 45.000 morti
11) Campagna di raccolta firme contro l'aborto come diritto umano - Organizzazioni pro-famiglia e pro-vita sostengono l'iniziativa
12) 19/11/2008 13:18 – NA - Appello dei cattolici di Nanle contro le violenze e i sequestri dell’ex capo dell’Associazione di Wang Zhicheng - Prete e fedeli picchiati con bastoni e pietre. A causa di minacce di tipo “mafioso”, dal 15 agosto non ci sono messe, né catechismo. L’ex direttore dell’Ap si è impossessata di una proprietà della chiesa. I fedeli si appellano allo slogan di Hu Jintao (“costruire la società armoniosa”) per chiedere giustizia.
13) 19/11/2008 12:46 - PALESTINA –ISRAELE - Resta chiusa la frontiera di Gaza. A rischio anche gli aiuti umanitari - Dopo il parziale allentamento del blocco e l’ingresso di alcuni carichi di medicinali e generi alimentari, Israele torna a chiudere i valichi verso la Striscia. La comunità internazionale preme su Tel Aviv per evitare l’acuirsi della crisi umanitaria, ma continuano i lanci di razzi da parte di Hamas
14) Limiti di una definizione nata sessant'anni fa esatto – senza ragioneLa salute e l'utopia della perfezione - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 19 Novembre 2008
15) LA FEDE NEGATA - Restituito al patriarcato il Babel college, l’unica facoltà teologica del Paese requisita dai soldati Usa - «In Iraq non c’è posto per gli infedeli cristiani» - Il gruppo estremista di Ansar al-islam scrive a un vescovo: «Lasciate Baghdad e le altre province o sarà come a Mosul» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 19 novembre 2008
Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione - Intervento in occasione dell'Udienza del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sulla giustificazione.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come "spazzatura" di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore.
Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).
È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: "Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno" (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che "tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge "Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge" (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: "giustificato per la sola fede". Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa "Legge" dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle "opere della Legge" che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola "BV µ@4 X>,FJ4<" (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che derminavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.
Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione "sola fide" di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).
Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l'amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c'è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.
Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.
ELUANA/ Socci: la testimonianza delle suore che la accudiscono vale più di ogni discorso - INT. Antonio Socci - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Non un’occasione di scontro ideologico, ma un fatto che fa emergere, nella sua essenzialità insondabile, tutto il «mistero che noi siamo»: questa, per il giornalista e scrittore Antonio Socci, è la vera portata di tutta la vicenda di Eluana Englaro. Una situazione resa ancor più grande e significativa dalla testimonianza silenziosa di chi da quattordici anni si occupa di una persona che, nonostante tutto, continua a vivere.
Socci, sul caso Eluana si sono fatte tante dispute, anche ideologiche. Ma c’è un fattore, in tutta questa vicenda, che supera le discussioni: la testimonianza delle suore di Lecco che la accudiscono. Che importanza ha secondo lei questo fattore?
Tutto il dibattito è stato in qualche modo falsato dal fatto di non essere stati per lungo tempo a conoscenza di questo aspetto. L’abbiamo scoperto solo qualche mese fa, quando le suore di Lecco con estrema discrezione sono uscite dal silenzio dopo quattordici anni, e, senza pretendere nulla, hanno semplicemente espresso il loro invito: «lasciate Eluana a noi». Inoltre, se ben ricordo, lo stesso padre, Beppino Englaro, chiese quattordici anni fa di poter portare Eluana in questa clinica, perché lì lei era nata; le suore inizialmente furono un po’ interdette dalla richiesta, perché non si occupavano di questo tipo di casi. Preso atto che si trattava fondamentalmente di accudirla e di nutrirla, la presero in casa loro come una loro figlia.
Possiamo dire che, in un momento in cui la Chiesa viene spessa dipinta come una realtà che giudica dall’alto, queste suore ci dimostrano che la situazione è un po’ diversa?
Certo: quando si parla del peso e dell’insostenibilità di situazioni di questo genere bisogna ricordarsi che la Chiesa non si limita a indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma quella stessa Chiesa, a immagine di Cristo, prende su di sé il peso e il dolore di queste situazioni. Qui abbiamo una famiglia che vive tutto il suo dramma e il suo dolore, ma che al tempo stesso non è sola in questa tragedia. Mi pare che sia una cosa eccezionale: al di là delle dispute filosofiche o accademiche, il vero miracolo, la cosa veramente grandiosa con cui tutti dovremmo fare i conti è che nel mondo c’è una presenza misericordiosa, fatta di persone in carne ed ossa, che con umiltà e semplicità, nel silenzio, senza che nessuno le gratifichi, si fanno carico dei nostri figli amandoli come padri e come madri. E questa presenza è la Chiesa. Nello sguardo di quelle persone c’è lo sguardo con cui Gesù guarda gli uomini, guarda noi, attribuendo a noi un valore assoluto, infinito, a prescindere dalle condizioni in cui siamo e dalle nostre capacità. Questo è il grande miracolo presente in tutta questa vicenda.
Qual è per lei la positività di un’esistenza come quella di Eluana?
C’è innanzitutto una questione oggettiva: quel bene che è la vita di Eluana è identico al bene della vita di ciascuno di noi. C’è un’oggettività posta dal fatto stesso che una persona esiste. Poi per natura, come esseri umani, tendiamo a vivere come un grande sacrificio le contraddizioni in cui viviamo, le sofferenze e le prove della vita: questo è parte della nostra fatica di vivere. La possibilità di intravedere e sperimentare la positività del sacrificio avviene in natura attraverso l’esperienza dell’amore, per cui una madre o un padre, anche solo avendo dei figli, accettano la fatica di alzarsi di notte e di fare cose che prima non immaginerebbero; ma più globalmente è l’Amore, quello con la “a” maiuscola, cioè la presenza di Cristo e della Chiesa, che per grazia dà uno sguardo e un cuore che permettono di vivere come vivono i santi, per i quali anche la contraddizione massima, come il martirio o la malattia, possono essere un dono. Qua però si entra in una dimensione vertiginosa, che ha a che fare con la grazia. La stessa grazia che trasforma l’acqua in vino.
Quindi, anche di fronte alla condizione di Beppino Englaro, possiamo dire che risulta in un certo modo comprensibile il fatto di essere sopraffatti da una tale situazione di dolore?
Io capisco benissimo la sofferenza delle persone che si trovano in questa prova. Se penso a me stesso, mi sento assolutamente inerme, e sarei debolissimo di fronte alla prova di sofferenze di questo genere. Umanamente è comprensibilissimo lo smarrimento, l’angoscia, il dolore, il senso di schiacciamento che si prova. E questa è la nostra comune esperienza umana di fronte al dolore, soprattutto quando si tratta di un figlio. Siamo annichiliti. Ma in tutto questo bisogna ritornare al punto iniziale: pensare al volto di quelle suore, le tenebre nostre sono rischiarate da un lampo che fa impressione e che commuove. Il fatto che esista un amore gratuito che trasforma il dolore in una tale grandezza umana fa quanto meno desiderare che questa cosa prenda anche noi.
Qual è l’interrogativo ultimo che pone a tutti noi una situazione come quella di Eluana?
Dal punto di vista del fatto in sé la vicenda di Eluana ci interroga sul mistero che noi siamo, soprattutto in merito al fatto che la medicina tuttora non sia capace di decifrare questa strana condizione in cui l’uomo può cadere. Proprio in questi giorni, tra l’altro, si è parlato dell’impossibilità di stabilire il fatto che una certa condizione, come il coma o lo stato vegetativo, sia permanente e irreversibile. Questo ci deve far riflettere seriamente sul mistero che siamo, sul fatto che veramente noi non siamo riconducibili alle nostre cellule cerebrali e alla nostra condizione biologica: c’è un livello della coscienza che sfugge alla dimensione chimica e biologica del nostro corpo.
Un’ultima domanda: qual è la mancanza, il difetto di una società che non accetta un’esistenza come quella di Eluana?
Il fatto che è una società pagana. Il documento diffuso da Comunione e Liberazione sul caso di Eluana dice proprio: «che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?». È la società pagana, la società che non ha conosciuto Cristo. E anche una società in cui non è abituale fare i conti con la condizione umana vera. Dopo la strage di Nassirya don Giussani disse che «ci vorrebbe un’educazione del popolo». Quello che è auspicabile è proprio il fatto di poter godere di un’educazione capace di farci capire che cosa vale e che cosa no, per cosa vale la pena vivere e cosa ha veramente valore. Questo è il punto di positività da cui ripartire.
Eluana: lettera di un protagonista - Autore: Steccato, Gian Piero Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Libertà, 19 novembre 2008 - mercoledì 19 novembre 2008
Gian Piero Steccato, “Capitan Uncino” ha scritto una lettera aperta sul “Caso Eluana” all’On. Eugenia Maria Roccella, sottosegretario di Stato al lavoro, alla salute e alle politiche sociali. Ecco il testo. Infine, commenta Steccato, ci sono riusciti: la Cassazione ha dato ragione al papà di Eluana che adesso può farla morire.
Ho 59 anni e sono affetto da Locked-in Syndrome. Sono rimasto molto colpito dalla decisione di sospendere la nutrizione a Eluana Englaro. Mi sono venuti i brividi quando ho ascoltato la motivazione di questa presa di posizione. Eluana, in salute, aveva ripetutamente detto che avrebbe voluto vivere la sua vita a pieno, altrimenti avrebbe preferito morire. Ma è facile esprimersi così, a vent’anni si è nel pieno delle proprie forze e si crede di essere invincibili. Anch’io quando ero in salute ho ripetuto più volte questa frase, ma quando mi sono trovato “in trappola” e non riuscivo a comunicare, avrei voluto gridare “Fatemi vivere!”. Questo per dire come possono cambiare le cose; quante volte ho sentito genitori dire: “Se mio figlio beve o si droga lo butto fuori casa!”. Per fortuna le cose non vanno così, ci sono milioni di genitori che fanno di tutto per aiutare i figli in queste situazioni e vivono ancora nelle loro famiglie. Quante madri, mogli, famiglie vivono quotidianamente con le disabilità dei loro cari con sacrificio e tanto rispetto e amore? Direi che queste prese di posizione che tendono all’eutanasia non portano rispetto alle “carcasse umane” prodotte dalle gravi disabilità che non possono dire la loro, e a coloro che si prodigano con progetti ed attività (vedi “Casa dei Risvegli”) ad aiutare i pazienti e le loro famiglie. Mi sento anche di affermare che la società odierna, pronta a scoprire la luna o l’impossibile, è la società del “bello”, del “superfluo” e non dell’utile e del rispetto. Dico questo anche in merito alla trasmissione “Porta a Porta” del 13 novembre dove ho sentito le sue parole, onorevole Roccella, ed ho apprezzato e condiviso i suoi messaggi, ma di nuovo rabbrividendo alle affermazioni in trasmissione. Mi sono reso conto che per Eluana non c’è via di scampo. Lei ha avuto la colpa di dire venti anni fa “a gamba sana” (e senza testimoni o scritti), “se non vivo a pieno lasciatemi morire …”. Non credo neanche che il “Testamento biologico” possa essere una soluzione ottimale: che valore avrebbe decidere “ora per allora”? Quando si apre un testamento, prima che venga beneficiato il patrimonio, si guardano mille cavilli e poi si fanno le divisioni, trattandosi di soldi o beni tramutabili in euro. La vita dell’uomo vale meno: nessuna divisione, si sospende la nutrizione e il padre (che rispetto per il suo dolore), i gruppi fanatici, i giudici, non hanno dubbi. Questo mi spaventa e mi fa pensare: io che nella grande sfortuna chiedo di vivere, fino a quando riuscirò a farlo? Fino a che è viva mia moglie che mi vuole ancora bene e mi accudisce senza mai lamentarsi? Se si prova disprezzo nel vedere il filmato di un paziente in coma (in trasmissione hanno chiesto chiarimenti sul consenso della persona non in grado alla decisione) fin quando potrò uscire con la mia carrozzina e godermi il sole, i rumori e l’affetto degli amici e i buffetti dei passanti? Sono una persona cresciuta nell’onestà e nel rispetto delle persone e voglio poter uscire come tutti, non devo scontare nessuna pena e non mi vergogno della mia disabilità.
Carissima onorevole, mi rivolgo alla sua autorevole persona affinché possa aiutarmi a vivere, in questa società che predilige il “bello” e il “comodo” e che non rispetta i valori della vita. Vorrei che i casi come il mio venissero alla luce, che il popolo italiano accogliesse i disabili nella vita di tutti i giorni, in strada, a teatro, nelle feste, nella televisione, perché anche noi abbiamo bisogno di emozioni, della gente, della normalità.
Distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura della persona (idratazione e alimentazione) - Togliere cibo e acqua? C’è profilo di omicidio - Caffarra:omissione etica e, spero, anche giuridica - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 16 novembre 2008
Se una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana un bene che non a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignitdella persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale. Lo ha detto il cardinale Carlo Caffarra intervenendo al convegno 'Dall’alba al tramonto della vita: decidere in medicina', promosso dall’Associazione medici cattolici italiani, sezione di Bologna insieme a 'Medicina e persona' e alla 'Confraternita della Misericordia.
Nella prima parte del suo intervento l’arcivescovo ha sintetizzato il concetto di dignitdella persona, ovveroil modo di essere proprio della persona in quanto dotato di una posizione eminente nei gradi dell’essere: essere qualcunopiche essere qualcosa.
Ma non solo.
Dignitindica anche esigenza di essere riconosciuta nella sua eccellenza e superiorit. L’etica e il diritto sono le scienze di questo riconoscimento: di ciche esso implica e comporta.
Caffarra ha poi affrontato la questione delladignitnel morireche diventata nella cultura post-moderna un nonsenso. Nel sentire comune – ha osservato – moriresemplicemente cessare di vivere:crepare. Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale (suicidio puro e semplice) sia anticipata (suicidio assistito) . Una nobilitazione, ha aggiuntoinserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione - che oggidiventata necessaria - sulla fine della vita.
A questo proposito il cardinale ha sottolineato cheil prudente discernimento fra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte. Ma anche chenecessario distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura del- la persona ( idratazione, alimentazione, pulizia). Quest’ultima sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente, e spero anche giuridicamente, il profilo dell’omicidio. Nella parte conclusiva del suo intervento Caffarra ha ricordato le caratteristiche di una morte degna.Quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate. Di chi pugodere delle cosiddette 'cure palliative', destinate a rendere pisopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza. Quella di chiaccompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone . Al contrario una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico. O viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
Il nucleo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ha poi ricordato Luciano Eusebi, docente di diritto penale che ogni individuo conta non in funzione del giudizio sulle sue condizioni esistenziali ma in quanto esistente. Ecco perchl’inizio e la fine della vita chiamano in causa il principio di eguaglianza e hanno a che fare con la costruzione stessa della democrazia. Con la sentenza della Cassazione sul caso Englaro, ha aggiunto siaffermato che l’unico criterio che puguidare scelte delicate il riferimento formale al consenso. Addirittura giungendo alla legittimazione di una sottrazione che attiene a qualcosa che non ha nulla di terapeutico ma che rappresenta qualcosa di cui ogni individuo necessita per vivere: l’alimentazione e l’idratazione .Su questa materia – ha proseguito il docente – il diritto aveva fissato un punto di equilibrio: non riconoscendo ammissibili da una parte relazioni per la morte e dall’altra un oltranzismo terapeutico. Questo equilibrio, ha concluso Eusebi, sirotto.Ora un giudice puapplicare direttamente una lettura forzata di un principio costituzionale (l’articolo 32 non prevede in alcun modo che la relazione tra medico e paziente posa essere per la morte) trascurando il diritto vigente e bypassando il legislatore.
Avvenire 16-11-2008
USA/ Temi pro life e libertà della Chiesa, prime spine per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il presidente eletto Barack Obama si è rinchiuso nel suo ufficio a Chicago e si dice stia lavorando febbrilmente alla selezione del suo governo e della squadra per la Casa Bianca, ma non ci si aspetta nessuna nomina importante fino a dopo le vacanze del Giorno del Ringraziamento. Il risultato è che nessuno è sicuro su quale sarà “l’angolatura ideologica” iniziale dell’Amministrazione Obama. Durante la campagna Obama si è presentato come uno di centro-sinistra, aperto al dialogo con chi non è d’accordo con lui. Tra chi è in disaccordo, quelli che dimostrano di essere più preoccupati sono i gruppi che pensano che sosterrà con vigore il diritto all’aborto, il matrimonio omosessuale, la ricerca sulle cellule staminali embrionali e altri temi simili, specialmente nell’area dell’aiuto ai paesi terzi, la nomina dei giudici e le condizioni per gli aiuti federali.
Il problema non è che Obama personalmente sia un deciso sostenitore dell’agenda della “sinistra etica”, ma che ha bisogno del suo appoggio per realizzare le politiche a cui tiene. Dall’altra parte, non sembra che Obama abbia riflettuto molto su questi temi etici e si può sperare che arrivi a vedere il legame tra ciò che sta a cuore alla maggioranza e le argomentazioni che sono dietro la causa pro-life. Sarebbe interessante sapere, per esempio, se può capire gli effetti sulla politica della fede come allargamento della ragione, come Papa Benedetto ha spiegato nella Deus Caritas Est.
In ogni caso, i vescovi cattolici sembrano determinati ad intraprendere questa “educazione di Obama”. La Conferenza nazionale dei vescovi cattolici si è riunita a Washington subito dopo l’elezione (la loro riunione di novembre si tiene sempre nella capitale), e i vescovi hanno parlato in privato della nuova situazione. Nel loro messaggio al presidente eletto, i vescovi hanno promesso le loro preghiere per Obama, la sua famiglia e il suo governo e hanno assicurato la loro volontà di collaborare alla promozione della giustizia sociale, ma hanno insistito fortemente sul diritto alla vita come diritto fondamentale non negoziabile dal quale tutti gli altri conseguono. Nel loro messaggio al popolo alla fine della riunione, il Cardinale Francis George di Chicago, attuale presidente della Conferenza, ha ampliato questo punto, insistendo anche sulla necessità di rispettare la libertà della Chiesa di vivere e predicare i suoi insegnamenti.
La nuova Amministrazione e la gerarchia cattolica iniziano così le loro relazioni in una situazione di tensione. Il modo in cui Obama affronterà la situazione rivelerà quanto realmente speri di avviare un nuovo approccio politico nel paese. I vescovi, dal loro canto, dovranno capire bene come dimostrare la ragionevolezza della fede e porre le loro preoccupazioni all’interno della necessità di sostituire il pensiero utopico con la testimonianza della presenza di Cristo come la rivelazione più completa del destino al quale sono chiamati tutti gli esseri umani.
ISTRUZIONE/ Sui fondi riservati alle scuole paritarie il governo dimostra una grave debolezza culturale - Vincenzo Silvano - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Le scuole paritarie primarie e dell’infanzia hanno saputo solo in questi giorni che non potranno disporre dell’anticipo dei contributi spettanti per l’anno scolastico 2008/2009, già stanziati dal Bilancio 2008 e già assegnati dal Ministero dell’Istruzione. Interpellate, le Direzioni scolastiche regionali, che devono provvedere a erogare le somme ai destinatari, hanno comunicato che le casse sono vuote. E’ del tutto inusuale che fondi già stanziati vengano bloccati brutalmente. Si tratta di soldi che servono alle scuole per vivere ogni giorno, soldi di prima necessità. Non si riusciranno a pagare le tredicesime agli insegnanti. La ragione è che il ministero delle Finanze ha bloccato i fondi, almeno finché non sia terminata la sessione di Bilancio.
Poiché la sessione di Bilancio è cominciata da quando è stata approvata formalmente la Legge finanziaria da parte del Consiglio dei Ministri, ci si chiede perché il ministro dell’Istruzione e il suo apparato non si siano accorti da subito dello scippo o, peggio, abbiano finto di non vederlo o, peggio ancora, abbiano, per disattenzione e sciatteria, trascurato “il particolare”.
Su questo è dunque lecito porre alcune domande:
1. Il programma di governo del centrodestra non aveva, tra i suoi punti cardine, la libertà educativa? Le promesse elettorali sono dunque carta straccia?
2. Il Governo non si era impegnato a provvedere all’introduzione di una effettiva libertà di scelta da parte delle famiglie, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno presentato il 9 ottobre proprio su questo tema?
3. Il sottosegretario all’Economia Giuseppe Vegas non ha forse garantito ufficialmente che «i finanziamenti pubblici per le scuole paritarie verranno assicurati dell'ammontare necessario a garantirne il funzionamento a pieno regime?»
4. Non si era detto (ilsussidiario.net, 11 novembre 2008) che sarebbe stato discusso e votato un altro ordine del giorno che, oltre a chiedere i fondi per gli istituti di istruzione non statali, avrebbe posto anche la questione della piena e totale parità scolastica da raggiungere entro la fine della legislatura?
5. Non preoccupa nessuno il fatto che possano chiudere le scuole paritarie, con conseguente trasferimento di tutti gli alunni alle statali, dove il costo è dieci volte superiore?
Quale che sia la risposta a queste domande, emerge con tutta evidenza un dato culturale e perciò politico di prima grandezza: che i temi dell’istruzione e dell’educazione non sono al primo posto nell’agenda del governo. Mentre si buttano milioni di euro in improbabili salvataggi di carrozzoni clientelari, quali l’Alitalia, in nome della lisa retorica della compagnia di bandiera nazionale, non si provvede alle necessità essenziali della Nazione. L’educazione è l’ossigeno del paese, è il respiro delle giovani generazioni. Non è un optional. Possiamo stringere la cinghia su tutto, risparmiare, razionalizzare, ma non morire.
Resta da constatare malinconicamente il divario tra le promesse e la realtà effettuale. Non è la prima volta. Le promesse, si sa, generano consenso, quanto più sono rutilanti e multicolori. Ma quando i fuochi d’artificio si spengono nel buio, anche il consenso ne condivide il destino.
MONACHESIMO/ Lavoro manuale, cultura e fraternità: così pochi uomini hanno creato un'intera civiltà - INT. Giorgio Picasso - mercoledì 19 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Più lo si legge e più il discorso di Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini di Parigi, lo scorso 12 settembre, rivela aspetti nuovi e possibilità di ulteriori approfondimenti. Il Sussidiario ha chiesto a Giorgio Picasso, già docente di Storia Medievale all'Università Cattolica di Milano e grande studioso del mondo benedettino, di approrfondire alcuni passaggi. Il Papa ha citato il monachesimo occidentale come il luogo in cui veniva formandosi una nuova civiltà, mentre l'Europa viveva gli sconvolgimenti delle migrazioni germaniche e dei nuovi ordinamenti statali. Egli però ha sottolineato che i monaci non si preoccuparono innanzitutto di “creare” una cultura ma, nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: “impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. Ci può aiutare a capire come questo impegno si è realizzato e come abbia potuto avere conseguenze materiali tanto fondamentali per la nascita dell'occidente medievale.
Il papa ha detto: «Vorrei parlare delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Che ruolo il monachesimo ha svolto nell’origine della teologia occidentale, nella nascita della cultura europea? Il Papa accenna molto bene al problema della dissoluzione del mondo antico. Il mondo antico aveva una cultura elevatissima nel campo letterario (basta ricordare Virgilio tra i latini). Però nel declino dell’impero anche questa scuola è andata in briciole; con l’impero si è sfaldata anche questa cultura, che non era di per sé negativa, era un patrimonio che bisognava salvare, ma che le istituzioni del mondo classico, compresa la scuola, non erano più in grado di sostenere. Ora, il monachesimo, che in san Benedetto ha un modello, che cosa ha fatto? Ha capito che c’erano dei valori in quella cultura, ma che bisognava riviverli. Ecco perché anche dom Leclercq nel suo volume citato dal Santo Padre in quell’occasione - Cultura umanistica e desiderio di Dio - dice che i monaci hanno evangelizzato l’Europa con la grammatica e il Vangelo. Perché la grammatica? Perché l’impianto letterario doveva venire dalla cultura classica, spogliata però di quel contesto, di quelle istituzioni che non avevano più l’antica validità, per essere invece inserito nel Vangelo.
Nella confusione di quei tempi, in cui niente sembrava resistere, i monaci avevano una preoccupazione che non era quella di salvare la cultura classica, bensì la ricerca di Dio, che si ricerca soprattutto nella Parola, nella Bibbia, nel Vangelo. Ora, per accedere a questa conoscenza era necessario conoscere la grammatica, le strutture retoriche necessarie per carpire quello che Dio aveva detto. Quindi l’oggetto non è più il contenuto della cultura classica ma il suo metodo: la grammatica, applicata al Vangelo. Ecco quindi che i monaci, pur avendo scelto come scopo della vita la ricerca di Dio - quaerere Deum (hanno lasciato la famiglia, il mondo per cercare Dio, non per cercare la cultura) - si sono accorti che per arrivare a Dio era utile usare quello strumento. Quindi il patrimonio filosofico, letterario, filologico del mondo antico fu salvato dal monachesimo, che lo ha rivissuto e riproposto alle genti che venivano da un mondo senza cultura.
La cultura classica non era in grado di mantenere la vivacità che aveva ai tempi dell’impero romano. D’altra parte le popolazioni germaniche, che non erano del tutto aliene da una certa cultura (i Goti si erano fatti tradurre la Bibbia nella loro lingua), certamente non erano in grado di riprendere in mano questa tradizione nel suo complesso. Allora il monachesimo salva questi valori e li ripropone con un contenuto cristiano. Sono celebri le opere di questi autori medievali, monaci, che nel monastero hanno imparato che cos’era la storia, hanno imparato a conoscere i generi letterari, hanno imparato una forma di canto, eccetera.
Ora, questi valori sono alla base della civiltà e della civiltà europea. Senza queste basi – il cui riconoscimento a volte rimane un po’ opaco nella cultura contemporanea - non avremmo potuto avere lo sviluppo della civiltà occidentale; essa ha sì contenuto cristiano, però le sue forme espressive sono quelle della cultura classica, applicate al Vangelo. Forme poi sviluppate in termini e concetti che hanno salvato quella stessa cultura, la quale ha rappresentato poi la base della cultura medievale. Ciò ha evidentemente avuto conseguenze notevoli, perché senza cultura non c’è una civiltà.
In un altro passo del suo discorso, Benedetto XVI ha posto l'accento sul lavoro dei monaci. In particolare, ha precisato come il lavoro manuale fosse considerato un aspetto costitutivo della somiglianza degli uomini con Dio, seguendo l'esempio di Cristo: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero». Questa concezione (che costituisce una novità rispetto alla mentalità greco-romana) di un Dio che lavora, disposto cioè a «sporcarsi le mani con la creazione della materia», ha influito enormemente sull'esperienza monastica. Senza questa cultura del lavoro - dice il Papa – «lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili». In pratica, come si è sviluppato nell'esperienza monastica questo ideale del lavoro? Come gli uomini dei primi secoli del medioevo ne sono stati influenzati?
Dobbiamo ripensare che cos’era il lavoro nel mondo antico. È sempre questo paragone che ci aiuta a capire quello che viene dopo. Ora, nel mondo antico il lavoro era considerato come qualche cosa di negativo, di meno dignitoso, era riservato agli schiavi. Per noi la parola “ozio” è certamente negativa, ma in origine, per il mondo classico, era positiva. Il negativo era il “neg-ozio”, la negazione dell’ozio. Quindi il lavoro di carattere manuale era demandato agli schiavi; agli intellettuali, ai colti era riservata la contemplazione, il riflettere. Il monachesimo si è trovato di fronte a questa concezione e ha dovuto reagire. San Benedetto, con tutti i monaci, ha reagito - nella sua regola - elevando il concetto di lavoro.
In un primo tempo il lavoro era concepito come uno strumento, un mezzo per rimanere più in intimità con Dio. Si dice che i monaci lavorassero con le mani e che poi disfacessero quello che avevano fatto: sono leggende, questo non accadde mai. Ma è vero che a poco a poco, soprattutto attraverso la regola di san Benedetto, si capì che il lavoro aveva un valore positivo: certe ore erano dedicate alla preghiera, certe al lavoro manuale. «I monaci sono veramente tali quando vivono con il lavoro delle loro mani, come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli»: è chiarissima l’affermazione di san Benedetto.
Nel suo discorso Benedetto XVI si riferisce in modo particolare al concetto di lavoro che Gesù esprime nel Vangelo: «Il Padre mio opera». Certamente, anche la Creazione è un concetto che implica, come dice bene il Papa, un Dio che viene a lavorare, che quasi si sporca le mani per modellare la sua creatura, che poi diventa sua veramente quando vi ispira il principio spirituale dell’anima. Nelle regole monastiche questo viene espresso con l’idea che tutti devono lavorare, che il lavoro non è riservato solo ad alcuni. Certo, poi c’erano compiti diversi, però nella tradizione monastica il lavoro, come d’altra parte accade ancora oggi nei grandi monasteri, faceva parte dell’impegno di tutti i monaci. Il lavoro della terra, il prosciugare paludi forse è stato un po’ esagerato da una visione romantica del monachesimo, però di fatto, quando era necessario lavorare nei campi, lo si faceva, e andavano tutti i monaci.
San Bernardo - per citare questo grande monaco al quale è intitolato il Collegio dei Bernardini di Parigi - dice che lui ha imparato di più sotto le querce d’estate, nel pieno del solleone, che non sui libri. Cosa vuol dire? Che il lavoro viene nobilitato a strumento utile per la propria elevazione, per la contemplazione di Dio. Questo è molto importante per la costruzione dell’Europa, perché qui, e non prima, troviamo un concetto molto positivo del lavoro; un concetto che, se vogliamo, è anche teologico. Se apriamo la Bibbia, vediamo che Dio ha lavorato sei giorni e il settimo si è riposato. È molto chiaro: ha lavorato sei giorni. Che cosa ha fatto in questi sei giorni? Secondo il racconto biblico ha separato le acque dalla terra, ha creato gli astri, ha creato gli animali, le piante, ha creato l’uomo e ha visto che tutto era cosa buona. E poi il settimo giorno – il sabato - si è riposato. Ha lavorato, la creazione è un lavoro. I monaci che leggevano la Bibbia, che imparavano a vivere del lavoro delle loro mani seguendo questo esempio, evidentemente non potevano non averne che un concetto molto, molto positivo. Che poi ha avuto enormi sviluppi nella cultura moderna e contemporanea. Chi ha inserito il lavoro su questi binari di civiltà sono stati per primi i monaci. Per essi il lavoro non era qualcosa da evitare, ma come da ricercare per maturare, per realizzare veramente se stessi.
Nella regola di san Benedetto ci sono anche altri criteri, altri aspetti del lavoro manuale che vengono sottolineati. Per esempio si dice che il lavoro deve essere “redditizio” e non soltanto per occupare qualche ora. Un lavoro i cui prodotti si possono anche vendere, però – la regola prescrive – ad un prezzo minore di quello con cui sono sul mercato; ma non minore fino al punto di fare concorrenza!
Oltre al lavoro manuale, i monaci hanno fatto anche – come ha ricordato il Papa citando sempre Leclerq - un grande lavoro culturale. Quali erano le caratteristiche di questo lavoro?
Nel discorso parigino si vede proprio la vera cultura di Benedetto XVI. Egli ha una propria visione del monachesimo e cita il libro più classico che la cultura moderna ha prodotto sulla civiltà monastica medievale. Il titolo in italiano è stato tradotto Cultura umanistica e desiderio di Dio che dice sì la sostanza, ma non è bello come l’originale francese: L’amour des lettres (i monaci amano le lettere, gli autori classici, Virgilio) et le desirè de Dieu (perché sono animati dal desiderio di Dio). L’amore delle lettere ed il desiderio di Dio: questa è l’essenza della cultura benedettina e il Papa l’ha assimilata certamente nella sua Baviera, dove ci sono tanti celebri monasteri benedettini che ha imparato a conoscere e ha frequentato. Qui rivela proprio la sua sensibilità monastica: attraverso lo studio e la cultura ha apprezzato altamente il monachesimo medievale. Come, tra l’altro, è successo anche a molti laici, penso per esempio a Giorgio Falco, ebreo, il cui capitolo più bello della sua Santa Romana Repubblica è proprio quello dedicato al monachesimo occidentale. Non sorprende, quindi, il continuo ritorno al testo di Leclercq nel discorso del Papa. Continua a riproporlo e a rivelarne i contenuti. E la sintesi del messaggio di Leclercq è proprio questa: i monaci hanno amato le lettere in funzione di Dio.
I monaci oltre al lavoro manuale hanno fatto anche un grande lavoro culturale? Certamente, ma il lavoro del monaco che copiava un codice - opera di grande valore culturale - era considerato alla stregua di quello del monaco che cucinava o che andava a raccogliere la frutta e la verdura. Nella regola di san Benedetto hanno lo stesso valore. «In monastero siamo tutti uguali – afferma san Benedetto – liberi e servi, goti e latini, perché serviamo all’unico Signore». Sempre san Benedetto, al monaco goto che aveva perduto il falcetto di lavoro, dopo averlo miracolosamente recuperato dal lago, dice: «Ecco, lavora, e non rattristarti!». Ecce labora: i monaci hanno fatto un grande lavoro culturale, ma un lavoro che rientra nel grande disegno di continuare la creazione di Dio. Davanti a Dio, secondo la regola, tutti i lavori – materiali e non – sono egualmente meritori.
Le caratteristiche di questo lavoro – dentro le più diverse circostanze - erano proprio l’uguaglianza di tutti, la necessità di vivere con il lavoro delle proprie mani, la ricerca di Dio. Il monaco è anche e innanzitutto un testimone di fede. Il fatto stesso che ci fosse un monastero era una testimonianza che nel medioevo diventava anche una predicazione. La popolazione delle campagne, vedendo un monastero dove si viveva «in un altro mondo», con altri valori, si trovava davanti ad una specie di predicazione. La chiamavano – può far sorridere – «predicazione muta». Si diceva che i monaci, anche se non parlavano, predicavano, perché offrivano l’esempio di una vita pacificata, in pace con Dio, di fronte a momenti di turbamenti, di guerre, di contrasti, di cui pure il medioevo fu pieno. Il monastero era una visione di pace. In tanti di essi, all’ingresso, c’era scritta – e c’è scritto ancora oggi - la parola pax: un luogo di silenzio, in cui l’uomo si trova riconciliato con Dio. Non una teoria quindi, ma una prassi.
(Intervista raccolta da Andrea Beneggi)
Rivelazioni sull'“Operazione carte false” per salvare gli ebrei - Memorie di Mirjam Viterbi Ben Orin nell'Italia del nazifascismo
ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Le azioni eroiche compiute da un Vescovo cattolico per salvare una bambina ebrea e la sua famiglia perseguitate dalle leggi razziali nazifasciste rivive ora attraverso il racconto che ne fa “L'Osservatore Romano”.
“Ricordo la grande semplicità e la purezza del suo sguardo, quel qualcosa di immediatamente buono e ingenuo che sembrava sprigionarsi, insieme a una grande forza, da ogni suo gesto, da ogni parola. Nell'ombra e nel silenzio delle grandi stanze, la figura del Vescovo era rassicurante — come qualcosa a cui ci si poteva appoggiare”.
Il presule di cui si parla è monsignor Giuseppe Placido Nicolini e chi ricorda la sua figura a più di sessant'anni dall'incontro è Mirjam Viterbi Ben Horin. Era il 1943 e lei era una bambina che, con i suoi genitori e la sorella, poté liberarsi dalla persecuzione nazifascista ad Assisi grazie all'organizzazione di sostegno agli ebrei avviata propria dal Vescovo con l'aiuto di due sacerdoti in particolare: don Aldo Brunacci e padre Rufino Nicacci.
I tre protagonisti di quei fatti sono stati riconosciuti “Giusti tra le Nazioni” dal Museo dell'Olocausto di Gerusalemme Yad Vashem, ma questo documento rappresenta un'ulteriore tessera per la ricostruzione della verità storica di quei tragici anni.
Ogni racconto rivela qualcosa di inedito – non fosse altro per il punto di vista del narratore – accanto alla gratitudine per quell'aiuto disinteressato, e non esente da rischi. E' stata proprio la riconoscenza a spingere Mirjam Viterbi Ben Horin a rendere pubblici i suoi ricordi, filtrati dal suo sguardo di bambina.
Mirjam Viterbi Ben Horin ha scritto il libro "Con gli occhi di allora" (Morcelliana, 2008), in cui racconta la sua storia di bambina ebrea che, dopo le leggi razziali del 1938, fu costretta ad abbandonare la casa di Padova e a rifugiarsi con la famiglia ad Assisi, tra il 1943 e il 1944.
Lì scoprì l'esistenza di uomini e donne che non rinunciarono alla propria umanità e non si sottrassero al dovere del bene, pur consapevoli che ciò avrebbe potuto costare loro la vita.
“Lo scrivere queste pagine – scrive l'autrice – è anche il mio modo, oggi, per dire grazie a tutti coloro che mi hanno fatto sentire che la vita anche nei momenti più oscuri può essere bella, se qualcuno ti è vicino, ti tende una mano o semplicemente, anche con il suo stesso silenzio, è insieme a te: se qualcuno con la sua presenza rompe il guscio della tua solitudine e della paura”.
La figura centrale del racconto è quella del Vescovo. “La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci avevano seguito da Padova e che, se scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità”, ricorda Mirjam.
“Monsignor Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del Palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con una candela”.
L'obiettivo successivo era quello di ottenere “carte false”, una cosa “essenziale per il nostro futuro, e di cui si sarebbe occupato più direttamente don Aldo”.
Il problema principale per gli ebrei era infatti rappresentato dai documenti. Bisognava procurarsene di falsi e in genere si usavano nomi di persone residenti in zone dell'Italia meridionale già liberate, dove era più difficile effettuare controlli. Per questo, su indicazione del Vescovo, venne avvicinato un tipografo dichiaratamente comunista, Luigi Brizi, che acconsentì coinvolgendo anche il figlio Trento, malgrado i rischi di una tale attività.
Don Brunacci raccontò più volte come era nata quell'organizzazione. Il terzo giovedì del settembre 1943, dopo la consueta riunione mensile del clero nel seminario diocesano, il Vescovo lo chiamò in disparte e gli mostrò una lettera della Segreteria di Stato dicendogli: “Dobbiamo organizzarci per prestare aiuto ai perseguitati e soprattutto agli ebrei, questo è il volere del Santo Padre Pio XII. Il tutto va fatto con la massima riservatezza e prudenza. Nessuno, neppure tra i sacerdoti, deve sapere la cosa”.
Seguendo le sue direttive, il Vescovo cercò di coordinare gli sforzi e soprattutto di trasmettere un esempio ai fedeli. “Non si trattava soltanto di organizzare burocraticamente la ricerca dei dispersi e l'assistenza ai prigionieri”, ha affermato di recente il Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone.
Da questa indicazione generale e dalla direttiva di monsignor Nicolini nacque ad Assisi il Comitato assistenza agli sfollati, un nome di copertura per un'attività che comportava un alto rischio. Il convento delle clarisse di San Quirico divenne il quartier generale dell'organizzazione. Qui, come nelle foresterie delle collettine, delle stimmatine, delle suore cappuccine tedesche e delle benedettine di Sant'Apollinare, i perseguitati venivano ospitati fino a quando si riusciva a trovare per loro nuove carte di identità, grazie alle quali ottenevano le tessere annonarie e potevano vivere in albergo o in appartamenti privati.
Bruno Angeli, un altro ebrei fuggito con la famiglia, “fu il primo a parlarci di un'organizzazione che aiutava in modo straordinario tutti gli ebrei arrivati ad Assisi – racconta Mirjam — fornendo anche documenti di riconoscimento con generalità false, cioè 'ariane'”.
“A tutti i conventi, compresi quelli di clausura, era stato impartito l'ordine di aprire le loro porte ai perseguitati per ospitarli. E la nostra identità religiosa, aggiunse, veniva rispettata a tal punto che pochi giorni prima, al termine del digiuno di Kippur, le clarisse del Monastero di San Quirico avevano preparato una grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza”.
Padre Vincenzo, del convento di San Damiano, avvicinò la famiglia Viterbi e le disse: “Se avete un amico ebreo, ditegli di venire nel nostro convento e indossare la tonaca dei frati”. I Viterbi sapevano già di cosa si trattava, perché era una direttiva del padre guardiano, Nicacci.
Mirjam e i suoi familiari non si rifugiarono in convento, ma in abitazioni private, sempre pronti a partire immediatamente.
“In quel periodo controllavo sempre più attentamente la mia piccola valigia, sempre pronta in un angolo, specie quando la sera udivo un camion fermarsi sotto casa o il rumore di stivali sul selciato. Sapevo che era accaduto e che poteva accadere anche a noi. Non mi sentivo in colpa di essere viva; no; ma... fino a quando? Con quelle valigie allineate, io credo di aver cominciato a capire allora, forse senza rendermene pienamente conto, che nella vita bisogna sempre essere pronti a partire. Non si sa per dove. Non si sa perché”.
A un certo punto le cose parvero precipitare. I nazifascisti intensificarono i controlli.
Ancora una volta, nel racconto di Mirjam emerge la figura di monsignor Nicolini: “Mio padre andò a consigliarsi col Vescovo e a chiedergli se in caso di estrema necessità avesse potuto accoglierci in vescovado, già asilo di un incredibile numero di sfollati e di perseguitati. Monsignor Nicolini sorrise, con quella sua espressione buona: 'Sono rimaste libere solo la mia stanza da letto e lo studio' - disse con spontaneità - 'ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da letto è per voi'. Papà, di fronte a quell'offerta tanto generosa, non si sentì ovviamente di accettare”.
L'attività di aiuto agli ebrei non passò del tutto inosservata. Don Brunacci venne arrestato dalla polizia fascista che lo aveva aspettato sotto casa. Fu portato a Perugia, dal prefetto Rocchi, e rilasciato una decina di giorni dopo, purché abbandonasse Assisi per la Città del Vaticano. Quella notizia gettò nello sconforto gli ebrei rifugiati in città, ma fortunatamente non accadde nulla. Fino a che giunsero i liberatori, la mattina del 17 giugno 1944.
Più di trecento si salvarono dalla deportazione grazie al Vescovo, ai due sacerdoti e alle persone che sostenevano in vario modo l'organizzazione.
Dopo la guerra, Mirjam e la sua famiglia provarono a tornare a Padova. “La nostra casa era stata incendiata – sottolinea – e a mio padre non rimase altra possibilità che alienarla, con un acuto senso di lacerazione. Venne reintegrato all'università e all'accademia patavina, ma non si sentì più di ritornare a vivere a Padova, pur rimanendone affettivamente molto legato. Riprese il suo insegnamento all'università di Perugia. Nell'incertezza di dove stabilirsi, si rimase ad Assisi per 7 anni. Nel '50 ci si trasferì a Roma”.
Fu proprio il padre di Mirjam, Emilio Viterbi, a esprimere pubblicamente, come riportano altri documenti, la gratitudine dei salvati: “Noi ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che annientò sei milioni di ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato toccato”.
Nella città di Francesco, scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, “il Pax et Bonum divenne presto per me il saluto più spontaneo, non sapendo minimamente, allora, che era proprio come il dire shalom in ebraico”. In quel modo “si compì un miracolo d'amore”.
Un miracolo che aveva i volti di monsignor Nicolini e dei sacerdoti suoi collaboratori. Volti che gli occhi di quella bambina non hanno dimenticato.
Cardinale brasiliano: occorre far emergere le ragioni del credere - L'Arcivescovo di Salvador invita ad approfondire il messaggio cristiano
SALVADOR, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Geraldo Majella Agnelo invita i fedeli a far “emergere le ragioni del credere”, perché “la fede non è cieco fideismo”.
“Cristo è il nostro Dio e il nostro Salvatore, ma come non essere tentati dal dubbio, se perfino un apostolo ha creduto solo dopo aver toccato con mano? La ragione è messa a dura prova”, afferma l'Arcivescovo di Salvador (Brasile) in un articolo inviato a ZENIT.
Ad ogni modo, ha affermato il porporato, quando “si approfondisce il messaggio cristiano, con docilità allo Spirito di Dio, emergono anche le 'ragioni' della nostra fede, come un segno che il Signore ha posto sul nostro cammino di incontro con lui”.
Questi segni “sono le parole luminose di Gesù”, “i suoi miracoli”, “l'autorità con cui Gesù parla di Dio Padre, mostrando di conoscere il suo cuore, come uno che abita in lui da sempre”.
“Il segno è la libertà con cui Gesù manifesta le esigenze di Dio”, “è la sua resurrezione, attestata dai discepoli e sottoscritta con il suo martirio”, ha aggiunto.
Secondo l'Arcivescovo di Salvador, a questi segni della vita storica di Gesù si uniscono “quelli disseminati in duemila anni di cristianesimo” dalla testimonianza dei santi, che “sono il suo 'riflesso' vivo nella storia”.
“I segni continuano nella logica dell'amore. Dobbiamo far emergere le ragioni del credere: la fede non è cieco fideismo. E' tuttavia importante sapere che i segni del mistero non sono formule matematiche”.
“Sono azione di grazia illuminante, si collocano al livello di una relazione d'amore, dove le ragioni per scegliere e per affidarsi sono non un calcolo razionale, ma il confluire tra cose sperimentali e la fiducia che cresce sull'onda dell'amore”, ha sottolineato.
Per questo, ha spiegato, l'incontro con Gesù avviene sempre sulla base dell'annuncio dei discepoli.
“Un annuncio che si fa proposta di comunione, dilatazione di amicizia: chi ha Gesù per amico lo presenta agli altri, perché anche loro entrino in quel meraviglioso vortice che conduce, in definitiva, alla comunione delle tre Persone divine”.
Il Cardinale ha affermato che il grande annuncio oggi “si darà con la testimonianza cristiana dell'amore vissuto dai seguaci del Maestro, nostro redentore”.
Ciò avverrà “attraverso il perdono, la misericordia, la difesa della vita e della dignità della persona umana, la verità e la giustizia, la fraternità, la solidarietà e la costruzione della pace”.
I Vescovi congolesi denunciano il “genocidio silenzioso” - Gli scontri provocano ogni mese 45.000 morti
KINSHASA, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- I Vescovi della Repubblica Democratica del Congo hanno denunciato il “genocidio silenzioso” che il loro Paese subisce sotto gli occhi di tutto il mondo.
In un drammatico documento intitolato “La Repubblica Democratica del Congo piange i suoi figli e non vuole consolarsi”, la Commissione Permanente dell'episcopato compie un'analisi delle cause della guerra, dovuta soprattutto alla lotta per entrare in possesso delle enormi ricchezze naturali del Paese.
Dalla fine di agosto, i combattimenti hanno provocato una situazione umanitaria catastrofica con più di 250.000 sfollati, la maggior parte dei quali senza possibilità di ricevere assistenza da parte delle organizzazioni umanitarie a causa dell'insicurezza diffusa.
Gli scontri vedono affrontarsi l'Esercito della Repubblica contro l'insorto Laurent Nkunda, ex generale che ha creato un movimento ribelle che, secondo quanto afferma, cerca di difendere i tutsi dalle milizie hutu fuggite in Congo dopo il genocidio in Ruanda nel 1994, che ha provocato più di 500.000 morti, soprattutto tutsi.
In un rapporto divulgato all'inizio di quest'anno a Kinshasa, l'organizzazione umanitaria “International Rescue Committee”segnala che i conflitti e le crisi che la Repubblica Democratica del Congo ha subito dal 1998 hanno causato 5,4 milioni di morti e continuano a provocare una media di 45.000 decessi al mese.
“Viviamo un autentico dramma umanitario che, come un genocidio silenzioso, si sta verificando sotto gli occhi di tutti. I massacri su ampia scala della popolazione civile, lo sterminio selettivo dei giovani, gli stupri sistematici perpetrati come arma di guerra si sono scatenati di nuovo con una crudeltà e una violenza impensabili contro la popolazione locale che non vuole altro che una vita più tranquilla e degna nella sua terra”.
Per questo motivo, i presuli pongono la stessa domanda degli analisti: “Chi è interessato a un dramma di questo tipo?”.
“E' evidente che le risorse naturali della Repubblica Democratica del Congo alimentano l'avidità di certe potenze e non sono estranee alla violenza contro la popolazione”, rispondono.
Tutti i conflitti, osservano i Vescovi, “si producono sulle rotte economiche e intorno ai giacimenti di minerali”.
“Come si può concepire che i vari accordi vengano violati senza alcuna pressione efficace per costringere i loro firmatari a rispettarli?”, proseguono.
“Le varie conferenze e riunioni per risolvere questa crisi non hanno ancora affrontato i temi di fondo e non hanno fatto altro che rimandare e defraudare le legittime aspirazioni di pace e giustizia del nostro popolo”.
In particolare, si denuncia “il piano di balcanizzazione”, vale a dire la divisione e la frammentazione del territorio, com'è accaduto nell'ex Yugoslavia.
“Si ha l'impressione di una grande cospirazione che rimane nascosta – segnalano –. La grandezza della Repubblica Democratica del Congo e le sue numerose ricchezze non devono servire come pretesto per farne una giungla”.
Per questo, i Vescovi chiedono “al popolo congolese di non cedere mai alle velleità di quanti vogliono la balcanizzazione del loro territorio nazionale”.
Raccomandano, quindi, di non firmare mai “una revisione delle frontiere stabilite a livello internazionale e riconosciute dalla Conferenza di Berlino e dagli accordi successivi”.
I presuli denunciano inoltre “tutti i crimini commessi contro cittadini pacifici”, così come “il distacco con cui la comunità internazionale tratta i problemi relativi all'aggressione di cui il nostro Paese è vittima”, chiedendo “alla comunità internazionale di impegnarsi sinceramente nel far rispettare il diritto internazionale”.
“Riteniamo imperiosa la necessità di inviare una forza di pacificazione e di stabilizzazione per ristabilire i diritti nel nostro Paese – concludono –. Tutto il mondo guadagnerà di più con un Congo in pace che con un Congo in guerra”.
Campagna di raccolta firme contro l'aborto come diritto umano - Organizzazioni pro-famiglia e pro-vita sostengono l'iniziativa
MADRID, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' stata avviata una campagna firme contro il progetto che mira a far dichiarare l'aborto come diritto umano da parte dell'ONU, per i 60 anni dalla creazione di questa organizzazione internazionale, secondo la proposta di una lobby abortista.
In base a quanto riferito a ZENIT da Elsa Yolanda Márquez Reyes, una delle promotrici dell'iniziativa, la raccolta è stata organizzata proprio “per evitare che l'ONU dichiari l'aborto un diritto umano: vogliamo essere la voce di quanti non hanno voce”.
I promotori dell'iniziativa, organizzazioni pro-famiglia e pro-vita, affermano che in occasione del prossimo 10 dicembre – quando si celebreranno i 60 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – la lobby abortista sta cercando di far passare l'aborto come diritto umano definendolo diritto alla vita (della madre).
Da tutto il mondo stanno giungendo firme per impedirlo. In inglese ce ne sono già più di 30.000. Tutte le firme verranno presentate nella sede delle Nazioni Unite proprio il 10 dicembre. Ci si attende che arrivino a più di 100.000.
La campagna è guidata da C-FAM, un'organizzazione fondata nel 1997 per influire sul dibattito sulle politiche sociali alle Nazioni Unite e in altre istituzioni internazionali.
Si tratta di un istituto universitario senza scopo di lucro, volto a ristabilire un'adeguata comprensione del diritto internazionale e a difendere la sovranità nazionale e la dignità della persona umana.
Il modulo da firmare, in varie lingue, ricorda che la Dichiarazione Universale è il raggiungimento di uno standard comune per tutte le persone e tutte le Nazioni, e indica la necessità di garantire un'appropriata considerazione di vari fattori: il diritto alla vita di ogni essere umano, dal suo concepimento alla morte naturale, avendo ogni bambino e ogni bambina il diritto di essere concepito, di nascere e di essere educato all'interno della sua famiglia, basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, essendo la famiglia l'entità naturale e fondamentale della società; il diritto di ogni bambino o bambina di essere educato dai propri genitori, che hanno la priorità, e il diritto fondamentale di scegliere il tipo di educazione da dare ai propri figli.
Per questo si sollecitano tutti i Governi a interpretare in modo adeguato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani visto che tutte le persone hanno il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale (art. 3); gli uomini e le donne di età matura, senza alcuna limitazione per razza, nazionalità o religione, hanno il diritto di contrarre matrimonio e a formare una famiglia (art. 16); la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto di essere difesa dalla società e dallo Stato (art. 16); la maternità e l'infanzia danno diritto ad assistenza e cure speciali (art. 25); i genitori hanno il diritto prioritario di scegliere il tipo di educazione da dare ai propri figli (art. 26).
[Per ulteriori informazioni: http://www.c-fam.org/publications/id.97/default.asp]
19/11/2008 13:18 – NA - Appello dei cattolici di Nanle contro le violenze e i sequestri dell’ex capo dell’Associazione di Wang Zhicheng - Prete e fedeli picchiati con bastoni e pietre. A causa di minacce di tipo “mafioso”, dal 15 agosto non ci sono messe, né catechismo. L’ex direttore dell’Ap si è impossessata di una proprietà della chiesa. I fedeli si appellano allo slogan di Hu Jintao (“costruire la società armoniosa”) per chiedere giustizia.
Pechino (AsiaNews) – I fedeli della parrocchia di Nanle hanno diffuso un appello in cui chiedono giustizia contro l’ex capo dell’Associazione Patriottica che spadroneggia sulla Chiesa locale, sequestrando terreni e case della parrocchia e malmenando parroco e fedeli. I cattolici l’accusano di andare contro il programma di Hu Jintao sulla “costruzione di una società armoniosa” e domandano l’intervento del governo. Nanle è una piccola cittadina di 650 mila abitanti, nell’Henan, quasi al confine con l’Hebei. La comunità cattolica ha circa 2 mila fedeli.
L’appello giunto ad AsiaNews in questi giorni, punta il dito contro Wang Shuqin, ex direttrice della locale Associazione patriottica che, grazie al suo potere e violenza, tiene in scacco tutta la comunità.
Lo scorso giugno, Wang Shuqin, aiutata da suo figlio, che viene definito “un mafioso”, ha prodotto un falso documento in cui appare che l’Associazione patriottica ha venduto a lei un terreno di 195 mq e una palazzina a due piani appartenente alla parrocchia. Grazie alle sue connessioni con l’Ufficio locale della gestione immobiliare, ha potuto anche trasferire tutta la proprietà a suo nome, poi l’ha subito venduta intascando i guadagni.
I fedeli affermano che Wang ha violato la legge e i regolamenti dell’Ufficio affari religiosi, secondo cui “nessun individuo o ente può vendere, noleggiare o ipotecare” una proprietà religiosa, perché “essa appartiene allo Stato ed è gestita dalla comunità religiosa”. Quando il sacerdote e i fedeli le hanno chiesto spiegazioni, la donna ha affermato di aver fatto costruire lei, coi suoi soldi, la palazzina.
La ex direttrice dell’Associazione patriottica ha fatto anche di più: ha minacciato prete e fedeli di violenze e dal 15 agosto non permette che si celebri alcuna messa in parrocchia per i 2 mila fedeli. L’ultima volta che il prete ha cercato di celebrare messa, lei è giunta con pietre e bastoni e ha cominciato a picchiare il prete ferendolo alla schiena, distruggendo anche l’altare. Anche i funzionari dell’Ufficio affari religiosi hanno paura di lei e del figlio.
Nell’appello i fedeli si giustificano: “Non è che siamo deboli; è il sacerdote che ci frena a compiere un gesto estremo e ci consiglia di aver fiducia nella legge”.
L’intrigante e potente signora – definita “selvaggia”, “scatenata”, “pazza” – è riuscita anche a bloccare un processo che la comunità ha intentato contro di lei. La corte si è radunata il 20 ottobre scorso alle 14.30, ma la donna, insieme al figlio hanno cominciato a picchiare il prete e i fedeli. Nemmeno le guardie hanno potuto fermarli. Durante i tafferugli il figlio è pure scappato e la gente si chiede “come è possibile che un delinquente possa sparire in un tribunale”.
Ora la gente vive nel terrore, data la fama di persona senza scrupoli che ha il figlio di Wang. Mentre la vita della comunità è bloccata – non c’è messa, né catechismo per i catecumeni – molti fedeli “perdono fiducia nella politica religiosa” del governo. Essi si appellano all’idea predicata dal presidente Hu Jintao, quella del “costruire una società armoniosa” e domandano al governo centrale di intervenire per ridare indietro la proprietà alla parrocchia e allontanare la signora Wang da Nanle.
Espropri e abusi sulle proprietà private sono divenute un fatto comune in Cina. Sono comuni anche episodi di violenze e soprusi da parte dell’Associazione patriottica e dell’Ufficio affari religiosi verso le diocesi. Nel 2005, a Xian 16 suore sono state picchiate a sangue per voler difendere la scuola di loro proprietà dalla demolizione; nello stesso periodo vi sono state violenze contro preti e suore a Tianjin. Molte volte i “controllori” della Chiesa intestano a proprio nome, le proprietà vendendole, trasformandole in alberghi e intascando i ricavati. Secondo i dati dell’Holy Spirit Study Centre di Hong Kong, i beni ingiustamente intascati dall’Ap e dall’Ufficio si aggirano sui 130 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).
19/11/2008 12:46 - PALESTINA –ISRAELE - Resta chiusa la frontiera di Gaza. A rischio anche gli aiuti umanitari - Dopo il parziale allentamento del blocco e l’ingresso di alcuni carichi di medicinali e generi alimentari, Israele torna a chiudere i valichi verso la Striscia. La comunità internazionale preme su Tel Aviv per evitare l’acuirsi della crisi umanitaria, ma continuano i lanci di razzi da parte di Hamas.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) - “I varchi restano chiusi per il continuo lancio di razzi verso Israele” La dichiarazione rilasciata il 18 novembre dal portavoce del ministero della difesa di Tel Aviv, Peter Lerner, conferma il blocco della Striscia. Sancito nel giugno 2007, l’isolamento di Gaza è proseguito sino ad oggi con concessioni provvisorie che hanno permesso l’accesso ai territori a fini umanitari. Nei giorni scorsi Israele aveva concesso l’ingresso ai carichi di aiuti e di combustibile, ma il perdurare dei lanci di qassam hanno spinto il ministro della difesa Ehud Barak a chiudere di nuovo le frontiere complicando così l’invio di aiuti.
Nel frattempo Tel Aviv ha annunciato il 19 novembre di voler sostituire il responsabile dell’esercito per la Striscia, Eyal Eisenberg, con Moshe Tamir cha ha già diretto le operazioni nella zona per due anni.
Due giorni fa, Israele ha consentito l’accesso di 33 camion con generi di prima necessità e medicinali. Le agenzie umanitarie lamentano la fine delle scorte nella Striscia e l’invio degli aiuti è considerato molto inferiore rispetto alle necessità della popolazione.
Dal 4 novembre, giorno della ripresa degli scontri aperti tra l’esercito israeliano e le forze di Hamas, era stato interdetto l’ingresso nella Striscia ai mezzi delle agenzie umanitarie. Solo domenica 16 alcuni convogli con gli aiuti hanno ripreso a transitare, tra questi i mezzi dell’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste circa 750mila rifugiati nell’area di Gaza.
La mancanza di elettricità nella Striscia è l’altro problema lamentato dagli abitanti e dalle organizzazioni umanitarie. La situazione non migliora nonostante Israele abbia aumentato i rifornimenti di carburante destinato alla principale centrale di Gaza che costringe a periodici blackout buona parte del milione e mezzo di palestinesi che vivono nei territori.
Il 18 novembre tank israeliani hanno oltrepassato il confine seguiti da jeep militari e bulldozer. L’incursione di 400 metri entro il territorio della striscia è stata accolta dal lancio di missili da parte delle forze di Hamas cui i mezzi israeliani non hanno risposto. I militari di Tel Aviv definiscono lo penetrazione sul limite orientale della città di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, come “un’operazione di routine per scoprire dispositivi esplosivi”. Gli scontri tra le due parti sono riprese nelle ultime due settimane, dopo cinque mesi di relativa pace a seguito della tregua siglata con Hamas il 19 giugno. Stando alle dichiarazioni dell’esercito di Tel Aviv, dalla riapertura delle ostilità sono stati uccisi 17 militanti palestinesi mentre su Israele sono stati lanciati più di 140 razzi e colpi di mortaio contro gli insediamenti posti al confine con la Striscia.
La comunità internazionale disapprova la scelta di Tel Aviv. Il segretario dell’Onu ha chiamato il primo ministro israeliano Ehud Olmert per scongiurare l’inasprimento delle condizioni in cui vivono gli abitanti della Striscia. Come riportato da un comunicato del Palazzo di vetro, Ban Ki Moon “ha fortemente sollecitato il primo ministro a facilitare una maggiore libertà di movimento degli aiuti umanitari urgenti e l’ingresso del personale Onu a Gaza”.
Gli analisti leggono l’attuale situazione come il tentativo di entrambe le parti di preparare il terreno per la ridiscussione della tregua che scade il prossimo mese. Sia Hamas sia Israele intendono giungere al tavolo dei negoziati in posizioni di forza che gli permettano di ottenere migliori condizioni nel rinnovo della tregua.
Da parte di Hamas si registrano posizioni contrastanti sugli scontri in corso. Il portavoce di Ihab al-Ghussein, in corsa per la carica di ministro degli interni, accusa Israele di aver sovvertito la tregua che considera ormai rotta. Di tutt’altro avviso Mahmoud Zahar, altro leader del movimento palestinese, che vuole mantenere l’accordo sino alla riapertura dei valichi per Gaza.
Anche in Israele il giudizio sulla situazione è controverso. Il Jerusalem post ha definito le dichiarazioni contrastanti dei leader politici come una “Babele”. Davanti alla nuova ondata di lanci di razzi Qassam, il quotidiano israeliano ha commentato le posizioni espresse scrivendo: “Non servono per confondere il nemico, sono piuttosto la triste indicazione del nostro grado di confusione. Niente è più scoraggiante per i cittadini d’Israele che vedere tale discordia quando il paese è sotto attacco”.
Limiti di una definizione nata sessant'anni fa esatto – senza ragioneLa salute e l'utopia della perfezione - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 19 Novembre 2008
Sessant'anni fa, nel 1948, veniva promulgata la Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che sanciva una nuova definizione del termine "salute": volendo garantire non solo il benessere fisico ma anche un miglioramento delle condizioni sociali di vita, il termine non veniva più limitato a indicare l'assenza di malattia. Esso aveva infatti l'ambizione di indicare altre possibili sorgenti di disagio. Questo importante passo fu definitivamente sancito, il 10 dicembre dello stesso anno, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che riconosceva la salute come un diritto fondamentale. Purtroppo, come segnalato da molti autori, la definizione di salute che ne scaturì finì col nascere zoppa e insoddisfacente: "La salute - vi si leggeva - è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale". Come è facilmente intuibile, la definizione rischia di scivolare nella pura utopia, dato che nessuno può vantare un simile livello di benessere, e rischia di far diventare malattia ogni stato di non completo benessere. Questo porta a una serie di pericolose conseguenze sotto i nostri occhi.
La prima è la creazione del cosiddetto "mercato delle malattie" che, stigmatizzato dalla comunità scientifica, altro non è che la corsa a una vera e propria creazione di "nuove malattie" per vendere nuovi farmaci ("PLos Medicine", maggio 2008). Infatti se la salute è tutto, tutto può essere malattia, basta indurre il soggetto a ritenere che una certa condizione lo è. Le strategie sono varie: dal far passare sui mezzi di comunicazione sociale come malattia una condizione fino ad allora considerata normale, al gonfiare la prevalenza di una malattia e incoraggiare l'autodiagnosi. La lista delle malattie inventate è lunga e la documentata strategia di mercato comprende ben congegnate campagne pubblicitarie con tanto di testimonial: Mayer Brezis denuncia sull'ultimo numero dell'"Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences" (ottobre 2008) una "massiccia campagna pubblicitaria mirata ai dottori e al pubblico sempre più sofisticata" per promuovere il suddetto mercato. Già me ne direste caldoParallela è la cosidetta "medicalizzazione del desiderio". Un esempio sono le mutilazioni o le alterazioni estreme del corpo fatte per scopi non medici e non accettabili esteticamente per la maggioranza delle persone - ad esempio la sezionatura della lingua, la marchiatura a fuoco o l'infissione di fil di ferro nella carne - di cui parla Thomas Schramme su "Bioethics" di gennaio 2008, sostenendo l'assenza di motivi etici per impedire questi interventi una volta che il soggetto abbia deciso che la sua salute ne trarrà vantaggio. Se tutto può diventare malattia, il medico può essere chiamato a soddisfare richieste che non solo non condivide, ma che sa essere potenzialmente dannose per la salute, come la richiesta del taglio cesareo in epoche e condizioni controindicate da parte di alcune gestanti (cfr. Minkoff in "Seminars in Perinatology" del 2006), o come il fornire farmaci anabolizzanti ad atleti pronti ad assumerli. Anche il suicidio assistito rientra in questa visione: se è il soggetto a decidere insindacabilmente ciò che è malattia, si può arrivare a sostenere che in certi casi addirittura la vita stessa può essere vista come una patologia secondo il parere personale, con la conseguente offerta di strutture e mezzi per mettervi fine. È quanto accade in Svizzera: uno studio del Fonds National Suisse de la Recherche Scientifique (4 novembre 2008) mostra che circa nel 30 per cento dei casi il suicidio assistito non è eseguito su persone affette da malattie letali, ma su soggetti non in fin di vita, come il ventiduenne inglese che, bloccato su una sedia a rotelle, non sopportava quell'esistenza di "seconda classe" ("Il Tempo", 18 ottobre 2008) e si è presentato in Svizzera per farla finita. I limiti della definizione di salute sono palesi se ci apriamo a un'altra realtà: quella del mondo della disabilità e della malattia in cui vediamo tanti malati che hanno performance sportive, artistiche e filosofiche di livello eccelso, o magari anche semplicemente una serenità stupefacente, che cozzano con una visione idealizzata e utopica della salute (soprattutto se messi a confronto con la fatica di vivere di molte persone ritenute, secondo la definizione suddetta, in buona salute). Idealizzare un utopico "completo benessere" inserisce invece un vulnus nelle loro aspettative e nei loro sforzi. Molti di loro saranno infatti indotti a pensare che, nonostante tutti i tentativi, non potranno mai raggiungere un buono stato di salute, avendo comunque una malattia o un'anomalia che li separa dalla "perfezione".
Dopo sessant'anni vale allora la pena rimettere mano a un termine che, sicuramente nato per un fine buono, ha finito per cadere in maglie anguste. Riscrivere il significato del termine salute è un impegno per coloro che operano nel campo della filosofia e della medicina - che non possono avere come orizzonte un mondo in cui la salute è un'utopia - e per gli Stati, che troppo spesso aprono cancelli a scorciatoie per terminare la vita. Alla cura, alla ricerca e all'integrazione sociale ed economica di chi è malato vengono invece aperte solo minuscole porte.
(©L'Osservatore Romano - 19 novembre 2008)
LA FEDE NEGATA - Restituito al patriarcato il Babel college, l’unica facoltà teologica del Paese requisita dai soldati Usa - «In Iraq non c’è posto per gli infedeli cristiani» - Il gruppo estremista di Ansar al-islam scrive a un vescovo: «Lasciate Baghdad e le altre province o sarà come a Mosul» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 19 novembre 2008
« N on c’è posto per i cristiani tra i musulmani in Iraq». Nuova, pesante minaccia dei terroristi fondamentalisti di al- Qaeda contro i cristiani iracheni, già provati da attentati, assassini e la conseguente emigrazione, violenze che hanno dissanguato la piccola comunità presente nel Paese tra il Tigri e l’Eufrate, un tempo il 3 per cento dell’intero popolo iracheno, oggi ridotta a meno della metà.
Ieri il quotidiano arabo Al- Ittihad ha pubblicato sul suo sito internet una lettera minatoria di Ansar al- Islam, un gruppo terroristico affiliato alla rete di Ossama Benladen. La missiva – ricevuta da un alto rappresentante della comunità cristiana presente in Iraq – ordina ai cristiani di lasciare il Paese minacciando pesanti ritorsioni sul modello di quanto avvenuto a Mosul dove – solo nell’ultimo mese – si sono verificati almeno 22 omicidi di cristiani e circa 2mila famiglie cristiane sono fuggite per evitare gli attacchi degli integralisti islamici.
Nella lettera minatoria – segnala l’agenzia Aina – il « Segretariato generale della Brigata islamica » afferma di « aver deciso di rivolgere l’avvertimento finale agli infedeli cristiani crociati » . Il documento intima « di lasciare, completamente e in maniera definitiva, Baghdad e le altre province » irachene e « raggiungere Papa Benedetto XVI e i suoi seguaci che hanno calpestato i simboli più grandi dell’umanità e dell’islam » . Ansar alIslam, inoltre, dichiara che « da oggi non c’è posto per voi, cristiani infedeli, tra i credenti musulmani in Iraq. Le nostre spade si rivolgeranno su di voi così come successo ai cristiani che vivevano in Mosul. Allah ce n’è testimone » .
Che il paragone venga fatto con Mosul non è un caso: tale città è diven- tata l’epicentro delle violenze anticristiane in questi ultimi tempi. Se qui nel 2003 ( prima dell’invasione americana e dello scoppio del terrorismo islamista) i cristiani erano 25 mila, oggi sono ridotti a 5mila. Solo nelle ultime 4 settimane si sono contati almeno 22 morti; le ultime, le due sorelle, Lamyaa Sabih e Walaa, cattoliche rito siriaco molto note nella zona – avevano lavorato per l’amministrazione statale locale –, uccise il 12 novembre nel quartiere residenziale di Alquahira, zona nord della città.
Quest’ultimo fatto di sangue ha gettato nello sconforto la comunità cristiana locale: negli ultimi tempi le insistenti segnalazioni delle autorità governative sul miglioramento delle condizioni di sicurezza avevano con- vinto 500 famiglie esuli a far ritorno a Mosul. Padre Bashar Warda, rettore del St. Peter’s Seminary di Erbil, ha dichiarato alla sezione inglese di Aiuto alla Chiesa che soffre che « molti pensano di lasciare di nuovo Mosul. Il governo sta cercando di dire che la città è di nuovo sicura, e poi succedono fatti come l’omicidio delle due sorelle cattoliche …» .
Intanto si registra una notizia positiva: dopo oltre un anno e mezzo, l’esercito degli Stati Uniti ha restituito alla Chiesa cattolica la sede del Babel College, l’unica Facoltà di Teologia cristiana esistente in Iraq, situata nel quartiere di Dora, a Baghdad, zona a maggioranza cristiana. Il College era stato trasformato in una base militare americana.
1) Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione - Intervento in occasione dell'Udienza del mercoledì
2) ELUANA/ Socci: la testimonianza delle suore che la accudiscono vale più di ogni discorso - INT. Antonio Socci - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) Eluana: lettera di un protagonista - Autore: Steccato, Gian Piero Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Libertà, 19 novembre 2008 - mercoledì 19 novembre 2008
4) Distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura della persona (idratazione e alimentazione) - Togliere cibo e acqua? C’è profilo di omicidio - Caffarra:omissione etica e, spero, anche giuridica - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 16 novembre 2008
5) USA/ Temi pro life e libertà della Chiesa, prime spine per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) ISTRUZIONE/ Sui fondi riservati alle scuole paritarie il governo dimostra una grave debolezza culturale - Vincenzo Silvano - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) MONACHESIMO/ Lavoro manuale, cultura e fraternità: così pochi uomini hanno creato un'intera civiltà - INT. Giorgio Picasso - mercoledì 19 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
8) Rivelazioni sull'“Operazione carte false” per salvare gli ebrei - Memorie di Mirjam Viterbi Ben Orin nell'Italia del nazifascismo
9) Cardinale brasiliano: occorre far emergere le ragioni del credere - L'Arcivescovo di Salvador invita ad approfondire il messaggio cristiano
10) I Vescovi congolesi denunciano il “genocidio silenzioso” - Gli scontri provocano ogni mese 45.000 morti
11) Campagna di raccolta firme contro l'aborto come diritto umano - Organizzazioni pro-famiglia e pro-vita sostengono l'iniziativa
12) 19/11/2008 13:18 – NA - Appello dei cattolici di Nanle contro le violenze e i sequestri dell’ex capo dell’Associazione di Wang Zhicheng - Prete e fedeli picchiati con bastoni e pietre. A causa di minacce di tipo “mafioso”, dal 15 agosto non ci sono messe, né catechismo. L’ex direttore dell’Ap si è impossessata di una proprietà della chiesa. I fedeli si appellano allo slogan di Hu Jintao (“costruire la società armoniosa”) per chiedere giustizia.
13) 19/11/2008 12:46 - PALESTINA –ISRAELE - Resta chiusa la frontiera di Gaza. A rischio anche gli aiuti umanitari - Dopo il parziale allentamento del blocco e l’ingresso di alcuni carichi di medicinali e generi alimentari, Israele torna a chiudere i valichi verso la Striscia. La comunità internazionale preme su Tel Aviv per evitare l’acuirsi della crisi umanitaria, ma continuano i lanci di razzi da parte di Hamas
14) Limiti di una definizione nata sessant'anni fa esatto – senza ragioneLa salute e l'utopia della perfezione - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 19 Novembre 2008
15) LA FEDE NEGATA - Restituito al patriarcato il Babel college, l’unica facoltà teologica del Paese requisita dai soldati Usa - «In Iraq non c’è posto per gli infedeli cristiani» - Il gruppo estremista di Ansar al-islam scrive a un vescovo: «Lasciate Baghdad e le altre province o sarà come a Mosul» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 19 novembre 2008
Benedetto XVI e la predicazione di San Paolo sulla giustificazione - Intervento in occasione dell'Udienza del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione sulla giustificazione.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come "spazzatura" di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil 3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il suo Signore.
Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21). Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui: il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).
È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: "Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno" (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che "tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge "Noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge" (Ibid 28). Lutero a questo punto tradusse: "giustificato per la sola fede". Ritornerò su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è questa "Legge" dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle "opere della Legge" che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola "BV µ@4 X>,FJ4<" (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che derminavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.
Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre osservanze. Perciò l’espressione "sola fide" di Lutero è vera, se non si oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).
Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l'amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c'è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.
Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo, trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.
ELUANA/ Socci: la testimonianza delle suore che la accudiscono vale più di ogni discorso - INT. Antonio Socci - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Non un’occasione di scontro ideologico, ma un fatto che fa emergere, nella sua essenzialità insondabile, tutto il «mistero che noi siamo»: questa, per il giornalista e scrittore Antonio Socci, è la vera portata di tutta la vicenda di Eluana Englaro. Una situazione resa ancor più grande e significativa dalla testimonianza silenziosa di chi da quattordici anni si occupa di una persona che, nonostante tutto, continua a vivere.
Socci, sul caso Eluana si sono fatte tante dispute, anche ideologiche. Ma c’è un fattore, in tutta questa vicenda, che supera le discussioni: la testimonianza delle suore di Lecco che la accudiscono. Che importanza ha secondo lei questo fattore?
Tutto il dibattito è stato in qualche modo falsato dal fatto di non essere stati per lungo tempo a conoscenza di questo aspetto. L’abbiamo scoperto solo qualche mese fa, quando le suore di Lecco con estrema discrezione sono uscite dal silenzio dopo quattordici anni, e, senza pretendere nulla, hanno semplicemente espresso il loro invito: «lasciate Eluana a noi». Inoltre, se ben ricordo, lo stesso padre, Beppino Englaro, chiese quattordici anni fa di poter portare Eluana in questa clinica, perché lì lei era nata; le suore inizialmente furono un po’ interdette dalla richiesta, perché non si occupavano di questo tipo di casi. Preso atto che si trattava fondamentalmente di accudirla e di nutrirla, la presero in casa loro come una loro figlia.
Possiamo dire che, in un momento in cui la Chiesa viene spessa dipinta come una realtà che giudica dall’alto, queste suore ci dimostrano che la situazione è un po’ diversa?
Certo: quando si parla del peso e dell’insostenibilità di situazioni di questo genere bisogna ricordarsi che la Chiesa non si limita a indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma quella stessa Chiesa, a immagine di Cristo, prende su di sé il peso e il dolore di queste situazioni. Qui abbiamo una famiglia che vive tutto il suo dramma e il suo dolore, ma che al tempo stesso non è sola in questa tragedia. Mi pare che sia una cosa eccezionale: al di là delle dispute filosofiche o accademiche, il vero miracolo, la cosa veramente grandiosa con cui tutti dovremmo fare i conti è che nel mondo c’è una presenza misericordiosa, fatta di persone in carne ed ossa, che con umiltà e semplicità, nel silenzio, senza che nessuno le gratifichi, si fanno carico dei nostri figli amandoli come padri e come madri. E questa presenza è la Chiesa. Nello sguardo di quelle persone c’è lo sguardo con cui Gesù guarda gli uomini, guarda noi, attribuendo a noi un valore assoluto, infinito, a prescindere dalle condizioni in cui siamo e dalle nostre capacità. Questo è il grande miracolo presente in tutta questa vicenda.
Qual è per lei la positività di un’esistenza come quella di Eluana?
C’è innanzitutto una questione oggettiva: quel bene che è la vita di Eluana è identico al bene della vita di ciascuno di noi. C’è un’oggettività posta dal fatto stesso che una persona esiste. Poi per natura, come esseri umani, tendiamo a vivere come un grande sacrificio le contraddizioni in cui viviamo, le sofferenze e le prove della vita: questo è parte della nostra fatica di vivere. La possibilità di intravedere e sperimentare la positività del sacrificio avviene in natura attraverso l’esperienza dell’amore, per cui una madre o un padre, anche solo avendo dei figli, accettano la fatica di alzarsi di notte e di fare cose che prima non immaginerebbero; ma più globalmente è l’Amore, quello con la “a” maiuscola, cioè la presenza di Cristo e della Chiesa, che per grazia dà uno sguardo e un cuore che permettono di vivere come vivono i santi, per i quali anche la contraddizione massima, come il martirio o la malattia, possono essere un dono. Qua però si entra in una dimensione vertiginosa, che ha a che fare con la grazia. La stessa grazia che trasforma l’acqua in vino.
Quindi, anche di fronte alla condizione di Beppino Englaro, possiamo dire che risulta in un certo modo comprensibile il fatto di essere sopraffatti da una tale situazione di dolore?
Io capisco benissimo la sofferenza delle persone che si trovano in questa prova. Se penso a me stesso, mi sento assolutamente inerme, e sarei debolissimo di fronte alla prova di sofferenze di questo genere. Umanamente è comprensibilissimo lo smarrimento, l’angoscia, il dolore, il senso di schiacciamento che si prova. E questa è la nostra comune esperienza umana di fronte al dolore, soprattutto quando si tratta di un figlio. Siamo annichiliti. Ma in tutto questo bisogna ritornare al punto iniziale: pensare al volto di quelle suore, le tenebre nostre sono rischiarate da un lampo che fa impressione e che commuove. Il fatto che esista un amore gratuito che trasforma il dolore in una tale grandezza umana fa quanto meno desiderare che questa cosa prenda anche noi.
Qual è l’interrogativo ultimo che pone a tutti noi una situazione come quella di Eluana?
Dal punto di vista del fatto in sé la vicenda di Eluana ci interroga sul mistero che noi siamo, soprattutto in merito al fatto che la medicina tuttora non sia capace di decifrare questa strana condizione in cui l’uomo può cadere. Proprio in questi giorni, tra l’altro, si è parlato dell’impossibilità di stabilire il fatto che una certa condizione, come il coma o lo stato vegetativo, sia permanente e irreversibile. Questo ci deve far riflettere seriamente sul mistero che siamo, sul fatto che veramente noi non siamo riconducibili alle nostre cellule cerebrali e alla nostra condizione biologica: c’è un livello della coscienza che sfugge alla dimensione chimica e biologica del nostro corpo.
Un’ultima domanda: qual è la mancanza, il difetto di una società che non accetta un’esistenza come quella di Eluana?
Il fatto che è una società pagana. Il documento diffuso da Comunione e Liberazione sul caso di Eluana dice proprio: «che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?». È la società pagana, la società che non ha conosciuto Cristo. E anche una società in cui non è abituale fare i conti con la condizione umana vera. Dopo la strage di Nassirya don Giussani disse che «ci vorrebbe un’educazione del popolo». Quello che è auspicabile è proprio il fatto di poter godere di un’educazione capace di farci capire che cosa vale e che cosa no, per cosa vale la pena vivere e cosa ha veramente valore. Questo è il punto di positività da cui ripartire.
Eluana: lettera di un protagonista - Autore: Steccato, Gian Piero Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Libertà, 19 novembre 2008 - mercoledì 19 novembre 2008
Gian Piero Steccato, “Capitan Uncino” ha scritto una lettera aperta sul “Caso Eluana” all’On. Eugenia Maria Roccella, sottosegretario di Stato al lavoro, alla salute e alle politiche sociali. Ecco il testo. Infine, commenta Steccato, ci sono riusciti: la Cassazione ha dato ragione al papà di Eluana che adesso può farla morire.
Ho 59 anni e sono affetto da Locked-in Syndrome. Sono rimasto molto colpito dalla decisione di sospendere la nutrizione a Eluana Englaro. Mi sono venuti i brividi quando ho ascoltato la motivazione di questa presa di posizione. Eluana, in salute, aveva ripetutamente detto che avrebbe voluto vivere la sua vita a pieno, altrimenti avrebbe preferito morire. Ma è facile esprimersi così, a vent’anni si è nel pieno delle proprie forze e si crede di essere invincibili. Anch’io quando ero in salute ho ripetuto più volte questa frase, ma quando mi sono trovato “in trappola” e non riuscivo a comunicare, avrei voluto gridare “Fatemi vivere!”. Questo per dire come possono cambiare le cose; quante volte ho sentito genitori dire: “Se mio figlio beve o si droga lo butto fuori casa!”. Per fortuna le cose non vanno così, ci sono milioni di genitori che fanno di tutto per aiutare i figli in queste situazioni e vivono ancora nelle loro famiglie. Quante madri, mogli, famiglie vivono quotidianamente con le disabilità dei loro cari con sacrificio e tanto rispetto e amore? Direi che queste prese di posizione che tendono all’eutanasia non portano rispetto alle “carcasse umane” prodotte dalle gravi disabilità che non possono dire la loro, e a coloro che si prodigano con progetti ed attività (vedi “Casa dei Risvegli”) ad aiutare i pazienti e le loro famiglie. Mi sento anche di affermare che la società odierna, pronta a scoprire la luna o l’impossibile, è la società del “bello”, del “superfluo” e non dell’utile e del rispetto. Dico questo anche in merito alla trasmissione “Porta a Porta” del 13 novembre dove ho sentito le sue parole, onorevole Roccella, ed ho apprezzato e condiviso i suoi messaggi, ma di nuovo rabbrividendo alle affermazioni in trasmissione. Mi sono reso conto che per Eluana non c’è via di scampo. Lei ha avuto la colpa di dire venti anni fa “a gamba sana” (e senza testimoni o scritti), “se non vivo a pieno lasciatemi morire …”. Non credo neanche che il “Testamento biologico” possa essere una soluzione ottimale: che valore avrebbe decidere “ora per allora”? Quando si apre un testamento, prima che venga beneficiato il patrimonio, si guardano mille cavilli e poi si fanno le divisioni, trattandosi di soldi o beni tramutabili in euro. La vita dell’uomo vale meno: nessuna divisione, si sospende la nutrizione e il padre (che rispetto per il suo dolore), i gruppi fanatici, i giudici, non hanno dubbi. Questo mi spaventa e mi fa pensare: io che nella grande sfortuna chiedo di vivere, fino a quando riuscirò a farlo? Fino a che è viva mia moglie che mi vuole ancora bene e mi accudisce senza mai lamentarsi? Se si prova disprezzo nel vedere il filmato di un paziente in coma (in trasmissione hanno chiesto chiarimenti sul consenso della persona non in grado alla decisione) fin quando potrò uscire con la mia carrozzina e godermi il sole, i rumori e l’affetto degli amici e i buffetti dei passanti? Sono una persona cresciuta nell’onestà e nel rispetto delle persone e voglio poter uscire come tutti, non devo scontare nessuna pena e non mi vergogno della mia disabilità.
Carissima onorevole, mi rivolgo alla sua autorevole persona affinché possa aiutarmi a vivere, in questa società che predilige il “bello” e il “comodo” e che non rispetta i valori della vita. Vorrei che i casi come il mio venissero alla luce, che il popolo italiano accogliesse i disabili nella vita di tutti i giorni, in strada, a teatro, nelle feste, nella televisione, perché anche noi abbiamo bisogno di emozioni, della gente, della normalità.
Distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura della persona (idratazione e alimentazione) - Togliere cibo e acqua? C’è profilo di omicidio - Caffarra:omissione etica e, spero, anche giuridica - DA BOLOGNA STEFANO ANDRINI – Avvenire, 16 novembre 2008
Se una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana un bene che non a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignitdella persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale. Lo ha detto il cardinale Carlo Caffarra intervenendo al convegno 'Dall’alba al tramonto della vita: decidere in medicina', promosso dall’Associazione medici cattolici italiani, sezione di Bologna insieme a 'Medicina e persona' e alla 'Confraternita della Misericordia.
Nella prima parte del suo intervento l’arcivescovo ha sintetizzato il concetto di dignitdella persona, ovveroil modo di essere proprio della persona in quanto dotato di una posizione eminente nei gradi dell’essere: essere qualcunopiche essere qualcosa.
Ma non solo.
Dignitindica anche esigenza di essere riconosciuta nella sua eccellenza e superiorit. L’etica e il diritto sono le scienze di questo riconoscimento: di ciche esso implica e comporta.
Caffarra ha poi affrontato la questione delladignitnel morireche diventata nella cultura post-moderna un nonsenso. Nel sentire comune – ha osservato – moriresemplicemente cessare di vivere:crepare. Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale (suicidio puro e semplice) sia anticipata (suicidio assistito) . Una nobilitazione, ha aggiuntoinserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione - che oggidiventata necessaria - sulla fine della vita.
A questo proposito il cardinale ha sottolineato cheil prudente discernimento fra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte. Ma anche chenecessario distinguere nettamente fra terapia (dovuta con le necessarie distinzioni) e cura del- la persona ( idratazione, alimentazione, pulizia). Quest’ultima sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente, e spero anche giuridicamente, il profilo dell’omicidio. Nella parte conclusiva del suo intervento Caffarra ha ricordato le caratteristiche di una morte degna.Quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate. Di chi pugodere delle cosiddette 'cure palliative', destinate a rendere pisopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza. Quella di chiaccompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone . Al contrario una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico. O viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
Il nucleo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ha poi ricordato Luciano Eusebi, docente di diritto penale che ogni individuo conta non in funzione del giudizio sulle sue condizioni esistenziali ma in quanto esistente. Ecco perchl’inizio e la fine della vita chiamano in causa il principio di eguaglianza e hanno a che fare con la costruzione stessa della democrazia. Con la sentenza della Cassazione sul caso Englaro, ha aggiunto siaffermato che l’unico criterio che puguidare scelte delicate il riferimento formale al consenso. Addirittura giungendo alla legittimazione di una sottrazione che attiene a qualcosa che non ha nulla di terapeutico ma che rappresenta qualcosa di cui ogni individuo necessita per vivere: l’alimentazione e l’idratazione .Su questa materia – ha proseguito il docente – il diritto aveva fissato un punto di equilibrio: non riconoscendo ammissibili da una parte relazioni per la morte e dall’altra un oltranzismo terapeutico. Questo equilibrio, ha concluso Eusebi, sirotto.Ora un giudice puapplicare direttamente una lettura forzata di un principio costituzionale (l’articolo 32 non prevede in alcun modo che la relazione tra medico e paziente posa essere per la morte) trascurando il diritto vigente e bypassando il legislatore.
Avvenire 16-11-2008
USA/ Temi pro life e libertà della Chiesa, prime spine per Obama - Lorenzo Albacete - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il presidente eletto Barack Obama si è rinchiuso nel suo ufficio a Chicago e si dice stia lavorando febbrilmente alla selezione del suo governo e della squadra per la Casa Bianca, ma non ci si aspetta nessuna nomina importante fino a dopo le vacanze del Giorno del Ringraziamento. Il risultato è che nessuno è sicuro su quale sarà “l’angolatura ideologica” iniziale dell’Amministrazione Obama. Durante la campagna Obama si è presentato come uno di centro-sinistra, aperto al dialogo con chi non è d’accordo con lui. Tra chi è in disaccordo, quelli che dimostrano di essere più preoccupati sono i gruppi che pensano che sosterrà con vigore il diritto all’aborto, il matrimonio omosessuale, la ricerca sulle cellule staminali embrionali e altri temi simili, specialmente nell’area dell’aiuto ai paesi terzi, la nomina dei giudici e le condizioni per gli aiuti federali.
Il problema non è che Obama personalmente sia un deciso sostenitore dell’agenda della “sinistra etica”, ma che ha bisogno del suo appoggio per realizzare le politiche a cui tiene. Dall’altra parte, non sembra che Obama abbia riflettuto molto su questi temi etici e si può sperare che arrivi a vedere il legame tra ciò che sta a cuore alla maggioranza e le argomentazioni che sono dietro la causa pro-life. Sarebbe interessante sapere, per esempio, se può capire gli effetti sulla politica della fede come allargamento della ragione, come Papa Benedetto ha spiegato nella Deus Caritas Est.
In ogni caso, i vescovi cattolici sembrano determinati ad intraprendere questa “educazione di Obama”. La Conferenza nazionale dei vescovi cattolici si è riunita a Washington subito dopo l’elezione (la loro riunione di novembre si tiene sempre nella capitale), e i vescovi hanno parlato in privato della nuova situazione. Nel loro messaggio al presidente eletto, i vescovi hanno promesso le loro preghiere per Obama, la sua famiglia e il suo governo e hanno assicurato la loro volontà di collaborare alla promozione della giustizia sociale, ma hanno insistito fortemente sul diritto alla vita come diritto fondamentale non negoziabile dal quale tutti gli altri conseguono. Nel loro messaggio al popolo alla fine della riunione, il Cardinale Francis George di Chicago, attuale presidente della Conferenza, ha ampliato questo punto, insistendo anche sulla necessità di rispettare la libertà della Chiesa di vivere e predicare i suoi insegnamenti.
La nuova Amministrazione e la gerarchia cattolica iniziano così le loro relazioni in una situazione di tensione. Il modo in cui Obama affronterà la situazione rivelerà quanto realmente speri di avviare un nuovo approccio politico nel paese. I vescovi, dal loro canto, dovranno capire bene come dimostrare la ragionevolezza della fede e porre le loro preoccupazioni all’interno della necessità di sostituire il pensiero utopico con la testimonianza della presenza di Cristo come la rivelazione più completa del destino al quale sono chiamati tutti gli esseri umani.
ISTRUZIONE/ Sui fondi riservati alle scuole paritarie il governo dimostra una grave debolezza culturale - Vincenzo Silvano - mercoledì 19 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Le scuole paritarie primarie e dell’infanzia hanno saputo solo in questi giorni che non potranno disporre dell’anticipo dei contributi spettanti per l’anno scolastico 2008/2009, già stanziati dal Bilancio 2008 e già assegnati dal Ministero dell’Istruzione. Interpellate, le Direzioni scolastiche regionali, che devono provvedere a erogare le somme ai destinatari, hanno comunicato che le casse sono vuote. E’ del tutto inusuale che fondi già stanziati vengano bloccati brutalmente. Si tratta di soldi che servono alle scuole per vivere ogni giorno, soldi di prima necessità. Non si riusciranno a pagare le tredicesime agli insegnanti. La ragione è che il ministero delle Finanze ha bloccato i fondi, almeno finché non sia terminata la sessione di Bilancio.
Poiché la sessione di Bilancio è cominciata da quando è stata approvata formalmente la Legge finanziaria da parte del Consiglio dei Ministri, ci si chiede perché il ministro dell’Istruzione e il suo apparato non si siano accorti da subito dello scippo o, peggio, abbiano finto di non vederlo o, peggio ancora, abbiano, per disattenzione e sciatteria, trascurato “il particolare”.
Su questo è dunque lecito porre alcune domande:
1. Il programma di governo del centrodestra non aveva, tra i suoi punti cardine, la libertà educativa? Le promesse elettorali sono dunque carta straccia?
2. Il Governo non si era impegnato a provvedere all’introduzione di una effettiva libertà di scelta da parte delle famiglie, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno presentato il 9 ottobre proprio su questo tema?
3. Il sottosegretario all’Economia Giuseppe Vegas non ha forse garantito ufficialmente che «i finanziamenti pubblici per le scuole paritarie verranno assicurati dell'ammontare necessario a garantirne il funzionamento a pieno regime?»
4. Non si era detto (ilsussidiario.net, 11 novembre 2008) che sarebbe stato discusso e votato un altro ordine del giorno che, oltre a chiedere i fondi per gli istituti di istruzione non statali, avrebbe posto anche la questione della piena e totale parità scolastica da raggiungere entro la fine della legislatura?
5. Non preoccupa nessuno il fatto che possano chiudere le scuole paritarie, con conseguente trasferimento di tutti gli alunni alle statali, dove il costo è dieci volte superiore?
Quale che sia la risposta a queste domande, emerge con tutta evidenza un dato culturale e perciò politico di prima grandezza: che i temi dell’istruzione e dell’educazione non sono al primo posto nell’agenda del governo. Mentre si buttano milioni di euro in improbabili salvataggi di carrozzoni clientelari, quali l’Alitalia, in nome della lisa retorica della compagnia di bandiera nazionale, non si provvede alle necessità essenziali della Nazione. L’educazione è l’ossigeno del paese, è il respiro delle giovani generazioni. Non è un optional. Possiamo stringere la cinghia su tutto, risparmiare, razionalizzare, ma non morire.
Resta da constatare malinconicamente il divario tra le promesse e la realtà effettuale. Non è la prima volta. Le promesse, si sa, generano consenso, quanto più sono rutilanti e multicolori. Ma quando i fuochi d’artificio si spengono nel buio, anche il consenso ne condivide il destino.
MONACHESIMO/ Lavoro manuale, cultura e fraternità: così pochi uomini hanno creato un'intera civiltà - INT. Giorgio Picasso - mercoledì 19 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Più lo si legge e più il discorso di Benedetto XVI al Collegio dei Bernardini di Parigi, lo scorso 12 settembre, rivela aspetti nuovi e possibilità di ulteriori approfondimenti. Il Sussidiario ha chiesto a Giorgio Picasso, già docente di Storia Medievale all'Università Cattolica di Milano e grande studioso del mondo benedettino, di approrfondire alcuni passaggi. Il Papa ha citato il monachesimo occidentale come il luogo in cui veniva formandosi una nuova civiltà, mentre l'Europa viveva gli sconvolgimenti delle migrazioni germaniche e dei nuovi ordinamenti statali. Egli però ha sottolineato che i monaci non si preoccuparono innanzitutto di “creare” una cultura ma, nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: “impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. Ci può aiutare a capire come questo impegno si è realizzato e come abbia potuto avere conseguenze materiali tanto fondamentali per la nascita dell'occidente medievale.
Il papa ha detto: «Vorrei parlare delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Che ruolo il monachesimo ha svolto nell’origine della teologia occidentale, nella nascita della cultura europea? Il Papa accenna molto bene al problema della dissoluzione del mondo antico. Il mondo antico aveva una cultura elevatissima nel campo letterario (basta ricordare Virgilio tra i latini). Però nel declino dell’impero anche questa scuola è andata in briciole; con l’impero si è sfaldata anche questa cultura, che non era di per sé negativa, era un patrimonio che bisognava salvare, ma che le istituzioni del mondo classico, compresa la scuola, non erano più in grado di sostenere. Ora, il monachesimo, che in san Benedetto ha un modello, che cosa ha fatto? Ha capito che c’erano dei valori in quella cultura, ma che bisognava riviverli. Ecco perché anche dom Leclercq nel suo volume citato dal Santo Padre in quell’occasione - Cultura umanistica e desiderio di Dio - dice che i monaci hanno evangelizzato l’Europa con la grammatica e il Vangelo. Perché la grammatica? Perché l’impianto letterario doveva venire dalla cultura classica, spogliata però di quel contesto, di quelle istituzioni che non avevano più l’antica validità, per essere invece inserito nel Vangelo.
Nella confusione di quei tempi, in cui niente sembrava resistere, i monaci avevano una preoccupazione che non era quella di salvare la cultura classica, bensì la ricerca di Dio, che si ricerca soprattutto nella Parola, nella Bibbia, nel Vangelo. Ora, per accedere a questa conoscenza era necessario conoscere la grammatica, le strutture retoriche necessarie per carpire quello che Dio aveva detto. Quindi l’oggetto non è più il contenuto della cultura classica ma il suo metodo: la grammatica, applicata al Vangelo. Ecco quindi che i monaci, pur avendo scelto come scopo della vita la ricerca di Dio - quaerere Deum (hanno lasciato la famiglia, il mondo per cercare Dio, non per cercare la cultura) - si sono accorti che per arrivare a Dio era utile usare quello strumento. Quindi il patrimonio filosofico, letterario, filologico del mondo antico fu salvato dal monachesimo, che lo ha rivissuto e riproposto alle genti che venivano da un mondo senza cultura.
La cultura classica non era in grado di mantenere la vivacità che aveva ai tempi dell’impero romano. D’altra parte le popolazioni germaniche, che non erano del tutto aliene da una certa cultura (i Goti si erano fatti tradurre la Bibbia nella loro lingua), certamente non erano in grado di riprendere in mano questa tradizione nel suo complesso. Allora il monachesimo salva questi valori e li ripropone con un contenuto cristiano. Sono celebri le opere di questi autori medievali, monaci, che nel monastero hanno imparato che cos’era la storia, hanno imparato a conoscere i generi letterari, hanno imparato una forma di canto, eccetera.
Ora, questi valori sono alla base della civiltà e della civiltà europea. Senza queste basi – il cui riconoscimento a volte rimane un po’ opaco nella cultura contemporanea - non avremmo potuto avere lo sviluppo della civiltà occidentale; essa ha sì contenuto cristiano, però le sue forme espressive sono quelle della cultura classica, applicate al Vangelo. Forme poi sviluppate in termini e concetti che hanno salvato quella stessa cultura, la quale ha rappresentato poi la base della cultura medievale. Ciò ha evidentemente avuto conseguenze notevoli, perché senza cultura non c’è una civiltà.
In un altro passo del suo discorso, Benedetto XVI ha posto l'accento sul lavoro dei monaci. In particolare, ha precisato come il lavoro manuale fosse considerato un aspetto costitutivo della somiglianza degli uomini con Dio, seguendo l'esempio di Cristo: «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero». Questa concezione (che costituisce una novità rispetto alla mentalità greco-romana) di un Dio che lavora, disposto cioè a «sporcarsi le mani con la creazione della materia», ha influito enormemente sull'esperienza monastica. Senza questa cultura del lavoro - dice il Papa – «lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili». In pratica, come si è sviluppato nell'esperienza monastica questo ideale del lavoro? Come gli uomini dei primi secoli del medioevo ne sono stati influenzati?
Dobbiamo ripensare che cos’era il lavoro nel mondo antico. È sempre questo paragone che ci aiuta a capire quello che viene dopo. Ora, nel mondo antico il lavoro era considerato come qualche cosa di negativo, di meno dignitoso, era riservato agli schiavi. Per noi la parola “ozio” è certamente negativa, ma in origine, per il mondo classico, era positiva. Il negativo era il “neg-ozio”, la negazione dell’ozio. Quindi il lavoro di carattere manuale era demandato agli schiavi; agli intellettuali, ai colti era riservata la contemplazione, il riflettere. Il monachesimo si è trovato di fronte a questa concezione e ha dovuto reagire. San Benedetto, con tutti i monaci, ha reagito - nella sua regola - elevando il concetto di lavoro.
In un primo tempo il lavoro era concepito come uno strumento, un mezzo per rimanere più in intimità con Dio. Si dice che i monaci lavorassero con le mani e che poi disfacessero quello che avevano fatto: sono leggende, questo non accadde mai. Ma è vero che a poco a poco, soprattutto attraverso la regola di san Benedetto, si capì che il lavoro aveva un valore positivo: certe ore erano dedicate alla preghiera, certe al lavoro manuale. «I monaci sono veramente tali quando vivono con il lavoro delle loro mani, come hanno fatto i nostri padri e gli apostoli»: è chiarissima l’affermazione di san Benedetto.
Nel suo discorso Benedetto XVI si riferisce in modo particolare al concetto di lavoro che Gesù esprime nel Vangelo: «Il Padre mio opera». Certamente, anche la Creazione è un concetto che implica, come dice bene il Papa, un Dio che viene a lavorare, che quasi si sporca le mani per modellare la sua creatura, che poi diventa sua veramente quando vi ispira il principio spirituale dell’anima. Nelle regole monastiche questo viene espresso con l’idea che tutti devono lavorare, che il lavoro non è riservato solo ad alcuni. Certo, poi c’erano compiti diversi, però nella tradizione monastica il lavoro, come d’altra parte accade ancora oggi nei grandi monasteri, faceva parte dell’impegno di tutti i monaci. Il lavoro della terra, il prosciugare paludi forse è stato un po’ esagerato da una visione romantica del monachesimo, però di fatto, quando era necessario lavorare nei campi, lo si faceva, e andavano tutti i monaci.
San Bernardo - per citare questo grande monaco al quale è intitolato il Collegio dei Bernardini di Parigi - dice che lui ha imparato di più sotto le querce d’estate, nel pieno del solleone, che non sui libri. Cosa vuol dire? Che il lavoro viene nobilitato a strumento utile per la propria elevazione, per la contemplazione di Dio. Questo è molto importante per la costruzione dell’Europa, perché qui, e non prima, troviamo un concetto molto positivo del lavoro; un concetto che, se vogliamo, è anche teologico. Se apriamo la Bibbia, vediamo che Dio ha lavorato sei giorni e il settimo si è riposato. È molto chiaro: ha lavorato sei giorni. Che cosa ha fatto in questi sei giorni? Secondo il racconto biblico ha separato le acque dalla terra, ha creato gli astri, ha creato gli animali, le piante, ha creato l’uomo e ha visto che tutto era cosa buona. E poi il settimo giorno – il sabato - si è riposato. Ha lavorato, la creazione è un lavoro. I monaci che leggevano la Bibbia, che imparavano a vivere del lavoro delle loro mani seguendo questo esempio, evidentemente non potevano non averne che un concetto molto, molto positivo. Che poi ha avuto enormi sviluppi nella cultura moderna e contemporanea. Chi ha inserito il lavoro su questi binari di civiltà sono stati per primi i monaci. Per essi il lavoro non era qualcosa da evitare, ma come da ricercare per maturare, per realizzare veramente se stessi.
Nella regola di san Benedetto ci sono anche altri criteri, altri aspetti del lavoro manuale che vengono sottolineati. Per esempio si dice che il lavoro deve essere “redditizio” e non soltanto per occupare qualche ora. Un lavoro i cui prodotti si possono anche vendere, però – la regola prescrive – ad un prezzo minore di quello con cui sono sul mercato; ma non minore fino al punto di fare concorrenza!
Oltre al lavoro manuale, i monaci hanno fatto anche – come ha ricordato il Papa citando sempre Leclerq - un grande lavoro culturale. Quali erano le caratteristiche di questo lavoro?
Nel discorso parigino si vede proprio la vera cultura di Benedetto XVI. Egli ha una propria visione del monachesimo e cita il libro più classico che la cultura moderna ha prodotto sulla civiltà monastica medievale. Il titolo in italiano è stato tradotto Cultura umanistica e desiderio di Dio che dice sì la sostanza, ma non è bello come l’originale francese: L’amour des lettres (i monaci amano le lettere, gli autori classici, Virgilio) et le desirè de Dieu (perché sono animati dal desiderio di Dio). L’amore delle lettere ed il desiderio di Dio: questa è l’essenza della cultura benedettina e il Papa l’ha assimilata certamente nella sua Baviera, dove ci sono tanti celebri monasteri benedettini che ha imparato a conoscere e ha frequentato. Qui rivela proprio la sua sensibilità monastica: attraverso lo studio e la cultura ha apprezzato altamente il monachesimo medievale. Come, tra l’altro, è successo anche a molti laici, penso per esempio a Giorgio Falco, ebreo, il cui capitolo più bello della sua Santa Romana Repubblica è proprio quello dedicato al monachesimo occidentale. Non sorprende, quindi, il continuo ritorno al testo di Leclercq nel discorso del Papa. Continua a riproporlo e a rivelarne i contenuti. E la sintesi del messaggio di Leclercq è proprio questa: i monaci hanno amato le lettere in funzione di Dio.
I monaci oltre al lavoro manuale hanno fatto anche un grande lavoro culturale? Certamente, ma il lavoro del monaco che copiava un codice - opera di grande valore culturale - era considerato alla stregua di quello del monaco che cucinava o che andava a raccogliere la frutta e la verdura. Nella regola di san Benedetto hanno lo stesso valore. «In monastero siamo tutti uguali – afferma san Benedetto – liberi e servi, goti e latini, perché serviamo all’unico Signore». Sempre san Benedetto, al monaco goto che aveva perduto il falcetto di lavoro, dopo averlo miracolosamente recuperato dal lago, dice: «Ecco, lavora, e non rattristarti!». Ecce labora: i monaci hanno fatto un grande lavoro culturale, ma un lavoro che rientra nel grande disegno di continuare la creazione di Dio. Davanti a Dio, secondo la regola, tutti i lavori – materiali e non – sono egualmente meritori.
Le caratteristiche di questo lavoro – dentro le più diverse circostanze - erano proprio l’uguaglianza di tutti, la necessità di vivere con il lavoro delle proprie mani, la ricerca di Dio. Il monaco è anche e innanzitutto un testimone di fede. Il fatto stesso che ci fosse un monastero era una testimonianza che nel medioevo diventava anche una predicazione. La popolazione delle campagne, vedendo un monastero dove si viveva «in un altro mondo», con altri valori, si trovava davanti ad una specie di predicazione. La chiamavano – può far sorridere – «predicazione muta». Si diceva che i monaci, anche se non parlavano, predicavano, perché offrivano l’esempio di una vita pacificata, in pace con Dio, di fronte a momenti di turbamenti, di guerre, di contrasti, di cui pure il medioevo fu pieno. Il monastero era una visione di pace. In tanti di essi, all’ingresso, c’era scritta – e c’è scritto ancora oggi - la parola pax: un luogo di silenzio, in cui l’uomo si trova riconciliato con Dio. Non una teoria quindi, ma una prassi.
(Intervista raccolta da Andrea Beneggi)
Rivelazioni sull'“Operazione carte false” per salvare gli ebrei - Memorie di Mirjam Viterbi Ben Orin nell'Italia del nazifascismo
ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Le azioni eroiche compiute da un Vescovo cattolico per salvare una bambina ebrea e la sua famiglia perseguitate dalle leggi razziali nazifasciste rivive ora attraverso il racconto che ne fa “L'Osservatore Romano”.
“Ricordo la grande semplicità e la purezza del suo sguardo, quel qualcosa di immediatamente buono e ingenuo che sembrava sprigionarsi, insieme a una grande forza, da ogni suo gesto, da ogni parola. Nell'ombra e nel silenzio delle grandi stanze, la figura del Vescovo era rassicurante — come qualcosa a cui ci si poteva appoggiare”.
Il presule di cui si parla è monsignor Giuseppe Placido Nicolini e chi ricorda la sua figura a più di sessant'anni dall'incontro è Mirjam Viterbi Ben Horin. Era il 1943 e lei era una bambina che, con i suoi genitori e la sorella, poté liberarsi dalla persecuzione nazifascista ad Assisi grazie all'organizzazione di sostegno agli ebrei avviata propria dal Vescovo con l'aiuto di due sacerdoti in particolare: don Aldo Brunacci e padre Rufino Nicacci.
I tre protagonisti di quei fatti sono stati riconosciuti “Giusti tra le Nazioni” dal Museo dell'Olocausto di Gerusalemme Yad Vashem, ma questo documento rappresenta un'ulteriore tessera per la ricostruzione della verità storica di quei tragici anni.
Ogni racconto rivela qualcosa di inedito – non fosse altro per il punto di vista del narratore – accanto alla gratitudine per quell'aiuto disinteressato, e non esente da rischi. E' stata proprio la riconoscenza a spingere Mirjam Viterbi Ben Horin a rendere pubblici i suoi ricordi, filtrati dal suo sguardo di bambina.
Mirjam Viterbi Ben Horin ha scritto il libro "Con gli occhi di allora" (Morcelliana, 2008), in cui racconta la sua storia di bambina ebrea che, dopo le leggi razziali del 1938, fu costretta ad abbandonare la casa di Padova e a rifugiarsi con la famiglia ad Assisi, tra il 1943 e il 1944.
Lì scoprì l'esistenza di uomini e donne che non rinunciarono alla propria umanità e non si sottrassero al dovere del bene, pur consapevoli che ciò avrebbe potuto costare loro la vita.
“Lo scrivere queste pagine – scrive l'autrice – è anche il mio modo, oggi, per dire grazie a tutti coloro che mi hanno fatto sentire che la vita anche nei momenti più oscuri può essere bella, se qualcuno ti è vicino, ti tende una mano o semplicemente, anche con il suo stesso silenzio, è insieme a te: se qualcuno con la sua presenza rompe il guscio della tua solitudine e della paura”.
La figura centrale del racconto è quella del Vescovo. “La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci avevano seguito da Padova e che, se scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità”, ricorda Mirjam.
“Monsignor Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del Palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con una candela”.
L'obiettivo successivo era quello di ottenere “carte false”, una cosa “essenziale per il nostro futuro, e di cui si sarebbe occupato più direttamente don Aldo”.
Il problema principale per gli ebrei era infatti rappresentato dai documenti. Bisognava procurarsene di falsi e in genere si usavano nomi di persone residenti in zone dell'Italia meridionale già liberate, dove era più difficile effettuare controlli. Per questo, su indicazione del Vescovo, venne avvicinato un tipografo dichiaratamente comunista, Luigi Brizi, che acconsentì coinvolgendo anche il figlio Trento, malgrado i rischi di una tale attività.
Don Brunacci raccontò più volte come era nata quell'organizzazione. Il terzo giovedì del settembre 1943, dopo la consueta riunione mensile del clero nel seminario diocesano, il Vescovo lo chiamò in disparte e gli mostrò una lettera della Segreteria di Stato dicendogli: “Dobbiamo organizzarci per prestare aiuto ai perseguitati e soprattutto agli ebrei, questo è il volere del Santo Padre Pio XII. Il tutto va fatto con la massima riservatezza e prudenza. Nessuno, neppure tra i sacerdoti, deve sapere la cosa”.
Seguendo le sue direttive, il Vescovo cercò di coordinare gli sforzi e soprattutto di trasmettere un esempio ai fedeli. “Non si trattava soltanto di organizzare burocraticamente la ricerca dei dispersi e l'assistenza ai prigionieri”, ha affermato di recente il Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone.
Da questa indicazione generale e dalla direttiva di monsignor Nicolini nacque ad Assisi il Comitato assistenza agli sfollati, un nome di copertura per un'attività che comportava un alto rischio. Il convento delle clarisse di San Quirico divenne il quartier generale dell'organizzazione. Qui, come nelle foresterie delle collettine, delle stimmatine, delle suore cappuccine tedesche e delle benedettine di Sant'Apollinare, i perseguitati venivano ospitati fino a quando si riusciva a trovare per loro nuove carte di identità, grazie alle quali ottenevano le tessere annonarie e potevano vivere in albergo o in appartamenti privati.
Bruno Angeli, un altro ebrei fuggito con la famiglia, “fu il primo a parlarci di un'organizzazione che aiutava in modo straordinario tutti gli ebrei arrivati ad Assisi – racconta Mirjam — fornendo anche documenti di riconoscimento con generalità false, cioè 'ariane'”.
“A tutti i conventi, compresi quelli di clausura, era stato impartito l'ordine di aprire le loro porte ai perseguitati per ospitarli. E la nostra identità religiosa, aggiunse, veniva rispettata a tal punto che pochi giorni prima, al termine del digiuno di Kippur, le clarisse del Monastero di San Quirico avevano preparato una grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza”.
Padre Vincenzo, del convento di San Damiano, avvicinò la famiglia Viterbi e le disse: “Se avete un amico ebreo, ditegli di venire nel nostro convento e indossare la tonaca dei frati”. I Viterbi sapevano già di cosa si trattava, perché era una direttiva del padre guardiano, Nicacci.
Mirjam e i suoi familiari non si rifugiarono in convento, ma in abitazioni private, sempre pronti a partire immediatamente.
“In quel periodo controllavo sempre più attentamente la mia piccola valigia, sempre pronta in un angolo, specie quando la sera udivo un camion fermarsi sotto casa o il rumore di stivali sul selciato. Sapevo che era accaduto e che poteva accadere anche a noi. Non mi sentivo in colpa di essere viva; no; ma... fino a quando? Con quelle valigie allineate, io credo di aver cominciato a capire allora, forse senza rendermene pienamente conto, che nella vita bisogna sempre essere pronti a partire. Non si sa per dove. Non si sa perché”.
A un certo punto le cose parvero precipitare. I nazifascisti intensificarono i controlli.
Ancora una volta, nel racconto di Mirjam emerge la figura di monsignor Nicolini: “Mio padre andò a consigliarsi col Vescovo e a chiedergli se in caso di estrema necessità avesse potuto accoglierci in vescovado, già asilo di un incredibile numero di sfollati e di perseguitati. Monsignor Nicolini sorrise, con quella sua espressione buona: 'Sono rimaste libere solo la mia stanza da letto e lo studio' - disse con spontaneità - 'ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da letto è per voi'. Papà, di fronte a quell'offerta tanto generosa, non si sentì ovviamente di accettare”.
L'attività di aiuto agli ebrei non passò del tutto inosservata. Don Brunacci venne arrestato dalla polizia fascista che lo aveva aspettato sotto casa. Fu portato a Perugia, dal prefetto Rocchi, e rilasciato una decina di giorni dopo, purché abbandonasse Assisi per la Città del Vaticano. Quella notizia gettò nello sconforto gli ebrei rifugiati in città, ma fortunatamente non accadde nulla. Fino a che giunsero i liberatori, la mattina del 17 giugno 1944.
Più di trecento si salvarono dalla deportazione grazie al Vescovo, ai due sacerdoti e alle persone che sostenevano in vario modo l'organizzazione.
Dopo la guerra, Mirjam e la sua famiglia provarono a tornare a Padova. “La nostra casa era stata incendiata – sottolinea – e a mio padre non rimase altra possibilità che alienarla, con un acuto senso di lacerazione. Venne reintegrato all'università e all'accademia patavina, ma non si sentì più di ritornare a vivere a Padova, pur rimanendone affettivamente molto legato. Riprese il suo insegnamento all'università di Perugia. Nell'incertezza di dove stabilirsi, si rimase ad Assisi per 7 anni. Nel '50 ci si trasferì a Roma”.
Fu proprio il padre di Mirjam, Emilio Viterbi, a esprimere pubblicamente, come riportano altri documenti, la gratitudine dei salvati: “Noi ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che annientò sei milioni di ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato toccato”.
Nella città di Francesco, scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, “il Pax et Bonum divenne presto per me il saluto più spontaneo, non sapendo minimamente, allora, che era proprio come il dire shalom in ebraico”. In quel modo “si compì un miracolo d'amore”.
Un miracolo che aveva i volti di monsignor Nicolini e dei sacerdoti suoi collaboratori. Volti che gli occhi di quella bambina non hanno dimenticato.
Cardinale brasiliano: occorre far emergere le ragioni del credere - L'Arcivescovo di Salvador invita ad approfondire il messaggio cristiano
SALVADOR, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Geraldo Majella Agnelo invita i fedeli a far “emergere le ragioni del credere”, perché “la fede non è cieco fideismo”.
“Cristo è il nostro Dio e il nostro Salvatore, ma come non essere tentati dal dubbio, se perfino un apostolo ha creduto solo dopo aver toccato con mano? La ragione è messa a dura prova”, afferma l'Arcivescovo di Salvador (Brasile) in un articolo inviato a ZENIT.
Ad ogni modo, ha affermato il porporato, quando “si approfondisce il messaggio cristiano, con docilità allo Spirito di Dio, emergono anche le 'ragioni' della nostra fede, come un segno che il Signore ha posto sul nostro cammino di incontro con lui”.
Questi segni “sono le parole luminose di Gesù”, “i suoi miracoli”, “l'autorità con cui Gesù parla di Dio Padre, mostrando di conoscere il suo cuore, come uno che abita in lui da sempre”.
“Il segno è la libertà con cui Gesù manifesta le esigenze di Dio”, “è la sua resurrezione, attestata dai discepoli e sottoscritta con il suo martirio”, ha aggiunto.
Secondo l'Arcivescovo di Salvador, a questi segni della vita storica di Gesù si uniscono “quelli disseminati in duemila anni di cristianesimo” dalla testimonianza dei santi, che “sono il suo 'riflesso' vivo nella storia”.
“I segni continuano nella logica dell'amore. Dobbiamo far emergere le ragioni del credere: la fede non è cieco fideismo. E' tuttavia importante sapere che i segni del mistero non sono formule matematiche”.
“Sono azione di grazia illuminante, si collocano al livello di una relazione d'amore, dove le ragioni per scegliere e per affidarsi sono non un calcolo razionale, ma il confluire tra cose sperimentali e la fiducia che cresce sull'onda dell'amore”, ha sottolineato.
Per questo, ha spiegato, l'incontro con Gesù avviene sempre sulla base dell'annuncio dei discepoli.
“Un annuncio che si fa proposta di comunione, dilatazione di amicizia: chi ha Gesù per amico lo presenta agli altri, perché anche loro entrino in quel meraviglioso vortice che conduce, in definitiva, alla comunione delle tre Persone divine”.
Il Cardinale ha affermato che il grande annuncio oggi “si darà con la testimonianza cristiana dell'amore vissuto dai seguaci del Maestro, nostro redentore”.
Ciò avverrà “attraverso il perdono, la misericordia, la difesa della vita e della dignità della persona umana, la verità e la giustizia, la fraternità, la solidarietà e la costruzione della pace”.
I Vescovi congolesi denunciano il “genocidio silenzioso” - Gli scontri provocano ogni mese 45.000 morti
KINSHASA, mercoledì, 19 novembre 2008 (ZENIT.org).- I Vescovi della Repubblica Democratica del Congo hanno denunciato il “genocidio silenzioso” che il loro Paese subisce sotto gli occhi di tutto il mondo.
In un drammatico documento intitolato “La Repubblica Democratica del Congo piange i suoi figli e non vuole consolarsi”, la Commissione Permanente dell'episcopato compie un'analisi delle cause della guerra, dovuta soprattutto alla lotta per entrare in possesso delle enormi ricchezze naturali del Paese.
Dalla fine di agosto, i combattimenti hanno provocato una situazione umanitaria catastrofica con più di 250.000 sfollati, la maggior parte dei quali senza possibilità di ricevere assistenza da parte delle organizzazioni umanitarie a causa dell'insicurezza diffusa.
Gli scontri vedono affrontarsi l'Esercito della Repubblica contro l'insorto Laurent Nkunda, ex generale che ha creato un movimento ribelle che, secondo quanto afferma, cerca di difendere i tutsi dalle milizie hutu fuggite in Congo dopo il genocidio in Ruanda nel 1994, che ha provocato più di 500.000 morti, soprattutto tutsi.
In un rapporto divulgato all'inizio di quest'anno a Kinshasa, l'organizzazione umanitaria “International Rescue Committee”segnala che i conflitti e le crisi che la Repubblica Democratica del Congo ha subito dal 1998 hanno causato 5,4 milioni di morti e continuano a provocare una media di 45.000 decessi al mese.
“Viviamo un autentico dramma umanitario che, come un genocidio silenzioso, si sta verificando sotto gli occhi di tutti. I massacri su ampia scala della popolazione civile, lo sterminio selettivo dei giovani, gli stupri sistematici perpetrati come arma di guerra si sono scatenati di nuovo con una crudeltà e una violenza impensabili contro la popolazione locale che non vuole altro che una vita più tranquilla e degna nella sua terra”.
Per questo motivo, i presuli pongono la stessa domanda degli analisti: “Chi è interessato a un dramma di questo tipo?”.
“E' evidente che le risorse naturali della Repubblica Democratica del Congo alimentano l'avidità di certe potenze e non sono estranee alla violenza contro la popolazione”, rispondono.
Tutti i conflitti, osservano i Vescovi, “si producono sulle rotte economiche e intorno ai giacimenti di minerali”.
“Come si può concepire che i vari accordi vengano violati senza alcuna pressione efficace per costringere i loro firmatari a rispettarli?”, proseguono.
“Le varie conferenze e riunioni per risolvere questa crisi non hanno ancora affrontato i temi di fondo e non hanno fatto altro che rimandare e defraudare le legittime aspirazioni di pace e giustizia del nostro popolo”.
In particolare, si denuncia “il piano di balcanizzazione”, vale a dire la divisione e la frammentazione del territorio, com'è accaduto nell'ex Yugoslavia.
“Si ha l'impressione di una grande cospirazione che rimane nascosta – segnalano –. La grandezza della Repubblica Democratica del Congo e le sue numerose ricchezze non devono servire come pretesto per farne una giungla”.
Per questo, i Vescovi chiedono “al popolo congolese di non cedere mai alle velleità di quanti vogliono la balcanizzazione del loro territorio nazionale”.
Raccomandano, quindi, di non firmare mai “una revisione delle frontiere stabilite a livello internazionale e riconosciute dalla Conferenza di Berlino e dagli accordi successivi”.
I presuli denunciano inoltre “tutti i crimini commessi contro cittadini pacifici”, così come “il distacco con cui la comunità internazionale tratta i problemi relativi all'aggressione di cui il nostro Paese è vittima”, chiedendo “alla comunità internazionale di impegnarsi sinceramente nel far rispettare il diritto internazionale”.
“Riteniamo imperiosa la necessità di inviare una forza di pacificazione e di stabilizzazione per ristabilire i diritti nel nostro Paese – concludono –. Tutto il mondo guadagnerà di più con un Congo in pace che con un Congo in guerra”.
Campagna di raccolta firme contro l'aborto come diritto umano - Organizzazioni pro-famiglia e pro-vita sostengono l'iniziativa
MADRID, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- E' stata avviata una campagna firme contro il progetto che mira a far dichiarare l'aborto come diritto umano da parte dell'ONU, per i 60 anni dalla creazione di questa organizzazione internazionale, secondo la proposta di una lobby abortista.
In base a quanto riferito a ZENIT da Elsa Yolanda Márquez Reyes, una delle promotrici dell'iniziativa, la raccolta è stata organizzata proprio “per evitare che l'ONU dichiari l'aborto un diritto umano: vogliamo essere la voce di quanti non hanno voce”.
I promotori dell'iniziativa, organizzazioni pro-famiglia e pro-vita, affermano che in occasione del prossimo 10 dicembre – quando si celebreranno i 60 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – la lobby abortista sta cercando di far passare l'aborto come diritto umano definendolo diritto alla vita (della madre).
Da tutto il mondo stanno giungendo firme per impedirlo. In inglese ce ne sono già più di 30.000. Tutte le firme verranno presentate nella sede delle Nazioni Unite proprio il 10 dicembre. Ci si attende che arrivino a più di 100.000.
La campagna è guidata da C-FAM, un'organizzazione fondata nel 1997 per influire sul dibattito sulle politiche sociali alle Nazioni Unite e in altre istituzioni internazionali.
Si tratta di un istituto universitario senza scopo di lucro, volto a ristabilire un'adeguata comprensione del diritto internazionale e a difendere la sovranità nazionale e la dignità della persona umana.
Il modulo da firmare, in varie lingue, ricorda che la Dichiarazione Universale è il raggiungimento di uno standard comune per tutte le persone e tutte le Nazioni, e indica la necessità di garantire un'appropriata considerazione di vari fattori: il diritto alla vita di ogni essere umano, dal suo concepimento alla morte naturale, avendo ogni bambino e ogni bambina il diritto di essere concepito, di nascere e di essere educato all'interno della sua famiglia, basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, essendo la famiglia l'entità naturale e fondamentale della società; il diritto di ogni bambino o bambina di essere educato dai propri genitori, che hanno la priorità, e il diritto fondamentale di scegliere il tipo di educazione da dare ai propri figli.
Per questo si sollecitano tutti i Governi a interpretare in modo adeguato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani visto che tutte le persone hanno il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale (art. 3); gli uomini e le donne di età matura, senza alcuna limitazione per razza, nazionalità o religione, hanno il diritto di contrarre matrimonio e a formare una famiglia (art. 16); la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto di essere difesa dalla società e dallo Stato (art. 16); la maternità e l'infanzia danno diritto ad assistenza e cure speciali (art. 25); i genitori hanno il diritto prioritario di scegliere il tipo di educazione da dare ai propri figli (art. 26).
[Per ulteriori informazioni: http://www.c-fam.org/publications/id.97/default.asp]
19/11/2008 13:18 – NA - Appello dei cattolici di Nanle contro le violenze e i sequestri dell’ex capo dell’Associazione di Wang Zhicheng - Prete e fedeli picchiati con bastoni e pietre. A causa di minacce di tipo “mafioso”, dal 15 agosto non ci sono messe, né catechismo. L’ex direttore dell’Ap si è impossessata di una proprietà della chiesa. I fedeli si appellano allo slogan di Hu Jintao (“costruire la società armoniosa”) per chiedere giustizia.
Pechino (AsiaNews) – I fedeli della parrocchia di Nanle hanno diffuso un appello in cui chiedono giustizia contro l’ex capo dell’Associazione Patriottica che spadroneggia sulla Chiesa locale, sequestrando terreni e case della parrocchia e malmenando parroco e fedeli. I cattolici l’accusano di andare contro il programma di Hu Jintao sulla “costruzione di una società armoniosa” e domandano l’intervento del governo. Nanle è una piccola cittadina di 650 mila abitanti, nell’Henan, quasi al confine con l’Hebei. La comunità cattolica ha circa 2 mila fedeli.
L’appello giunto ad AsiaNews in questi giorni, punta il dito contro Wang Shuqin, ex direttrice della locale Associazione patriottica che, grazie al suo potere e violenza, tiene in scacco tutta la comunità.
Lo scorso giugno, Wang Shuqin, aiutata da suo figlio, che viene definito “un mafioso”, ha prodotto un falso documento in cui appare che l’Associazione patriottica ha venduto a lei un terreno di 195 mq e una palazzina a due piani appartenente alla parrocchia. Grazie alle sue connessioni con l’Ufficio locale della gestione immobiliare, ha potuto anche trasferire tutta la proprietà a suo nome, poi l’ha subito venduta intascando i guadagni.
I fedeli affermano che Wang ha violato la legge e i regolamenti dell’Ufficio affari religiosi, secondo cui “nessun individuo o ente può vendere, noleggiare o ipotecare” una proprietà religiosa, perché “essa appartiene allo Stato ed è gestita dalla comunità religiosa”. Quando il sacerdote e i fedeli le hanno chiesto spiegazioni, la donna ha affermato di aver fatto costruire lei, coi suoi soldi, la palazzina.
La ex direttrice dell’Associazione patriottica ha fatto anche di più: ha minacciato prete e fedeli di violenze e dal 15 agosto non permette che si celebri alcuna messa in parrocchia per i 2 mila fedeli. L’ultima volta che il prete ha cercato di celebrare messa, lei è giunta con pietre e bastoni e ha cominciato a picchiare il prete ferendolo alla schiena, distruggendo anche l’altare. Anche i funzionari dell’Ufficio affari religiosi hanno paura di lei e del figlio.
Nell’appello i fedeli si giustificano: “Non è che siamo deboli; è il sacerdote che ci frena a compiere un gesto estremo e ci consiglia di aver fiducia nella legge”.
L’intrigante e potente signora – definita “selvaggia”, “scatenata”, “pazza” – è riuscita anche a bloccare un processo che la comunità ha intentato contro di lei. La corte si è radunata il 20 ottobre scorso alle 14.30, ma la donna, insieme al figlio hanno cominciato a picchiare il prete e i fedeli. Nemmeno le guardie hanno potuto fermarli. Durante i tafferugli il figlio è pure scappato e la gente si chiede “come è possibile che un delinquente possa sparire in un tribunale”.
Ora la gente vive nel terrore, data la fama di persona senza scrupoli che ha il figlio di Wang. Mentre la vita della comunità è bloccata – non c’è messa, né catechismo per i catecumeni – molti fedeli “perdono fiducia nella politica religiosa” del governo. Essi si appellano all’idea predicata dal presidente Hu Jintao, quella del “costruire una società armoniosa” e domandano al governo centrale di intervenire per ridare indietro la proprietà alla parrocchia e allontanare la signora Wang da Nanle.
Espropri e abusi sulle proprietà private sono divenute un fatto comune in Cina. Sono comuni anche episodi di violenze e soprusi da parte dell’Associazione patriottica e dell’Ufficio affari religiosi verso le diocesi. Nel 2005, a Xian 16 suore sono state picchiate a sangue per voler difendere la scuola di loro proprietà dalla demolizione; nello stesso periodo vi sono state violenze contro preti e suore a Tianjin. Molte volte i “controllori” della Chiesa intestano a proprio nome, le proprietà vendendole, trasformandole in alberghi e intascando i ricavati. Secondo i dati dell’Holy Spirit Study Centre di Hong Kong, i beni ingiustamente intascati dall’Ap e dall’Ufficio si aggirano sui 130 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).
19/11/2008 12:46 - PALESTINA –ISRAELE - Resta chiusa la frontiera di Gaza. A rischio anche gli aiuti umanitari - Dopo il parziale allentamento del blocco e l’ingresso di alcuni carichi di medicinali e generi alimentari, Israele torna a chiudere i valichi verso la Striscia. La comunità internazionale preme su Tel Aviv per evitare l’acuirsi della crisi umanitaria, ma continuano i lanci di razzi da parte di Hamas.
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) - “I varchi restano chiusi per il continuo lancio di razzi verso Israele” La dichiarazione rilasciata il 18 novembre dal portavoce del ministero della difesa di Tel Aviv, Peter Lerner, conferma il blocco della Striscia. Sancito nel giugno 2007, l’isolamento di Gaza è proseguito sino ad oggi con concessioni provvisorie che hanno permesso l’accesso ai territori a fini umanitari. Nei giorni scorsi Israele aveva concesso l’ingresso ai carichi di aiuti e di combustibile, ma il perdurare dei lanci di qassam hanno spinto il ministro della difesa Ehud Barak a chiudere di nuovo le frontiere complicando così l’invio di aiuti.
Nel frattempo Tel Aviv ha annunciato il 19 novembre di voler sostituire il responsabile dell’esercito per la Striscia, Eyal Eisenberg, con Moshe Tamir cha ha già diretto le operazioni nella zona per due anni.
Due giorni fa, Israele ha consentito l’accesso di 33 camion con generi di prima necessità e medicinali. Le agenzie umanitarie lamentano la fine delle scorte nella Striscia e l’invio degli aiuti è considerato molto inferiore rispetto alle necessità della popolazione.
Dal 4 novembre, giorno della ripresa degli scontri aperti tra l’esercito israeliano e le forze di Hamas, era stato interdetto l’ingresso nella Striscia ai mezzi delle agenzie umanitarie. Solo domenica 16 alcuni convogli con gli aiuti hanno ripreso a transitare, tra questi i mezzi dell’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste circa 750mila rifugiati nell’area di Gaza.
La mancanza di elettricità nella Striscia è l’altro problema lamentato dagli abitanti e dalle organizzazioni umanitarie. La situazione non migliora nonostante Israele abbia aumentato i rifornimenti di carburante destinato alla principale centrale di Gaza che costringe a periodici blackout buona parte del milione e mezzo di palestinesi che vivono nei territori.
Il 18 novembre tank israeliani hanno oltrepassato il confine seguiti da jeep militari e bulldozer. L’incursione di 400 metri entro il territorio della striscia è stata accolta dal lancio di missili da parte delle forze di Hamas cui i mezzi israeliani non hanno risposto. I militari di Tel Aviv definiscono lo penetrazione sul limite orientale della città di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, come “un’operazione di routine per scoprire dispositivi esplosivi”. Gli scontri tra le due parti sono riprese nelle ultime due settimane, dopo cinque mesi di relativa pace a seguito della tregua siglata con Hamas il 19 giugno. Stando alle dichiarazioni dell’esercito di Tel Aviv, dalla riapertura delle ostilità sono stati uccisi 17 militanti palestinesi mentre su Israele sono stati lanciati più di 140 razzi e colpi di mortaio contro gli insediamenti posti al confine con la Striscia.
La comunità internazionale disapprova la scelta di Tel Aviv. Il segretario dell’Onu ha chiamato il primo ministro israeliano Ehud Olmert per scongiurare l’inasprimento delle condizioni in cui vivono gli abitanti della Striscia. Come riportato da un comunicato del Palazzo di vetro, Ban Ki Moon “ha fortemente sollecitato il primo ministro a facilitare una maggiore libertà di movimento degli aiuti umanitari urgenti e l’ingresso del personale Onu a Gaza”.
Gli analisti leggono l’attuale situazione come il tentativo di entrambe le parti di preparare il terreno per la ridiscussione della tregua che scade il prossimo mese. Sia Hamas sia Israele intendono giungere al tavolo dei negoziati in posizioni di forza che gli permettano di ottenere migliori condizioni nel rinnovo della tregua.
Da parte di Hamas si registrano posizioni contrastanti sugli scontri in corso. Il portavoce di Ihab al-Ghussein, in corsa per la carica di ministro degli interni, accusa Israele di aver sovvertito la tregua che considera ormai rotta. Di tutt’altro avviso Mahmoud Zahar, altro leader del movimento palestinese, che vuole mantenere l’accordo sino alla riapertura dei valichi per Gaza.
Anche in Israele il giudizio sulla situazione è controverso. Il Jerusalem post ha definito le dichiarazioni contrastanti dei leader politici come una “Babele”. Davanti alla nuova ondata di lanci di razzi Qassam, il quotidiano israeliano ha commentato le posizioni espresse scrivendo: “Non servono per confondere il nemico, sono piuttosto la triste indicazione del nostro grado di confusione. Niente è più scoraggiante per i cittadini d’Israele che vedere tale discordia quando il paese è sotto attacco”.
Limiti di una definizione nata sessant'anni fa esatto – senza ragioneLa salute e l'utopia della perfezione - di Carlo Bellieni – L’Osservatore Romano, 19 Novembre 2008
Sessant'anni fa, nel 1948, veniva promulgata la Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che sanciva una nuova definizione del termine "salute": volendo garantire non solo il benessere fisico ma anche un miglioramento delle condizioni sociali di vita, il termine non veniva più limitato a indicare l'assenza di malattia. Esso aveva infatti l'ambizione di indicare altre possibili sorgenti di disagio. Questo importante passo fu definitivamente sancito, il 10 dicembre dello stesso anno, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che riconosceva la salute come un diritto fondamentale. Purtroppo, come segnalato da molti autori, la definizione di salute che ne scaturì finì col nascere zoppa e insoddisfacente: "La salute - vi si leggeva - è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale". Come è facilmente intuibile, la definizione rischia di scivolare nella pura utopia, dato che nessuno può vantare un simile livello di benessere, e rischia di far diventare malattia ogni stato di non completo benessere. Questo porta a una serie di pericolose conseguenze sotto i nostri occhi.
La prima è la creazione del cosiddetto "mercato delle malattie" che, stigmatizzato dalla comunità scientifica, altro non è che la corsa a una vera e propria creazione di "nuove malattie" per vendere nuovi farmaci ("PLos Medicine", maggio 2008). Infatti se la salute è tutto, tutto può essere malattia, basta indurre il soggetto a ritenere che una certa condizione lo è. Le strategie sono varie: dal far passare sui mezzi di comunicazione sociale come malattia una condizione fino ad allora considerata normale, al gonfiare la prevalenza di una malattia e incoraggiare l'autodiagnosi. La lista delle malattie inventate è lunga e la documentata strategia di mercato comprende ben congegnate campagne pubblicitarie con tanto di testimonial: Mayer Brezis denuncia sull'ultimo numero dell'"Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences" (ottobre 2008) una "massiccia campagna pubblicitaria mirata ai dottori e al pubblico sempre più sofisticata" per promuovere il suddetto mercato. Già me ne direste caldoParallela è la cosidetta "medicalizzazione del desiderio". Un esempio sono le mutilazioni o le alterazioni estreme del corpo fatte per scopi non medici e non accettabili esteticamente per la maggioranza delle persone - ad esempio la sezionatura della lingua, la marchiatura a fuoco o l'infissione di fil di ferro nella carne - di cui parla Thomas Schramme su "Bioethics" di gennaio 2008, sostenendo l'assenza di motivi etici per impedire questi interventi una volta che il soggetto abbia deciso che la sua salute ne trarrà vantaggio. Se tutto può diventare malattia, il medico può essere chiamato a soddisfare richieste che non solo non condivide, ma che sa essere potenzialmente dannose per la salute, come la richiesta del taglio cesareo in epoche e condizioni controindicate da parte di alcune gestanti (cfr. Minkoff in "Seminars in Perinatology" del 2006), o come il fornire farmaci anabolizzanti ad atleti pronti ad assumerli. Anche il suicidio assistito rientra in questa visione: se è il soggetto a decidere insindacabilmente ciò che è malattia, si può arrivare a sostenere che in certi casi addirittura la vita stessa può essere vista come una patologia secondo il parere personale, con la conseguente offerta di strutture e mezzi per mettervi fine. È quanto accade in Svizzera: uno studio del Fonds National Suisse de la Recherche Scientifique (4 novembre 2008) mostra che circa nel 30 per cento dei casi il suicidio assistito non è eseguito su persone affette da malattie letali, ma su soggetti non in fin di vita, come il ventiduenne inglese che, bloccato su una sedia a rotelle, non sopportava quell'esistenza di "seconda classe" ("Il Tempo", 18 ottobre 2008) e si è presentato in Svizzera per farla finita. I limiti della definizione di salute sono palesi se ci apriamo a un'altra realtà: quella del mondo della disabilità e della malattia in cui vediamo tanti malati che hanno performance sportive, artistiche e filosofiche di livello eccelso, o magari anche semplicemente una serenità stupefacente, che cozzano con una visione idealizzata e utopica della salute (soprattutto se messi a confronto con la fatica di vivere di molte persone ritenute, secondo la definizione suddetta, in buona salute). Idealizzare un utopico "completo benessere" inserisce invece un vulnus nelle loro aspettative e nei loro sforzi. Molti di loro saranno infatti indotti a pensare che, nonostante tutti i tentativi, non potranno mai raggiungere un buono stato di salute, avendo comunque una malattia o un'anomalia che li separa dalla "perfezione".
Dopo sessant'anni vale allora la pena rimettere mano a un termine che, sicuramente nato per un fine buono, ha finito per cadere in maglie anguste. Riscrivere il significato del termine salute è un impegno per coloro che operano nel campo della filosofia e della medicina - che non possono avere come orizzonte un mondo in cui la salute è un'utopia - e per gli Stati, che troppo spesso aprono cancelli a scorciatoie per terminare la vita. Alla cura, alla ricerca e all'integrazione sociale ed economica di chi è malato vengono invece aperte solo minuscole porte.
(©L'Osservatore Romano - 19 novembre 2008)
LA FEDE NEGATA - Restituito al patriarcato il Babel college, l’unica facoltà teologica del Paese requisita dai soldati Usa - «In Iraq non c’è posto per gli infedeli cristiani» - Il gruppo estremista di Ansar al-islam scrive a un vescovo: «Lasciate Baghdad e le altre province o sarà come a Mosul» - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 19 novembre 2008
« N on c’è posto per i cristiani tra i musulmani in Iraq». Nuova, pesante minaccia dei terroristi fondamentalisti di al- Qaeda contro i cristiani iracheni, già provati da attentati, assassini e la conseguente emigrazione, violenze che hanno dissanguato la piccola comunità presente nel Paese tra il Tigri e l’Eufrate, un tempo il 3 per cento dell’intero popolo iracheno, oggi ridotta a meno della metà.
Ieri il quotidiano arabo Al- Ittihad ha pubblicato sul suo sito internet una lettera minatoria di Ansar al- Islam, un gruppo terroristico affiliato alla rete di Ossama Benladen. La missiva – ricevuta da un alto rappresentante della comunità cristiana presente in Iraq – ordina ai cristiani di lasciare il Paese minacciando pesanti ritorsioni sul modello di quanto avvenuto a Mosul dove – solo nell’ultimo mese – si sono verificati almeno 22 omicidi di cristiani e circa 2mila famiglie cristiane sono fuggite per evitare gli attacchi degli integralisti islamici.
Nella lettera minatoria – segnala l’agenzia Aina – il « Segretariato generale della Brigata islamica » afferma di « aver deciso di rivolgere l’avvertimento finale agli infedeli cristiani crociati » . Il documento intima « di lasciare, completamente e in maniera definitiva, Baghdad e le altre province » irachene e « raggiungere Papa Benedetto XVI e i suoi seguaci che hanno calpestato i simboli più grandi dell’umanità e dell’islam » . Ansar alIslam, inoltre, dichiara che « da oggi non c’è posto per voi, cristiani infedeli, tra i credenti musulmani in Iraq. Le nostre spade si rivolgeranno su di voi così come successo ai cristiani che vivevano in Mosul. Allah ce n’è testimone » .
Che il paragone venga fatto con Mosul non è un caso: tale città è diven- tata l’epicentro delle violenze anticristiane in questi ultimi tempi. Se qui nel 2003 ( prima dell’invasione americana e dello scoppio del terrorismo islamista) i cristiani erano 25 mila, oggi sono ridotti a 5mila. Solo nelle ultime 4 settimane si sono contati almeno 22 morti; le ultime, le due sorelle, Lamyaa Sabih e Walaa, cattoliche rito siriaco molto note nella zona – avevano lavorato per l’amministrazione statale locale –, uccise il 12 novembre nel quartiere residenziale di Alquahira, zona nord della città.
Quest’ultimo fatto di sangue ha gettato nello sconforto la comunità cristiana locale: negli ultimi tempi le insistenti segnalazioni delle autorità governative sul miglioramento delle condizioni di sicurezza avevano con- vinto 500 famiglie esuli a far ritorno a Mosul. Padre Bashar Warda, rettore del St. Peter’s Seminary di Erbil, ha dichiarato alla sezione inglese di Aiuto alla Chiesa che soffre che « molti pensano di lasciare di nuovo Mosul. Il governo sta cercando di dire che la città è di nuovo sicura, e poi succedono fatti come l’omicidio delle due sorelle cattoliche …» .
Intanto si registra una notizia positiva: dopo oltre un anno e mezzo, l’esercito degli Stati Uniti ha restituito alla Chiesa cattolica la sede del Babel College, l’unica Facoltà di Teologia cristiana esistente in Iraq, situata nel quartiere di Dora, a Baghdad, zona a maggioranza cristiana. Il College era stato trasformato in una base militare americana.