venerdì 21 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa chiede ai contemplativi di vivere la fedeltà al Vangelo in modo radicale - La vita monastica insegna a cercare Dio – L’Osservatore Romano, 21 Novembre 2008
2) Una testimonianza dall'India nella Giornata delle Claustrali - La preghiera nel mezzo delle persecuzioni - di Madre Alosious, Clarissa – L’Osservatore Romano, 21 Novembre 2008
3) Una vocazione esistenziale particolare ma alla quale tutti sono chiamati - Il faticoso cammino dell'esperienza contemplativa - di Marta della Madre di Dio - Carmelo "Tre Madonne" (Roma) – L’Osservatore Romano, 21 novembre 2008
4) S.E. Card. Carlo Caffarra - "Dignità nel vivere e nel morire", relazione al convegno organizzato dalla Associazione Medici Cattolici Italiani - Bologna, 15 novembre 2008
5) S.E. Card. Carlo Caffarra - Etica ed affari: impossibile, difficile, auspicabile convivenza? - Bologna – Prefettura, 15 novembre 2008
6) ELUANA/ Ecco come la Cassazione ha smentito se stessa - Alberto Gambino - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ Mons. Fisichella: il Parlamento italiano ora dica no all'eutanasia - INT. Rino Fisichella - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Dalla Svezia una lezione di libertà - Giovanni Cominelli - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ Strik Lievers: da radicale dico che la libertà di educazione è un bene non solo per i cattolici - INT. Lorenzo Strik Lievers - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) LETTERATURA/ Saint-Exupéry e il Piccolo Principe, volto amichevole dell'ignoto - Gianfranco D'Ambrosio - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) I TIC DELLA STAMPA CONDIZIONATA DALL’IDEOLOGIA RADICALE - Quando si tratta di successi sulle staminali scende il silenzio - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 21 novembre 2008


Il Papa chiede ai contemplativi di vivere la fedeltà al Vangelo in modo radicale - La vita monastica insegna a cercare Dio – L’Osservatore Romano, 21 Novembre 2008
"Cercare Dio e nulla anteporre al suo amore": è questo lo scopo di ogni esperienza di vita monastica. Lo ha ribadito Benedetto XVI durante l'udienza ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ricevuti nella mattina di giovedì 20 novembre, nella Sala Clementina.
Signori Cardinali, venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle!
Con gioia vi incontro in occasione della Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che celebra i suoi cento anni di vita e di attività. È passato infatti un secolo da quando il mio venerato predecessore San Pio x, con la Costituzione apostolica Sapienti Consilio, del 29 giugno 1908, rese autonomo il vostro Dicastero come Congregatio negotiis religiosorum sodalium praeposita, denominazione successivamente modificata più volte. Per ricordare questo evento avete programmato, il 22 novembre prossimo, un Congresso dal significativo titolo "Cento anni al servizio della vita consacrata"; auguro perciò pieno successo all'opportuna iniziativa. L'odierno incontro è per me occasione quanto mai propizia per salutare e ringraziare tutti coloro che lavorano nel vostro Dicastero. Saluto in primo luogo il Prefetto, Cardinale Franc Rodé, a cui sono grato anche per essersi fatto interprete dei comuni sentimenti. Insieme con lui saluto i Membri del Dicastero, il Segretario, i Sotto-Segretari e gli altri Officiali che, con mansioni diverse, prestano il loro quotidiano servizio con competenza e sapienza, per "promuovere e regolare" la pratica dei consigli evangelici nelle varie forme di vita consacrata, come anche l'attività delle Società di vita apostolica (cfr. Cost. ap. Pastor bonus, n. 105). I consacrati costituiscono una eletta porzione del Popolo di Dio: sostenerne e custodirne la fedeltà alla divina chiamata, carissimi fratelli e sorelle, è il fondamentale impegno che svolgete secondo modalità ormai ben collaudate grazie all'esperienza accumulata in questi cento anni di attività. Questo servizio della Congregazione è stato ancor più assiduo nei decenni successivi al Concilio Vaticano ii, che hanno visto lo sforzo di rinnovamento, sia nella vita che nella legislazione, di tutti gli Istituti religiosi e secolari e delle Società di vita apostolica. Mentre, pertanto, mi unisco a voi nel rendere grazie a Dio, datore di ogni bene, per i buoni frutti prodotti in questi anni dal vostro Dicastero, ricordo con pensiero riconoscente tutti coloro che nel corso di questo secolo di attività hanno profuso le loro energie a beneficio dei consacrati e delle consacrate.
La Plenaria della vostra Congregazione ha focalizzato quest'anno la sua attenzione su un tema che mi è particolarmente caro: il monachesimo, forma vitae che si è sempre ispirata alla Chiesa nascente, generata dalla Pentecoste (cfr. At 2, 42-47; 4, 32-35). Dalle conclusioni dei vostri lavori, incentrati specialmente sulla vita monastica femminile, potranno scaturire indicazioni utili a quanti, monaci e monache, "cercano Dio", realizzando questa loro vocazione per il bene di tutta la Chiesa. Anche recentemente (cfr. Discorso al mondo della cultura, Parigi, 12 settembre 2008) ho voluto evidenziare l'esemplarità della vita monastica nella storia, sottolineando come il suo scopo sia semplice ed insieme essenziale: quaerere Deum, cercare Dio e cercarlo attraverso Gesù Cristo che lo ha rivelato (cfr. Gv 1, 18), cercarlo fissando lo sguardo sulle realtà invisibili che sono eterne (cfr. 2 Cor 4, 18), nell'attesa della manifestazione gloriosa del Salvatore (cfr. Tt 2, 13). Christo omnino nihil praeponere (cfr. RB 72, 11; Agostino, Enarr. in Ps. 29, 9; Cipriano, Ad Fort 4). Questa espressione, che la Regola di san Benedetto riprende dalla tradizione precedente, esprime bene il tesoro prezioso della vita monastica praticata fino ad oggi sia nell'occidente che nell'oriente cristiano. È un invito pressante a plasmare la vita monastica fino a renderla memoria evangelica della Chiesa e, quando è autenticamente vissuta, "esemplarità di vita battesimale" (cfr. Giovanni Paolo ii, Orientale lumen 9). In virtù del primato assoluto riservato a Cristo, i monasteri sono chiamati a essere luoghi in cui si fa spazio alla celebrazione della gloria di Dio, si adora e si canta la misteriosa ma reale presenza divina nel mondo, si cerca di vivere il comandamento nuovo dell'amore e del servizio reciproco, preparando così la finale "manifestazione dei figli di Dio" (Rm 8, 19). Quando i monaci vivono il Vangelo in modo radicale, quando coloro che sono dediti alla vita integralmente contemplativa coltivano in profondità l'unione sponsale con Cristo, su cui si è ampiamente soffermata l'Istruzione di codesta Congregazione "Verbi Sponsa" (13.v.1999), il monachesimo può costituire per tutte le forme di vita religiosa e di consacrazione una memoria di ciò che è essenziale e ha il primato in ogni vita battesimale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore. La via additata da Dio per questa ricerca e per questo amore è la sua stessa Parola, che nei libri delle Sacre Scritture si offre con dovizia alla riflessione degli uomini. Desiderio di Dio e amore per la sua Parola si alimentano pertanto reciprocamente e generano nella vita monastica l'esigenza insopprimibile dell'opus Dei, dello studium orationis e della lectio divina, che è ascolto della Parola di Dio, accompagnata dalle grandi voci della tradizione dei Padri e dei Santi, e poi preghiera orientata e sostenuta da questa Parola. La recente Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, celebrata a Roma il mese scorso sul tema: La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, rinnovando l'appello a tutti i cristiani a radicare la loro esistenza nell'ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, ha invitato specialmente le comunità religiose e ogni uomo e donna consacrati a fare della Parola di Dio il cibo quotidiano, in particolare attraverso la pratica della lectio divina (cfr. Elenchus praepositionum n. 4). Cari fratelli e sorelle, chi entra in monastero vi cerca un'oasi spirituale dove apprendere a vivere da veri discepoli di Gesù in serena e perseverante comunione fraterna, accogliendo pure eventuali ospiti come Cristo stesso (cfr. RB 53, 1). È questa la testimonianza che la Chiesa chiede al monachesimo anche in questo nostro tempo. Invochiamo Maria, la Madre del Signore, la "donna dell'ascolto", che nulla antepose all'amore del Figlio di Dio da lei nato, perché aiuti le comunità di vita consacrata e specialmente quelle monastiche ad essere fedeli alla loro vocazione e missione. Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell'unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell'Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione. Mentre per questo assicuro la mia preghiera, di cuore imparto la Benedizione Apostolica a tutti voi che partecipate alla Plenaria, a quanti operano nel vostro Dicastero e ai membri dei vari Istituti di vita consacrata, specialmente a quelli di vita integralmente contemplativa. Il Signore effonda su ciascuno l'abbondanza delle sue consolazioni.
(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


Una testimonianza dall'India nella Giornata delle Claustrali - La preghiera nel mezzo delle persecuzioni - di Madre Alosious, Clarissa – L’Osservatore Romano, 21 Novembre 2008
Qual è l'impatto delle attività anti-cristiane sulla nostra vita contemplativa? Quali sono le nostre impressioni in questo momento? Quali le nostre riflessioni, speranze, paure, angosce? Innanzitutto, vorremmo dire che siamo profondamente toccate e rattristate dal fatto che il nostro Paese, che una volta era tollerante e pacifico, è diventato un focolaio di terrorismo e di persecuzione contro i cristiani. Questi motivi non sono tali da farci disperare o da scoraggiarci perché "tutta la creazione geme e soffre fino a oggi" (Romani, 8, 22) in attesa di un cielo nuovo e di una terra nuova. Siamo piene di speranza perché sappiamo che il sangue dei martiri è germe del cristianesimo, e che "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Romani, 8, 28). Sappiamo che questa è la tempesta che viene prima della calma; sappiamo che Dio vincerà e che dopo questo Venerdì Santo ci sarà sicuramente la Domenica di Pasqua. Indubbiamente, stiamo affrontando una vera persecuzione dei cristiani, una persecuzione che è un invito a scuotere tutti i cristiani in letargo, letargo in cui ci troviamo anche noi suore contemplative. Siamo ferite dalla consapevolezza che finora non siamo state vere cristiane, che il nostro Padre Celeste ci stia dando una scossa per farci essere cristiane credibili e lodiamo il Signore perché la Chiesa in India si sta svegliando. Qual è stato l'impatto di tutte queste vicende su di noi, nella clausura? Soltanto ascoltando quanto è successo in una comunità a Quilon si può capire quello che sta avvenendo in tutte le nostre comunità. Tutto è cominciato con una legge inaccettabile sull'educazione, approvata in Kerala. Poi abbiamo sentito tutto ciò che succedeva in Orissa e la profanazione della nostra Cappella a Milagre, nel Bangalore. Ci siamo molto rattristate e abbiamo deciso di digiunare e pregare. Abbiamo anche deciso di rinunciare a un tempo di ricreazione per poter offrire delle preghiere di intercessione. Dopo circa una settimana di questa preghiera così intensa un vescovo, che è anche nostro amico, ci ha visitato dicendo che in queste circostanze non dovevamo rinunciare alla ricreazione. Rimanendo nell'obbedienza, abbiamo cercato comunque di non smettere di pregare e di intercedere. È interessante e incoraggiante vedere la reazione degli anziani della Casa di cura legata al nostro monastero. Fino a quel momento avevano aderito alle preghiere comunitarie rimanendo nei loro posti nel refettorio. Dopo aver sentito queste brutte notizie andavano in cappella con i loro girelli e i loro bastoni per pregare insieme con la comunità. Un'ottantenne, faticosamente andava da una porta all'altra, bussando alle porte delle sue amiche, chiamandole in cappella per pregare e intercedere insieme. Il fervore con cui si sono radunate ci ha edificate e incoraggiate; anche gli anziani si sono sentiti ringiovaniti. Crediamo che il mondo sia mantenuto unito a motivo delle lacrime, dei sospiri e delle preghiere di anime innocenti come queste. "Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Romani, 8, 28). Di questo siamo sicure. Proprio come le eruzioni vulcaniche, i terremoti e le tempeste, così anche questi eventi paurosi e distruttivi sono episodi necessari che Dio permette per perfezionare il genere umano. Crediamo, e ne siamo sicure, che questi castighi che viviamo adesso, anche se dolorosi e apparentemente oltre la nostra capacità di sopportazione, facciano parte del piano di Dio che corregge un'umanità disonesta, chiedendo all'uomo un cambiamento del cuore e purificando la Chiesa. Mentre attendiamo il rinnovamento della Chiesa in India con una speranza profonda, siamo colpite dalla situazione in cui si trovano i cristiani poveri e i missionari. Tanti cristiani devono riconvertirsi all'induismo per salvare la loro vita; tante religiose e altre persone, specie le più povere, si nascondono nella selva senz'acqua e senza cibo. Le donne, soprattutto le sorelle religiose, sono state maltrattate e rapite. I nostri cuori sono profondamente trafitti e ci sentiamo chiamate a intensificare la nostra vita di preghiera e di sacrificio. Allo stesso tempo, troviamo conforto nel pensiero che il nostro Padre Celeste conosce tutto e preghiamo che il suo cuore si pieghi compassionevolmente verso tutti i dolori umani e ci faccia comprendere che ha permesso tutti questi eventi per il nostro bene.
(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


Una vocazione esistenziale particolare ma alla quale tutti sono chiamati - Il faticoso cammino dell'esperienza contemplativa - di Marta della Madre di Dio - Carmelo "Tre Madonne" (Roma) – L’Osservatore Romano, 21 novembre 2008
"Lo sguardo di Dio è amare e donare grazia" (S. Giovanni della Croce): riconoscere e accogliere sempre più profondamente questo sguardo che lo avvolge e lo penetra fino alle radici dell'essere è l'esperienza vitale del contemplativo. Scoprire l'immensità dell'amore con cui è amato, inabissarsi nell'intimità del proprio cuore per incontrare e conoscere quella Presenza divina che lo inabita, lasciarsi plasmare per rifletterne la luce è la sua avventura esistenziale. "Voglio vedere Dio" diventa il grido che esprime ciò che tutto il suo essere desidera ardentemente. Ma Dio nasconde il suo volto, perché l'uomo sulla terra non può sostenerne lo splendore, ma anche per garantire la libertà della sua creatura a cui non vuole imporsi. L'amore non si impone, chiede di essere accolto in libertà. Ma la sua passione sconfinata per l'uomo non si arrende mai, continua a cercarlo, come un innamorato, molto più di quanto l'uomo cerchi lui. Nell'esperienza contemplativa si scopre che incontrare il volto della Presenza amante e amata che dimora in noi significa in realtà da una parte cercarlo ancora, continuamente, e dall'altra lasciarsi cercare e trovare. Questa esperienza è un lungo, faticoso cammino in un deserto che rivela sempre più al contemplativo, da un lato la profondità della sua povertà, la sua impotenza, l'incapacità a portare a compimento il desiderio che costituisce il cuore della sua vocazione, quello di vedere e conoscere Dio, dall'altro sperimenta un'acuta desolazione per la lontananza, a volte per l'assenza, di Colui che i suoi occhi vogliono contemplare. La contemplazione fa parte del mistero della persona perché la riconduce al senso della sua origine e del suo destino: creata da Dio per una comunione infinita ed eterna con Lui. Nella fede nulla è evidente e tantomeno scontato: credere è un rischio e una fatica. È necessario liberarsi dall'idolatria a cui tanto facilmente ci si assoggetta, a cominciare da quella delle false idee su Dio che ci siamo creati noi, e dai nostri schemi spirituali in cui pretendiamo di far tornare i conti secondo le nostre misure. Per questo Dio lascia che le nostre domande rimangano talvolta senza risposta; anzi, egli stesso diventa più domanda che risposta. Il contemplativo viene spogliato da facili sicurezze e consolazioni. È allora che le sue inquietudini e insicurezze cominciano ad essere accettate come ferite aperte attraverso cui la luce e la vita divina fluiscono nascostamente in lui. È il momento in cui riscopre in tutta verità che tutto è grazia immeritata, che la propria debolezza è lo spazio dove si manifesta il miracolo della misericordia, che l'amore di Dio è pura, assoluta gratuità. Scopre che siamo grandi perché amati e non amati perché grandi. Lo stato di desolazione a volte sarà sperimentato ancora, sicuramente il desiderio dell'unione piena con il Signore continuerà ad essere un fuoco che brucia dolorosamente, ma ora nel suo cammino contemplativo la persona è sostenuta dalla pace profonda che scaturisce dall'abbandono fiducioso e da una gioia così misteriosa da essere quasi impercettibile, ma reale. Nell'attesa di vivere la comunione eterna con Dio nella sua pienezza definitiva, il contemplativo incontra la sua presenza, il suo volto scolpito nell'intimità del suo cuore, là dove sorge la sua autentica personalità nel cuore a cuore con questa presenza, e nello stesso tempo dilata il proprio cuore ad orizzonti universali, diventando per tutti i fratelli un fermento di liberazione, una rivelazione dell'amore di Dio. I suoi stessi dubbi, le sue inquietudini lo rendono compagno di cammino di tutti coloro che sono "lontani". La preghiera diventa per lui un abbraccio d'amore che stringe tutti nella carità di Cristo. Anche se alcune persone hanno il dono di una vocazione particolare alla vita contemplativa, tutti sono chiamati alla contemplazione. Lo affermava già santa Teresa di Gesù. Nei suoi insegnamenti, ella ci indica in particolare due "vie" per raggiungere "la perla, o l'acqua viva" della contemplazione: una "ferma decisione" ad andare avanti, costi quel che costi, fino a raggiungere il suo fine e soprattutto "l'umanità santa di Cristo", come via privilegiata per inabissarsi nel mistero dell'amore trinitario, che ci rivela la tenerezza infinita del Padre e ci dona di vivere la sua stessa vita e di amare con il suo stesso amore nello Spirito che infonde in noi. Essere contemplativi significa immergersi nel mistero di Dio che ci salva in Cristo rendendoci partecipi della sua stessa vita trinitaria. L'Apostolo Paolo si è inabissato in modo esemplare, scrutando e cantando con la vita e le parole la grandezza di Dio: "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11, 33).
(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2008)


S.E. Card. Carlo Caffarra - "Dignità nel vivere e nel morire", relazione al convegno organizzato dalla Associazione Medici Cattolici Italiani - Bologna, 15 novembre 2008
Articolerò la mia riflessione nel modo seguente. Dapprima cercherò di elaborare una rigorizzazione concettuale della categoria di dignità della persona umana: cosa assolutamente necessaria oggi dal momento che questa espressione è divenuta equivoca, veicolando significati contrari. Poi cercherò di dire il contenuto, il significato di vita umana degna: sarà una riflessione, questa, breve. Mi fermerò più a lungo sulla terza parte, la dignità della persona umana nel morire.
1. Dignità della persona umana.
Vorrei partire da un fatto che molti di noi compiono ogni mattina: andare all’edicola e comperare il giornale. Se non lo sa già, noi diciamo semplicemente all’edicolante il nome del giornale. Se avuto il giornale in mano dicessimo che vogliamo, per esempio, il Resto del Carlino, ma non precisamente quella copia effettivamente consegnatami, ma un’altra, l’edicolante avrebbe il diritto di pensare che non siamo completamente sani di mente. Ogni copia dello stesso giornale è la copia esatta dello stesso modello; l’una è perfettamente uguale all’altra; c’è solo una differenza numerica, nel senso che ciascuna copia è nella serie dei numeri del Resto di quel giorno.
La condizione di ogni copia del giornale ci aiuta a percepire per contrarium la persona. Questa non è la pura concretizzazione della natura umana indifferente alle sue concretizzazioni. Al riguardo scrive R. Spaemann: "La natura rationalis esiste, in quanto essere se stesso [selfst sein]. Questo però significa che l’individuo che sussiste in tal modo non può essere descritto adeguatamente da nessuna descrizione possibile. Detto in altri termini: la sua denominazione non può essere sostituita da nessuna descrizione" [in Persone. Sulla differenza tra "qualcosa" e "qualcuno", Laterza, Bari 2005, pag. 31]. Detto in altri termini. Il modo di essere proprio delle persone è singolare; non è seriale; e quindi non può essere denominato come un "essere-così e così". La denominazione di una persona non può essere sostituita da nessuna descrizione.
Per denominazione intendo "quell’operazione della mente che conosciuta una cosa le dà il nome che serve a farne conoscere la natura o l’uso cui è destinata" [Enciclopedia filosofica, art. Denominazione, 3, Bompiani, Milano 2006].
Resto del parere che la più rigorosa determinazione concettuale di persona sia quella di Tommaso d’Aquino, che ovviamente riprende e ripensa tutta la tradizione del pensiero cristiano al riguardo. Vorrei ora richiamare alcuni elementi di questa riflessione tommasiana, particolarmente illuminanti nella nostra situazione attuale.
Dicendo "persona" non indico un individuo rispetto alla sua natura, così come se dico "cane" indico un essere vivente che posso descrivere attraverso proprietà precise [cane = animale che …]. Dicendo "persona" indico invece il modo di essere degli individui nella natura umana [nomen personae – dice Tommaso – non est impositum ad significandum individuum ex parte naturae, sed ad significandum rem subsistentem in tali natura (1, q.30, a4)].
Questa osservazione ci conduce all’individuazione decisiva del concetto di persona: quale è il modo di essere nella natura umana che è proprio della persona? Possiamo connotarlo come l’essere in se stessi e per se stessi, e quindi di se stessi [sui juris]. La persona esiste in modo tale nella sua natura – diciamo pure: possiede la natura umana – che di essa natura è "padrona". Non nel senso che le persone non hanno alcuna natura e sono esse stesse che la costituiscono e la determinano. Ma nel senso che le persone sono ontologicamente capaci di decidere il loro modo di essere nella natura: il loro modo di essere conformemente o difformemente da essa. Anche se l’uso di questa capacità è condizionato da vari fattori, quali per esempio l’età, lo sviluppo neuronale o altre condizioni di salute.
La persona designa un essere originariamente proprio, che non troviamo in nessun altro individuo [quodam specialiori et perfectiori modo invenitur particulare et individuum in substantiis rationabilibus – scrive Tommaso – quae habent dominium sui actus, et non solum aguntur, sicut alia, sed per se agunt (1, q.29, a.1)].
Ora possiamo dire che cosa significa dignità della persona. Dignità indica il modo di essere proprio della persona in quanto dotato di una posizione eminente nei gradi dell’essere. Essere – persona è essere più che essere – non persona; essere qualcuno è più che essere qualcosa: questo dico quando dico "dignità della persona. È di questo "più che" parlo quando parlo di "dignità della persona". Connoto un’eccellenza e superiorità nell’essere.
Ma non solo. Dignità indica anche, e di conseguenza, esigenza di essere riconosciuta nella sua eccellenza e superiorità. L’etica e il diritto sono le scienze di questo riconoscimento: di ciò che esso implica e comporta.
E siamo già entrati nel secondo e terzo punto della riflessione: che cosa significa per la persona vivere secondo la dignità del suo essere persona? Che cosa significa per la persona morire secondo la dignità del suo essere persona?
Prima però di rispondere a queste due grandi domande devo fare ancora due riflessioni che, purtroppo per ragioni di tempo, devo ridurre al massimo.
La prima risponde alla domanda: ogni individuo umano è persona? Già Aristotile disse che viventibus vivere est esse. Nel vivente non si può separare l’essere dal vivere. Là dove vive un uomo, c’è una persona umana. "L’essere della persona è la vita di un uomo" [R. Spaemann, Persone … cit. pag. 241].
Non solo, ma qualsiasi altro criterio per discernere fra gli individui umani chi è persona e chi non che non sia la pura e semplice appartenenza alla specie umana, è inevitabilmente l’attribuzione di un potere di giudizio su altri che non potrebbero mai prendere parte alla discussione sui criteri scriminanti della personalità.
La seconda riflessione è di non minore importanza. Il modo di esser proprio della persona è costitutivamente relazionato alle altre persone: nessuna persona è senza porte e senza finestre. Dire persona irrelata è dire un non-senso. E la relazione si costituisce pienamente nel riconoscimento dell’altro come persona: non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama il prossimo come te stesso. Quando dunque parlo di umanità non denoto come quando parlo di animalità, una specie vivente, ma – come giustamente pensava Kant – denoto e la famiglia umana e ciò che fa di ogni uomo una persona. Umanità denota non un insieme di tanti individui che realizzano la stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento.
Ora possiamo tentare una risposta vera alle due grandi domande: quale vita? quale morte?
2. Quale vita? dignità nel vivere.
L’uomo desidera non semplicemente vivere, ma vivere una vita buona, che sia cioè adeguata alla dignità propria della persona: che sia una vita degna della persona.
Donde la domanda fondamentale: in che cosa consiste la dignità della vita di una persona? È a questa domanda che cercherò di rispondere in questa seconda parte della mia riflessione.
Una prima risposta potrebbe essere la seguente. Non esiste un criterio universalmente condivisibile per scriminare una vita degna da una vita indegna, che non sia puramente formale, privo di qualsiasi contenuto. Infatti la dignità/indegnità del proprio vivere dipende eclusivamente dal giudizio di chi vive: ciascuno giudica se la propria vita è degna, se è una buona vita. L’unico criterio è la soggettiva auto-determinazione del singolo.
Questa risposta nasconde un grave errore, ma anche una verità. L’errore consiste nel fatto che nega l’esistenza di forme, di stili di vita che siano obiettivamente indegni di una persona umana, prescindendo dal fatto che in esso la persona si senta o non si senta realizzata. È sempre stato un grave scandalo per la ragione, prima che per la fede in un Dio provvidente, il vedere unite nella stessa persona una condizione di benessere e comportamenti disonesti. La ragione, ancor prima che la fede, intuisce che parlare di vita degna significa affermare l’esistenza di condizioni, forme, stili di vita obiettivamente indegni dell’uomo.
La risposta tuttavia ha una sua verità. La persona umana in forza della sua soggettività spirituale non è solo mossa ad un fine, ma muove se stessa verso un fine. Parlare di "vita degna" … all’insaputa di chi la vive, è un non senso.
Da questa riflessione deriva una conseguenza importante. "Dignità della vita" denota simultaneamente e una condizione di bene-essere – di benessere – condivisibile da ogni soggetto ragionevole è una condizione di bene-essere – di benessere – in cui il singolo possa dire: "come è bello vivere!". Il punto merita di essere approfondito un poco.
Quando si opera questa sintesi fra una condizione obiettiva di vita degna ed una condizione soggettiva di intima soddisfazione per la qualità della propria esistenza? Quando i nostri bisogni, le nostre esigenze naturali sono ragionevolmente soddisfatte. Faccio un esempio, per spiegarmi meglio.
È un’esigenza naturale di ogni persona vivere in società: una vita asociale è indegna dell’uomo. Tuttavia ci sono modi e modi, forme e forme di vivere associati. Vivere in una società emarginati non è una vita degna dell’uomo. La ragione umana è chiamata quindi a scoprire, interpretando con verità la natura sociale dell’uomo, la forma buona – degna della persona – della vita associata.
Chiamiamo le risposte ragionevoli alle esigenze naturali dell’uomo beni umani operabili [operabili perché devono essere realizzati dall’agire umano secondo la retta ragione], cioè beni morali.
Siamo giunti dunque al seguente risultato colla nostra riflessione: è una vita umana degna quella della persona che viene in possesso dei beni morali, dei beni umani operabili. In due parole: vita umana degna è uguale a vita moralmente buona [nel senso suddetto].
Prima di procedere, vorrei fare due osservazioni su cui non c’è tempo purtroppo di fermarci.
La prima. Esistono beni morali che possono essere realizzati non semplicemente operando, ma solo co-operando. Sono i beni che si compiono mediante la virtù della giustizia.
La seconda. I beni morali operabili non si collocano tutti sullo stesso piano, ma esiste fra essi una gerarchia: il martire rinuncia alla vita, che è un bene, pur di non spezzare la sua alleanza con Cristo, che è il bene più grande.
Entro ora, più brevemente, nel nostro tema. Non c’è dubbio che la salute sia un bene umano, un bene morale. Una vita sana è più degna dell’uomo che una vita ammalata. Da questa basilare intuizione è nata la medicina come scienza ed arte tesa a conservare o restituire alla persona e nella persona il bene della salute. Faccio due riflessioni al riguardo, e concluso questa seconda parte.
La prima. La salute diventa sempre più un bene co-operabile. Cioè: il bene della salute oggi non si opera solo nel rapporto medico-paziente, ma esso è il frutto anche di un’organizzazione pubblica.
Questo fatto, indubbiamente positivo, non deve farci dimenticare una verità assai importante. La salute appartiene a quei beni umani che rispondono a bisogni umani che non sono "solvibili": che cioè non possono essere trattati solo colla logica del mercato.
La salute è un bene che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.
La seconda. La salute non è un bene sommo. La riflessione etica cristiana ha da sempre formulato il principio seguente, a voi ben noto: la persona ha il dovere/diritto di fare uso di mezzi terapeutici proporzionati/ ordinari, non sproporzionati/ straordinari.
Alla base di questo principio sta precisamente l’intuizione che la salute non è il bene sommo, e che essa può anche essere sacrificata per i beni ad essa superiori. E con questo siamo già entrati nella terza ed ultima parte della nostra riflessione.
3. Quale morte? dignità del morire
Parlare di una "dignità nel morire" è diventato oggi nella cultura post-moderna un non-senso. Esiste una bellissima poesia di Rilke, che dice: "Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte./ La morte che fiorì da quella vita/ in cui ciascuno amò, pensò, sofferse". Ma oggi nel sentire comune, morire è semplicemente cessare di vivere: è crepare.
Si potrebbero fare molte riflessioni al riguardo, ma il tempo che abbiamo a disposizione è poco.
Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte è di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale [suicidio puro e semplice] sia anticipata [suicidio assistito].
Questa nobilitazione è oggi inserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione – che oggi è diventata necessaria – sulla fine della vita. Proverò dunque a fare un poco di chiarezza, se ci riesco.
Il prudente discernimento fra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte.
È necessario poi distinguere nettamente fra terapia e cura della persona [idratazione, alimentazione, pulizia …]. La seconda è sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente il profilo dell’omicidio. La prima invece è dovuta fatte però le necessarie distinzioni.
Fatte queste chiarificazioni, possiamo parlare con verità di dignità nel morire? Quando la morte è degna di una persona umana?
Se guardiamo con sguardo fugace alla tradizione etica del nostro Occidente, costatiamo che indubbiamente il concetto di dignità della morte è presente. Sotto almeno tre figure.
- La figura della nobilitazione del suicidio. La morte del suicida acquista, secondo questa visione, una sua dignità come contestazione di un ordine delle cose umane ritenuto assolutamente assurdo.
- La figura del martire. Già presente nella tradizione giudaica [la grande epopea maccabaica], e non assente del tutto dalla grecità [morte di Socrate!], acquista una dignità incomparabile nel cristianesimo.
- È invece assolutamente originale la concezione cristiana della dignità della morte. La morte di Cristo è stato l’atto supremo del suo amore poiché in essa è avvenuta la totale donazione di Se stesso. La morte come dono di sé è l’originalità del cristiano. E la morte del cristiano è la partecipazione alla morte di Cristo: in questa partecipazione sta la sua eminente dignità.
Lasciando ora la pur fugace visita alla vicenda storica, vorrei finalmente esprimere chiaramente [lo spero] quale sia il contenuto vero dell’espressione "dignità nel morire".
È una morte degna quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate.
È una morte degna quella di chi può godere delle cosiddette "cure palliative", destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza.
È una morte degna quella di chi è accompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone.
È una morte degna quella di chi "muore per il Signore": vive la propria morte come atto di fiducioso abbandono nel Signore.
È una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico.
È una morte indegna quella di chi viene privato di cure palliative.
È una morte indegna quella di chi viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.
È una morte indegna quella di chi credente nel Cristo, non unisce le sue sofferenze a quelle di Gesù per la salvezza dell’umanità.
Se, infine, una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignità della persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale.


S.E. Card. Carlo Caffarra - Etica ed affari: impossibile, difficile, auspicabile convivenza? - Bologna – Prefettura, 15 novembre 2008
Esiste una relazione fra economia ed etica? La mia riflessione cercherà di rispondere a questa domanda. Se essa sorge, è perché almeno sembra che fra le due non vi sia alcuna relazione. Poiché ogni agire umano si definisce dal fine che si propone, è indubbiamente vero che il fine che si propone l’economista è altro dal fine che si propone l’eticista. Il primo studia e cerca di individuare "quei principi che spiegano le interazioni di soggetti che vivono in società e che riguardano la produzione, lo scambio, il consumo, etc. di beni e servizi" [S. Zamagni]. Il secondo studia le ragioni che giustificano/ non giustificano [nel senso letterale: che rendono le scelte giuste/ingiuste] le scelte dell’uomo: ragioni universalmente ed incondizionatamente condivisibili. Mentre dunque l’economista non intende sapere se l’agire è giusto, ma se è utile; l’eticista non intende sapere se l’agire è utile, ma se è giusto. Dunque separati in casa, dal momento che l’uno e l’altro studiano lo stesso "materiale": l’agire umano.
Ad un occhio però più penetrante le cose non appaiono solo in questo modo: esiste una correlazione reale, non semplicemente imposta ab estrinseco, fra l’etica e l’economia. È ciò che mi appresto a dimostrare.
1. Vorrei partire dalla costatazione di un fatto: la richiesta di regole, di nuove regole, dovuta soprattutto a quanto sta accadendo. L’idea di un mercato che ha in se stesso e per se stesso le proprie regole che lo legittimano pienamente, esce sconfitta, o quantomeno seriamente messa in discussione. Ciò che è accaduto ha decretato la fine della convinzione che il libero mercato sia in grado da solo di porre rimedio alle storture che esso stesso crea. L’invocazione di regole, sempre più frequente oggi, dimostra dunque che il divorzio o la separazione fra etica ed economia è cessato? Che il muro di silenzio reciproco è crollato? La vicenda non si chiude purtroppo così in fretta.
Mi spiego con un esempio. Un governo emana norme assai severe circa la concessione del permesso di soggiorno agli immigrati. Che cosa può spingere un imprenditore, che ha assoluto bisogno di forza lavoro per la sua impresa, a non trattare col trafficante di immigrati o a trattare? La prospettiva della sanzione? Potrebbe essere; ma non è pensabile che almeno in certe circostanze, la sanzione sia un’ipotesi poco probabile?
Sono a proposito due osservazioni di G. Leopardi. La prima dice che "L’abuso e la disobbedienza alla legge non può essere impedita da nessuna legge" [Zibaldone 229]; la seconda:
"Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia" [Zibaldone 3349-3350].
Se la richiesta di (nuove) regole è seria, essa deve prevedere ed assicurare la loro esecutorietà. Ora, l’esecutorietà di esse non dipende dalle regole stesse, ed ancora meno da sistemi di rafforzamento esogeno, ma dalla costituzione morale del soggetto. Solo una riflessione etica "in prima persona" sarà capace di dialogare con l’economia. Non ne è capace un’etica della "terza persona".
Mi fermo un momento a spiegare questo concetto, centrale in tutta la nostra riflessione. La prima figura di etica – "in prima persona" – studia la condotta umana dal punto di vista del soggetto agente, cioè in quanto essa è progettata e realizzata dal soggetto che ne è l’autore in vista di una vita buona.
La seconda figura – "alla terza persona" – studia la possibilità e l’individuazione delle regole che governano l’agire umano, ma prescindendo dal soggetto che agisce e progetta la sua vita. Ritiene infatti la considerazione di queste fonte di divisioni sociali [Hobbes, Locke], o come puramente soggettiva [Kant]; comunque razionalmente intrattabile.
La prima figura, elaborata dalla classicità greca e ripresa dal pensiero cristiano, è stata rifiutata dalla modernità.
Riprendiamo il filo della nostra riflessione. È perché vi sono agenti che hanno una precisa costituzione etica in forza della quale preferiscono la giustizia all’ingiustizia, che le regole, nuove od antiche che siano, saranno rispettate. Già Aristotile annotava che non è la regola che fa l’uomo giusto, ma l’uomo giusto che fa ed osserva le regole.
Contro questa dottrina etica "alla prima persona", comune ripeto all’Occidente fino al XVI secolo, si oppone la dottrina etica che la regola ha la sua origine esclusivamente dal consenso delle parti, le quali devono prescindere dalle loro concezioni di vita buona. Non per caso è stata questa teoria etica la principale responsabile della separazione fra etica ed economia, dal momento che essa ha fondato e giustificato la tesi secondo la quale il mercato si autolegittima. Esso infatti è il luogo in cui gli agenti sono liberi di scegliere e perciò liberi di acconsentire alle conseguenze derivanti dalle loro scelte: consensus facit justum!
È noto che l’aver posto alla base dell’obbligazione etica il consenso, è una conseguenza della visione individualista dell’uomo. Secondo questa visione infatti l’uomo non è originariamente, cioè per natura associato. Esso si associa per libero consenso. È la contrattazione l’unica forma dell’associarsi fra gli uomini. Pertanto esiste fondamentalmente solo la giustizia commutativa e la giustizia legale: l’una esige il rispetto degli obblighi contrattati [= "fosti d’accordo, ora sei obbligato a mantenere gli accordi"]; l’altra esige il rispetto delle regole che disciplinano la libera contrattazione. Un’idea forte di bene comune non è pensabile in questo contesto.
Come è noto il grande teorico della teoria (neo-)contrattualista è stato J. Rawls. Uno dei principi che giustificano la detta teoria è che i vincoli, le regole che governano il mercato e le contrattazioni, siano da tutti condivisi o comunque se conosciute, sarebbero da tutti condivise.
Già Agostino nelle sue profonde analisi della libertà umana aveva però accuratamente distinto la possibilità di scegliere dalla capacità di scegliere. Poiché trattava un problema teologico, faceva la distinzione fra il posse non peccare [= possibilità di peccare o non peccare] e il non posse peccare [= la capacità effettiva di non peccare]. Da ciò deduceva che la grazia di Cristo non negava la libertà, ma semplicemente la rendeva capace di scegliere.
Lasciando il contesto teologico, possiamo semplicemente dire: la capacità di usare della propria libertà rientra nella sua definizione. L’uso fa parte della definizione.
Orbene, non bisogna essere grandi economisti per sapere che nelle nostre economie di mercato spesso c’è la possibilità di scelta, c’è assenza di costrizioni [nessuno obbliga un genitore ridotto alla miseria a vendere un organo del suo corpo per risolvere i suoi problemi], ma non la capacità di scegliere, come risulta dal fatto che la stessa persona non acconsente alle conseguenze della scelta, ma le subisce [il genitore non acconsente alle conseguenze spiacevoli del fatto che ora sarà con un rene solo].
Aristotile già diceva finemente che non esiste solo il volontario e l’involontario, ma anche il non –volontario. E che solo il volontario è un atto pienamente umano. Il pilota che in un’emergenza scarica in volo tutto il carburante dell’aereo compie un atto non –volontario, e non un atto involontario: ha voluto, ha deciso di svuotare i serbatoi, ma non acconsente alle conseguenze.
Insomma: il libero mercato deve essere veramente libero. Ed è tale se chi lo fa, è persona libera; se il mercato risponde alle esigenze reali dell’uomo in tutte le sue dimensioni; se il valore di scambio non è sconnesso dal valore d’uso, cioè dalla sua effettiva utilità all’uomo nella concretezza dei suoi bisogni.
Questa lunga, e forse complicata riflessione, ci ha portato ad una conclusione. La seguente: il mercato, in quanto luogo in cui gli agenti sono liberi di scegliere e quindi di acconsentire alle conseguenze delle loro scelte, non è in grado di autolegittimarsi, perché semplicemente non è quasi mai vero il presupposto dell’autolegittimazione.
E pertanto, se il mercato non è in grado di autogiustificarsi è necessario ricorrere all’etica.
Ma quale etica? I sistemi etici sono tanti. Ho parlato sopra di una transizione epocale da un’etica alla prima persona ad un’etica alla terza persona. Ritengo che sia necessario tornare alla prima, perché la sola capace di instaurare un dialogo vero con l’economia. Nella seconda parte del mio intervento vorrei riflettere in questa direzione, partendo dalle ultime riflessioni.
2. Parto da un testo mirabile della Lett. Enc. Centesimus annus, che dice:
"Sembra che, tanto a livello delle singole nazioni, quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono "solvibili", che dipendono da un potere di acquisto, e quelle risorse che sono "vendibili", in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano" [34,1; EE 8,1417].
È ripresa in questo testo l’intuizione centrale del Magistero della Chiesa da Paolo VI in poi: la globalizzazione non va condannata ma governata, e la finanza deve essere al servizio dell’economia reale.
Per comprendere la ragione profonda di queste affermazioni è necessario che partiamo da alcune riflessioni antropologiche.
Il modo di essere proprio delle persone è costitutivamente relazionato alle altre persone. Nessuna persona è in questo senso un individuo: indivisum in se et divisum a quolibet alio, come dicevano gli Scolastici. Parlare di persona irrelata è parlare di un’astrazione.
La relazione si costituisce nel riconoscimento dell’altro come persona avente la stessa dignità della propria persona. "Non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama ogni altro come te stesso", è la regola aurea inscritta nella natura stessa della persona umana.
Come giustamente pensava I. Kant, le due parole "genere animale" e "genere umano" hanno significato denominativo diverso. Mentre la prima denota semplicemente un insieme di tanti individui appartenenti alla stessa specie, la seconda denota e la famiglia-comunità umana e ciò che fa di ogni membro di essa una persona. Umanità denota cioè non un insieme di individui appartenenti alla stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento.
Il termine "prossimo" [che, non dimentichiamolo, è il superlativo di prope] significa questo legame originario. Anche altri termini denotano "prossimità" come cittadino, coniuge, nazione … Ma mentre il primo termine denota la interrelazione nella stessa umanità; gli altri termini denotano la modalità in cui la prossimità si realizza. L’essere prossimo e l’essere membro di una comunità si compenetrano reciprocamente.
Questa compenetrazione è sia di ordine oggettivo che di ordine soggettivo. Di ordine oggettivo: il prossimo è sempre membro di una certa comunità [famiglia, nazione, Stato …] e i membri di una certa comunità sono prossimo. Di ordine soggettivo: l’agire con i membri della stessa comunità [della stessa famiglia, della stessa città …] deve giungere fino all’umanità di ogni uomo. Separare cioè la realizzazione del bene della comunità dal bene dell’uomo come tale è una menzogna [nega la verità dell’uomo] ed un’ingiustizia [non rende all’uomo ciò che è dell’uomo: unicuique suum].
L’interpretazione che Gesù dà nella parabola del Samaritano della regola aurea [amerai il prossimo …] ci fa comprendere il profondo significato di "prossimità". Il sistema di riferimento "il prossimo" esprime l’interrelazione tra tutti gli uomini sulla base della loro semplice umanità, mentre il sistema di riferimento "membro della comunità", non svela ancora questa interrelazione [cfr. K. Woitila, Persona e atto, Rusconi, Milano 1999, pag. 685-687].
Il samaritano si rapporta al ferito uscendo dalla sua determinazione di appartenere ad un’etnia, cosa che non fa né il sacerdote né il levita.
Se ora rileggiamo il testo della Centesimus annus ne comprendiamo meglio il significato. La "comunità mercato" colle sue regole proprie non può essere sradicata dalla comunità posta in essere dall’interrelazione di umanità. Non tutti i bisogni sono "solvibili" né tutte le risorse sono semplicemente "vendibili": l’humanum come tale non ha prezzo perché ha una dignità.
Comprendiamo meglio come il mercato non debba essere lasciato alla sua autosufficienza ed autolegittimazione: esso è strumento, oggi necessario, per il fine che è il bene comune. E fra bene comune e bene individuale due esiste una integrazione gerarchica. Non si tratta di una reciproca limitazione: l’uomo come "membro della comunità mercantile" limiterebbe l’uomo "prossimo" e alla "regola d’oro" andrebbe sostituita la "regola di rame": "fai all’altro ciò che l’altro fa a te". Integrazione gerarchica significa che il sistema di riferimento "prossimo" ordina dall’interno il sistema di riferimento "mercato". Siamo così giunti alla stessa conclusione della riflessione sviluppata nel primo punto.
Solo una profonda attitudine di solidarietà, che trova espressione nel comandamento dell’amore del prossimo, è in grado di subordinare dall’interno il mercato al sistema di riferimento "prossimo", cioè al bene comune. Questa subordinazione è opera della "giustizia generale", la chiamavano gli antichi eticisti: la permanente disposizione ad ordinare il proprio interesse privato al bene comune. E aggiungevano che … era soprattutto necessaria [principaliter et quasi architectonice, dice S. Tommaso in 2,2,q.58,a.6] in chi governa gli Stati.
La conclusione quindi non è di mettere in discussione né il mercato come tale né il mercato a struttura capitalista. Esso al contrario è da salvaguardare, contro eventuali tentazioni di marca neo-statalistica e neo-corporativa.
La riflessione precedente conduce invece a concludere che si tratta alla radice di una crisi più antropologica che economica. In un duplice senso. E nel senso che la riduzione della razionalità alla razionalità utilitarista, porta alla creazione di una ricchezza solo virtuale. E nel senso, anche e soprattutto, che non si può mai dimenticare che l’uomo ha bisogni e moventi ben più profondi del solo profitto anche quando e nel momento in cui è homo oeconomicus.
Vorrei concludere con un paio di osservazioni che mi sembrano logiche conseguenze di quanto detto finora.
La prima. L’analisi condotta, un po’ troppo schematicamente lo riconosco, nella seconda parte della mia riflessione ci fa scoprire la vera radice dell’alienazione dell’uomo. Essa consiste nella separazione del sistema "prossimo" dal sistema "membro della comunità mercantile" e nella loro contrapposizione. Potremmo dire: l’uomo si aliena, si estranea da se stesso quando sostituisce la regola di rame alla regola d’oro. Quando l’uomo sradica il mercato dall’interrelazione di tutti gli uomini nell’umanità come principio di ogni comunità, perde se stesso e vedrà sempre il proprio bene in concorrenza col bene comune. E alla fine dimentica i suoi bisogni reali.
La seconda. Ciò che ha generato l’alienazione è stata la visione individualista dell’uomo: è questa la nostra malattia mortale. Il ritorno in economia della relazionalità – di cui parla il prof. Zamagni – è la via da percorrere. Riportare dentro l’economia la visione relazionale della persona e quindi la centralità della categoria del bene comune, è un’impresa ed un sfida non più eludibili. È questa la condizione per far sì che il mercato diventi luogo di umanizzazione dei rapporti interpersonali e strumento di progresso sociale.
Era anche questo il significato dell’omelia che ho fatto per la solennità di S. Petronio, indicando in questa svolta antropologica la condizione basilare della crescita anche della nostra città.


ELUANA/ Ecco come la Cassazione ha smentito se stessa - Alberto Gambino - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Con la sentenza di inammissibilità con cui i supremi giudici hanno rigettato il ricorso, la Cassazione ha ritenuto non impugnabile dal PM la valutazione di una delle due condizioni di legittimità dell’interruzione di trattamento, da lei stessa indicata nella sentenza dell’ottobre scorso, e cioè l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente (l’altra era la prova del consenso all’interruzione), in quanto posizione contrapposta al “diritto personalissimo del paziente all’autodeterminazione terapeutica”.
Con questo nuovo pronunciamento la Cassazione ha così finito per smentire se stessa: è ora sufficiente per il tutore dimostrare la volontà di interruzione al trattamento del paziente, restando sullo sfondo la prova dell’irreversibilità della sua patologia, in quanto una volta ottenuta l’autorizzazione, nessuno – se non il tutore stesso, che dunque non lo farà avendo proprio lui attivato la procedura – potrà impugnare la decisione ove si abbiano dubbi sulla effettiva condizione di irreversibilità. Del resto proprio questo è capitato nel giudizio, dove il Procuratore generale presso la Cassazione ha, da un lato, propeso per l’inammissibilità del ricorso, ma, dall’altro, lo ha ritenuto nel merito fondato, proponendo l’accoglimento per l’erroneità dell’indagine sull’irreversibilità dello stato vegetativo.
Così però si afferma il principio che l’interruzione al trattamento vitale è legittima, anche se un soggetto di garanzia costituzionale, come è il procuratore, ritenga erronea la valutazione in base alla quale si autorizza l’interruzione.


ELUANA/ Mons. Fisichella: il Parlamento italiano ora dica no all'eutanasia - INT. Rino Fisichella - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Monsignor Fisichella, il caso di Eluana Englaro, prima di ogni discussione di merito, provoca un’immediata reazione sul piano puramente umano ed emotivo: quali sentimenti prova al pensiero che una persona possa essere lasciata morire di fame e di sete?
In questo caso la prima persona da guardare è proprio Eluana. Di fronte a lei bisogna innanzitutto invocare il rispetto, dove rispetto significa rendersi conto che accanto a noi c’è un’altra persona. E qui c’è: c’è una persona, c’è una vita umana. Molti forse non sanno e non se ne rendono conto, ma Eluana è viva; Eluana respira autonomamente; Eluana si addormenta la sera e si sveglia la mattina; Eluana è nutrita con un sondino, certo, ma questo non significa che non abbia una sua vita, irriducibile a quella di un vegetale. Capire questo è facile: basta ricordare che la stessa forma di conoscenza umana, prima ancora di passare attraverso l’intelligenza, passa attraverso i sensi. Quindi ci troviamo di fronte a una ragazza viva, la cui vita deve essere salvaguardata.
Si parla spesso, e giustamente, anche del dovuto rispetto nei confronti dei familiari di Eluana.
Anche di fronte alla famiglia dobbiamo mantenere in ogni caso, qualsiasi possa essere la nostra opinione in merito, un atteggiamento di profondo rispetto. L’eroicità non la si può chiedere a nessuno. Inoltre, nessuno di noi è coinvolto, come sono i familiari di Eluana, in una vicenda che dura da diversi anni e che evidentemente riporta nella vita di una famiglia una condizione di profondo dolore e di profonda sofferenza a tutti i livelli, e che va rispettata. Detto questo, la sentenza dei giudici ha però un peso che va al di là del caso singolo. Quindi, il nostro aver preso posizione sul merito della sentenza parte sì dal caso particolare, ma va a considerare il principio generale che qui viene posto in discussione.
Veniamo allora ai principi chiamati in causa da questa sentenza. Troppo spesso il dibattito su questi temi viene ridotto a uno scontro tra valori laici e valori cattolici: è questo i livello del problema?
Io non ho mai preso le mosse, in tutto questo dibattito, da considerazioni relative alla fede; mi sono sempre mosso e continuo a muovermi da considerazioni di ordine etico e razionale. L’etica per sua stessa natura è la ricerca di quei principi fondamentali, rintracciabili alla luce della ragione – non alla luce della fede – sul fondamento dei quali possiamo esprimere nei nostri comportamenti una ricerca del bene, e quindi della felicità. L’etica è ciò che sta alla base del giudizio della propria coscienza. E l’etica va alla ricerca del bene, dei valori che devono essere perseguiti. È inevitabile riconoscere che nella sentenza quello che viene messo in discussione è semplicemente il diritto inalienabile alla vita che ognuno possiede. Non solo, ma anche quello della indisponibilità della propria vita: gli ordinamenti giuridici, la Costituzione, i diversi codici, civile e penale, sono tutti costruiti su questo principio fondamentale che è il principio della inviolabilità dell’esistenza umana, e della sua necessaria salvaguardia. Questo significa che nessuno di noi può disporre della vita per la morte; noi siamo chiamati a vivere, non a morire.
Sono passati pochi anni dal caso di Terry Schiavo. Allora qualcuno diceva: per fortuna in Italia siamo lontani da una prospettiva del genere. Ora invece ci troviamo di fronte a questa sentenza: è cambiata la nostra sensibilità su questo, o sarà la sentenza stessa a generare un cambiamento di mentalità?
Quando si fa una sentenza si crea giurisprudenza, da cui scaturiscono inevitabilmente dei comportamenti concreti. La stessa cosa avviene anche quando si fa una legge. Io non mi stancherò mai di ribadire questo concetto: una legge fa cultura. Fatta una legge, passati quindici, venti o trent’anni si saranno assuefatte intere generazioni alla cultura data dalla legge stessa. Nel nostro Paese, ad esempio, c’è stata una deriva progressiva riguardo ai valori fondamentali: la prima deriva è stata quella della famiglia, con l’introduzione della legge sul divorzio; la seconda deriva è stata quella della legge sull’interruzione di gravidanza, e possiamo toccare con mano a quale mentalità siamo arrivati; la terza potrebbe essere quella sull’eutanasia, e la conseguenza che ne deriverà sarà inevitabilmente quella di deprezzare ancora di più la vita umana. Il rischio è che tra qualche anno soltanto chi sarà efficiente potrà pensare di godere della propria vita; quando la persona sarà anziana, malata o portatrice di handicap, la società verrà progressivamente a considerarla inutile.
C’è poi un altro dato che non sempre emerge dai media: il caso di Eluana è un’assoluta rarità, perché nella quasi totalità dei casi simili le famiglie non solo vogliono continuare ad accudire i loro cari, ma chiedono insistentemente maggior sostegno in questa attività. Non sarebbe meglio darsi da fare per garantire, concretamente, il diritto alla vita?
Il caso di Eluana ha fatto emergere con forza non solo i valori fondamentali, che vengono posti in crisi, ma ha fatto emergere anche che nel nostro Paese ci sono dai 3000 ai 4000 mila casi simili. Nel momento in cui emerge questo fenomeno, che è sconosciuto all’opinione pubblica, deve contestualmente emergere anche la spinta a creare una profonda solidarietà nei confronti di queste famiglie, che si sentono abbandonate a se stesse. Io credo che la solidarietà sia un valore civile basilare, ancora precedente alla testimonianza di carità che noi cristiani siamo chiamati a fare nostra in forza della fede. Ci deve essere una cultura della solidarietà; le persone coinvolte non devono essere lasciate sole, e le famiglie soprattutto non possono essere mandate allo sbaraglio. Che non è soltanto uno sbaraglio emotivo, ma anche finanziario. Lo Stato deve essere capace di considerare il valore della vita sostenendo anche le famiglie che vivono in questa drammatica situazione.
Ora si pone il problema del dopo-sentenza: si parla sempre più dell’esigenza di una legge su questo tema. Come auspica che si svolga il dibattito in sede legislativa?
Il fatto che la Corte di Cassazione abbia sentenziato rende inevitabilmente urgente che il Parlamento arrivi a legiferare in proposito; l’alternativa sarebbe solo quella di una giurisprudenza nefasta che verrebbe a porsi in tanti altri casi. Non possiamo assistere ogni volta a situazioni di conflitto sociale e di profonda ingiustizia nei confronti delle persone coinvolte. Quindi è necessario e urgente che il Parlamento faccia una legge in proposito. Io mi auguro che possa essere una legge con il più vasto consenso possibile. Qui, infatti, non stiamo parlando di questioni economiche: qui stiamo parlando del valore della vita, e della dignità della vita davanti alla morte. Io mi auguro che il Parlamento italiano non voglia decidere per l’eutanasia, né in forma attiva, né in forma passiva, e nemmeno in tutte quelle forme che possono nasconderla. Mi auguro che faccia una legge che possa andare a favorire, a promuovere e a difendere la vita delle persone. È inevitabile che ci siano poi elementi particolari che il Parlamento dovrà affrontare, e che fanno parte del dibattito e della riflessione dei deputati; ma al di là di questo, io mi auguro che si arrivi infine a una situazione che riporti la serenità su tutta questa vicenda.


SCUOLA/ Dalla Svezia una lezione di libertà - Giovanni Cominelli - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Che il Pd abbia ridotto la questione educativa di questo Paese al “più soldi!” e che abbia condotto una massiccia campagna - o se ne sia fatto condurre - contro “la privatizzazione” della scuola non meraviglia ormai più. Certo, le forze che lo compongono hanno conosciuto una cultura migliore. In fondo, è stato un ministro della sinistra, Luigi Berlinguer, a dare al Paese la legge n. 62 del 2000, che creava la fattispecie delle scuole “paritarie”: scuole private che diventavano “pubbliche”, a determinate condizioni.
Ma oggi la condensazione di statalismo cattolico-democristiano e vetero-socialdemocratico degli eredi del Pci ha prodotto una regressione: l’idea che la libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie sia un lusso, che lo Stato non può permettersi di finanziare, se non quando le vacche sono grasse.
Ma che dire di un governo “liberale” (sic!) che riduce le scuole paritarie sulla soglia della chiusura? Si tratta solo di incapacità tecnica di governo di una materia complessa o c’è dell’altro? C’è parecchio altro. Non solo, con tutta evidenza, una misconoscenza basilare della condizione reale del sistema educativo in Italia, non solo un malinteso e fatale continuismo con la filosofia manutentiva, conservatrice e minimalista di Fioroni. C’è una ben solida - ahinoi! - cultura politica nazionale. Secondo questa cultura, che unisce la Destra storica, il Fascismo (il Manuale del fascista del 1937 recitava, a mò di catechismo: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»), un certo cattolicesimo politico e la Sinistra storica, la scuola è stata appositamente costruita quale grande apparato ideologico di Stato e tale deve restare. Solo lo Stato conosce autenticamente il destino dei nostri figli e se ne prende cura. Solo lo Stato garantisce piena cittadinanza ed eguaglianza delle opportunità. Solo lo Stato costruisce la nazione. La persona, le famiglie, la società civile sono fomento di disordine, di incontrollabilità, di irrazionalità delle scelte. La libertà di scelta delle famiglie si può solo tollerare illuministicamente, come si fa con le minoranze.
In tutti i Paesi europei, dall’Inghilterra, alla Svezia, all’Olanda, alla Francia compresa, la libertà di scelta delle famiglie è trattata, anche sul piano finanziario, non come un residuo, ma come l’anima del sistema e il motore dell’innovazione dei sistemi statali di educazione. Nel 1992 il nuovo governo di centro-destra svedese ha introdotto la libertà di scelta della scuola. Dopo decenni di rigido centralismo scolastico governato da una politica socialdemocratica ispirata da criteri di uguaglianza e giustizia sociale tipici del welfare state svedese, i bacini d’utenza furono smantellati e le famiglie furono autorizzate e parimenti finanziate a scegliere la scuola nella quale iscrivere i propri figli, statale o privata che fosse.
Nel 1992, solo l’1% degli allievi della scuola primaria e l’1,7% degli studenti della scuola secondaria frequentavano in Svezia una scuola privata. Nel 2008 la proporzione degli studenti nel settore privato è passata al 9% nella scuola primaria e al 17% in quella secondaria. I socialdemocratici, tornati al potere, hanno preso atto pragmaticamente, perché le famiglie hanno scelto, il sistema ha continuato a esprimere ottime performances, la scuola di Stato ha dovuto innovarsi.
Un governo è liberale se aumenta la quota di libertà per le persone, le famiglie, la società civile. Si dirà: c’è la crisi finanziaria, che sta precipitando in crisi economica, produttiva e occupazionale. Appunto. Da dove si pensa di raccogliere le energie del Paese per rimettersi in piedi, se non partendo dalle libere scelte delle persone, dai ragazzi, dalle famiglie?


SCUOLA/ Strik Lievers: da radicale dico che la libertà di educazione è un bene non solo per i cattolici - INT. Lorenzo Strik Lievers - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La mancanza di un effettivo sostegno alle scuole paritarie non è certo un problema che riguarda solo i cattolici. Chiunque abbia a cuore un effettivo esercizio della libertà nel nostro Paese dovrebbe preoccuparsene, qualunque sia la sua provenienza politica e culturale.
Lorenzo Strik Lievers è una di queste persone. Di formazione culturale rigorosamente laica, e da sempre appartenente al movimento radicale, Strik Lievers ha però sempre sostenuto l’importanza della libertà di scelta anche nel campo educativo, al di là delle differenze di carattere ideologico. Un osservatore privilegiato per giudicare l’attuale situazione di allarme per le scuole paritarie, con tagli che ne mettono seriamente a repentaglio la regolare attività.
Strik Lievers, qual è il suo giudizio politico su questa situazione di difficoltà in cui potrebbe trovarsi la scuola non statale a causa dei tagli prospettati?
Volendo fare un discorso obiettivo, la questione dei tagli alle scuole paritarie si pone all’interno di un problema generale: la politica di tagli al settore dell’istruzione e della ricerca messa in atto da questo governo. Questa è una scelta dell’attuale esecutivo, che naturalmente va valutata nel complesso delle scelte delle politiche di spesa. È naturale che il problema dei tagli di spesa ora si pone e non può essere ignorato: il punto è capire come farli. E il governo sta appunto facendo le sue scelte, che coinvolgono l’interno comparto dell’istruzione.
Ma anche considerando il solo dato economico, lo Stato ha un risparmio oggettivo dall’esistenza delle scuole non statali; se queste, malauguratamente, dovesserero chiudere lo Stato avrebbe gravissime difficoltà economiche.
Questo è certamente un dato innegabile: l’esistenza della scuola non statale è un elemento di vantaggio per la spesa pubblica. Naturalmente un discorso di questo genere, solo incentrato sul fatto del risparmio, tiene conto di tutta la scuola non statale, sia paritaria che non paritaria. In termini di equilibrio della spesa tutte le scuole concorrono; in termini invece di equilibrio culturale è bene distinguere. Ci sono esperienze scolastiche di grande valore educativo e culturale che sono un vantaggio per il paese, e meritano un sostegno politico; ci sono invece altre realtà scolastiche che non portano vantaggio in termini educativi. Dunque il sostegno non deve essere indiscriminato, ma deve tenere conto di queste valutazioni.
Come si pone secondo lei il problema della costituzionalità del sostegno alle scuole non statali?
Il regime attuale di sostegno alla scuola paritaria, a mio avviso, è sostanzialmente incostituzionale, perché la famosa norma del «senza oneri per lo Stato» viene di fatto aggirata, dal momento che vengono dati contributi alle scuole non statali per il semplice fatto che esistono. «Senza oneri», infatti, vuol dire che nessuno può fare una scuola privata e avere per ciò stesso dei contributi dallo Stato. Questi contributi sono sempre stati dati senza che nessuno protestasse, ma di fatto si pongono fuori dalla norma costituzionale. Naturalmente la costituzione è modificabile, e sarebbe più che legittimo proporre un cambiamento da questo punto di vista. Ma allo stato attuale la situazione è questa.
Allora come sostenere il fattore di libertà rappresentato dall’esistenza di scuole non statali, rispettando però il dettato costituzionale?
Quello che è pienamente legittimo secondo la norma costituzionale è il fatto che venga sostenuta, anche economicamente, la libera scelta da parte delle famiglie. Il meccanismo del buono scuola quindi non crea nessun problema, ed è anzi uno strumento che consente alla famiglia di esercitare il proprio diritto alla scelta educativa. Il problema vero che si pone è che, così facendo, attiviamo un meccanismo di concorrenza fra le scuole.
Non è una cosa positiva?
Lo è, a patto che diventi una concorrenza verso l’alto. Se diamo semplicemente il buono scuola, in un regime di valore legale del titolo di studio, e senza alcun meccanismo di valutazione dell’operato delle scuole, rischiamo di creare una concorrenza basata sul criterio delle promozioni facili. Abolendo invece il valore legale del titolo di studio e creando delle griglie rigorose di valutazione, allora tutti avranno interesse a scegliere quelle scuole in cui la promozione corrisponde a un reale valore formativo. Quando ero consigliere in Lombardia e si era discusso il buono scuola, noi radicali proponemmo di approvare la norma a condizione che la concessione del buono regionale fosse subordinata a una valutazione fatta dalla Regione stessa. Norma accolta dalla maggioranza, ma poi purtroppo caduta perché il governo si oppose, in modo secondo me illecito, dichiarando che le valutazioni della qualità sono di competenza del governo e non della Regione. Decisione illegittima, perché la valutazione spetta al governo, ma alla Regione spetta di decidere dove spendere i propri soldi, e di stabilire un proprio criterio.
Il dibattito sulla parità scolastica, nel nostro Paese, è da sempre ingabbiato nello scontro ideologico tra laici e cattolici: come uscirne?
Questo è un problema che pongo da tempo immemorabile. Io appartengo a un partito per definizione laico, come il movimento radicale, e sostengo che c’è un problema di fondo, un problema di libertà, che non ha a che fare con il problema, storicamente superato, dello scontro tra laici e cattolici. Un tempo, quando la Chiesa aveva il monopolio dell’istruzione e occorreva costruire una scuola laica, questo problema si poneva; ma ora per tante ragioni, tra cui anche la scarsissima quantità di scuole non statali in Italia, il problema è superato. Ora c’è invece il problema di far crescere nella scuola italiana i fattori di libertà, responsabilità e qualità. Il che significa attivare le dinamiche di libertà di scelta educativa da parte dei genitori, e di libertà di insegnamento da parte dei docenti; quindi libertà di creare scuole con modelli diversi, il tutto nel contesto di meccanismi che portino alla concorrenza verso l’alto. Nella società attuale, poi, c’è un problema ben diverso rispetto all’antica contrapposizione laici-cattolici.
Quale?
Il fatto di trovarsi in una società multietnica e multiculturale. In questo contesto bisogna considerare il problema che possano sorgere scuole che creano una chiusura etnica, con implicazioni non indifferenti su quelli che sono gli equilibri generali della nostra società. Il diritto di scelta è fondamentale; ma cosa succede in una società in cui si formano tanti ghetti etnici, religiosi e culturali? Un problema che tutti, laici e cattolici, dovrebbero porsi.


LETTERATURA/ Saint-Exupéry e il Piccolo Principe, volto amichevole dell'ignoto - Gianfranco D'Ambrosio - venerdì 21 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Saint-Exupéry faceva il corriere postale aereo fra la Francia e l’Africa nord-occidentale (che negli anni 30 del XX secolo era territorio francese). Questo genere di lavoro era rischiosissimo: infatti allora l’aeronautica era ancora agli albori, ma Antoine aveva maturato un altissimo ideale che lo esaltava anche e soprattutto attraverso il suo lavoro di pilota. Sta di fatto che egli volò tutta la vita, rischiandola ogni volta con un coraggio da eroe, ma soprattutto sfogando in tal modo il suo desiderio profondo di non vivere una vita ordinaria, scontata, da impiegato, per buttarsi a corpo morto nei cieli. Del suo lavoro di pilota usava dire: «Leggerò negli astri il mio cammino».
Il piccolo Antoine visse durante la sua infanzia in un castello. Insieme ai suoi fratelli egli era convinto che da qualche parte in quelle mura fosse nascosto un tesoro: questo rendeva il castello affascinante come un mistero. La percezione della realtà come mistero si formò in lui proprio nella sua casa: ciò che rendeva incantato il castello era il fatto che in esso si nascondesse un tesoro. Cosi Antoine crebbe con questa percezione del reale: ciò che rende affascinante la realtà, ciò che la rende incantata, è il mistero che essa racchiude e di cui è segno. «Ciò che fa bello il deserto non si vede»: è la capacità di penetrare le cose, di guardare dentro di esse. Il suo irrefrenabile slancio verso il mistero gli farà descrivere nel Piccolo Principe il mistero stesso come un bambino che cerca irresistibilmente l’amicizia in tutti gli incontri; questa passione al mistero si traduce in una serietà straordinaria rispetto ai fatti della sua vita: partecipa alla II guerra mondiale in difesa del suo popolo e morirà proprio in nome dello spirito di appartenenza ad esso. Venne abbattuto nel 1944 (a 44 anni) dai caccia tedeschi, il suo corpo non fu più ritrovato.
Il primo capitolo del Piccolo Principe è come un richiamo generale dell’autore alla modalità di lettura della sua opera. «Se non sapete guardare al di là delle apparenze», sembra dire Saint-Exupéry, «parlerò con voi solo di bridge, di golf, di politica e di cravatte», cioè di cose di una banalità quotidiana senza rimedio, che è come la palude generale in cui gli uomini (gli “adulti”) impantanano la loro vita.
Si profila così un livello del testo che richiede una visione più acuta per essere colto.
Ne è esempio il boa dal di fuori e dal di dentro. Quando l’autore realizza il disegno n. 1, provoca i grandi per vedere se possiedono una sguardo vero, capace di penetrare dentro la realtà, capace di capire che il primo disegno non è un cappello, ma un boa che ha mangiato un elefantino. Uno sguardo vero è il primo contenuto di un rapporto amicale: si conosce davvero solo ciò che si ama. Il Piccolo Principe è una finta fiaba in quanto radi sono gli elementi fantastici, mentre abbondano quelli simbolici. Ma se non è una fiaba, chi è il Piccolo Principe? È un incontro che l’autore ha fatto? È un'esperienza vissuta da bambino (“piccolo”) e che gli ha insegnato il mistero più importante della vita? È la scoperta che solo l’amore fino al dono della vita stessa realizza la nostra esistenza, ci fa “principi”, cioè veri possessori della nostra vita? È la presenza di un mistero buono che viene intuito nella sua profondità solo dalla semplicità dei bambini? È il prendere forma del desiderio di amicizia presente in ogni uomo? È la verità della vita che noi sperimentiamo ogni volta che viviamo un’autentica amicizia? Una cosa è certa: il Piccolo Principe non è un’invenzione letteraria, ma qualcosa che Saint-Exupéry ha profondamente vissuto.


I TIC DELLA STAMPA CONDIZIONATA DALL’IDEOLOGIA RADICALE - Quando si tratta di successi sulle staminali scende il silenzio - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 21 novembre 2008
A ncora una novità dal fronte della medicina rigenerativa: il primo trapianto di organi senza terapia anti-rigetto. Ad una donna è stata sostituita la trachea con una ricevuta da un donatore, ma modificata con le cellule staminali della donna stessa. In questo modo è stato possibile evitare che la paziente assumesse farmaci anti-rigetto, con un netto miglioramento della sua qualità di vita, rispetto a quella che avrebbe avuto con una gravosa terapia farmacologica di mantenimento. Siamo di fronte all’ennesimo successo delle cellule staminali adulte, e non embrionali: curiosamente, si omette spesso di specificare il tipo di staminali quando si parla dei successi in questo settore della ricerca medica. Sono passati dieci anni dalla prima linea di cellule staminali embrionali umane, ma i risultati si fanno ancora attendere, mentre con quelle adulte le applicazioni non mancano. Per quanto riguarda le staminali 'etiche', poi, e cioè le iPS (pluripotenti indotte), prodotte dallo scienziato giapponese Yamanaka, prossime alle staminali embrionali ma ottenute manipolando cellule adulte, è bene ricordare che il principio su cui si basa la procedura per ottenerle è stato ricavato da studi sui topi, e non su embrioni umani. L’argomento dei sostenitori della ricerca sulle embrionali umane è che la ricerca deve seguire tutte le strade possibili, perché solo verificando ogni opzione potremo un giorno stabilire con cognizione di causa quale effettivamente sia la più efficace. Un argomento discutibile, almeno ad avviso di chi scrive. Innanzitutto, non si sono fatti consistenti passi in avanti nonostante dieci anni di ricerche lautamente sovvenzionate in tutto il mondo. Fiumi di denaro sono stati investiti nello studio delle embrionali in Europa, in particolare nel Regno Unito, e poi in Asia, in Australia ed anche negli Stati Uniti d’America, dove non c’è un divieto alla ricerca sugli embrioni umani. Questo tipo di studi può essere liberamente condotto dappertutto negli Usa utilizzando finanziamenti privati – che non mancano – e in molti Stati (come ad esempio la California) anche con fondi pubblici. I fondi federali si possono usare per un numero limitato di linee staminali embrionali, e cioè per quelle prodotte fino all’agosto 2001: il presidente uscente Bush non ha impegnato denaro federale per distruggere embrioni, ma ha voluto mantenere il finanziamento alle linee cellulari già esistenti all’inizio della sua presidenza, permettendo comunque agli Usa di continuare la ricerca sulle staminali embrionali. I risultati, però, non sono stati quelli che ci si aspettava. Quando si sceglie come impegnare ingenti risorse economiche ed umane nella ricerca scientifica, solitamente lo si fa nella direzione più promettente: in ogni progetto che si rispetti, sono le voci 'stato dell’arte' e 'risultati attesi' a far decidere se vale o meno la pena erogare un certo finanziamento, e nel caso delle staminali embrionali entrambe le voci lasciano a desiderare. D’altra parte, non è neppure possibile sostenere che è unicamente la possibilità di aumentare la conoscenza di un fenomeno a rendere lecito ogni tipo di ricerca. Se la possibilità di ottenere informazioni, anche in previsione di terapie future, fosse l’unico criterio da seguire per decidere se condurre o meno un certo esperimento, senza alcuna considerazione di ordine etico, allora si aprirebbero strade pericolose. Non è necessario – anche se il ricordo andrebbe sempre tenuto vivo – menzionare gli esperimenti medici nei lager nazisti: basti pensare alle problematiche legate alle sperimentazioni dei farmaci o di nuove terapie per gli esseri umani, o anche a quelle connesse alla sperimentazione animale, in particolare sui primati non umani: è indubbio che la sperimentazione sugli esseri viventi, in particolare sugli umani, possa portare a conoscenze interessanti e ad informazioni preziose, ma è altrettanto evidente che non tutti gli esperimenti sono eticamente possibili. Se ad esempio ci fosse la certezza che la vivisezione di un solo malato potesse portare a conoscenze risolutive per la cura di importanti patologie, sarebbe forse lecito procedere a un esperimento del genere? Attualmente in Europa sono stati impegnati fondi di ricerca per sviluppare metodi alternativi alla sperimentazione animale, allo scopo di stabilire la tossicità di prodotti commerciali, ad esempio cosmetici. Si tratta cioè di sostituire dei test che già funzionano, con nuove procedure, per evitare di utilizzare animali in laboratorio. Perché non è possibile applicare agli embrioni umani almeno gli stessi criteri di precauzione e tutela che si seguono per gli animali? In un corretto approccio alla ricerca scientifica, il metodo che si utilizza è imposto dall’oggetto della ricerca stessa. Se si parla di embrioni umani, sarebbe importante trarne le conseguenze.