lunedì 17 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 16/11/2008 17:04 – VATICANO - Papa: i “talenti”, ciò che Cristo ci ha donato, si moltiplicano donandoli - Benedetto XVI esorta a non dimenticare il dono della fede e a non avere paura di Dio, ma ad offrire e condividere il dono fattoci da Cristo, che è Lui stesso. Il ricordo delle religiose che vivono la clausura nella preghiera contemplativa. Tutti sono chiamati a sostenerle nei bisogni materiali.La loro presenza nel mondo è “indispensabile”
2) Il Movimento per la Vita lancia iniziative per salvare Eluana - Appello per una decretazione d’urgenza per malati terminali e in stato vegetativo - di Antonio Gaspari
3) Difendete la vita e la famiglia e l’amore di Dio scenderà su di voi - Il Cardinale Antonelli ai Centri di Aiuto alla Vita riuniti a Montecatini - di Antonio Gaspari - MONTECATINI, domenica, 16 novembre 2008 (ZENIT.org).- Vita e famiglia sono i valori su cui si costruisce la civiltà dell’amore. Chi li difende si riempie di Spirito Santo e trasmette l’amore di Dio a fratelli e sorelle.
4) Che cosa rende una vita umana “dignitosa”? - Autore: Pamparana, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 17 novembre 2008
5) «Chi salva una persona salva il mondo» - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 17 novembre 2008
6) IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE… 16.11.2008 - A proposito di Buffon e delle suore… Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie. - Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie. – Antonio Socci, Libero, 16 novembre 2008
7) ELUANA/ Baldassarre: così la Cassazione ha introdotto l’eutanasia in Italia - INT. Antonio Baldassarre - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net - Il vero vulnus è la sentenza del 2007. «La Cassazione ha deciso come se il testamento biologico fosse già in atto, ma in questo modo ha inventato una norma». E ha introdotto l’eutanasia in Italia. Lo dice a ilsussidiario.net il presidente emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre, dopo la decisione della Corte di Cassazione giovedì scorso sul caso Englaro.
8) CDO/ 1. La ricetta anticrisi? «Puntare tutto sul capitale umano» - Andrea Tornielli - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
9) CDO/ 2. Le Pmi alla prova della crisi: innovazione, qualità e servizio entrano in rete - Paolo Preti - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
10) RITRATTO/ Elisabetta d'Ungheria, la coraggiosa regina che aiutò il suo popolo fino alla fine - Rino Cammilleri - lunedì 17 novembre 2008 – IlSussidiario.net


16/11/2008 17:04 – VATICANO - Papa: i “talenti”, ciò che Cristo ci ha donato, si moltiplicano donandoli - Benedetto XVI esorta a non dimenticare il dono della fede e a non avere paura di Dio, ma ad offrire e condividere il dono fattoci da Cristo, che è Lui stesso. Il ricordo delle religiose che vivono la clausura nella preghiera contemplativa. Tutti sono chiamati a sostenerle nei bisogni materiali.La loro presenza nel mondo è “indispensabile”
Città del Vaticano (AsiaNews) – Un appello alla testimonianza, a “commerciare”, condividere, diffondere i doni che Cristo ci ha donato:è questo secondo Benedetto XVI il senso della parabola dei talenti (Mt 25,14-30), che egli ha commentato oggi nella breve riflessione prima dell’Angelus insieme ai fedeli in piazza san Pietro. “Sì – ha detto il papa - ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti, come ci insegna quel grande amministratore dei talenti di Gesù che è l’apostolo Paolo”.
Il pontefice ha spiegato che il talento “era un’antica moneta romana, di grande valore”. Proprio a causa della popolarità di questa parabola, il “talento” è diventato sinonimo di “dote personale, che ciascuno è chiamato a far fruttificare”. Ma il pontefice precisa: nella parabola si parla di doni che “il padrone” fa ai suoi servi. “Perciò – egli continua - tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il ‘Padre nostro’ – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi”.
“La parabola odierna – egli continua - insiste sull’atteggiamento interiore con cui accogliere e valorizzare questo dono. L’atteggiamento sbagliato è quello della paura: il servo che ha paura del suo padrone e ne teme il ritorno, nasconde la moneta sotto terra ed essa non produce alcun frutto. Questo accade, per esempio, a chi avendo ricevuto il Battesimo, la Comunione, la Cresima seppellisce poi tali doni sotto una coltre di pregiudizi, sotto una falsa immagine di Dio che paralizza la fede e le opere, così da tradire le attese del Signore. Ma la parabola mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo”.
Benedetto XVI non dimentica che la parabola è segno anche di un cambiamento culturale che la fede dei cristiani porta dentro la storia, e cioè una mentalità attiva, trasformatrice: “L’insegnamento evangelico – ha detto - ha inciso anche sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente. Ma il messaggio centrale riguarda lo spirito di responsabilità con cui accogliere il Regno di Dio: responsabilità verso Dio e verso l’umanità. Incarna perfettamente quest’atteggiamento del cuore la Vergine Maria che, ricevendo il più prezioso tra i doni, Gesù stesso, lo ha offerto al mondo con immenso amore”.
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato che il prossimo 21 novembre, festa della Presentazione di Maria al Tempio, ricorre la giornata “Pro Orantibus”, in cui tutta la Chiesa ricorda le persone dedicate alla preghiera nella clausura. “Ringraziamo il Signore – ha detto il papa - per le sorelle e i fratelli che hanno abbracciato questa missione dedicandosi totalmente alla preghiera e vivono di quanto ricevono dalla Provvidenza. Preghiamo a nostra volta per loro e per le nuove vocazioni, e impegniamoci a sostenere i monasteri nelle necessità materiali. Care sorelle e cari fratelli, la vostra presenza nella Chiesa e nel mondo è indispensabile. Vi sono vicino e vi benedico con grande affetto!”.


Il Movimento per la Vita lancia iniziative per salvare Eluana - Appello per una decretazione d’urgenza per malati terminali e in stato vegetativo - di Antonio Gaspari
MONTECATINI, domenica, 16 novembre 2008 (ZENIT.org).- A conclusione del XXVIII Convegno nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV), svoltosi a Montecatini (Pt) dal 14 al 16 novembre, Carlo Casini ha lanciato una serie di iniziative per cercare di salvare la vita a Eluana Englaro.
Di fronte a oltre 550 delegati dei 300 CAV attivi in Italia, il Presidente del Movimento per la Vita Italiano ha ribadito la propria solidarietà e la propria vicinanza, anche fisica, alle suore Misericordine di Lecco che dopo aver assistito e curato con amore Eluana Englaro per tutti gli anni della sua malattia si trovano ora ad essere le uniche, tra coloro che sono più vicini alla ragazza, a lottare per la sua vita.
Sono le suore che in un ultimo disperato appello hanno saputo trovare le parole più semplici ed accorate per opporsi alla voglia di eutanasia che sembra aver contagiato giudici ed istituzioni: “Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva”.
“Speriamo che questo appello faccia finalmente breccia nei cuori e nelle coscienze di chi dovrebbe vegliare su di lei e che invece sta pianificando il modo migliore per farla morire di fame e di sete”, ha auspicato Casini.
Un appello è stato rivolto al Parlamento perché discuta ed approvi in tempi rapidi una buona legge sul fine vita che possa evitare alle altre migliaia di persone nelle condizioni di Eluana di essere minacciate da un’eutanasia che nessuno ha neppure il coraggio di chiamare col proprio nome.
Inoltre il Convegno dei CAV ha rivolto un estremo e disperato invito al Governo perché facendo ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza stabilisca, in attesa della legge, che i trattamenti di alimentazione ed idratazione dei malati terminali e dei malati in stato vegetativo persistente non possono per nessun motivo essere interrotti.
Il Movimento per la Vita ha anche scritto al Presidente della Repubblica per chiedergli di far valere la sua alta autorità morale affinché Eluana possa conservare la “grazia” di continuare a essere nutrita, alimentata, curata e amata dalle Suore di Lecco.
Nel testo inviato al Presidente Napolitano, il MpV “si permette di sollecitarle un atto straordinario con cui esercitare la sua autorità morale: le chiede di fare quanto possibile perché Eluana Englaro possa conservare la ‘grazia’ di continuare a essere curata e amata dalle Suore Misericordine che attualmente la ospitano e che in questi anni l’hanno sempre accudita amorevolmente”.
“Il Movimento da parte sua – si legge ancora nel testo – è pronto ad offrire la massima collaborazione a che questo desiderio espresso con forza anche da tanta parte della Nazione venga realizzato”.
Parlando ai militanti del MpV, Casini ha spiegato che la battaglia in difesa della vita e della famiglia si sta facendo molto dura, per cui non basta opere ragionevoli, bisogna “imparare a pregare di più”, una “più intensa spiritualità” affinché il cielo “ci aiuti e ascolti le nostre suppliche”.
A questo proposito il Presidente del Mpv ha annunciato l’intenzione di far nascere a Nazareth un Centro di Aiuto alla Vita condiviso tra ebrei, cattolici e musulmani.


Difendete la vita e la famiglia e l’amore di Dio scenderà su di voi - Il Cardinale Antonelli ai Centri di Aiuto alla Vita riuniti a Montecatini - di Antonio Gaspari - MONTECATINI, domenica, 16 novembre 2008 (ZENIT.org).- Vita e famiglia sono i valori su cui si costruisce la civiltà dell’amore. Chi li difende si riempie di Spirito Santo e trasmette l’amore di Dio a fratelli e sorelle.
Così il Cardinale Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, ha spiegato questa domenica il progetto di civiltà cristiana ai partecipanti del XXVIII convegno nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV), riuniti a Montecatini.

“L’amore di Dio arriva agli uomini attraverso lo Spirito Santo - ha precisato il porporato -. Compito nostro è quello di accoglierlo con fede e portarlo agli altri attraverso le opere di carità”.
“Si tratta dell’amore verso il prossimo - ha affermato il Cardinale Antonelli - una pratica che voi conoscete bene”.
Secondo il Presidente del Pontificio Consiglio, “in questo modo si trasmette l’amore di Dio, facendo la sua volontà, accettando di impegnarsi per il vero bene anche con sacrificio”.
Nella sua omelia il Cardinale ha trattato anche la vicenda di Eluana Englaro che “viene condannata a morire di fame e di sete perché vive in uno stato vegetativo da molti anni. Speriamo che all’ultimo momento ci sa un ripensamento e che l’ideologia non oscuri del tutto le coscienze”.
“Eluana è in stato vegetativo ma non è un vegetale, è una persona dormiente – ha continuato –. La persona anche quando è addormentata o disabile conserva tutta la sua dignità. La persona vale per se stessa e non per quello che produce e consuma o per il piacere e le soddisfazione che procura agli altri”.
“Questo siamo chiamati a testimoniare anche con sacrificio – ha aggiunto –. Occorre un impegno intelligente, generoso e perseverante a favore della vita: impegno culturale, giuridico e politico ma anche impegno concreto di testimonianza personale e di servizio alla vita specie quando è più debole”.
“Tante parole sono state dette e scritte sul caso di Eluana – ha proseguito il porporato –. Le più belle e persuasive mi sembrano quelle delle suore della clinica di Lecco che da 14 anni la assistono con tanto amore: ‘Se c’è chi la considera morta, lasci che Eluana rimanga con noi che la sentiamo viva… lasciateci la libertà di amare e donarci a chi è debole’”.
“Mi sembra – ha concluso il Cardinale Antonelli – di avvertire un prolungamento dell’appello di Madre Teresa: ‘non uccidete i bambini con l’aborto. Se non li volete dateli a me!”.


Che cosa rende una vita umana “dignitosa”? - Autore: Pamparana, Andrea Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 17 novembre 2008
Che cosa rende una vita umana “dignitosa”? L’attivismo? Il consumismo? Se siamo attivi e consumatori, se entriamo a far parte del cosiddetto “target commerciale”, allora siamo degni di vivere? Se sì, allora certo Eluana non ha vita dignitosa. Non è una persona intesa secondo la moderna definizione di essere pensante, che produce (materia o idee non importa), che è utile alla società. Perché è questo il vero dramma, il problema di fondo della nostra epoca: giudichiamo la persona sulla base dell’utilità o inutilità della sua azione quotidiana.
E se provassimo a pensare che Eluana oggi vive una condizione “diversa” a quella della maggioranza di noi? I suoi parametri sono altri rispetto ai nostri, ma la scienza onnipotente e onnisciente non ci sa dire, anzi non vuole proprio dircelo, se dietro quello sguardo che segue il ritmo del giorno e della notte non ci sia un pensiero, una cultura, un’esperienza nella differenza. Soffre Eluana, eccome se soffre. Il suo dolore, come sempre avviene nella vita di tutti i giorni, nel mondo reale, si specchia nelle lacrime di suo padre, dei suoi amici, degli affetti a lei più cari, delle tante persone che hanno imparato a conoscerla attraverso questa prolungata sofferenza. Sento dire: “Appunto, inutilmente prolungata!”. E allora, signori, basta con l’ipocrisia. Sia eutanasia vera e non due settimane senza alimentazione e idratazione. Abbiate il coraggio di andare fino in fondo. Ma non l’avete, grazie a Dio, perché è davvero dura pensare a se stessi di fronte al letto di un ospedale in cui è stesa vostra moglie, o vostro figlio, o vostra madre, e dire di sì alla mano del medico che pone fine, per sempre, a quella presenza.
Siamo ipocriti e anche un po’ vigliacchi. Facciamo spesso cose orribili e giustifichiamo le nostre azioni cattive con cavilli legislativi che lavano le nostre coscienze turbate.
Vorremmo un miracolo, come sempre, dal mistero che è in Lui. Vorremmo che Eluana si alzasse e camminasse e allora sì, perbacco, che tutti saremmo pronti ad inginocchiarci e credere. Già, ma la Storia del Figlio dell’Uomo e quella di noi mortali suoi figli non è così semplice, non è fatta per i deboli di spirito, per i pavidi, per coloro che tremano di fronte ad ogni “diversità”, incapaci di considerare l’altro come tale, e basta.
Ho guardato in questi giorni di dibattito sul caso di Eluana il Cristo morto di Andrea Mantenga. Osservo in particolare il volto della Madonna. Quella donna cui era stato promesso di essere “ beata tra tutte le creature del mondo”, quasi non ha più lacrime di fronte al corpo di suo figlio, non il Figlio, ma proprio la creatura da lei partorita e accudita e rimproverata e amata come solo una madre può fare, senza più vita. Bastava una resurrezione plateale e tutto sarebbe stato diverso. Certo, ma noi oggi non saremmo uomini liberi, anche di sbagliare e di peccare, ma liberi. Chi può, chi lo sa fare, preghi per Eluana, per suo padre, per tutti coloro che soffrono. E ricordi l’insegnamento di San Benedetto: “Ascolta o figliolo”. Quanto abbiamo bisogno di silenzio oggi per poter ascoltare.


«Chi salva una persona salva il mondo» - Autore: Guastalla, Guido Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 17 novembre 2008
Solo gli ingenui o gli sprovveduti potevano illudersi che il caso Eluana avrebbe potuto concludersi, dopo la sentenza della Corte di Cassazione al di fuori dei riflettori dei media. Non lo volevano coloro che questa sentenza fortemente auspicavano, non lo potevano coloro che per motivi etici e/o religiosi la contrastavano: i primi perché attraverso questa sentenza passa il principio della legittimità dell’eutanasia, i secondi perché di fronte ad un essere umano, considerato persona, creatura divina, sempre fine e mai mezzo, deve essere fatto valere il principio della sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale.
Lascerei da parte le proteste, spesso rumorose, di chi accusa la Chiesa e le religioni in generale per voler, si dice, “imporre” soluzioni in ambito giuridico che sono prerogative della statualità secolare.
Proporre soluzioni che non intersecano il consenso degli altri è comunque lecito anche se non possono essere trasformate in leggi per tutti. Ma allo stesso tempo, citando Habermas: “La neutralità del potere statale per ciò che concerne la visione del mondo, garanzia di eguali libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica”. In buona sostanza la permanenza del dibattito e delle proposte etiche e religiose nell’ambito della società civile garantisce la neutralità dello stato ed evita i pericoli di uno stato etico, così come abbiamo conosciuto nel ’900 con l’esperienza degli stati totalitari di destra e di sinistra; è esattamente il contrario di ciò che temono i laicisti.
Mentre tutte le religioni, più o meno si schierano dalla parte della vita, vorrei qui, nello spazio breve di un intervento, presentare alcune riflessioni della tradizione ebraica, al cui interno le posizioni non sono, né mai sono state univoche ma sempre dialettiche e dialogiche.
Già nella Bibbia, nei Profeti Anteriori, libro di Samuele si racconta che il re Saul, ferito in battaglia,
per non cadere prigioniero dei nemici si rivolga al suo scudiero con queste parole: «Sfodera la spada e uccidimi», ma lo scudiero si rifiutò perché temeva assai, e allora Saul afferrò la spada e vi si gettò sopra (1 Samuele, 31,4): Sembra quindi che già nell’antichità, nella tradizione ebraica, non fosse consentito farsi dare la morte, anche se esplicitamente richiesta.
Le problematiche che nel frattempo si sono sovrapposte, con lo sviluppo della medicina contemporanea, hanno dato luogo a discussioni estremamente complesse, per le quali evidentemente le soluzioni proposte, non sempre coincidenti, tengono conto dell’estrema varietà dei casi: in linea di massima si può dire che mentre l’uccisione attiva (cioè l’eutanasia) è sempre proibita, su quella passiva (cioè l’accanimento terapeutico) la discussione può portare in alcuni casi a decisioni diverse.
Ma quale è il caso di Eluana? Lo stato di coma vegetativo irreversibile non comporta la necessità di cure, né tantomeno di accanimento terapeutico. Per inciso, ben diverso lo stato clinico di Papa Giovanni Paolo II per il quale ulteriori terapie mediche non avrebbero potuto far continuare la vita, ma solo ritardare, magari di poco, la morte. Si tratta di fornire, sia pure con la sonda, il cibo e i liquidi per far continuare una vita che, pur apparentemente non cosciente, ha una sua normalità, di cui non possiamo conoscere con precisione stati di sofferenza e di gioia, e gli esiti finali. Inoltre, anche nel caso che venisse promulgata una legge sul testamento biologico, in questo caso mancherebbe il presupposto fondamentale, e cioè l’esplicita dichiarazione di consenso da parte del diretto interessato. Anche l’interpretazione del comma dell’art. 32 della Costituzione quando afferma “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della vita umana”, sembra andare nella direzione di un diritto naturale, prepolitico e non contrattuale, secondo il quale il rispetto della vita umana è un limite che non può essere valicato. Il pensiero religioso indica a quello non religioso la necessità di limiti invalicabili, la cui violazione porterebbe inevitabilmente a forme di relativismo etico, le cui conseguenze, purtroppo, hanno devastato la storia dell’umanità, fino alle aberrazioni del XX secolo. Ecco perché il caso di Eluana è così emblematico. Nella tradizione ebraica, nelle Massime dei Padri si dice che “chi salva una persona salva il mondo”: salvare Eluana e il suo diritto alla vita può, oggi, contribuire a salvare il mondo.


IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE… 16.11.2008 - A proposito di Buffon e delle suore… Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie. - Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie. – Antonio Socci, Libero, 16 novembre 2008


Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.

Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.

Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.

Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.

L’uscita del tunnel

Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.

Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.

Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.

E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.

Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.

Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.

Spettro della solitudine

Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.

Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.

Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?

La risorsa della speranza

Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.

Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?

Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.

E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?
Antonio Socci Da Libero, 16 novembre 2008


ELUANA/ Baldassarre: così la Cassazione ha introdotto l’eutanasia in Italia - INT. Antonio Baldassarre - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net - Il vero vulnus è la sentenza del 2007. «La Cassazione ha deciso come se il testamento biologico fosse già in atto, ma in questo modo ha inventato una norma». E ha introdotto l’eutanasia in Italia. Lo dice a ilsussidiario.net il presidente emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre, dopo la decisione della Corte di Cassazione giovedì scorso sul caso Englaro.
Professor Baldassarre, qual è il suo commento sulla decisione della Cassazione sul caso Englaro?
Sono deluso ma questa pronunzia non mi sorprende. Il vero problema è la sentenza precedente, quella della Cassazione del 2007, quando si è deciso di risolvere il caso attraverso la ricostruzione della volontà di Eluana Englaro. Ma quella sentenza ha nientemeno che inventato una norma.
Cosa vuol dire “ha inventato una norma”?
Nella nostro ordinamento il testamento biologico non esiste e non è disciplinato. Un giudice non può non tenerne conto. Lo si sta facendo ora, ma la Cassazione ha deciso come se il testamento biologico fosse già in atto, dicendo quali sono i casi in cui deve valere il consenso dell’interessato. Ma in questo modo ha fatto una vera e propria, ma indebita, opera di legiferazione.
Siamo dunque arrivati all’eutanasia?
Certo. Con la sentenza precedente della Cassazione, fondata o non fondata. Il punto giuridico era capire se c’era o no accanimento terapeutico, invece la Corte di Cassazione ha scritto la norma.
Forse ancor più grave è stata la leggerezza con cui la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto di poter desumere la volontà chiara di Eluana dalla testimonianza di amiche e da sue affermazioni.
La Cassazione non solo ha confermato questo, ma ha pure detto che può valere l’orientamento ideologico di una persona per capirne la volontà; e questo è pazzesco. Prendiamo un ateo, oppure facciamo l’esempio di un cattolico iscritto ad un partito di sinistra: in base al suo orientamento ideologico, dovremmo dire senza esitazione che se si trovasse nelle condizioni di Eluana la sua opinione dovrebbe indurci a pensare che vuole la morte.
Cosa si può ancora fare?
Ora si sta lavorando alla legge, speriamo che a passare siano le proposte più equilibrate. Ma è triste aver visto che alcuni hanno accolto con entusiasmo l’ultima decisione della Cassazione come se si trattasse di un evento sportivo, mentre qui sono in gioco la vita delle persone e i loro diritti fondamentali.
Secondo Onida, il conflitto che le Camere avevano proposto davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte d’appello di Milano «aveva come difetto fondamentale quello di pretendere di censurare una decisone giudiziaria», tanto che i giudici costituzionali hanno deciso il mese scorso che quel ricorso era inammissibile. Che ne pensa?
Non sono d’accordo, perché mi sembra che Onida confonda l’ammissibilità, che era il giudizio di cui si trattava, con il merito. Dire che il ricorso era la surrettizia impugnazione di una sentenza di un giudice è merito, cioè è uno modo di risolvere la controversia a partire dal suo contenuto; nella sentenza di un mese fa il problema era se il conflitto era ammissibile o no, e quindi si doveva semplicemente valutare se c’erano delle competenze costituzionali potenzialmente lese – e c’erano, perché da un lato c’era la funzione legislativa e dall’altro la funzione giurisdizionale – e se i soggetti potevano considerarsi poteri dello Stato – e non c’è dubbio che la Corte di Cassazione e il Parlamento lo sono e quindi il giudizio era ammissibile.
I giudici possono aver preso decisioni sulla base di un vuoto normativo? Sempre Onida ha dichiarato che «non ci sono quasi mai vuoti normativi. Ci sono principi costituzionali e internazionali in base ai quali il giudice decide. Il merito della questione – continua Onida – ha riguardato i principi e le condotte concrete da seguire per il caso di Eluana. Se il Parlamento ritiene di avere le idee chiare sul testamento biologico, allora faccia la legge».
Neanche in questo caso sono d’accordo. Quando non ci sono norme, il giudice decide sulla base delle norme esistenti; non può partire da un principio e formulare lui la regola del caso concreto, perché in tal caso diventa legislatore. Un principio dà un orientamento di massima: ci sono tanti principi costituzionali che se non sono svolti dal legislatore non possono essere applicati dal giudice. E quindi la visione di Onida è la visione di uno Stato dei giudici, cioè di giudici che fanno le norme, le applicano e ne sono essi stessi garanti. Ma questo non è il nostro ordinamento. Alla sua base c’è una concezione del potere giudiziario che non è quella di uno Stato democratico.


CDO/ 1. La ricetta anticrisi? «Puntare tutto sul capitale umano» - Andrea Tornielli - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
La grave crisi che stiamo attraversando non è soltanto una crisi economica e finanziaria, ma ha a che fare col venir meno della coscienza che l’uomo ha di se stesso, con una concezione di lavoro che si è posta come unico orizzonte il profitto fine a se stesso e risultati a breve termine. Solo costruendo loghi in cui l’uomo venga trattato per quello che è, solo ripartendo dalla persona che lavora, cosciente del significato della sua opera, sarà possibile risalire la china. È il messaggio che arriva dall’assemblea generale della Compagnia delle Opere, che si è svolta ieri pomeriggio al Palasharp di Milano. Alla presenza di migliaia di persone, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, gli aderenti all’associazione nata per favorire una concezione del mercato rispettoso della persona in ogni suo aspetto e dimensione - la Cdo conta 34.000 imprese associate, la maggioranza delle quali piccole e medie aziende - hanno cercato di capire come uscire dalla gravissima crisi che incombe.
L’assemblea, alla quale hanno preso parte il presidente della Regione Lombardia Formigoni, il presidente della Provincia di Milano Penati e alcuni deputati del Parlamento nazionale ed europeo vicini a Cl, aveva come tema “Il tuo lavoro è un’opera” ed è stata aperta dal presidente di Cdo Bernhard Scholz, cui sono seguiti gli interventi di Don Juliàn Carròn, Presidente Fraternità di Comunione e liberazione, e di Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la sussidiarietà. Don Carrón ha spiegato che per far sì che il lavoro non sia vissuto come una condanna, o come un’esaltazione a seconda delle circostanze, è necessario sia interpretato come rapporto con il mistero e con il proprio destino, come partecipazione all’opera creatrice di Dio. «Dio lavora!», ha ripetuto il sacerdote.
Giorgio Vittadini ha invece analizzato la situazione attuale: «È un intero modello di economia che sta sprofondando - ha detto - quello che ha sottovalutato l’economia reale e ha sopravvalutato la finanza». Vittadini ha criticato l’illusione di una finanza non ancorata alla realtà, che si è trasformata in ideologia e ha attaccato i moderni alchimisti del mercato finanziario, i cui errori saranno ora pagati da tutti, anche da chi non c’entra nulla.
Ma il messaggio che arriva dal Palasharp non è improntato al pessimismo. «La fiducia si ricostruisce con la fede, la libertà e la speranza - ha detto Vittadini-: bisogna ripartire dall’economia reale e locale, dalle reti di sostegno, dai fattori di innovazione, per riproporre su base internazionale il localismo italiano, recuperando un’idea di lavoro e di impresa che è insito nella tradizione italiana e cristiana, che valorizzi la realtà e il capitale umano».
«Occorre ripartire dalla persona che lavora – ha detto nell’intervento conclusivo il presidente della Cdo Scholz – e che nel rapporto con la realtà cerca di rispondere ai suoi desideri, cerca la verità di sé; e sa assumersi una responsabilità verso tutti. La Compagnia delle Opere è la testimonianza che è possibile vivere il lavoro con un significato che riempie di soddisfazione; anche in momenti difficili». Un esempio di questo approccio sarà realizzato nei prossimi giorni, al «Matching», l’evento organizzato da Cdo per favorire le relazioni tra imprenditori, lo scambio di conoscenze e di informazioni, che permettano la costruzione «di una rete di fiducia che mette al centro il bene delle persone».
Da Il Giornale, 17/11/2008


CDO/ 2. Le Pmi alla prova della crisi: innovazione, qualità e servizio entrano in rete - Paolo Preti - lunedì 17 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Quelli dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri sono stati, in tutta evidenza, anni di crescita economica e di sviluppo che hanno interessato larghi strati della popolazione: tali successi sono maturati con il contributo di strategie imprenditoriali e modalità organizzative molto diverse tra di loro. Tale evoluzione si è realizzata in tre fasi che hanno caratterizzato rispettivamente gli anni sessanta, i settanta, e gli ottanta-novanta.
La prima fase è stata quella del boom economico, caratterizzato dalla nascita di migliaia di imprese attorno all’idea di altrettanti prodotti nuovi o innovativi. Prive di una cultura industriale specifica, esse tuttavia sfruttarono le favorevoli condizioni economiche per crescere svincolate da considerazioni di opportunità nel medio-lungo periodo. Tutta l’attenzione di quegli imprenditori fu concentrata nel cercare di mettere in grado le proprie aziende di sfruttare al massimo le occasioni che il lungo ciclo economico positivo e gli ottimi prodotti pensati e realizzati proponevano. Si perse facilmente di vista, di conseguenza, la dimensione organizzativa e tutti gli investimenti furono diretti verso la produzione e la commercializzazione: partendo da zero molte aziende crebbero a dismisura in posti di lavoro, in metri quadrati coperti ed in fatturato. Molte di esse, dunque, al mutare delle condizioni economiche nazionali e internazionali entrarono in crisi e, nonostante le loro innovazioni di prodotto, furono spazzate via.
Conviene riflettere su quei momenti perché, per alcuni versi, presentano qualche similitudine con quelli che siamo chiamati a vivere oggi. Allora alcune aziende riuscirono a superare quell’impatto proprio in forza della loro maggior elasticità organizzativa, ottenuta con investimenti in quest’area della gestione aziendale negli anni precedenti e con un più cauto processo di crescita dimensionale.
L’effetto combinato di questi accadimenti e di una legge come lo Statuto dei lavoratori, legge del maggio 1970, innescarono una seconda fase caratterizzata da imprese sulla difensiva, che esternalizzavano parti del processo produttivo per restare piccole, che per lo stesso motivo preferivano incentivare la nascita di altre imprese favorendo la fuoriuscita dei propri quadri migliori piuttosto che costruire attorno ad essi aziende più grandi. Il decentramento produttivo che ne conseguì si accompagnò ad una forte evasione fiscale e ad una fuga dal conflitto sindacale: le imprese cercavano di restare più piccole possibile per paura delle responsabilità collegate alle maggiori dimensioni. Anni difficili e faticosi, in cui essere imprenditori significava essere padroni più che datori di lavoro e terzisti più che produttori su proprio disegno.
Anni che, però, insieme a quelli molto diversi della precedente fase, hanno permesso di accumulare esperienza e conoscenza e di innescare quindi una terza fase di crescita. È la fase degli accordi interaziendali, dei gruppi di impresa, dei distretti: in sintesi, della collaborazione tra imprese realizzata non per timore o per insicurezza, ma per ottenere i benefici effetti della grande dimensione senza sopportarne i costi. Non una fuga, dunque, come nella fase precedente, ma una strategia di attacco. Il territorio in cui pochi anni prima ci si è rifugiati per sentirsi protetti da vincoli fiduciari diventa distretto, e la fiducia di prossimità da paravento si trasforma in facilitatore economico. Interi settori si disintegrano verticalmente sul territorio e maturano economie di specializzazione e imprenditorialità diffusa con alcune imprese-guida che tirano le fila. Non si fugge più dalla competizione, anzi la si affronta insieme con ritrovata fiducia nei propri mezzi.
Questa fase ci consegna una figura imprenditoriale mutata rispetto a quella degli anni sessanta: ha imparato dagli errori di chi l’ha preceduta, ha assimilato tutta la loro esperienza, ma ha ridotto di molto quella capacità di innovare nel prodotto che contraddistinse l’esperienza dei primi. Il nostro, ed ovviamente si accenna ad un dato medio, era diventato un imprenditore più assemblatore del lavoro altrui che creatore e realizzatore in proprio, più attento ai costi che al prodotto e al servizio.
Oggi, l’impresa in grado di competere con rinnovata forza sui mercati globalizzati, quella uscita vincente dal processo di metamorfosi che sta caratterizzando questo scorcio di inizio secolo, è un‘impresa che deve dare grande spazio all’innovazione di prodotto con la messa a punto di beni di ottima qualità e dalla forte valenza immateriale, che investe in politiche di marchio attentamente seguite anche attraverso il presidio diretto della distribuzione e un rilevante contenuto di servizio e di assistenza post-vendita; necessariamente queste aziende, pur continuando in alcuni casi a perseguire una politica organizzativa fondata sulla collaborazione con fornitori, cercano necessariamente una “presa” maggiore sulle attività coordinate all’esterno dei propri confini, perché la presenza di fattori organizzativi tipici della gerarchia e del clan facilita la realizzazione di quel cambiamento strategico.
L’innovazione, la qualità e il servizio la si pensa all’interno delle imprese, ma la si realizza solo con il fattivo contributo di tutti coloro che, dall’esterno, sono chiamati a dare il proprio contributo. L’esternalizzazione di fasi considerate a basso valore aggiunto con l’impresa al centro della costellazione che detta le regole del gioco facendo leva sulla sua forza contrattuale e negoziando condizioni sempre più penalizzanti per i terzisti, non sembra più essere il modello, se mai lo è stato, seguito dalle piccole aziende forti. Resiste, ma non è più una soluzione vincente nel contesto italiano.
Le imprese più avanzate continuano a decentrare fasi produttive ma selezionano terzisti eccellenti, studiano insieme soluzioni innovative, li trattano come dei partner produttivi, li fanno crescere, valorizzano le loro competenze e li incentivano a fare investimenti per garantire dei livelli di qualità e di sofisticazione produttiva altrimenti irraggiungibili. Sebbene la fabbrica totalmente integrata sia da tempo venuta meno, sta in parte risorgendo sottoforma di agglomerati di produttori specialisti, di “associati”, legati al committente da vincoli fiduciari di lungo periodo oltre che da contratti economicamente interessanti.
Solo con questa rete di legami più stretti – che garantiscono una maggiore integrazione tra committente e fornitori - si riesce oggi a raggiungere quella gamma di offerta che poi viene apprezzata nelle fasce alte del mercato di tutto il mondo.


RITRATTO/ Elisabetta d'Ungheria, la coraggiosa regina che aiutò il suo popolo fino alla fine - Rino Cammilleri - lunedì 17 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Figlia del re ungherese Andrea Arpád II e di Gertrude di Merano, fu promessa, ancora bambina, all’altrettanto piccolo Ludovico IV, figlio del langravio (una specie di marchese) di Turingia. Fidanzare i figli in fasce era normale, nel Medioevo, tra le famiglie di alto e altissimo rango, che ciò facevano per ragioni politiche. In tal modo si evitavano conflitti futuri e si stringevano alleanze. La Chiesa, tuttavia, pretendeva che tali matrimoni combinati venissero poi confermati dai due interessati, essendo, ai suoi occhi, solo i nubendi i ministri del sacramento; in caso contrario, era larga nel concedere l’annullamento di nozze del genere.
Nel 1221, giunti all’età giusta, Elisabetta e Ludovico si sposarono: il loro si rivelò, una volta tanto, un vero matrimonio d’amore dal quale nacquero tre figli.
I due coniugi erano molto religiosi e affascinati dal nuovo ordine francescano, che protessero e agevolarono nelle loro terre. Loro stessi si fecero terziari francescani. Ma, dal punto di vista politico, si trovarono presto in gravi imbarazzi perché Ludovico aveva ereditato dal padre, insieme al titolo, una vecchia contesa territoriale con gli arcivescovi–conti di Magonza, i quali avevano la scomunica facile. Ludovico avrebbe potuto fare come molti signori medievali: orecchie da mercante alle scomuniche e, addirittura, rispondere con le armi. Ma, per un uomo pio qual era, non essere ammesso ai sacramenti era un’angustia. E poi la scomunica era sempre una complicazione perché, almeno teoricamente, scioglieva i sudditi dall’obbedienza, così che il langravio avrebbe dovuto fare il giro di tutti i vassalli e le città soggette per verificare quanti erano quelli sulla cui fedeltà poteva, malgrado tutto, contare. Qualcuno di certo ne avrebbe approfittato per alzare il prezzo e mettere in ulteriore difficoltà il giovane langravio.
Insomma, una rogna. Così, Ludovico decise di sottoporre il suo caso al papa. Onorio III, che conosceva bene i suoi polli magonzani, suggerì al giovane di crociarsi. In tal modo, durante la sua assenza, i suoi beni sarebbero passati sotto la diretta protezione del pontefice e nessuno avrebbe potuto toccarli o rivendicarli. Si sarebbe guadagnato qualche anno di tempo e intanto molti equilibri politici potevano cambiare.
Ludovico IV accettò il consiglio, pronunciò il voto di crociata e sistemò le cose per partire. Si mise dunque in viaggio con le sue truppe verso la Terrasanta. Era il 1227 e i crociati diretti in Palestina solevano imbarcarsi a Otranto. Solo che, qui giunto, il giovane condottiero si ammalò di febbri e non poté proseguire. La moglie, subito avvertita, partì a sua volta per raggiungerlo, quantunque incinta dell’ultima figlia. Purtroppo, quando arrivò a Otranto il suo amato sposo era già morto.
La giovane vedova, schiantata dal dolore, tornò in patria, dove trovò una nuova ragione di vita nel darsi intensissimamente alle opere di carità e di penitenza. Morì appena ventiquattrenne nel 1231 e fu sepolta nella chiesa di Marburgo.
Nel 1539, nel corso della rivoluzione protestante, la sua tomba venne profanata dal langravio luterano Filippo d’Assia, che pure era un suo discendente. Oggi le reliquie della Santa si conservano a Vienna.
In Germania le donne che si consacravano alla cura degli ammalati venivano chiamate Elisabethinerinnen. Elisabetta di Turingia (o d’Ungheria, perché principessa ungherese) veniva tradizionalmente invocata contro la tigna ed è patrona del Terz’ordine francescano, nonché delle opere caritative cattoliche.
Spesso viene raffigurata mentre fa riposare un lebbroso nel suo letto nuziale o nell’atto di tramutare cibi in rose, due episodi della sua breve vita.