venerdì 7 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dopo il Sinodo, lettera di don Julian Carron alla Fraternità di Comunione e Liberazione – 3 novembre 2008
2) Il seme di Nasiriyah. Storia di Giuseppe e Margherita Coletta - Si sono presi mio marito. E io, signora Coletta, ora aiuto i loro figli - Cinque anni fa stupì l’Italia perdonando i terroristi che a Nasiriyah le avevano portato via Giuseppe. Oggi porta avanti la missione di pace del “brigadiere dei bambini” nel mondo. A cominciare dall’Iraq.
3) Dichiarazione finale del primo seminario del Forum cattolico-musulmano
4) Vescovo iracheno chiede a Obama di "cercare la pace tra i popoli" - La situazione dei cristiani a Mosul "migliora", ma c'è ancora "paura latente"
5) Toccante lettera dei Vescovi dell'Orissa ai cristiani perseguitati - "Ci prostriamo umilmente davanti alla vostra forte adesione alla fede" - di Inma Álvarez
6) Incontro ebraico-cattolico in Ungheria per ripartire dai giovani - Intervista al Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo - di Viktoria Somogyi
7) I presuli USA chiedono di difendere la vita dei concepiti - Esortano a pregare per il Presidente Obama e per il Paese
8) La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale di Magdi Cristiano Allam
9) 07/11/2008 10:59 - VATICANO – ISLAM - P. Samir: Un buon inizio in amicizia al Forum cattolico-islamico in Vaticano - di Samir Khalil Samir - Il gesuita Samir Khalil, esperto di Islam, fra i partecipanti del Forum in Vaticano, racconta i passi e le speranze aperte dall’incontro. Qualche difficoltà sulla libertà di religione. La sfida comune del secolarismo. I musulmani chiedono aiuto ai cristiani contro l’islamofobia.
10) 06/11/2008 14:10 – MYANMAR - Il popolo birmano invoca democrazia e libertà religiosa - La fine della dittatura in Myanmar e la sete di Dio della popolazione: sono le due facce di un Paese che la giunta militare tenta di soffocare in continuazione. Ancora oggi i profughi del ciclone Nargis sopravvivono fra gli stenti, senza acqua né cibo. Il lavoro della Chiesa cattolica, tra repressione del governo e il sostegno ai poveri.
11) In California aboliti i matrimoni omosessuali, L’Osservatore Romano, 7 novembre 2008
12) Le reazioni dei vescovi nei Paesi più coinvolti nella politica degli Stati Uniti - «Wait and see» - Obama e la Chiesa nel mondo - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 7 novembre 2008
13) 06/11/2008 15.38.50 - Singapore: network di solidarietà ispirato alla Dottrina sociale della Chiesa, Radio Vaticana
14) Da Oxford agli autobus, l'illusione di essere felici eliminando Dio - Pigi Colognesi - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
15) GERMANIA/ Dopo l’euforia per Obama, la domanda è: quale impegno chiederà al nostro Paese? - Redazione - venerdì 7 novembre 2008
16) ALITALIA/ Cai l’acquista per 1 miliardo, ma agli italiani la nuova compagnia ne costerà 3 - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
17) EDUCAZIONE/ Alberoni: questa ondata di protesta non è un movimento collettivo - INT. Francesco Alberoni - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
18) PROCREAZIONE/ Quando l'etica stimola la creatività della scienza: un caso tutto italiano - INT. Assuntina Morresi - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
19) SBALLO SOTTO GIACCA E CRAVATTA - RIBELLI ALLA «PESANTEZZA» DELL’ESSERE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 novembre 2008
20) INCORAGGIANTE INCONTRO CATTOLICO- MUSULMANO - Dio, creatore e provvidente la base del dialogo – CENTRO OASIS VENEZIA – Avvenire, 7 novembre 2008 - Benedetto XVI: «Possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio»
21) Una proteina per riprogrammare le cellule - La scoperta italiana potrebbe accelerare la messa a punto di cure efficaci per Alzheimer, Parkinson e cardiopatie – Avvenire, 7 novembre 2008


Dopo il Sinodo, lettera di don Julian Carron alla Fraternità di Comunione e Liberazione – 3 novembre 2008
FRATERNITÀ DI COMUNIONE E LIBERAZIONE
associazione di diritto pontificio civilmente riconosciuta
Uffici: Via Porpora, 127 - 20131 Milano - Tel. 02/26149301 - Fax 02/26149340 - e-mail: clfrat@comunioneliberazione.org
Milano, 3 novembre 2008
Cari amici,
la partecipazione al Sinodo deiVescovi, che come ben sapete aveva a tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, ha significato per me una presa di coscienza più acuta della nostra responsabilità nellaChiesa e nelmondo. Innanzitutto per quanto è emerso durante i lavori sinodali: che, cioè, la Parola di Dio è un “avvenimento” – Gesù Cristo -, che continua a essere presente nella storia attraverso la vita della Chiesa. Per questo il rapporto con la tradizione vivente nella Chiesa ci fa immedesimare con la novità testimoniata dal testo biblico e ci fa fare la stessa esperienza di coloro che si imbatterono in Gesù. Così tutti i fratelli uomini possono scoprire, come ha detto il Papa all’inizio del Sinodo, «il presente nel passato, lo Spirito Santo che parla oggi a noi nelle parole del passato». L’Esortazione apostolica post-sinodale offrirà l’indicazione della strada per la nostra fede e come tale attendiamola tutti.
Proprio in forza dell’azione dello Spirito nella sua Santa Chiesa si rende necessaria per tutti noi una maggiore consapevolezza. Il fatto di essere stato nominato da Benedetto XVI come Padre Sinodale l’ho vissuto come un segno della stima per il nostro movimento, ma soprattutto come una chiamata a dare il nostro contributo alla vita della Chiesa. Tale chiamata, poi, è stata confermata dall’elezione a relatore: questo ha voluto dire essere portavoce del gruppo di lingua spagnola e, soprattutto, ha implicato un maggiore coinvolgimento nei lavori sinodali, collaborando direttamente col relatore generale a dare forma alle Proposizioni finali. Tanti mi hanno avvicinato nei giorni trascorsi insieme, mossi da interesse o simpatia per la nostra esperienza.
Tutto questo ha suscitato in me il desiderio di scrivervi per condividere con voi l’esperienza vissuta - perché essa riguarda anche voi -, che mi ha spinto a rileggere la nostra storia per individuare il passo che, secondo me, ci viene chiesto. Io identifico molto sommariamente tre fasi nella nostra storia:
1ª fase: l’inizio. La nascita del movimento può essere caratterizzata dalle stesse dinamiche che accadono quando l’irruzione dello Spirito nella storia suscita un carisma per il bene della Chiesa. Come ogni iniziativa dello Spirito, anche il nostro carisma fu accolto non senza incomprensioni e persino ostilità, perché non poteva essere in alcun modo ricondotto a schemi costituiti. Ma non sempre tutto il travaglio di quegli anni fu dovuto alla naturale resistenza che sempre incontra la novità dello Spirito. Fu dovuto anche alla nostra immaturità, che solo la forza educativa di don Giussani ci ha consentito di correggere e di superare. La pazienza della Chiesa nei nostri confronti è stata un segno della sua maternità.
2ª fase: il riconoscimento. La fine del pontificato di PaoloVI e il pontificato di Giovanni Paolo II hanno significato per il nostro movimento il riconoscimento autorevole e la piena accoglienza nella vita della Chiesa, la cui espressione indimenticabile rimane l’incontro del 24 marzo 2007 in Piazza S. Pietro con Benedetto XVI.
Un’ulteriore conferma la troviamo nei segni di stima e di interesse manifestati da molti al Sinodo. Per questo siamo chiamati ad approfondire ulteriormente l’autocoscienza della nostra esperienza.
3ª fase: il carisma per la Chiesa e per il mondo. Oggi siamo chiamati a renderci più consapevoli dello scopo per cui lo Spirito ha dato un carisma a don Giussani: contribuire, insieme a tutti i battezzati, alla costruzione e al rinnovamento della Chiesa per il bene del mondo. Seguendo il Suo solito metodo, Dio dà la grazia a uno, perché attraverso di lui arrivi a tutti. E noi saremmo infedeli alla natura del nostro carisma, se il dono ricevuto non fosse condiviso con tutti, dentro e fuori della Chiesa. Per questo ognuno deve verificare nella sua circostanza come può contribuire al bene della Chiesa.
Ci sono molti ambienti dove tanti fra noi già rendono presente Cristo con una libertà e un’audacia che stupisce. Questa nostra presenza nei luoghi reali dove si svolge la vita degli uomini non deve per niente venire meno.Allo stesso tempo, a volte ci viene chiesto di collaborare anche all’interno della Chiesa. In tanti di voi da tempo date questo contributo - come catechisti nelle parrocchie, attraverso la caritativa e altri modi di collaborazione - e ciò dovrà trovarci sempre più disponibili là dove la nostra presenza sia richiesta e accolta. Certamente questo contributo non può essere che secondo la natura del nostro carisma, che ha nella testimonianza la sua espressione compiuta.
Sono convinto che questo passo che ci viene chiesto dallo Spirito ci porterà sempre di più nel cuore del mistero di Cristo, in modo tale da poterlo testimoniare ovunque, anche attraverso la nostra fragilità.
Uniti nell’avventura
don Julián Carrón



Il seme di Nasiriyah. Storia di Giuseppe e Margherita Coletta - Si sono presi mio marito. E io, signora Coletta, ora aiuto i loro figli - Cinque anni fa stupì l’Italia perdonando i terroristi che a Nasiriyah le avevano portato via Giuseppe. Oggi porta avanti la missione di pace del “brigadiere dei bambini” nel mondo. A cominciare dall’Iraq.
«Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori». Chi pronunciava queste parole davanti alle telecamere dei giornalisti che affollavano la sua casa di San Vitaliano (Napoli) a poche ore dalla strage di Nasiriyah era Margherita Coletta. Era il 12 novembre del 2003. In braccio teneva Maria, 2 anni appena, e da poche ore aveva saputo che suo marito, il vicebrigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, era tra i morti del sanguinoso attentato in Iraq. L’abisso le si leggeva in faccia, il suo era il volto del dolore, palpabile, disumano, ma in quel momento la sua fede di granito, più forte dei trecento chili di tritolo che avevano squassato la sua esistenza e quella di altre diciotto famiglie italiane, reggeva di fronte alla prova: «La nostra vita è tutta qua dentro», diceva a se stessa e ai giornalisti indicando il Vangelo.
Una prova che Margherita, 33 anni soltanto, aveva già dovuto affrontare: poco tempo prima il loro bambino, Paolo, era morto di leucemia. Giuseppe allora era arrabbiato con Dio, per un anno non era più entrato in chiesa, Margherita no, lei anche in quei giorni era la più forte: «Noi non possiamo conoscere i disegni di Dio, ma abbiamo un’unica grande certezza ed è che Dio ci ama. Lui non può volere il nostro male, dunque se ha permesso questo è per darci un giorno un bene maggiore. Io non posso capire, ma mi fido e mi affido».
Le stesse parole che, con strazio ancora più grande, piegata dal dolore ma mai spezzata, mi ha ripetuto quei giorni di cinque anni fa: «Credevo di aver già dato abbastanza al Signore. Mi sentivo sicura, pensavo che non mi avrebbe più chiesto altro dopo la morte di Paolo, ma non funziona così», mi ha detto sorridendo della sua ingenuità. «Il Signore più ci ama e più esige, e non chiede mai più di quanto ciascuno può dargli. Da me sapeva che poteva chiedere tanto, evidentemente…». E poi un’altra certezza, fondata sulla prima: «Noi non ci siamo divisi, nemmeno la morte ha potuto farlo. Giuseppe è salito al cielo da Paolo e io sono rimasta qui con Maria, ma un giorno saremo ancora tutti insieme. Vorrà dire che avrei dovuto attendere quattro mesi di missione in Iraq prima di rivederlo, invece aspetterò qualche anno».
Così diceva e così dice. Ma soprattutto così vive: non predica da uno scranno né teorizza da una cattedra, ma con semplicità estrema e disarmante riferisce ciò che vive sulla sua pelle. Da questa consapevolezza discende il suo diritto di parlare.
L’immagine di quella ragazza con il Vangelo in mano allora fece il giro d’Italia e non solo, entrò nelle nostre case e scosse le nostre coscienze. A chi le chiedeva come potesse perdonare lei opponeva la sua logica rigorosa e ineluttabile, anch’essa fondata sulla fede: «Gesù ci ha lasciato il comandamento di perdonare settanta volte sette, cioè sempre… Non vedo allora perché debba sembrare così eccezionale se un cristiano perdona: per un credente semmai dovrebbe essere strano il contrario».
«Tutta la sua vita è stata eroica»
E Giuseppe? Chi c’era dietro l’uniforme del giovane vicebrigadiere? Quale motivazione lo aveva spinto a partire per le missioni di pace all’estero? Ed era un eroe? Il fatto di morire dilaniato da un’autobomba basta per essere definito tale? Nella retorica delle cerimonie spesso è così.
Ma Giuseppe era un uomo degno di essere amato e scelto da una donna come Margherita. Lascio a lei le parole per spiegarlo: «Io penso che mio marito non ha fatto nulla di straordinario il giorno che l’hanno ucciso, la sua straordinarietà è nei 38 anni vissuti al servizio degli ultimi, non certo in una bomba che gli è scoppiata addosso. Anzi, quel giorno in fondo, come direbbe lui, si è lasciato fregare. È un’intera esistenza che ti fa eroe, non la sfortuna di un evento… Se proprio dobbiamo usare questo termine, preferirei dire che mio marito ha fatto della sua vita un atto eroico».
Un eroismo che per concretizzarsi non ha scelto la guerra ma la via dell’amore per il prossimo, in primo luogo i bambini. La svolta è avvenuta il giorno in cui Paolo è morto e in suo padre è nata l’esigenza di andare ovunque miseria, violenza e malattia mettessero a repentaglio la vita di tanti bambini come il suo. Per Paolo non c’era più nulla da fare, ma molto invece si poteva per milioni di altri figli sparsi nel mondo e in ognuno vedeva quello che aveva perduto. Sono centinaia le foto che lo ritraggono circondato da bambini in Albania, Kosovo, Bosnia e poi Iraq, decine le testimonianze che raccontano di quel Carabiniere che, cascasse il mondo, riusciva a fare arrivare dall’Italia container di giocattoli, cioccolato, medicinali, attrezzi per la scuola, omogeneizzati, latte in polvere, soluzione fisiologica per neonati… E proprio a Nasiriyah quelle incubatrici che mancavano: «Non è accettabile che bambini sani mi muoiano in braccio solo perché qui gli ospedali sono così poveri che non c’è un’incubatrice, che manca il cibo per nutrirli», telefonava alla moglie. E Margherita dall’Italia provvedeva, seguiva le sue istruzioni, bussava alle porte che lui, con la sua contagiosa voglia di fare e una vitalità che spaccava le montagne, era riuscito a guadagnare alla sua causa. A Nasiriyah lo chiamavano “il brigadiere dei bambini” e quando spariva sapevano tutti dov’era, nell’ospedale pediatrico a dare una mano, a spendersi fino all’ultima energia, sempre con quel suo sorriso di ragazzone ironico e contento.
L’abbraccio di Giovanni Paolo II
La sua prima “missione all’estero”, in fondo, era stata però sotto casa, in un altro ospedale pediatrico, il Santobono di Napoli in cui era morto suo figlio: dopo il funerale, Giuseppe si fece forza e tornò tante volte tra i piccoli malati oncologici anche se ciò gli costava un dolore insopportabile. In seguito andò a cercarli altrove, i bambini, dove soffrono di più, dove infuria la guerra, in terre lontane. Lì ritrovò la sua pace e quel Dio da cui in fondo non si era mai allontanato. In Albania addirittura, senza rivelare nulla a Margherita, esaudì il suo più grande desiderio, si preparò al sacramento della Cresima e, in combutta con il suo comandante, organizzò a sorpresa il viaggio affinché lei lo raggiungesse in missione: «Sei una moglie eccezionale – le ha scritto quel giorno – e, non potendoti risposare, ti ho scelto come madrina».
Il 15 novembre del 2003, dopo quattro mesi di Iraq, lui e i suoi compagni sarebbero tornati a casa. Ma il 12 novembre, tre giorni prima, un camion carico di tritolo si avventa sulla caserma dei Carabinieri a Nasiriyah e uccide diciannove italiani: la più grave perdita di nostri uomini dalla Seconda guerra mondiale. Paradossalmente proprio il 15 novembre i ragazzi tornano, ma nella stiva di un aereo militare, avvolti nei tricolore. Quello stesso giorno Margherita riceve l’abbraccio di Giovanni Paolo II: è andata in incognito in Sala Nervi, confusa tra gli ottomila dell’Unitalsi ricevuti dal Papa, ma la gente l’ha riconosciuta, è la vedova che due giorni prima alla televisione aveva scioccato tutti parlando di perdono, e l’applauso è lunghissimo. Al Papa sussurra di pregare perché Gesù continui a darle quella forza di cui ha bisogno, lui, già molto malato, le risponde con una carezza e la sua silenziosa benedizione.
Il seme di Nasiriyah, titolo che io e Margherita oggi abbiamo dato al libro che racconta tutto questo, è il grano che deve morire per dar vita alla pianta. È Paolo che muore ma è anche la folla di bambini che vivono grazie a Giuseppe e senza di lui oggi non sarebbero al mondo. È Giuseppe che muore ma è anche l’associazione subito dopo fondata da sua moglie per continuare le sue missioni nel mondo. “Giuseppe e Margherita Coletta – Bussate e vi sarà aperto”, si chiama. I primi che hanno bussato sono proprio i figli degli iracheni: di chi le aveva preso tutto.
La commozione di Ritanna Armeni
Nella prefazione al libro, scritta dall’inviato del Tg5 Toni Capuozzo, la morale: «C’è molto male, in giro, ma anche il bene sa essere contagioso». Nella postfazione di Ritanna Armeni, giornalista non credente, la più bella gratificazione: «Nella vicenda di Giuseppe e di Margherita c’è una risposta alla guerra che non conoscevo, che non smentisce quello che di peggio si pensa di essa, ma afferma una capacità per me non immaginabile di trascenderlo e superarlo… Giuseppe Coletta era andato in Iraq in missione di pace. E mai definizione appare più vera… Nel carabiniere Coletta c’è una normalità nell’abnegazione e una semplicità nel dono della vita che supera l’eroismo, o meglio lo riconduce alla normalità della vita. Margherita, sua moglie, è una donna cui la fede ha dato una saggezza che è, per chi scrive, inspiegabile, e quindi specialissima… Dalla guerra – ci dicono – si può uscire migliori, si può trovare la ragione per fare del bene. Ecco, questo non lo sapevo e neppure lo immaginavo. E questo mi sembra davvero un miracolo».
di Lucia Bellaspiga
TEMPI 03 Novembre 2008


Dichiarazione finale del primo seminario del Forum cattolico-musulmano
ROMA, giovedì, 6 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la traduzione de "L'Osservatore Romano" della dichiarazione comune firmata al termine dell'incontro del Forum cattolico-musulmano (Roma, 4-6 novembre).
* * *
Il forum cattolico-musulmano è stato creato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata Una Parola Comune, alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto xvi tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il suo primo seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti 24 partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del seminario è stato «Amore di Dio, amore del prossimo». Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: «fondamenti teologici e spirituali», «dignità umana e rispetto reciproco».
Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l'esempio dell'amore di Dio e del prossimo è l'amore di Cristo per suo Padre, per l'umanità e per ogni persona. «Dio è amore» (1 Giovanni, 4, 16) e «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Giovanni, 3, 16). L'amore di Dio è posto nel cuore dell'uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L'amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all'altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-17). L'amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L'amore del prossimo non si può separare dall'amore di Dio, perché è un'espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento «che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Giovanni, 15, 12). Radicato nell'amore sacrificale di Cristo, l'amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l'amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma il rispetto umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l'amore umano per l'Unico Vero Dio. Un hadit mostra che la compassione amorevole di Dio per l'umanità è persino più grande di quella di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana dell'unico che è «amorevole». Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l'umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L'ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché «coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande» (2: 165) e «in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene» (19: 96). In un hadit leggiamo che «Nessuno di voi ha fede finquando non ama il suo prossimo come ama se stesso» (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona, dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, le è stato permesso di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà di individuo, comunità e governo, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell'umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L'amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell'imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere una attenta informazione sulla religione dell'altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l'umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall'attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest'ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo. Alla fine del seminario, Sua Santità Papa Benedetto xvi e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Grand Mufti Mustafa Cerić, ha parlato al gruppo.
Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo.


Vescovo iracheno chiede a Obama di "cercare la pace tra i popoli" - La situazione dei cristiani a Mosul "migliora", ma c'è ancora "paura latente"
BAGHDAD, giovedì, 6 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Vescovo ausiliare di Baghdad, monsignor Shleiman Warduni, ha chiesto al Presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, di "governare guardando al bene di tutti i popoli della terra", un invito che estende "a tutti gli altri leader mondiali".
In alcune dichiarazioni all'agenzia AsiaNews, monsignor Warduni ha auspicato che il nuovo Presidente "non lavori solo per vincere una guerra, ma per procurare una pace stabile e duratura, che è la vera conquista, non solo in Iraq ma in tutti i luoghi in cui si verifica un conflitto".
"E' necessario che i governanti lavorino per la pace, la prosperità e l'amore tra i popoli, mettendo da parte le divisioni e gli egoismi personali", ha aggiunto il presule.
Monsignor Warduni ha anche criticato duramente la decisione del Parlamento iracheno, lunedì 3 novembre, di limitare la rappresentazione delle minoranze, anche se, ricorda, sia il Presidente Al-Maliki che i principali leader musulmani avevano accettato "la reintroduzione nella legge elettorale dell'articolo 50, che riconosce gli stessi diritti a tutti gli Iracheni".
Il Vescovo ha definito la misura un'"elemosina" e ha affermato che non si è disposti ad accettarla. "Non è giusto continuare a parlare di minoranze, perché facciamo tutti parte di un unico Iraq; dobbiamo collaborare per trasformare il desiderio di democrazia in un progetto concreto", ha aggiunto.
In questo senso, ha sottolineato che la comunità cristiana ha svolto un "importante lavoro" a livello di diffusione di "cultura, educazione, assistenza sociale e sanitaria", nonostante "pericoli, minacce e persecuzioni".
Quanto alla recente tragedia dei cristiani a Mosul, il presule ha denunciato che la causa è stata anche "il silenzio dell'Unione Europea, degli Stati Uniti, del Parlamento e della comunità internazionale, che per troppo tempo non hanno mosso un dito".
La situazione dei cristiani a Mosul, ha aggiunto, sta "migliorando" dall'intervento della polizia e dell'esercito. "Sono tornate circa 500 famiglie e altre si preparano a farlo", e anche se permane un sentimento di "paura latente" ci sono state molte manifestazioni di solidarietà da parte della comunità musulmana.


Toccante lettera dei Vescovi dell'Orissa ai cristiani perseguitati - "Ci prostriamo umilmente davanti alla vostra forte adesione alla fede" - di Inma Álvarez
BHUBANESWAR, giovedì, 6 novembre 2008 (ZENIT.org).- I sei Vescovi dello Stato indiano dell'Orissa hanno indirizzato una lunga e toccante lettera ai loro fedeli per esprimere la propria solidarietà e l'omaggio "a quei fratelli e a quelle sorelle che hanno perso la vita per la loro fede, consolare quanti sono stati colpiti e mostrare vicinanza a chi è rimasto traumatizzato dalla violenza".
"Ci prostriamo umilmente davanti alla vostra forte adesione alla fede e per la vostra fiducia in Gesù Cristo come Signore e Salvatore. Ci prostriamo davanti alla vostra buona volontà al momento di affrontare ogni tipo di umiliazione, prova e perfino persecuzione per la fede", affermano i Vescovi.
La lettera, diffusa dall'agenzia Fides, è stata letta nelle parrocchie, nelle scuole e nei conventi della zona colpita dalla violenza anticristiana. E' firmata dai monsignori Thomas Thiruthalil (Balasore), Raphael Cheenath (Cuttack-Bhubaneswar), Alphonse Bilung (Rourkela), John Barwa (coadiutore di Rourkela), Lucas Kerketta (Sambalpur) e Sarat Chandra Naik (Berhampur).
I presuli affermano che faranno "tutto il possibile" per "assicurare la riabilitazione di quanti hanno perso la propria casa, le proprietà, chiese e istituzioni", "sostenere coloro i cui diritti sono stati violati e assicurare che si farà giustizia per le loro sofferenze".
Allo stesso modo, esprimono la loro "angoscia" per "il ritardo con cui sia i Governi statali che quello centrale hanno risposto alla violenza in corso contro i cristiani in Orissa. Ci dispiace di dover dichiarare che entrambi i Governi hanno fallito miseramente nel far fronte ai loro doveri costituzionali".
I Vescovi chiedono dunque ai Governi statali e a quello centrale di "punire i colpevoli e ricompensare le vittime".
Circa le cause della persecuzione, i Vescovi rifiutano tassativamente la presunta implicazione dei cristiani nell'assassinio di Swami Laxmanananda e affermano che la vera causa è "la preferenza della Chiesa per i poveri e gli emarginati".
"Attraverso l'educazione, la salute, la promozione degli alloggi e dell'impiego, la Chiesa ha risvegliato le coscienze e aiutato le comunità vulnerabili. Queste a loro volta esigono i propri diritti. Al potere questo non piace visto che credono che i poveri stiano sfidando la loro posizione".
I Vescovi affermano che la Chiesa porterà avanti la sua opera sociale. "Come Gesù, preghiamo per gli autori di questi crimini", così come per tutti i cristiani, affinché "usciamo rafforzati da questo momento di crisi e possiamo continuare a vivere la nostra vita cristiana in questo Paese".
Approfittano infine per ringraziare per il sostegno ricevuto da "persone, organizzazioni, istituzioni, mezzi di comunicazione e organizzazioni non governative, accademici, attivisti politici, cittadini coscienti e persone di tutte le condizioni sociali", nonché da "rappresentanti di altre religioni", per alleviare la situazione dei cristiani perseguitati.
"La Vergine Maria diriga ogni nostro passo così che possiamo rispondere seriamente, con coraggio e saggezza alla violenza contro di noi!", conclude la lettera.
Il testo completo può essere consultato su: www.fides.org/eng/documents/Orissa_Bishops_Pastoral_Letter.doc


Incontro ebraico-cattolico in Ungheria per ripartire dai giovani - Intervista al Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo - di Viktoria Somogyi
ROMA, giovedì, 6 novembre 2008 (ZENIT.org).- Dal 9 e il 12 novembre prossimo si terrà a Budapest, in Ungheria, un incontro organizzato dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo e dall'International Jewish Committee on Interreligious Consultations incentrato sul tema: “La società civile e la religione, prospettive cattoliche ed ebraiche”.
Si tratta del secondo Congresso internazionale di questo genere che ha luogo nell’Europa dell’Est, dopo quello tenutosi a Praga nel 1990, ed ha come finalità quelle di coinvolgere le future generazioni nel dialogo interreligioso e di promuovere la collaborazione tra cattolici, ebrei ed ortodossi.
Per saperne di più, ZENIT ha intervistato padre Norbert Hofmann, Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo.
Nella preparazione di questo congresso di Budapest quali sono state le priorità?
Padre N. Hofmann: Per la seconda volta stiamo organizzando un convegno di alto livello in un paese del Europa dell’Est. Nel 1990 c’è stato un incontro a Praga. A Budapest vive una grande comunità di ebrei quindi la scelta è stata fatta da noi e anche dagli ebrei. C’è un’altra cosa molto importante nella preparazione del convegno: prima del convegno ufficiale ci incontriamo con 6 ragazzi cattolici e 6 ragazzi ebrei per trascorrere insieme un fine settimana. Andiamo insieme in una sinagoga e in una chiesa per partecipare a una messa cattolica. Così vogliamo coinvolgere nella preparazione le future generazioni. Un altro aspetto importante nella scelta di Budapest per il convegno è vedere come si svolge il dialogo con gli ebrei in questo contesto dell’Europa dell’Est.
Il tema del congresso è “La società civile e la religione, prospettive cattoliche ed ebraiche”. Può riassumerci le prospettive cattoliche al riguardo?
Padre N. Hofmann: Noi siamo religiosi quindi per noi la fede sta al centro del dialogo. Un aspetto della società attuale è la secolarizzazione che influisce sulla vita religiosa degli ebrei e sulla nostra: come affrontare questo fatto della secolarizzazione? Poi c’è anche la necessità di coinvolgere i musulmani. L’anno prossimo vogliamo organizzare un incontro a cui saranno presenti anche i musulmani. Tutti i religiosi devono unirsi per un dialogo autentico religioso e per affrontare le sfide di questa società.
Quali possono essere i punti di convergenza tra le due parti?
Padre N. Hofmann: Un punto di convergenza è l’importanza della religione e di trovare la propria identità. I cattolici non devono sviluppare la propria identità nella sacrestia ma nella vita sociale e pubblica. Quindi, ebrei e cattolici possono collaborare, abbiamo tanti valori in comune. Per esempio i dieci comandamenti sono una base comune. Oppure la necessità di aiutare i poveri e quelli che vivono ai margini della società. Ci sono tanti valori che si possano realizzare insieme.
Che aspettative avete per questo evento?
Padre N. Hofmann: Le aspettative sono generalmente di approfondire l’amicizia tra ebrei e cattolici a livello internazionale, di progredire e di approfondire il nostro dialogo. Per esempio adesso per la prima volta un rabbino ha parlato al Sinodo. Questo per me è un passo importante. Poi dobbiamo sviluppare quest’attività coinvolgendo la futura generazione e anche collaborare con le Chiese ortodosse perché sono presenti nei paesi dell’Europa dell’Est. Per esempio per la prima volta verrà come partecipante un rappresentante del Patriarchato di Costantinopoli della Chiesa Ortodossa. Inoltre, in futuro dobbiamo collaborare più intensamente con la Chiesa Ortodossa. Quindi cattolici, ortodossi e ebrei.
Si è appena concluso il Sinodo sulla Parola di Dio. In che modo quest’assemblea influirà sull’incontro in Ungheria?
Padre N. Hofmann: Come diceva il Cardinale Kasper: la Parola di Dio come Parola rivelata da Dio ha importanza per gli ebrei e anche per i cattolici. Quindi, servirà a sviluppare di più gli studi della Bibbia e ad aver maggior contatto con la Bibbia. Questo sarebbe un punto importante e da realizzare tra ebrei e cattolici.
Quali sono le particolarità del dialogo ebraico-cattolico nel contesto dell’Est europeo?
Padre N. Hofmann: Diciamo che gli ebrei nei paesi dell’Europa dell’Est hanno sofferto una situazione particolare sotto il regime dei comunisti. Quindi la loro identità dipendeva da questo fatto storico. Adesso, dopo l’apertura, devono ritrovare una nuova identità. Poi anche noi cattolici dobbiamo vivere all’interno di un contesto diverso e dialogare con gli ebrei. Però l’Ungheria per me è un esempio. A Budapest, infatti, c’è una buona convivenza tra ebrei e cattolici. Vogliamo vedere come vanno i rapporti in altri paesi dell’Europa dell’Est. Così abbiamo anche invitato l’Arcivescovo di Mosca. Ci sarà un Vescovo dalla Polonia e uno dalla Belorussia. Vogliamo vedere come possiamo progredire in questo dialogo nei paesi dell’Europa dell’Est.


I presuli USA chiedono di difendere la vita dei concepiti - Esortano a pregare per il Presidente Obama e per il Paese
WASHINGTON, D.C., giovedì, 6 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pregare per il Presidente eletto e per la Nazione: è questo il messaggio lanciato dall'Arcivescovo Donald Wuerl ai fedeli di Washington, la capitale degli Stati Uniti.
"Offriamo oggi le nostre preghiere per la nostra Nazione e per i nostri leader appena eletti, incluso il Presidente Obama, nel momento in cui assumono le loro responsabilità", ha affermato l'Arcivescovo di Washington il giorno dopo la vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali contro il senatore dell'Arizona John McCain.
Il presule ha riconosciuto il "momento storico" dell'elezione del primo afroamericano alla Presidenza, e ha detto di gioire "con il resto della nostra Nazione per il senso di questo momento".
L'Arcivescovo Wuerl ha espresso il desiderio che i nuovi leader "siano guidati nelle loro decisioni da saggezza e compassione".
Ribadendo un tema che suscita la preoccupazione di più di 50 leader delle Diocesi, espressa nella campagna elettorale con dichiarazioni pubbliche a favore della difesa della vita dei concepiti, l'Arcivescovo ha affermato che spera di riscontrare nella nuova amministrazione "un profondo rispetto e impegno per la santità e la dignità di ogni vita umana e il sostegno per i più vulnerabili tra noi".
Una voce nuova
Il Vescovo William Murphy di Rockville Centre, New York, ha commentato le elezioni definendole un "momento storico" nella storia degli Stati Uniti.
In alcuni commenti alla "Radio Vaticana", ha definito Barack Obama un "uomo intelligente" capace di "promuovere un gruppo con il suo punto di vista".
"Sotto molti aspetti, questa Nazione è stanca e vuole una voce nuova, e penso che egli risponda bene a questo desiderio", ha osservato.
Il Vescovo Murphy ha riconosciuto che la questione dell'aborto è una "sfida fondamentale" per questo Presidente, che secondo lui è "non pro-choice, ma pro-aborto".
Il presule ha sottolineato "l'orrore di 40 o 50 milioni di bambini abortiti" e ha affermato che la Nazione ha "sistematicamente escluso un'intera porzione della nostra cittadinanza dal godimento del diritto alla vita".
"E' una macchia estremamente scura sulla Nazione americana e contraddice ciò che affermiamo che sia - un popolo per cui la libertà, la giustizia e la ricerca della felicità, basate sulla vita, sono permesse, sono date a ciascuno".
Non dando ai concepiti il diritto di vivere, "non stiamo vivendo ciò che diciamo di essere", ha aggiunto.
Quanto a Obama, il Vescovo Murphy ha affermato che la posizione del Presidente eletto contro la vita è "molto chiara" e che "i Vescovi lo esorteranno a ripensarci".
"Gli chiederemo di non provocare altre divisioni culturali su questo argomento fondamentale", dichiara.
Allo stesso modo, i presuli esorteranno il Presidente a "riflettere il sentimento diffuso per cui l'aborto non è una cosa positiva in sé perché uccide bambini e non è positiva per il nostro Paese perché incide sulla base di una buona società".
Tener fede alla speranza
I Vescovi di San Antonio (Texas) hanno chiesto ai fedeli di pregare per una cultura della vita.
In un messaggio inserito sul sito web diocesano, l'Arcivescovo José H. Gomez e il Vescovo ausiliare Oscar Cantú hanno sottolineato il numero record di votanti che si sono recati alle urne per eleggere il primo Presidente afroamericano.
"Preghiamo perché Dio gli doni la saggezza e la compassione che aiuteranno a modellare una cultura della vita in questo Paese e perché possa volgersi verso politiche che proteggano i più vulnerabili", hanno auspicato.


La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale di Magdi Cristiano Allam
L'Europa, tutti noi, saremo coinvolti in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di un capitalismo alla cinese, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto
autore: Magdi Cristiano Allam

Cari amici,
la vittoria di Barak Obama è certamente un fatto di portata storica. Lo è indubbiamente per l’aspetto più manifesto: si tratta del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America. Ma io temo che sarà ricordato dalla storia non tanto per il colore della sua pelle, per le sue radici keniote e per il padre musulmano poligamo, ma perché sarà il presidente che accelererà il tracollo dell’America come superpotenza mondiale e, di conseguenza, condurrà alla disfatta dell’insieme della civiltà occidentale.
Ciò coinvolgerà inesorabilmente l’Europa, quindi tutti noi, in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di una forma di capitalismo alla cinese caratterizzato dal materialismo assoluto e dal consumismo sfrenato senza regole etiche e diritti umani, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo e indifferentismo.
Io sono sinceramente felice per la vittoria di un giovane di 47 anni alla guida degli Stati Uniti, a maggior ragione se incarna il riscatto di una minoranza etnica che arrivò in America come schiavi. L’America dimostra di essere una nazione dove il rinnovamento generazionale è una costante e dove il cambiamento è un tratto fisiologico perché si radica nel primato dei valori costituzionali che affermano la parità dei cittadini indipendentemente dall’etnia d’origine, dalla confessione o status sociale.
Ammiro Obama per la lucidità e l’intuito con cui è riuscito a percepire la voglia di cambiamento degli americani. Un cambiamento ricercato a tutti i costi perché si è attribuito all’amministrazione repubblicana di George Bush la causa e la responsabilità di tutti i mali dell’America. Anche se di fatto la guerra in Iraq sta finalmente registrando la disfatta del terrorismo di Al Qaeda dopo aver rovesciato il regime tirannico di Saddam Hussein. Facile e scontato quindi oggi sostenere a viva voce che è in Afghanistan che ci si deve impegnare massimamente per combattere il terrorismo islamico globalizzato. Ed anche se di fatto Bush, sul piano economico, ha osato l’inverosimile operando un massiccio intervento statale con fondi pubblici a sostegno delle banche fallite dopo l’esplosione della bolla speculativa, ponendo fine al mito del libero mercato che si autoregolamenta da sé, facendosi invece scoprire che il mercato necessita di regole etiche. Il fatto che sia stato un repubblicano, un acerrimo assertore dell’inviolabilità del libero mercato, ad assumere un’iniziativa statalista di stampo socialista, e che ciò avviene nella nazione simbolo del capitalismo, dà l’idea della svolta epocale legata alla fine di un mito.
Ammiro Obama per l’intelligenza con cui ha individuato nei giovani il fattore trainante del cambiamento, valorizzando in modo ottimale la loro passione e la loro disponibilità a concedersi totalmente.
Ammiro Obama per la straordinaria capacità di coinvolgere l’insieme della popolazione americana nella più ampia e capillare rete virtuale ed economica che ha consentito di dar vita a un mastodontico e consistente sistema di autofinanziamento con milioni di piccoli contribuenti che ha fruttato, fino alla fine del mese di settembre, oltre 600 milioni di dollari di cui la gran parte inviati da sostenitori che, singolarmente, hanno inviato una somma inferiore ai 50 dollari. Anche se certamente Obama ha potuto godere, in partenza, anche del sostegno di grandi finanziatori che lo hanno messo, in un secondo tempo, nella condizione di rendersi economicamente autonomo.
Gli americani non ne potevano più di George Bush e del suo Partito Repubblicano, a dispetto di tutto e di tutti, ed Obama ha saputo cogliere questo messaggio. Obama è stato inoltre avvantaggiato dal fatto che il ceto medio, indebolito dalla crisi economica, si è riconosciuto nelle sue posizioni assistenzialiste che promettono maggiori servizi pubblici ai cittadini, quindi con una maggiore presenza dello Stato, rispetto alle posizioni liberiste che affidano allo sgravio fiscale la possibilità dei singoli di godere di un miglior tenore di vita, quindi con una minore presenza dello Stato.
Tuttavia ciò che mi preoccupa in Obama è lo spirito sessantottino che ha animato il discorso da lui pronunciato a Berlino, in cui ha elevato la retorica dell’abbattiamo tutti i muri tra tutte le religioni, tutti i paesi, tutti gli uomini, senza porsi delle domande sui contenuti, senza chiedersi perché sono stati eretti questi muri e del pericolo che in essi si annida. Così come mi preoccupano i toni populisti del discorso della vittoria, “l’America è il luogo nel quale tutto è possibile”, “la vera forza della nostra nazione non nasce dalle armi o dalle ricchezze, bensì dalla vitalità dei nostri ideali”.
Ciò che mi preoccupa massimamente di Obama è l’assenza di una chiara visione e strategia per il futuro dell’America e del mondo: “La strada che abbiamo davanti sarà lunga. La salita rapida. Forse non arriveremo al traguardo in un solo anno, forse non basterà un unico mandato”. Obama non indica né una strada né un traguardo. Ci dice solo che sarà lunga, rapida e incerta. E’ più concentrato sulla realtà contingente che si esaurisce nella denuncia di ciò che non va, che sulla realtà strutturale che implica la proposta di ciò che si deve costruire. E’ infatuato dal mito del dialogo, dall’illusione che il dialogo sia la panacea di tutti i mali del mondo e che a furia di dialogare anche con i peggiori tiranni, a partire dal presidente nazi-islamico iraniano Ahmadinejad, qualcosa di buono ne uscirà fuori. Ma dato che i suoi consiglieri, ben più avveduti, lo invitano alla cautela per non mettersi contro i poteri forti in America, Obama passa da un estremo all’altro, minacciando anche di muovere la guerra contro l’Iran e contro il Pakistan.
Ebbene, cari amici, nel nostro rapporto con la realtà e nella nostra voglia di cambiamento della realtà, noi dobbiamo partire dalla considerazione della realtà per quella che è, e purtroppo, la realtà ci rappresenta un’America e un’Europa in declino sul piano economico e sul piano sociale e culturale. Un declino che si tocca con mano nel constatare l’imperversare del capitalismo alla cinese al punto che oggi la Cina comunista è il principale creditore del debito pubblico americano, e nel successo degli estremisti islamici che adottano il terrorismo dei taglia-lingua nel conquistare spazi sempre più ampi di potere in seno all’insieme dell’Occidente. Un declino che si deve proprio al venir meno del primato dei valori e delle regole che sono il fondamento del riscatto della civiltà occidentale che si alimenta del binomio indissolubile di verità e libertà, di fede e ragione, che ha le sue radici profonde nella fede, nella cultura e nella tradizione cristiana che ha saputo raccogliere l’eredità del pensiero greco, romano, laico e liberale.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i Valori e le Regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam


07/11/2008 10:59 - VATICANO – ISLAM - P. Samir: Un buon inizio in amicizia al Forum cattolico-islamico in Vaticano - di Samir Khalil Samir - Il gesuita Samir Khalil, esperto di Islam, fra i partecipanti del Forum in Vaticano, racconta i passi e le speranze aperte dall’incontro. Qualche difficoltà sulla libertà di religione. La sfida comune del secolarismo. I musulmani chiedono aiuto ai cristiani contro l’islamofobia.

Città del Vaticano (AsiaNews) - Dopo tanti anni di difficoltà, quello avvenuto in Vaticano dal 4 al 6 novembre è il primo incontro cristiano-islamico a livello internazionale. Il gruppo musulmano proveniva dal mondo arabo, africano, dall’America; vi hanno partecipato anche alcuni imam occidentali convertiti e alcuni dall’estremo oriente (Indonesia, Malaysia, ecc..).
Anche i membri cattolici provenivano da tutti i continenti. Il Consiglio per il dialogo interreligioso aveva studiato apposta questa eterogeneità. Dalle due parti vi erano pure delle donne.
Vera fraternità
L’elemento più importante da sottolineare è il clima di serenità, amicizia, rispetto per tutto il tempo, sia nei momenti pubblici che in quelli a tu per tu. Talvolta vi è stato nervosismo, ma davvero poco. Questo clima è stato favorito dal Mufti di Sarajevo, Mustafa Cerić , e del card. Tauran: entrambi hanno sempre insistito sul voler parlarci “da fratelli, da amici”.
Anche il programma ha aiutato: ogni giorno vi erano 2 brevi contributi di 30 minuti ognuno, cristiano e musulmano, in modo parallelo. Ciò ha permesso di percepire le due visioni distinte, ma che cercano di incontrarsi. Tutto il resto della giornata vi sono stati interventi a commento e domande all’uno o all’altro. Ciò significa che per almeno 5 ore vi era il tempo di scambiarsi opinioni e vedute. Tutti siamo stati attenti e ligi alle regole e alle modalità di intervento. Anche durante il pranzo si avevano rapporti liberi. Insomma tutto è stato avvolto da un clima di fratellanza non formale, ma di vera amicizia.
Un altro punto da sottolineare è la qualità e la serietà dei partecipanti, di altissimo livello dal punto di vista intellettuale e spirituale. Questo ha dato un’impronta di forte serietà al nostro dialogare. Anche gli imam occidentali, convertiti all’Islam, avevano una cultura molto vasta sia del mondo islamico, che di quello cristiano, con conoscenza delle fonti medievali e di san Tommaso d’Aquino. La relazione di Seyyed Hossein Nasr [filosofo iraniano, professore negli Usa] ad esempio è stata davvero superba. Questo ha contribuito a un dialogo fruttuoso e pieno di serenità.
Qualcuno potrà rilevare che il documento conclusivo (vedi: La Dichiarazione comune di cattolici e musulmani) è troppo generico. Ma dobbiamo tener conto che questo è il primo di una serie. La cosa più importante di questo Forum è che esso è un inizio. I nn. 14 e 15 della Dichiarazione affermano che questo è l’inizio di un processo e entro due anni dovremo fare un altro incontro in un Paese musulmano da determinare. Ciò significa che è iniziato un processo lento, ma continuo, che potrà portare sempre più frutti e avvicinare le due comunità.
Le difficoltà
Il dialogo è stato franco: non ci siamo nascosti le difficoltà. Per l’incontro avevamo scelto il titolo “Amore di Dio e amore del prossimo”. Malgrado alcune pressioni per rimanere solo nell’ambito teologico spirituale, vi è stato un accordo per affrontare gli argomenti teologici il primo giorno; al secondo giorno i temi della dignità umana e del rispetto reciproco. Qualcuno aveva paura di questi temi, perché essi rischiano di sollevare problemi imbarazzanti soprattutto per l’Islam, coinvolgendo la libertà di religione, la testimonianza pubblica, la missione, ecc. Alla fine siamo stati tutti d’accordo nell’affrontare questi temi sia a livello filosofico, per fondare questi temi nella fede, sia a livello pratico per suggerire alcune applicazioni. E anche questo dialogo è stato molto fruttuoso. Anzi, soprattutto i musulmani hanno messo in luce le fatiche del mondo islamico ad accettare temi come l’uguaglianza fra tutti gli uomini, la comune dignità, la libertà di professare la propria fede, ecc… Alcuni musulmani hanno quasi invidiato i cristiani europei, che hanno compiuto un cammino storico più lungo e profondo per conquistare la distinzione fra fede e politica; fra Chiesa e Stato, arrivando per questo anche alla guerra. “Tutte queste lotte - diceva qualche musulmano – ha portato la vostra Chiesa a ripensare il rapporto fra religione e Stato. Noi abbiamo avuto meno problemi. Ma questo non ha permesso di andare a fondo della distinzione. Quando poi l’Europa è giunta nei nostri Paesi, non abbiamo potuto assorbire questo insegnamento perché l’Europa è entrata con un volto coloniale e nemico e questo ha irrigidito le posizioni”.
Questa mi pare un’analisi valida, anche se non sufficiente. La distinzione fra religione e politica non è solo frutto di lotte storiche, ma di principio: essa ha radici nello stesso Vangelo, dove Gesù rifiuta sempre di comportarsi come un capo politico o sociale. Invece, il contesto delle tribù arabe nel VII secolo, ha spinto Maometto a fare delle scelte socio-politiche.
Questo ha portato a un interessante dibattito su laicità, secolarizzazione e secolarismo. Qualche musulmano ha fatto la distinzione fra la laicità dello Stato, che “noi musulmani possiamo accettare” e la laicità nel senso del secolarismo ateo “che è da combattere”.
Questa sottolineatura è un contributo per tutti, anche per le nostre società occidentali, che affondano in un ateismo pratico e . Diversi hanno citato (e apprezzato) più volte la posizione del papa sulla “laicità aperta” [alla dimensione religiosa- v. il discorso di Regensburg]. Soprattutto da parte musulmana si è sottolineato che questo problema del secolarismo unisce cristiani e musulmani. Le chiese si svuotano, ci dicevano; le moschee di meno, ma questa ripresa delle moschee può essere un rifugio identitario, per agganciarsi a qualcosa. Vi sono stati contributi di tipo teologico, sociologico, filosofico dalle due parti, con grande arricchimento per tutto. Tutto il problema del secolarismo meriterebbe un convegno a sé.
Da qui si è passati al problema della libertà di coscienza e di religione, un tema molto delicato, che è stato toccato con discrezione, e che è riemerso al momento di accettare il documento finale.
Nella Dichiarazione comune, al punto 5 è emerso “il diritto di persone e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico”. Qui sono emerse difficoltà forti. Alcuni musulmani dicevano: “Se aggiungete queste parole ci mettete in difficoltà. La libertà di religione nei nostri Paesi è gestita da leggi dello Stato. Come facciamo a diffondere un documento se è contrario alle leggi dello Stato? Il rischio è di essere squalificati ed emarginati nella nostra società”. Alcuni musulmani hanno suggerito di togliere almeno le parole “in privato e in pubblico”.
C’era anche una formulazione che difendeva il diritto di diffondere la propria fede come “Da’wa” (la missione per l’Islam) o come Tabshir (la missione cristiana). Ma questa è stata ritenuta troppo forte e l’abbiamo eliminata.
Tutte le difficoltà sono state sbloccate dal gran Mufti. Mustafa Cerić ha ricordato che la formula sulla libertà religiosa usata nel documento comune “è quella della Dichiarazione sui diritti dell’uomo dell’Onu. E molti governi musulmani hanno sottoscritto questa Dichiarazione. Dunque essi devono accettarla, anche se magari non la praticano”. E questo ha risolto il problema e ha disincagliato l’adesione a tutto il documento finale. I problemi rimangono, ma almeno abbiamo affermato il principio della libertà. Del resto, nel Corano vi sono dei versetti che confortano questa posizione.
Il problema della libertà religiosa ha aperto anche la questione di come attuare la dichiarazione. Siamo stati tutti d’accordo di tradurla nelle nostre lingue e diffonderla il più possibile ovunque, sensibilizzando anche i nostri governi, anche se non abbiamo la forza di costringerli a trasformare le loro leggi.
Un altro modo per rendere fruttuoso questo incontro è l’educazione delle nuove generazioni a maggiore oggettività e al rispetto dell’altra religione, sia nei testi scolastiche che nelle pubblicazioni in genere. Tutti siamo stati d’accordo che “non possiamo continuare a trasmettere degli errori. Per questo i libri che parlano dei cristiani dovrebbero essere scritti da cristiani e viceversa: i libri che parlano dell’Islam dovrebbero essere scritti da musulmani e adottati anche nelle scuole cattoliche”. Il tema dell’educazione potrebbe essere il tema di un altro appuntamento del Forum.
La sfida comune: la modernità senza Dio
In conclusione, l’incontro è stato molto positivo, ma ha aperto anche questioni che richiedono approfondimenti. Sulla libertà religiosa, ad esempio, la tradizione musulmana afferma la libertà di coscienza, ma non garantisce l’espressione comunitaria perché vede nella testimonianza di un’altra fede il rischio di scandalo per la comunità islamica, e perciò è qualcosa da condannare.
Ma la questione più cocente è quella del secolarismo verso di cui si apre lo spazio di una missione comune. Per alcuni degli intervenuti musulmani, la secolarizzazione del mondo è la cosa più angosciante, verso cui reagire e per questo essi vogliono che i cattolici reagiscano con loro. C’è il rischio di cadere in una visione fondamentalista, in cui esigiamo dai governi delle garanzie sulle religioni, ma alla fine credo che questa esigenza sia molto onesta.
Il problema che vi è al fondo è quello della modernità attuale che si presenta antireligiosa. I musulmani vorrebbero costruire una modernità non antireligiosa, ma aperta a Dio, come continua a predicare lo stesso Benedetto XVI.
I musulmani cercano i cristiani
Ho avuto la netta percezione che nel mondo musulmano ci sia una maggior ricerca dell’incontro coi cristiani. Un fattore che ha spinto all’incontro in Vaticano, è il sentire da parte islamica che abbiamo una tradizione comune, la cosiddetta tradizione abramitica. Da notare che il Corano riconosce cristianesimo e ebraismo. Ma mentre con gli ebrei i rapporti si sono rovinati, l’amicizia con i cristiani è testimoniata fino all’ultima sura. C’è poi anche un incosciente motivo politico: il mondo di oggi è dominato dall’occidente, esso è di tradizione cristiana e perciò vale la pena discutere con i cristiani e soprattutto con i cattolici. Un fatto curioso è la “confessione” fatta da alcuni musulmani sunniti che hanno dichiarato di sentirsi più vicini ai cattolici che ai protestanti “perché voi e noi ci riferiamo alla tradizione come un valore normativo e perché insieme rappresentiamo più di un terzo del mondo”.
Un ultimo motivo è il desiderio di essere aiutati dai cristiani per essere difesi dall’islamofobia. Le personalità musulmane sentono che il mondo bolla la loro religione come violenta, terrorista, ecc..
Nella prima stesura della Dichiarazione finale c’era la parola “terrorismo”: i musulmani hanno voluto che si togliesse, sostituendola con una più generica (“violenza”). Il motivo è “perché la gente associa terrorismo e Islam”. C’è il rischio che in questo modo si voglia condannare l’Islam in toto. E invece non era quella l’idea sottostante al documento. Il papa nel suo discorso ha comunque precisato che dobbiamo essere contrari alla violenza, anche a quella che viene esercitata “in nome di Dio”. I musulmani si sentono attaccati da tutti e accusati da tutti di terrorismo. Uno di loro ha detto: “Io non sono Bin Laden. Perché fate portare a me il peso di quanto fa Bin Laden?”. Essi riconoscono che chi li attacca non sono i cristiani, ma il mondo secolarizzato e ateo e per questo chiedono aiuto ai cristiani.
C’è quindi il desiderio di superare schemi e scontri per affrontare insieme la sfida del secolarismo nei confronti delle religioni. Un musulmano ha detto di non accettare più la divisione fra “Casa della Pace (Dar-al-Islam)” e “Casa della guerra (Dar al-Harb)”, che risente di una divisione politico-religiosa del mondo e che fomenta il jihad contro l’occidente. Egli preferisce allora la definizione di “Casa della testimonianza”: ovunque, nei Paesi islamici e nei Paesi occidentali, l’importante è testimoniare la propria fede. E in fondo questi musulmani vorrebbero che musulmani e cristiani offrano una testimonianza comune di fronte alla secolarizzazione.

06/11/2008 14:10 – MYANMAR - Il popolo birmano invoca democrazia e libertà religiosa - La fine della dittatura in Myanmar e la sete di Dio della popolazione: sono le due facce di un Paese che la giunta militare tenta di soffocare in continuazione. Ancora oggi i profughi del ciclone Nargis sopravvivono fra gli stenti, senza acqua né cibo. Il lavoro della Chiesa cattolica, tra repressione del governo e il sostegno ai poveri.
Yangon (AsiaNews) – Il futuro del Myanmar non dipende dalla “comunità internazionale” o dai “singoli movimenti interni”, ma è legato alla forza e all’unità di un “popolo che deve diventare artefice del proprio destino”. È l’auspicio che rivolge ad AsiaNews una fonte cattolica birmana che – in condizioni di anonimato per motivi di sicurezza – ha accettato di raccontare la realtà del Paese e le prospettive per il futuro, il miraggio della democrazia e i timori di nuove repressioni, ma anche la “speranza di un popolo assetato di Dio” alla continua ricerca di una “realtà ultima che sollevi lo spirito” dalla miseria, dai dolori e dalle vessazioni quotidiane.
Una vasta fetta della popolazione diventa “sempre più povera” e sopravvive “con meno di 120 dollari Usa all’anno”. Diritti umani, libertà personale e religiosa, democrazia: parole vuote in Myanmar, dove una dittatura militare regna incontrastata da oltre un ventennio e mette a tacere chi cerca di esprimere il dissenso. La fonte si dice sicura che la dittatura – nel lungo periodo – cadrà come è successo in passato in Unione Sovietica o in altre zone in cui dominavano regimi totalitari, ma dipenderà da una “lotta a livello locale” da combattere “non con una guerra aperta, ma con una lenta opera di erosione dall’interno” con la forza “della ragione, del dialogo e della pace”. Un ruolo essenziale può essere ricoperto “dai media e da internet”, nonostante il controllo “serrato” esercitato dai militari, perché permette di “raccogliere notizie da tutto il mondo” e conoscere “una realtà diversa dalla versione ufficiale propagandata dalle autorità”.
La Cina ha allungato i suoi tentacoli sulla ex-Birmania, proteggendo la giunta militare al potere in seno alla comunità internazionale. “Essa – continua la fonte – ha più interessi a tutelare il governo con il quale conclude affari” a scapito della popolazione civile, secondo la logica della “non ingerenza negli affari interni di un altro Paese. Ecco perché la giunta è diventata sempre più forte” in apparenza, ma segue una logica di “repressione continua per timore di perdere il potere” in vista delle elezioni politiche del 2010.
Anche fra i profughi del ciclone Nargis, a distanza di mesi, la situazione sembra essere “drammaticamente uguale”. Prima la giunta militare requisisce gli aiuti umanitari forniti dalle agenzie internazionali, poi “allunga le mani” sulle aree più sperdute, in cui vi sono ancora oggi “migliaia di persone che muoiono di fame o di sete” perché non hanno cibo, né acqua. Le organizzazioni umanitarie cercano di portare soccorso ai più sfortunati e proprio la Chiesa può giocare un “ruolo essenziale” nei programmi di aiuto e assistenza grazie al lavoro svolto “dalla Conferenza episcopale che coordina gli interventi di varie associazione fra le quali la Caritas locale”. I cattolici, racconta la fonte, operano sul territorio grazie a una fitta presenza di volontari e associazioni legate a diocesi e parrocchie: un lavoro aperto ma discreto, non ostentato, che sia davvero in grado di arrivare alla gente senza incappare nelle ire della giunta militare. “Le associazioni religiose, in special modo quelle cattoliche – continua – sono essenziali perché forniscono figure qualificate come suore, infermiere, assistenti e volontari che sanno come operare e quali interventi mettere in atto per aiutare persone che, ancora oggi, soffrono a causa dei disastri provocati dal ciclone”.
Il compito dei cristiani resta quello di trasmettere “un segnale di speranza” e la “cooperazione con i buddisti può diventare un elemento importante per mettere paura al regime, che teme questa unione di intenti. Bisogna però usare molta cautela e continuare il dialogo interreligioso tanto nelle opere concrete, quanto nel compito di evangelizzare".
Nel Paese c’è una sete di Dio e la testimonianza arriva dai “numerosi casi di conversione al cristianesimo”, perché capace di offrire un messaggio di speranza che va oltre le sofferenze quotidiane, ma soprattutto perché il popolo birmano “pur rimanendo legato alla propria cultura e alle proprie tradizioni, desidera incontrare Cristo” e il messaggio di salvezza che porta con sé, nonostante “la pressione esercitata dal governo” cerchi di “limitare” le conversioni. Nel Paese la “libertà religiosa è contemplata dalla Costituzione”, ma viene applicata “secondo un criterio molto soggettivo e particolare” dalla giunta militare.
L’ultima riflessione è dedicata alla più famosa attivista birmana per la democrazia, la premio Nobel Aung San Suu Kyi: “La giunta militare – conferma la fonte – l’ha rinchiusa in un angolo e la mantiene sotto stretta sorveglianza, ma rimane molto popolare e rispettata dalla gente”. Il ruolo della “Signora” resta fondamentale nella lotta per la democrazia nel Paese, ma “non può fare tutto da sola”. È importante che la gente la sostenga nel suo “lavoro di coordinamento fra le varie fazioni all’opposizione” e che resti sempre un punto di riferimento nel promuovere i valori “della democrazia, del rispetto dei diritti umani e della libertà di religione: la giunta militare è consapevole della sua influenza ma la Signora non può combattere da sola: ha bisogno del sostegno del popolo”.


Le reazioni dei vescovi nei Paesi più coinvolti nella politica degli Stati Uniti - «Wait and see» - Obama e la Chiesa nel mondo - di Marco Bellizi – L’Osservatore Romano, 7 novembre 2008
Speranza: per la democrazia, la giustizia e la difesa della dignità della persona in ogni circostanza; speranza che si possa aprire, lavorando per la pace, un'era di riconciliazione. La speranza è il filo rosso che lega le dichiarazioni dei vescovi di tutto il mondo all'indomani dell'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d'America. È il sentimento comune in particolar modo dei presuli nei Paesi più sensibili agli effetti della politica a stelle e strisce, vale a dire l'Iraq, l'India, il Vicino Oriente. E lo è anche per i vescovi degli Stati Uniti, che ieri hanno diffuso il messaggio nel quale si congratulano con il neopresidente per la sua "storica" vittoria alle elezioni e lo invitano a "difendere la vita e i più vulnerabili" fra i cittadini americani. "Il nostro Paese sta attraversando numerose incertezze - scrivono i vescovi nel messaggio firmato dal cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza episcopale - e preghiamo affinché il potere che le deriva dalla sua carica le permetta di affrontarle, con una particolare attenzione ai più vulnerabili tra di noi, per superare le divisioni nel nostro Paese e nel mondo. Siamo pronti a collaborare con lei per la difesa e l'appoggio alla vita e alla dignità di tutte le persone. Il popolo del nostro Paese le ha affidato una grande responsabilità. Come vescovi cattolici le offriamo le nostre preghiere perché Dio le dia forza e saggezza per far fronte alle sfide future. Dio benedica lei e il vicepresidente eletto Biden ora che vi preparate ad assumere le rispettive responsabilità al servizio del nostro Paese e dei suoi cittadini". La Chiesa negli Stati Uniti negli ultimi mesi ha richiamato più volte l'attenzione dei cattolici sulla dottrina sociale, in riferimento soprattutto alla difesa della vita, dal suo concepimento al suo termine naturale - attraverso il documento Forming Consciences for Faithful Citizenship - e, appunto, alla difesa dei più vulnerabili, immigrati in testa, colpiti dalle politiche anticlandestini che in qualche caso, hanno spiegato i presuli, hanno colpito indiscriminatamente intere famiglie di stranieri. Sul fronte etico, l'impegno della Chiesa è quello di scongiurare gli effetti nefasti che potrebbero derivare dall'approvazione del Freedom of Choice Act, un provvedimento che allargherebbe sostanzialmente le maglie rispetto al diritto all'aborto.
Oltre confine, la speranza è invece che le politiche di Washington possano condurre, almeno in prospettiva, a un'attenuazione dei contrasti in diverse aree del mondo. In molti casi c'è coscienza che l'elezione di Obama rappresenta un cambiamento epocale, almeno nell'immagine esterna che trasmette la più grande potenza mondiale. Allo stesso tempo c'è la consapevolezza che le ragioni della politica sono talvolta ostacoli formidabili a ogni tentativo di cambiamento. La speranza, comunque - hanno affermato i vescovi dell'Iraq subito dopo la diffusione dei risultati elettorali - è "che si apra un'era di pace e di concordia, che non ci siano più guerre, anche preventive". È difficile, ha affermato il vescovo di Baghdad dei Latini, Jean Benjamin Sleiman, "dire adesso se Obama sarà migliore di altri che lo hanno preceduto. Certo che gli Usa hanno una strategia a lungo termine qui in Iraq, e dunque legata alla ragion di Stato e non semplicemente ad affari di singole persone. Così, wait and see: aspettiamo e vediamo". A Barack Obama, ha poi spiegato il vescovo ausiliare di Baghdad dei Caldei, Shlemon Warduni, "chiediamo di governare con amore il proprio Paese, come devono fare tutti i governanti. Come leader di una superpotenza deve governare con giustizia il suo popolo senza dimenticare il resto del mondo. È urgente lavorare per l'unità e la concordia nel mondo per abbattere le divisioni e porre fine alla sofferenza. Faccia del bene all'uomo".
Per il vescovo di Alep dei Caldei, in Siria, Antoine Audo, è "una scelta coraggiosa ed un segno di vera democrazia eleggere come presidente un afroamericano". Il presule prende atto dell'elezione nella quale "molti qui in Siria, ma non solo, speravano. Nel consenso a Obama nei Paesi arabi credo che abbiano influito anche le sue origini musulmane o arabe". La portata e la novità di Obama presidente degli Stati Uniti, ha aggiunto il vescovo di Aleppo, "potrebbe rappresentare per i nostri Governi arabi e musulmani un esempio positivo e provocante per mostrare questa libertà di spirito e di atteggiamento" e nel contempo "aiutare gli Stati Uniti a scrollarsi di dosso, o quantomeno ad attenuare", l'ostilità che il Paese si è attirata in questi ultimi anni e che "rappresenta un vero problema. Spero - ha concluso - in un cambiamento di politica per un futuro di pace anche in Iraq" e nel "ritorno in patria delle migliaia di rifugiati iracheni, anche cristiani, che sono qui in Siria". Di "reale cambiamento" parla anche il vicario apostolico di Bairut, Paul Dahdah: "Speriamo che con questa elezione la politica mediorientale americana cambi un po': al centro rimane sempre l'annosa questione del conflitto israelo-palestinese. Se venisse risolta, la pace in questa regione non sarebbe più un problema e sarebbe molto vicina. Anche l'Iraq merita una particolare considerazione. Sono stato in quel Paese per quindici anni e conosco quale dramma stanno vivendo le comunità cristiane di lì. Molti stanno fuggendo da una patria che non li protegge". Infine, dall'India arriva il commento del presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Oswald Gracias, il quale ha spiegato che prega in modo speciale perché l'impegno di Obama a "favore della vita" sia "buono": "L'elezione del presidente Obama - ha detto - porta alla Chiesa dell'India molta gioia e speranza. La storica vittoria di un afroamericano a presidente degli Usa riflette l'efficacia della democrazia". Si tratta, ha detto il cardinale, di "un enorme risultato che la società americana ha conquistato in pochissimo tempo. Solo quarant'anni fa la gente soffriva di discriminazione e pregiudizio, e oggi quella stessa gente ha eletto un presidente afroamericano. Quest'apertura è un'opportunità per tutte le società e rafforza la società indiana e le sue speranze".

(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2008)


In California aboliti i matrimoni omosessuali, L’Osservatore Romano, 7 novembre 2008
Los Angeles, 6. I matrimoni omosessuali tornano fuorilegge in California. Approvando con una percentuale di oltre il 52 per cento il cosiddetto Proposition 8 (proposta numero 8) i californiani hanno sancito che il matrimonio è l'unione tra un uomo e una donna, rimettendo così in dubbio la legalità di migliaia di matrimoni tra omosessuali celebrati negli ultimi quattro mesi e mezzo. Secondo il locale ministro della giustizia Jerry Brown, i matrimoni già celebrati rimarranno validi ma diversi attivisti gay temono ricorsi da parte di organizzazioni contrarie alle unioni. Quello sui matrimoni omosessuali era uno dei numerosi referendum che la California tradizionalmente organizza in occasione di tutte le principali elezioni, ed era considerato probabilmente il più controverso. All'inizio della campagna il "no" al bando veniva dato ampiamente in testa, visto il carattere tradizionalmente liberal della California, che per esempio autorizza, entro certi limiti, l'adozione da parte delle coppie omosessuali e riconosce ai conviventi diritti analoghi a quelli delle coppie sposate. È stato verosimilmente l'elettorato cattolico - in crescita nel Golden State, dove gli ispanici sono sempre più numerosi - a contribuire all'approvazione della riforma. Secondo i dati più recenti della Conferenza episcopale, i cattolici costituiscono il 28,6% della popolazione, pari a quasi dieci milioni e mezzo di persone. Attualmente i matrimoni omosessuali sono autorizzati solo in Massachusetts, da diversi anni, e nel Connecticut, da pochi mesi. Sempre ieri, due altri referendum sui matrimoni tra persone dello stesso sesso sono stati vinti dai fautori del "no" alle unioni omosessuali in Florida e in Arizona.
Intanto, contro il Proposition 8 sono state avviate già tre cause legali da parte dell'American Civil Liberties Union, della Lambda Legal, del National Center for Lesbian Rights, delle contee di San Francisco, Los Angeles e Santa Clara e del legale della prima coppia omosessuale legalmente sposata nello Stato. L'emendamento approvato con il voto popolare era invece stato proposto da un'ampia coalizione di gruppi religiosi e conservatori.
(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2008)


06/11/2008 15.38.50 - Singapore: network di solidarietà ispirato alla Dottrina sociale della Chiesa, Radio Vaticana
Una settantina di imprenditori e liberi professionisti cattolici di Singapore hanno dato vita a un network di solidarietà ispirato ai principi della Dottrina sociale della Chiesa. Si chiama “Catholic Business Network” (CBN) ed è stato inaugurato nei giorni scorsi alla presenza dell’arcivescovo di Singapore, mons. Nicholas Chia e di un centinaio di invitati. Scopo dell’iniziativa - ha spiegato all’agenzia Ucan il suo presidente, nonché ideatore George Chew - è di aiutare gli aderenti nel loro cammino di fede, spronandoli a mettere in pratica l’etica e i valori morali cattolici nel loro lavoro e di incoraggiarli a mettere i loro talenti e mezzi al servizio della comunità e dei meno fortunati. La costituzione del nuovo network è stata preceduta da una serie di convegni intitolata “Essere cattolici in un mondo che lavora” e da altri incontri informali tra i suoi membri. Positivo il giudizio sull’iniziativa di mons. Nicholas Chia, che alla cerimonia inaugurale ha rilevato come essa “aiuterà la promozione dei valori morali della società”. “Oggi domina una cultura consumistica - ha detto il presule -, dobbiamo invece coltivare una cultura della vocazione: siamo chiamati a usare i doni che ci vengono dati per costruire il Regno di Dio”. “La gente pensa che non puoi fare affari ed essere allo stesso tempo cattolico, ma Gesù ci dice invece che è possibile e CBN dovrebbe aiutare a capire come”, ha detto, da parte sua, mons. Eugene Vaz, vicario generale dell’arcidiocesi, e direttore spirituale della nuova associazione. Le principali attività del Catholic Business Network comprendono la raccolta di fondi per aiutare i bisognosi. Tra i progetti in agenda per l’anno prossimo vi è poi quello di mettere on–line un almanacco delle imprese cattoliche locali per aiutare l’assunzione di cattolici che hanno perso il lavoro a causa della crisi. (L.Z.)


Da Oxford agli autobus, l'illusione di essere felici eliminando Dio - Pigi Colognesi - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Due notizie provenienti dall’Inghilterra danno da pensare. La prima è che la municipalità di Oxford, la cittadella accademica più celebre del mondo, ha deciso di non chiamare più il Natale col suo nome, ma con quello più neutro di Festività Invernale della Luce. Con questa denominazione un po’ ridicola si vorrebbe evitare di urtare la suscettibilità di tutti quelli per cui andare in vacanza perché si festeggia la nascita di Gesù Cristo risulta fastidioso. Ed è singolare che coloro che più si sono lamentati di questa decisione siano i capi delle comunità ebraica e musulmana di Oxford; a loro risulta evidente che cancellare il Natale significa eliminare un pezzo dell’identità britannica, da loro stessi vissuta. Ma passiamo alla seconda notizia.
Sui bus e nelle metropolitane di Londra è comparsa nelle scorse settimane la seguente scritta pubblicitaria: «Probabilmente Dio non esiste. Dunque smettete di preoccuparvi e godetevi la vita».
L’iniziativa è partita da un blog del giornale progressista Guardian e, dicono gli organizzatori, ha avuto un successo clamoroso: si dovevano raccogliere cinquemila sterline per una piccola campagna pubblicitaria e ne sono arrivate oltre centodiciassettemila. Scopo del messaggio è quello di «rassicurare» chi si sente minacciato dal ritorno del fervore religioso. È chiaro, infatti, cosa i sostenitori dell’iniziativa (tra loro figura Richard Dawkins, diventato celebre per un libro sulle «ragioni per non credere») intendano per Dio: un nemico della vita. Coi suoi precetti e divieti, con la minaccia della punizione eterna, con le sue regole soffocanti questo simulacro di Dio appare evidentemente un ostacolo per la realizzazione dell’uomo. E quindi la constatazione che «probabilmente» non esiste fa tirare il fiato.
Ma siamo così sicuri che, senza Dio, noi possiamo «goderci la vita»? Come dovremmo fare?
Occorrono un sacco di condizioni di non facile raggiungimento (e questo lo slogan ateistico tende a nasconderlo): bisogna avere la salute e un lavoro soddisfacente, disporre di un minimo di agiatezza economica, essere capaci di instaurare rapporti interpersonali ed affettivi appaganti. E poi è necessario che la situazione intorno a sé consenta di godersela, la vita. Se sei seduto sul bus (magari quello con la scritta ateistica sulla fiancata) e ti schiacciano un piede, tutto il tuo godimento se ne va.
E non basta. Siamo sicuri che uno possa tranquillamente godersi la vita quando legge quello che legge sui giornali? Le migliaia che fuggono dai loro villaggi in Congo o quelli che perdono il posto di lavoro perché la banca fallisce; i cristiani ammazzati in India e la bambina lapidata in Somalia.
Ci vorrebbe un po’ di giustizia perché questa vita sia davvero godibile. Ma anche guardando più da vicino: come farei a «non preoccuparmi» se una persona che mi è cara soffre, è scontenta, magari un pochino depressa?
Insomma «godersi la vita» è un affare complicato. Ma, soprattutto, cos’è questa vita che dovrei godermi? È la somma di salute, affetti, lavoro, soldi, circostanze più o meno favorevoli? È il susseguirsi di raggiungimenti parziali e sempre effimeri? Non c’è, invece, in ognuno l’urgenza di trovare qualcosa che dia consistenza e durata a tutti quei fattori? Non vive ognuno lo struggente bisogno di un «godimento» che non lasci fuori nulla e che sia permanente? Della felicità, insomma.
Questa esigenza non apre forse la prospettiva su un orizzonte infinito e misterioso, quello che gli uomini hanno sempre chiamato Dio? Limitare simile apertura non è un rimpicciolimento della persona, una sua riduzione a misure meschine, quelle facilmente gestibili da un potere prodigo di «godimenti»? L’uomo che è nato quel giorno di duemila anni ha detto che proprio per camminare verso la felicità ogni uomo è venuto al mondo e che la misura del suo desiderio è infinita. È per questo che gli amministratori di Oxford vogliono farci dimenticare il suo Natale?


GERMANIA/ Dopo l’euforia per Obama, la domanda è: quale impegno chiederà al nostro Paese? - Redazione - venerdì 7 novembre 2008
Nel giorno del trionfo, la maggioranza dei tedeschi si è mostrata entusiasta. Questo entusiasmo si è però manifestato con diverse gradazioni, soprattutto nel mondo politico.
Il leader della FDP (Partito Liberal-democratico)Guido Westerwelle ha parlato di «un momento stellare della democrazia», descrivendo così al meglio lo stato d’animo medio di una sinistra euforica. Il capo della sinistra alla Camera Bassa, Gregor Gysi, ha aggiunto «l’evento del millennio». Anche i Verdi hanno sommerso Obama di lodi e di aspettative. Il presidente della SPD (Partito Social-democratico), il ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier, ha seguito le votazioni fino alle prime ore del mattino e salutato l’esito del voto con visibile soddisfazione. «Obama rappresenta il rinnovamento del sogno americano di libertà,democrazia e opportunità per tutti» ha concluso.
La “Obamania” aveva colpito la Germania già questa estate, quando il candidato presidente aveva radunato la più grande folla della sua intera campagna elettorale: 200.000 persone osannanti sotto la berlinese Siegessäule(la colonna della vittoria). Apparentemente un buon auspicio.
La Cancelliera Angela Merkel, nel suo telegramma di auguri per la «storica vittoria elettorale», ha ricordato quell’incontro. In verità, a differenza di altri, si era presa tempo fino al mattino per le congratulazioni e prima era andata a dormire: «Beh, naturalmente ho seguito anch’io fino al momento di andare a letto» ha detto il giorno dopo l’elezione. Una dichiarazione del tutto in accordo con il suo stile piuttosto spassionato.
È parere comune in Germania che l’elezione di Obama rappresenti un’opportunità di rinnovo delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Tuttavia, davanti a una tale esuberante euforia, non sono mancati ammonimenti nei commenti di politica estera sulla stampa.
«È il presidente americano, non il presidente europeo» ha avvertito l’esperto della SPD Hans-Ulrich Klose, di fronte alle eccessive aspettative. Quindi, perseguirà gli interessi americani. In una Germania orientata all’esportazione, si fanno perciò i conti con il fatto che il nuovo presidente avrà come primo obiettivo il rafforzamento dell’economia interna del suo paese. Dopotutto, l’allora candidato era stato uno dei maggiori sostenitori della ridiscussione dei contratti miliardari per la fornitura di aerei cisterna all’aviazione militare degli Usa, fornitura aggiudicata al consorzio europeo Airbus.
Nondimeno, a Berlino si spera in una ripresa di consapevolezza che, senza cambiare tutto, renda le cose più facili. Sulla base della profonda amicizia tra tedeschi e americani, «potremo risolvere anche i problemi che ci sono, ne sono convinta» ha sottolineato la Cancelliera. Nella chiara attesa che il tempo della unilateralità degli Stati Uniti sia ormai alla fine: «Lo faremo nello spirito che nessuno oggi può risolvere da solo i problemi del mondo intero».
Questo vale anzitutto per le questioni globali, quali la lotta al terrorismo, la difesa del clima, la crisi finanziaria. Obama ha trovato sostegno anche per il suo annuncio di voler ritirare il più rapidamente possibile le truppe americane dall’Iraq e di trovare una soluzione per l’Afghanistan.
A Berlino si sa però, fin dal discorso di Obama alla Siegessäule, che il nuovo corso della responsabilità condivisa significa anche la condivisione dei costi, vale a dire, nelle condizioni attuali, più impegno civile, più soldati, più denaro.
Tra l’entusiasmo per la “terra delle possibilità illimitate”, che rinnova la propria vitalità e dimostra il suo ottimismo, e una più fredda considerazione dei problemi oscillano anche i commenti.
Così il Frankfurter Allgemeine Zeitung: «Quando il fumo di questa indubbia Vittoria nazionale sarà svanito, Obama si sarà fatto con la sua squadra un quadro della gravità della situazione. Sarà necessario dare risposte ragionevoli ai problemi interni ed esterni, elaborare un programma di governo e creare una propria immagine». E Die Welt: «Obama è stato eletto come incarnazione di un sentimento. Cosa vuole, non lo sappiamo. Ora deve tradurre i sogni nella prosa del governare. Con la spinta che lo ha portato alla Casa Bianca, quest’uomo può diventare un innovatore anche sul piano internazionale. Ha una opportunità che quasi nessun presidente prima di lui ha avuto».
(Christoph Scholz)


ALITALIA/ Cai l’acquista per 1 miliardo, ma agli italiani la nuova compagnia ne costerà 3 - Andrea Giuricin, Ugo Arrigo - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La Compagnia Aerea Italiana ha presentato la propria offerta per l’acquisto degli asset di Alitalia, in particolar modo gli aerei e gli slot.
La somma proposta al Commissario Straordinario di Alitalia Augusto Fantozzi ammonta a un miliardo di euro, una cifra che sembra essere lontana dal valore degli asset aziendali.
Gli aerei acquisiti in proprietà saranno 64 ed ognuno di essi ha un valore medio di mercato di circa 15 milioni di euro, mentre gli slot dovrebbero valere almeno 600 milioni di euro. Solamente queste due attività aziendali dunque ammontano a un valore superiore al miliardo e mezzo di euro, somma superiore all’offerta Cai.
Il “piano Fenice” non ha solo un costo di 3 miliardi dovuti alla creazione della Bad Company che andrà in capo allo Stato Italiano. Ci sono anche dei costi per i viaggiatori del trasporto aereo italiano dovuti alla diminuzione della concorrenza interna e alla mancata liberalizzazione dei voli intercontinentali.
La nuova Compagnia Aerea Italiana si presenta con un piano debole sia per la rinascita di Alitalia, ma in particolar modo debole per il mercato del trasporto aereo italiano.
È interessante analizzare in primo luogo la struttura dei ricavi per tipologia di rotta. Nel caso dei maggiori vettori di bandiera europei il peso preponderante appartiene ai proventi dei voli intercontinentali
La vecchia Alitalia si differenziava notevolmente dalle compagnie precedenti in quanto nel 2007 solo il 30% dei ricavi era conseguito sul segmento intercontinentale, l’unico sottratto all’apertura europea del mercato. La nuova Cai, tuttavia, anziché riavvicinarsi ai grandi vettori europei nella sua strategia, se ne allontana ulteriormente e conta di conseguire nel 2009 solo il 23% dei ricavi totali dal trasporto intercontinentale mentre i ricavi sulle rotte nazionali dovrebbero salire dal 28% sino al 42% del totale.
La domanda da porsi è se sbaglia Cai o, invece, i concorrenti i quali continuano a fare profitti.
Evidentemente Cai si aspetta di detenere una posizione dominante sul mercato domestico e conta di fare profitti grazie alla disponibilità del Governo a restringere la concorrenza sul mercato interno attraverso provvedimenti legislativi o regolamentari. Solo in questo modo è possibile innalzare le tariffe ed evitare di operare in perdita, come accadeva alla vecchia Alitalia.
Nessun piano di rilancio potrebbe infatti immaginare una compagnia tanto forte dal punto di vista dei risultati economici in un mercato dove gli operatori agiscono in concorrenza. Il Piano Fenice, presentato al Governo e da esso implicitamente accettato, non solamente indica il futuro della nuova compagnia aerea, ma riscrive anche le regole del gioco più importanti.
Sono diverse le debolezze di Cai sia per il sistema aeroportuale che in generale per il trasporto aereo.
Il primo punto riguarda le azioni necessarie per il ‘rilancio’ di “Milano Malpensa”: in questo caso il piano Cai prevede esplicitamente l’uscita dei vettori low cost, i quali sono attualmente così poco importanti per il secondo aeroporto italiano che addirittura Easyjet è il primo vettore sullo scalo milanese.
Il secondo punto previsto dal regolato-regolatore è subordinato al partner straniero: se dovesse entrare Lufthansa nel capitale di Cai allora Milano Linate dovrebbe diventare scalo riservato alla sola navetta Milano Linate–Roma Fiumicino. Il traffico passeggeri passerebbe in conseguenza da oltre 10 a soli 2,5 milioni di passeggeri annui (tramite quale fantasiosa limitazione governativa?). Questa azione non solo non sarebbe utile agli aeroporti lombardi (la posizione del sindaco di Milano Letizia Moratti, azionista di maggioranza di SEA, è chiara), ma limiterebbe la già scarsa competizione che esiste tra gli aeroporti.
Il problema è tuttavia che non solo Linate ma tutti gli aeroporti del Nord Italia fanno concorrenza e sottraggono traffico a Malpensa come hub: infatti da Trieste, Venezia, Torino, Genova, ecc. si fa prima a raggiungere in aereo Fiumicino o un altro hub europeo che non Malpensa, necessariamente in auto o in treno poiché si tratta di città troppo poco distanti da Milano da giustificare collegamenti economici per via aerea.
La domanda provocatoria è pertanto la seguente: quando chiederà Cai la chiusura di tutti gli aeroporti del Nord Italia per concentrare il traffico su Milano Malpensa in funzione delle sue strategia imprenditoriale? La chiusura di Linate porrebbe un grave pregiudizio al mercato del trasporto aereo lombardo e questa azione sarebbe di fatto decisa dal piano di rilancio di una compagnia aerea che non riuscirebbe neppure ad avere il 25 per cento dell’attuale traffico italiano.
I dati del piano Cai smentiscono l’ipotesi all’origine del mantenimento della proprietà nazionali Alitalia: il rilancio del trasporto intercontinentale da parte della nuova compagnia aerea italiana. Le rotte intercontinentali offerte dalla Compagnia Aerea Italiana scendono infatti a 18 dalle 22 complessivamente servite in precedenza da Airone ed Alitalia mentre i posti km offerti risulterebbero nel 2009 solo di 17,8 miliardi contri i 24,1 miliardi offerti nel 2007 dalla sola Alitalia (senza AirOne), con una diminuzione del 26%.
La struttura dei ricavi di Cai pone seri indizi in favore di rendite di posizione monopolistica nel mercato domestico italiano. La certezza emerge ancora una volta dai dettagli dello stesso piano industriale degli imprenditori tricolori.
I ricavi per posto chilometro offerto da Cai evidenziano che la nuova compagnia aerea sarà in grado di alzare in maniera molto consistente il prezzo dei biglietti sul mercato domestico grazie alle misure anticoncorrenziali che il Governo ha già preso o ci si attenda da parte di Cai che prenderà in futuro.
Con gli introiti unitari della vecchia Alitalia la spesa totale per i consumatori nei cinque anni sarebbe stata 6,2 miliardi di euro e il risparmio rispetto a Cai di 2,1 miliardi di euro.
La mancata liberalizzazione del trasporto aereo intercontinentale permetterà a Cai di mantenere una posizione di oligopolio per queste tratte. È la ragione per la quale nel complesso il "Piano Fenice" costerà ai viaggiatori 3 miliardi di euro.
Il Piano Fenice costa caro a Malpensa, ma soprattutto ai viaggiatori che dovranno sopportare rincari per 3 miliardi di euro nei prossimi 5 anni.


EDUCAZIONE/ Alberoni: questa ondata di protesta non è un movimento collettivo - INT. Francesco Alberoni - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Professor Alberoni, in questi giorni in cui la scuola è al centro dell’attenzione dei media si parla moltissimo di politiche scolastiche, e pochissimo, o quasi nulla, di educazione: perché l’emergenza educativa, da molti riconosciuta come una delle priorità del nostro paese, rimane sempre ai margini del dibattito pubblico?
Perché l’educazione viene ancora considerata unicamente come appannaggio o dovere della famiglia. Dopo il fascismo, che dava allo Stato un compito educativo anche nel campo della morale, i democristiani hanno avuto paura a sostenere la stessa tesi. I marxisti invece, dal canto loro, hanno identificato la morale con la politica. Oggi infatti non si usa quasi più il termine “immorale”, e questo termine è stato sostituito da “politicamente scorretto”. Ora, poi, è stato introdotto lo studio della Costituzione, ma non lo studio del corretto comportamento verso tutti gli altri, anche verso i genitori, i fratelli gli insegnanti, etc.
Cosa pensa del fatto che siano scesi in piazza insieme docenti e alunni, genitori e bambini, con i loro diversi gradi di consapevolezza? Le sembra un bel caso di dialogo generazionale, oppure chi svolge il ruolo di educatore dovrebbe avere un rapporto diverso con i ragazzi? Si è parlato anche di cattivi maestri…
Ripeto quanto ho già detto su questo tema, e cioè che quest'anno, con il decreto Gelmini, le occupazioni sono scattate come riflesso condizionato. Poi le cose sono cambiate. Trovandosi a discutere fra di loro e con gli insegnanti, sulla scuola, sulle prospettive di lavoro, sulla crisi economica, partecipando o ascoltando i dibattiti, gli studenti hanno incominciato ad esaminare criticamente la scuola italiana e se stessi. È la prima volta che succede. E molti ragazzi, fuori o dentro i cortei di protesta, oscuramente percepiscono che ci vorrebbe una vera riforma che renda tutto più efficace ed efficiente: materie, insegnamento, ricerca, concorsi, laboratori, studi più rigorosi e preparazione al lavoro. Cose che, in realtà, non ci sono perché né loro, né i loro genitori, né i docenti, né i sindacati le hanno mai realmente volute.
Lei dice che i ragazzi che protestano in questi giorni «oscuramente percepiscono che ci vorrebbe una vera riforma»; gli adulti invece – docenti in primis – sembrano scendere in piazza per lasciare tutto com’è. Possiamo dire che le giovani generazioni si stanno “auto-educando” a una visione più matura della realtà rispetto a chi li ha preceduti?
Sì, anche per effetto della mondializzazione, che ci ha fatto capire come sia fragile il nostro sistema produttivo, e della crisi, che ci minaccia tutti. Sono spariti i sogni di una vita facile e senza lavoro (pensiamo ad esempio alle proposte di qualche anno fa, come la settimana da 35 ore). Questo ha di fatto indebolito il potere dei sindacati, soprattutto della Cgil, e ha rotto l’unione sindacale nata nel 1969, col movimento che fu denominato “autunno caldo”. Questo “spirito dei tempi” tocca anche i ragazzi, che hanno una visione più realistica rispetto alla generazione che li ha preceduti.
Ogni volta che c’è un movimento di protesta i media cercano di dare una fisionomia precisa al fenomeno, con tanto di caratteristiche particolari e con relativo nome (questa volta si parla di “Onda”): non le sembra che a volte si ecceda in queste analisi sociologiche? In altre parole: esisterebbe questa ondata di protesta se non ci fossero sindacati e politici interessati a darle fiato?
Dal punto di vista sociologico la parola “onda” non significa nulla, ed è stata inventata dai giornalisti. I sociologi conoscono i movimenti collettivi, e quello in atto non appartiene affatto a questa categoria. Movimenti collettivi sono stati il movimento studentesco del 1967-68, quello sindacale del 1969-71, il sommovimento legato a “mani pulite”, oppure i movimenti politici come la Lega e Forza Italia. Poi basta. L’agitazione e le occupazioni di oggi, invece, sono tutte prodotte da gruppi organizzati della sinistra.


PROCREAZIONE/ Quando l'etica stimola la creatività della scienza: un caso tutto italiano - INT. Assuntina Morresi - venerdì 7 novembre 2008 – IlSussidiario.net
La notizia è fresca di ieri: è nato il primo bambino per fecondazione artificiale con diagnosi genetica pre-concepimento. Si tratta di un evento del tutto nuovo in campo scientifico, che promette di superare l'annoso problema della selezione degli embrioni “sani” da quelli “difettosi” contestata dal mondo cattolico e anche da parte di quello laico. Ma da un punto di vista bioetico, sebbene si saluti questo risultato come un vero progresso, permangono obiezioni sul metodo della fecondazione in vitro. Assuntina Morresi spiega questa vera e propria rivoluzione scientifica, gli aspetti positivi e i problemi che comporta.
Professoressa Morresi, che cos'è esattamente questa diagnosi genetica pre-concepimento?
Si tratta di una diagnosi che si conduce sul patrimonio genetico dell'ovocita, cioè del gamete femminile, per verificarne eventuali anomalìe genetiche. È importante perché questa tecnica, che si dice del “globulo polare”, rende possibile un’analisi genetica dell'ovocita senza doverlo distruggere: un fatto importante, perché tale analisi viene svolta prima che l'ovocita sia fecondato.
Quindi malattie come la fibrosi cistica o la talassemia o comunque tutti quei problemi genetici che dipendono dal DNA materno, e che compongono la stragrande maggioranza delle anomalìe genetiche, possono essere identificate con una diagnosi prima del concepimento e evitando così la diagnosi preimpianto che invece comunemente si fa sugli embrioni. Su quest'ultima si sono infatti scatenate moltissime polemiche per il divieto, imposto dalla legge 40, di farla in Italia.
A questo proposito: come mai è stata definita “la via italiana alla diagnosi pre-impianto”?
È stata definita la “via italiana” perché in Italia, molto saggiamente, il legislatore ha deciso di tenere fermo il punto etico. Cioè di partire sempre dalla massima tutela per l'embrione. E si è visto, con l’applicazione della legge 40 in questi anni che, tenendo fermo il punto etico, e impedendo quindi la diagnosi pre-impianto sugli embrioni, la scienza ha poi trovato, con la creatività che le è propria, un altro modo di fare una diagnosi con gli stessi risultati finali. Il tutto senza selezioni di embrioni e uccisioni di quelli cosiddetti “difettati”. Di per sé si tratta di una via che si poteva trovare soltanto escludendo la strada più semplice, ovvero la diagnosi pre-impianto.
È una scoperta che lei giudica quindi positivamente?
È sicuramente una scoperta positiva perché è una nuova possibilità di svolgere ricerche su malattie gravi di origine genetica senza distruggere embrioni umani.
Di questa tecnica si era già parlato diversi mesi fa: la novità di oggi è la sua “applicazione clinica” e cioè la nascita di una bambina da un ovocita selezionato con questa procedura.
Dal punto di vista della ricerca scientifica non ci sono problemi etici per nessuno, perché l'ovocita è una cellula e non un embrione e quindi su questo aspetto ritengo che si tratti di un importante passo avanti.
Dal punto di vista etico il risultato è buono nello stesso senso in cui è buona la legge 40, ossia come può essere buono un compromesso: questo tipo di diagnosi può essere effettuato solo in un percorso di fecondazione in vitro. È un'applicazione importante ed un risultato estremamente positivo, ma non applicabile in un concepimento naturale. Quest'ultima è una notazione personale, ma doverosa.
Qual è il principale motivo per cui la Chiesa è contraria alla fecondazione artificiale?
Per quello stesso espresso nell'enciclica Humanae Vitae, nella quale si afferma l’inscindibilità del significato unitivo da quello procreativo nel rapporto fra l'uomo e la donna: in quel caso si faceva riferimento alla contraccezione, con cui c'è un intervento esterno rispetto al rapporto uomo/donna che va ad alterare questa relazione separandone, appunto, il significato unitivo da quello procreativo. Con la fecondazione in vitro avviene la stessa separazione: potremmo riassumere che la contraccezione permette di avere rapporti carnali senza avere figli, mentre con le nuove tecniche di procreazione assistita avviene l’inverso, e cioè i figli si hanno senza rapporti carnali. La Chiesa per questo ha sempre rifiutato gli anticoncezionali e anche la fecondazione artificiale.
A suo avviso questa scoperta cambierà la legislazione?
No. Perché la nostra legge attualmente non consente la diagnosi preimpianto. Anzi, questa nuova tecnica non è altro che la conferma della bontà della scelta del legislatore, in riferimento alla legge 40, naturalmente, e cioè tenere fermo il punto etico. E la scienza adesso ha indicato un nuovo percorso, migliore, più rispettoso della vita umana, rispetto all’unico apparentemente esistente qualche anno fa.


SBALLO SOTTO GIACCA E CRAVATTA - RIBELLI ALLA «PESANTEZZA» DELL’ESSERE - MARINA CORRADI – Avvenire, 7 novembre 2008
Se un lancio d’agenzia da Bruxel­les dice che oltre quattro milioni di europei assumono abitualmente cocaina, e 23 milioni fumano can­nabis, si può anche dire che lo sap­piamo, e che i dati dell’Osservatorio europeo su droga e tossicodipen­denze non ci svelano nulla di inedi­to. L’Italia, poi, è in testa alle classi­fiche: consuma coca il 3,2% dei gio­vani sotto i 34 anni, e fuma più o me­no abitualmente cannabis l’11% del­la popolazione. Sapevamo anche questo, potremmo rispondere, già nel 2005 una relazione al Parlamen­to italiano diceva che dal 2001 a quell’anno il numero dei consuma­tori di cannabis era quasi raddop­piato, passando a tre milioni e 800 mila persone. Certo, consumatori per lo più del sabato sera, gente che si fa nel giorno di festa, e il lunedì va al lavoro. E dunque niente di nuovo. Giornalisticamente parlando, i se­veri dati di Bruxelles paiono quasi u­na non- notizia.
Ma, proviamo a guardare alla que­stione da una prospettiva storica. Im­maginiamo che agli europei usciti dalla guerra mondiale qualcuno a­vesse pronosticato: milioni di vostri nipoti faranno uso di droghe. Alle po­polazioni che piene di speranza ri­costruivano le nostre città distrutte sarebbe parsa una folle profezia. Op­pure, ipotizziamo che fra due secoli un libro di storia parli dell’Europa del 2000: la fame dimenticata, i redditi mai raggiunti in precedenza, e, fra l’altro, quella cifra dell’Oedt da Bruxelles, novembre 2008: milioni di giovani consumatori di stupefacen­ti. Si chiederebbe, uno scolaro di se­coli venturi, ciò che quasi noi non ci chiediamo più: perché in un Occi­dente mai come prima benestante, la droga, da trasgressione di pochi, si faceva nel Duemila fenomeno giova­nile di massa. Perché? Non lo sanno i ragazzi delle discoteche, e alzano le spalle a dire: e perché invece no? («Al sabato, ci si deve divertire»). Il beneducato sbal­lo che il lunedì mattina si nasconde sotto giacca e cravatta è tacitamente considerato normale. Ma il fatto è che con stimolanti, oppure con oppiacei che addolciscono gli spigoli dell’an­sia, comunque in milioni scelgono, quando possono, di sfuggire alla quotidianità. Un marketing sapiente ha abbassato i prezzi: l’importante è incentivare i giovani consumatori. Così al sabato si vive, finalmente: e vi­vere per non pochi significa alterare la percezione della realtà.
Come se ciò che si vede da lucidi, da sobri, fosse troppo noioso, prevedi­bile, triste. Come ribelli a una inso­stenibile pesantezza dell’essere. Che cosa è successo a una generazione che consente, che trova quasi nor­male questa evasione? È forse un pro­blema, prima di tutto, di sguardo. Niente più nella memoria della gra­titudine per la pace, e il pane, che a­vevano ancora addosso i nostri geni­tori. Tutto è scontato. Né traccia del­lo stupore di fronte a ciò che Hannah Arendt chiamava «la realtà del dato». Credono di sapere, di aver già visto tutto, e di poter possedere ogni cosa; noi, glielo abbiamo insegnato.
Ma senza lo stupore, senza lo « thauma » di fronte al creato, la realtà si fa angusta. Più niente da cercare, e nessun segno da decifrare. (Il mon­do, disse san Bernardo, è una foresta di simboli). Ciò che hai davanti è o­paco, e non lascia spazio ad alcuna attesa o speranza. Allora a sedici an­ni – quando ancora si pretende di es­sere felici – in tanti scelgono per un sabato almeno di alterare quella pro­spettiva appiattita. Roba, pastiglie, alcol, per sottrarsi per una notte al cielo ristretto e vuoto ereditato dai padri. Così forse scriveranno di noi, un giorno nei libri di scuola, al capi­tolo sul Terzo Millennio.


INCORAGGIANTE INCONTRO CATTOLICO- MUSULMANO - Dio, creatore e provvidente la base del dialogo – CENTRO OASIS VENEZIA – Avvenire, 7 novembre 2008 - Benedetto XVI: «Possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio»
Il 1° Seminario del Forum Cattolico-Musulmano si inserisce nella lunga schiera di incontri promossi soprattutto dopo la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, punto di riferimento per il dialogo interreligioso. Emblematiche restano la visita di Giovanni Paolo II alla moschea di Damasco e la sosta orante di Benedetto XVI alla Moschea Blu di Istanbul.
Ma l’incontro di questi giorni presenta due novità, una di metodo e l’altra di contenuto. Di metodo: il forum appare da parte musulmana non più come l’iniziativa di singole personalità o Stati, ma come espressione di un consenso generalizzato.
Dall’iniziale risposta al discorso di Ratisbona firmata da 38 sottoscrittori, alla successiva dichiarazione A Common Word
con l’adesione di 138 personalità, poi ulteriormente allargata, la tendenza da parte musulmana è raggiungere un consenso di fondo al dialogo con i cristiani. Non si tratta di una questione secondaria, perché il consenso è per gran parte della teologia musulmana una delle fonti dell’elaborazione dottrinale.
La seconda novità, contenutistica, è che nel forum, come nella lettera aperta, l’accento è stato posto con decisione sulla dimensione religiosa, se non addirittura strettamente teologica. Nel comunicato che aveva preceduto l’evento si legge che la composizione delle delegazioni è «religiosa e non politica», «prescinde dalle relazioni diplomatiche degli Stati ed è stata costituita sulla base dell’autorità sapienziale». Nessuno intende evidentemente negare che la religione abbia, soprattutto nei Paesi musulmani, dirette ricadute sulla vita comunitaria, anche a livello di scelte politiche e ordinamenti giuridici. Anzi, è evidente che le affermazioni di principio contenute nella lettera aperta devono essere verificate alla luce della loro concreta traduzione in un contesto che per le minoranze cristiane è sempre più difficile, come dimostra il persistente esodo di cristiani dal Medio Oriente. Tuttavia, la volontà delle due parti è di non dissolvere la specificità del fatto religioso in pur importanti considerazioni geopolitiche.
Uno degli ispiratori del dialogo islamo-cristiano, il padre Georges Anawati, amava ripetere che in questo campo fosse necessario armarsi di una «pazienza geologica». Sarebbe quindi illusorio immaginare che ferite più che millenarie possano essere sanate nel giro di pochi mesi. Scopo del forum era approfondire l’affermazione dell’amore di Dio e del prossimo nei suoi aspetti teologici e spirituali, ma anche nelle ricadute pratiche per la tutela della dignità della persona umana e la difesa della libertà religiosa. I 15 punti del documento finale offrono diversi spunti in questa direzione.
Certamente molti sono oggi gli interrogativi cui occorre dare una risposta, ma per un credente la domanda più bruciante è forse la più semplice: musulmani e cristiani adorano lo stesso Dio? Senza questo riconoscimento reciproco, tutto diventa più difficile. La risposta da parte cattolica è chiara ed è stata proposta dalla Lumen Gentium
al n. 16: «il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale». Risposta ribadita ieri da Benedetto XVI nell’udienza ai partecipanti: «Sono consapevole che Musulmani e Cristiani hanno approcci diversi nelle questioni che riguardano Dio. Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio che ci ha creati e che ha cura di ogni persona in ogni angolo della terra». Da parte musulmana Seyyed Hossei Nasr ha affermato: «Per entrambi Dio è insieme trascendente e immanente, creatore provvidente del mondo (…), l’amante il cui amore abbraccia l’intero mondo creato». È questa convinzione di fondo che ispira il proseguimento del dialogo.
www.oasiscenter.eu


Una proteina per riprogrammare le cellule - La scoperta italiana potrebbe accelerare la messa a punto di cure efficaci per Alzheimer, Parkinson e cardiopatie – Avvenire, 7 novembre 2008
ROMA. Scoperto in Italia un nuovo meccanismo per riprogrammare le cellule adulte e renderle simili alle staminali: la chiave sta in una proteina chiamata Wnt già nota per essere coinvolta in numerose fasi dello sviluppo dei vertebrati e degli invertebrati. La ricerca, condotta dall’Istituto Telethon di Genetica e Medicina(Tigem) di Napoli diretto da Maria Pia Cosma, è pubblicata online sulla prestigiosa rivista «Cell Stem Cell».
Lo studio ha riguardato diversi tipi di cellule adulte, tra cui fibroblasti, cellule del timo e precursori di cellule neuronali, che sono state fuse con cellule staminali in presenza della proteina Wnt. In seguito alla “manipolazione”, le cellule adulte hanno perso le loro caratteristiche e si sono trasformate in cellule poco differenziate (pluripotenti) in grado di dare origine a cellule di tessuti diversi da quello di partenza.
«La vera novità – spiega la professoressa Cosma – sta nella grande capacità di Wnt di promuovere questa sorta di riprogrammazione delle cellule».
Somministrando, infatti, dosi precise di proteina per un tempo limitato, un’alta percentuale di cellule adulte si trasformava in cellule simil-staminali. Secondo gli esperti, la scoperta apre prospettive molto interessanti nella terapia di tutte le patologie in cui si ha una degenerazione irreversibile dei tessuti come la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson e le cardiopatie. Questo metodo potrebbe inoltre offrire un’alternativa a quello attualmente condiviso dalla comunità scientifica internazionale.
Alla fine del 2007, infatti, due gruppi di ricerca avevano annunciato in contemporanea di essere riusciti a ottenere cellule staminali a partire da cellule della pelle introducendovi, tramite vettori virali, geni tipici della fase embrionale e capaci di far “ringiovanire” queste cellule adulte allo stadio indifferenziato, tipico delle cellule staminali dell’embrione. Una scoperta destinata a rivoluzionare i metodi di cura di tante malattie degenerative che oggi colpiscono milioni di persone in tutto il mondo.