Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo- Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Lettera di Padre Aldo Trento. - Da far girare come ci si passa - di mano in mano- una cosa preziosa
3) Da esoterista ad apolegeta - Padre Joseph Marie Verlinde risponde agli attacchi al Cristianesimo - di Antonio Gaspari
4) 12/11/2008 13:34 – PAKISTAN - Libero (ma nascosto) dottore cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam - di Qaiser Felix
5) Nel confronto tra fede e ragione - Il genio di san Paolo - di Juan Manuel de Prada – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
6) La crisi nella regione dei Grandi Laghi - Quando la ricchezza è una condanna - di Pierluigi Natalia – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
7) Storie di conversione: Bede Griffiths - «Finalmente ho capito cosa rende la vita moderna così vuota» - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
8) 12/11/2008 14.48.32 – Radio vaticana – Dialogo cattolico-ebraico: no a linguaggi che esasperano le polemiche
9) AGOSTINO/ 1. Il dramma della vita e il dono della fede, una lezione che non muore mai - Massimo Serretti - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) AGOSTINO/ 2. La lezione attuale di uno spirito inquieto che cerca senza posa - Gianfranco Dalmasso- giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
12) SCUOLA/ Il ministro Gelmini presenta il piano di razionalizzazione: ecco le linee essenziali - Giovanni Cominelli - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
13) RICORDO/ Negri: “l'estremo saluto a Monsignor Maggiolini, coraggioso difensore della fede” - Luigi Negri - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
14) MOSUL, MINORANZE SOTTO TIRO - UNA CAMPAGNA MIRATA E SPIETATA - FULVIO SCAGLIONE – Avvenire, 13 novembre 2008
15) È SUCCESSO A RIMINI, MA PUÒ SUCCEDERE OVUNQUE - Un’aberrante pulizia sociale libera le strade da chi disturba - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2008
16) Rifiutare le cure? Limiti e domande nero su bianco - di Andrea Galli – Avvenire, 13 novembre 2008
Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo- Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla seconda venuta del Signore.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell'attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti.
Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l'Apostolo scrive così: "Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti" (4,14). E continua: "Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore" (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è "essere con il Signore"; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.
Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: "Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!" (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l'apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: "Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità" (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo.
La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi" (1, 21-26).
Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.
E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell'attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro.
In secondo luogo, la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c'è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.
Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna — è giudice e salvatore insieme — ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.
Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all'escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).
Infine, un ultimo punto che forse appare un po' difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell'area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa "Signore nostro, vieni!" (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, si chiude con questa preghiera: "Signore, vieni!". Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: "Vieni, Signore Gesù!". Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d'altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell'amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c'è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! "Vieni, Signore Gesù!", e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.
Lettera di Padre Aldo Trento. - Da far girare come ci si passa - di mano in mano- una cosa preziosa
Cari amici,
questa sera prima di iniziare le S.d.c.(scuola di comunità) ho sentito
>>> un bisogno tremendo di far cantare "Povera voce di un uomo che non
>>> c'è...". Però arrivati alla fine "la nostra voce deve gridare, deve
>>> cantare perché la vita c'è e tutta la vita chiede l'eternità". Mi ha
>>> preso un nodo alla gola. Perché pochi attimi prima avevo celebrato la S.
>>> Messa nella clinica, nella camera dove giacciono: Andres, un ragazzo di
>>> 22 anni che pesa 15 kg, con il corpo tutto arrotolato come un gomitolo.
>>> Non c'è una posizione che gli vedo bene perché non ha una parte del
>>> corpo normale. Ermanno lo storpio, spero che molti se lo ricordino
>>> altrimenti leggete la sua vita sul libro dei "Santi" di Martinalde, era
>>> un "capolavoro" rispetto ad Andres; e Celeste, la bimba distrutta dalla
>>> leucemia e incamminata verso la morte. Una leucemia di cui,a motivo
>>> della povertà, i suoi genitori non hanno mai avuto consapevolezza.
>>> Incomincio la Messa, arrivo alla prima lettura e come un tuono Celeste
>>> apre la bocca gridando dal dolore. Urla terribili, soffocanti. Il mio
>>> cuore, tutti i giorni fa i conti con queste grida, sembrava non farcela.
>>> Mentre l'infermiera legge la prima lettura, mi siedo a fianco di
>>> Celeste, le stringo le mani, le braccia, ma le sue grida sono più forti
>>> del mio povero cuore di padre. Non ascolto quanto l'infermiera legge,
>>> ascolto solo quel grido divino di un nuovo Gesù che stà morendo sulla
>>> croce. Mi passano per la mente le parole del Giuss nella S.d.c. dove
>>> parla dell'obbedienza, del seguire, del contenuto del seguire, della
>>> ragionevolezza del seguire. Quelle parole in particolare dove commenta
>>> il cap. VI di Giovanni e la relazione di Gesù con il padre, dal
>>> Getzemani alla croce. Parole che mi aiutano a vivere con grande
>>> ragionevolezza quelle grida, perché certo che quelle grida come quelle
>>> di Gesù sono per la salvezza mia, tua, del mondo. Se non avessi la
>>> S.d.c. (se molti non sono di C.L. dei moltissimi a cui scrivo quando mi
>>> rispondono mi chiedano cos'è che volentieri spiegherò loro di che si
>>> tratta) non potrei avere le ragioni per affrontare questi drammi che da
>>> quattro anni vivo giorno e notte. Terminata la lettura si o si dovetti
>>> alzarmi per leggere il vangelo... ma non riuscivo. Non riuscivo a
>>> parlare,né le parole di Dio. Volevo stare li inchiodato al suo fianco,
>>> baciarla, accarezzarla...però la Messa doveva continuare. Al momento
>>> dell'offertorio con il pane e il vino ho offerto Celeste al Padre per
>>> tutti noi. Ma il dramma era appena iniziato perché arrivato alla
>>> consacrazione mentre pronunciavo le parole di Gesù sul pane e sul vino,
>>> e dopo mentre alzavo il calice dicendo " Fate questo in memori di me"
>>> Celeste è scoppiata in un grido fortissimo lacerante che pervase tutta
>>> la clinica. Il medico di turno, le infermiere sono corse, l'ennesima
>>> dose di morfina... ma le urla continuavano. Ecco mi sentivo come la
>>> Madonna ai piedi della croce con Gesù che come dice l'evangelo:"emesso
>>> un forte grido, spirò". Quel "grido" di Gesù lo vedevo in quel calice
>>> che alzavo e in quell'urlo pieno di dolore di Celeste. In quel momento
>>> era un'unica scena, quella del Calvario, quella di Celeste, quella della
>>> Messa. "povera voce... ma ora deve gridare, deve cantare perché la vita
>>> c'è". Lascio a voi immaginare cosa è stato per me, per tutta quella
>>> S.d.c. non era la lettura di un libro, era l'Accaduto alcuni minuti
>>> prima a parlare, a spiegare. Ora sempre per me è così la S.d.c. e per
>>> questo non posso stare senza di essa... non ce la farei a sopportare
>>> questa croce, queste grida, questo tormento con le migliaia di perché,
>>> di domande. Oh Dio se tutti vivessero così la S.d.c., tutto sarebbe
>>> diverso perché uno comunicherebbe solo ciò che è vero per se e quindi
>>> vero per tutti e per di più sperimenteremmo come la S.d.c. sia la carne
>>> della nostra umanità."la nostra voce canta con un perché". Le urla di
>>> Celeste erano davvero la verità di questo perché. Il suo grido è per la
>>> mia e tua salvezza. E questo è il centuplo perché il centuplo è l'uomo
>>> che grida, che riconosce, cosciente o no, il Mistero. Dico cosciente o
>>> no perché anche i miei piccoli figli ammalati per il mondo non hanno
>>> coscienza ma appartenendo al corpo mistico di Dio, Cristo, eccome che ce
>>> l'hanno! Un altro fatto accadutomi.Ieri sera, oggi è il 30 ottobre, come
>>> ogni notte vado alla clinica per il bacio della buona notte. Prima verso
>>> le 20.30 vado a mettere a letto i miei 14 bambini della casetta di
>>> Betlemme N°2, la casetta più numerosa con 4 bebè. Ogni sera è uno
>>> spettacolo: " papà,papà, diciamo le preghiere e come angioletti si
>>> mettono in ginocchio sul pavimento e, dopo un bacino, tutti a letto.
>>> Tornando alla clinica, dopo aver salutato i bambini, rimango a fianco di
>>> Victor, Aldo e Cristina. Victor è come sempre in preda alla febbre
>>> alta... ma non geme nonostante le grandi piaghe da decubito dietro la
>>> testa e la parte sopra piena di acqua tenuta ferma dalla pelle che
>>> sostituisce il cranio che non c'è. Poi vedo il volto di Cristina che
>>> soffre. E' piccola, di appena un anno e mezzo, sorda e quasi cieca.
>>> Eppure con i suoi occhi neri e bellissimi segue i miei movimenti. Quasi
>>> non mi vede, ma il contatto fisico certamente lo avverte. A motivo delle
>>> convulsioni capita che si morda la lingua lasciando trasparire un poco
>>> di sangue sulle labbra che bisogna pulire continuamente. Li guardo tutti
>>> e tre lì soli e penso ai loro coetanei che alla stessa ora dormono tra
>>> le carezze e le tenerezze dei genitori. Loro invece hanno solo me e le
>>> infermiere che cercano di fare del loro meglio. Li riempio di baci e di
>>> carezze finche non si addormentano. Adesso dormono tutti e tre, li
>>> guardo e continuo a pregare. Mi sembra di essere in paradiso con gli
>>> angioletti. Penso a Gesù quando dice:"lasciate che i bambini vengano a
>>> me perché di essi è il regno dei cieli". Sto per andarmene e si avvicina
>>> la moglie di un ammalato grave di AIDS: " padre, le chiedo il permesso
>>> di poter andare al mercato generale a sfogliare mais. Ogni borsa di 50
>>> kg sfogliate mi rende 2000 guarani (1 euro=5800guarani) e in una notte
>>> riesco a sfogliarne anche 15 sacche. Padre, mi dia il permesso perché
>>> oggi è venuto uno dei miei quattro figli dicendomi che non mangiano da 2
>>> giorni". La guardo e il mio cuore scoppia vedendo le sue lacrime. Tiro
>>> fuori il portafoglio ma lei:"no padre, quello che mi da è già troppo, io
>>> voglio lavorare e guadagnarmeli". Prego per lei e l'ho assunta oggi come
>>> lavandaia. Era raggiante per la gioia. Giussani nella S.d.c. nel
>>> capitolo della obbedienza dove augura Buon Natale parla del centuplo
>>> come del vero esito. Ritrovarmi ogni giorno commosso è proprio l'esito,
>>> il centuplo. Per cui incominciare alle 4.45 e terminare alle 23.30 non è
>>> un peso, è un centuplo, un uso nuovo e pieno del tempo sempre più per me
>>> l'alba dell'eternità. Sono andato a dormire con il cuore pieno di pace.
>>> Anche se con il cuore rotto dalle urla di Celeste, dalla solitudine dei
>>> miei tanti bambini, di cui sono papà, a cui vorrei dedicare più tempo,
>>> dal dolore di Victor,Cristina e Aldo che con Celeste sono il cuore del
>>> mio ospedale, dove anche oggi è morto un uomo. La morte... ma che bella!
>>> Perché mi aiuta a capire che il dolore è una condizione momentanea di
>>> oggi. Lei infatti mi porterà definitivamente dal mio Gesù. Pregate per i
>>> miei moribondi. Preghiamo per i miei santi e per i miei morti visto che
>>> è già Novembre e la Chiesa ci ricorda insieme con i 4 novissimi (morte,
>>> giudizio,inferno,paradiso) che la scena di questo mondo è destinata a
>>> sparire per lasciare il posto a ciò che è eterno. Grazie per le vostre
>>> preghiere.
>>>
>>> Un abbraccio
>>>
>>> P.Aldo
Da esoterista ad apolegeta - Padre Joseph Marie Verlinde risponde agli attacchi al Cristianesimo - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato nelle librerie il libro “Attacco al cristianesimo. 100 domande/risposte sulle questioni di fede” di padre Joseph Marie Verlinde (Edizioni Carismatici Francescani 2008, Pag. 180 - euro 9,50).
Il libro raccoglie in 100 tra domande e risposte i dubbi che danno adito a incertezze e timori a chi si avvicina alla fede cristiana.
Vengono affrontati i temi della Resurrezione, della reincarnazione, del paranormale, dell’esistenza di angeli e demoni, del purgatorio, dell’arte Zen, del naturalismo, delle arti marziali, dello sciamanesimo, del marabut, della stregoneria, della negromanzia, del new age e di come rafforzare la fede di fronte alle sfide portate dalle sette e dalla secolarizzazione.
Le domande e risposte sono riprese da una trasmissione radiofonica di grande successo condotta da padre Verlinde su Radio Notre-Dame.
Attraverso la lettura del libro si percepisce la grande competenza e soprattutto la vicenda personale dell’autore.
Nato in Belgio nel 1947 in una famiglia cattolica, Joseph-Marie Verlinde è diventato ricercatore, specializzato in chimica nucleare, presso il Fondo Nazionale della Ricerca Scientifica (FNRS).
Nel 1968 si è allontanato dalla fede cattolica approdando alla ‘meditazione trascendentale induista’, di cui è diventato così esperto da diventare segretario personale del fondatore del movimento, il Maharishi Mahesh Yogi, noto al grande pubblico come il Guru dei Beatles.
Nel 1974 abbandonò la meditazione trascendentale per far parte di altri gruppi esoterici occidentali. Il suo peregrinare alla ricerca del mistero si placò nel 1976 quando fece ritorno alla fede cattolica prima di entrare nel seminario di Avignone.
Dopo aver approfondito gli studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, nel 1983 è stato ordinato sacerdote per la diocesi di Montpellier.
Nel 1987 è diventato dottore in Filosofia all’Università Cattolica di Lovanio, ed ha iniziato a insegnare Filosofia della Natura all’Università Cattolica di Lione. Successivamente è entrato nella ‘Famiglia di San Giuseppe’, un’esperienza del Rinnovamento nello Spirito, che comprende una branca laica e una monastica.
Da quel momento è diventato un apologeta, ha pubblicato diversi volumi sulle spiritualità orientali e sui pericoli delle spiritualità confuse. In occasione della Quaresima del 2002 è stato invitato a tenere le prestigiose Conférences Notre-Dame de Paris sul tema “Le Christianisme au défi des nouvelles religiosités”.
Il testo di queste conferenze è diventato un best seller nelle librerie francesi.
Alla domanda di un radioascoltatore sulla sua esperienza nell’occultismo e sulla sua relazione con Dio, padre Verlinde ha risposto: “Lei ha ben capito che non si esce indenne da un percorso come il mio, che va dagli ‘ahram’ dell’Himalaya all’occultismo! Mi ci è voluto molto tempo per integrarlo sullo sfondo del mio incontro con Cristo”.
“Ho avuto per fortuna la grazia di poter usufruire di quasi dieci anni di studi filosofici e teologici che mi hanno consentito di trovare la mia unità interiore in Cristo”, ha raccontato padre Verlinde.
“Il lavoro di approfondimento della mia fede – ha aggiunto –, l’ascolto della Parola, la preghiera di lode, l’adorazione eucaristica, insomma: la speculazione e la contemplazione, tutto questo ha contribuito alla guarigione interiore della mia intelligenza, della mia memoria e della mia affettività, estremamente segnate dalle mie esperienze passate”.
Alla domanda su come si fa a diventare santi, padre Verlinde ha risposto: “Lasciando compiere a Dio il suo disegno d’amore su di noi”.
“L’ostacolo alla nostra santificazione – ha precisato il sacerdote – non è tanto il peccato quanto la nostra mancanza di fiducia nella misericordia e la nostra paura nel consegnarci allo Spirito Santo”.
“Il Santo – ha concluso padre Verlinde – è sempre solo un peccatore che ha osato scommettere tutto su Dio”.
12/11/2008 13:34 – PAKISTAN - Libero (ma nascosto) dottore cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam - di Qaiser Felix
Ennesimo caso di uso della legge per vendetta contro il dottore, che aveva licenziato un musulmano. Prigioniero per 5 mesi, l’accusato ha ricevuto “coraggio e speranza” dalla lettura della Bibbia. Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze, spera che vi siano nuove liberazioni di altri accusati ingiustamente di blasfemia.
Lahore (AsiaNews) – Un cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam è stato dichiarato innocente, ma deve rimanere nascosto per timore di rappresaglie da parte di estremisti musulmani. La sentenza è stata emessa dal giudice Sardar Ahmad Makan lo scorso 4 novembre ad Hafizabad. Il cristiano, il dottore Robin Sardar, 55 anni, ha passato 5 mesi nella prigione centrale di Gujranwala. Per il reato di blasfemia è previsto l’ergastolo o la pena capitale.
Sardar, parlando con AsiaNews al telefono, da un luogo sconosciuto, ha detto: “Gesù mi ha salvato e ringrazio Dio che sono ancora vivo, dichiarato innocente e in buona salute. Purtroppo devo vivere nascosto, cambiando residenza di tanto in tanto”.
Il dottore, che è padre di 6 figli, ha detto di essere grato a tutte le organizzazioni e persone che hanno pregato per lui e lo hanno aiutato nel processo. “In prigione non ho subito alcuna tortura – ha detto – e sono rimasto sempre in silenzio, leggendo la Bibbia pregando Dio”.
“La Bibbia – ha continuato – è stata la mia unica forza durante questo tempo. Gesù ha detto: non abbiate timore se vi perseguitano a causa del mio nome. Queste parole mi hanno dato coraggio e speranza”.
Robin Sardar è stato arrestato a Hafizabad il 5 maggio scorso, accusato da un musulmano che aver violato la tristemente famosa legge sulla blasfemia, che condanna chiunque insulta il Corano e il profeta Maometto.
Gruppi di estremisti musulmani avevano chiesto per lui l’impiccagione e i familiari si erano nascosti per paura di vendette.
L’accusatore del dott. Sardar era Muhammad Bashir, già impiegato nella clinica del medico, ma poi licenziato da Sardar perché creava disordini e scompiglio fra gli impiegati, passando il tempo a discutere di questioni religiose. L’altro testimone, Muhammad Rafic, non aveva mai incontrato il medico, ma per amicizia con Bashir ha testimoniato il falso.
Subito gruppi di estremisti musulmani hanno lanciato una campagna con altoparlanti e con discorsi alle moschee chiedendo la forca per Sardar e la sua famiglia, circondando la sua casa e minacciando di bruciarla se il dottore non si consegnava alla giustizia. La polizia è intervenuta in tempo per salvarlo dal linciaccio e metterlo in prigione.
Il dott. Sardar, ormai libero, ha voluto anche ringraziare il ministro per le minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti, e la All Pakistan Minorities Alliance (Apma), per il sostegno legale e finanziario ricevuto da lui durante questo periodo.
Da Islamabad, il ministro Batti ha detto ad AsiaNews che la liberazione di Sardar “è una buona notizia per tutte le minoranze, specie per i cristiani”. Egli spera che questa sentenza spingerà alla liberazione di molti altri accusati falsamente di blasfemia.
Dalla sua introduzione nel 1986 fino ad oggi, la legge ha causato l’uccisione di 25 persone. Le morti non sono conseguenza dell’esecuzione di condanne: i presunti colpevoli sono stati uccisi da estremisti religiosi anche sotto la custodia degli agenti di polizia. Secondo alcune fonti sarebbero 892 le persone messe in stato di accusa per blasfemia.
Nel confronto tra fede e ragione - Il genio di san Paolo - di Juan Manuel de Prada – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l'impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l'orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l'eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo - che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito - deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell'Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell'uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell'Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l'annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori - fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici - che potevano accettare l'immortalità dell'anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell'Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell'uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un "fratello carissimo" nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo - ad esempio - aborrire l'aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: "Come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (...) L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (...) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare". Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l'anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
La crisi nella regione dei Grandi Laghi - Quando la ricchezza è una condanna - di Pierluigi Natalia – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
Nella regione orientale congolese del Nord Kivu, alla fine di agosto sono tornate all'offensiva le milizie del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) guidate dall'ex generale dissidente Laurent Nkunda Batware. Le armi tornano di nuovo a imporsi nella lunga crisi congolese che sembrava avviata a una conclusione pacifica due anni fa, quando si tennero nel Paese elezioni generali sotto controllo internazionale e che avevano registrato una partecipazione imponente e un andamento certificato come sostanzialmente corretto dagli osservatori internazionali.
In realtà, nonostante brevi periodi di pace, il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, soprattutto nelle regioni orientali, non si è mai placato durante gli ultimi dodici anni, da quando cioè nell'ottobre del 1996 scoppiò la prima guerra congolese con l'obiettivo di rovesciare il dittatore Mobutu Sese Seko, al potere da quarant'anni. Lungo tutta la frontiera orientale - nel Sud Kivu al confine con il Burundi, nel Nord Kivu al confine con il Rwanda, nell'Ituri al confine con l'Uganda e nella provincia Orientale al confine con il Sud Sudan - hanno continuato a imperversare i gruppi armati. A poco sono serviti i diversi accordi di pace firmati, le varie iniziative diplomatiche internazionali e il dispiegamento della missione dell'Onu in territorio congolese (Monuc), che con i suoi oltre 17.000 caschi blu è la più imponente operazione mai messa in campo dalle Nazioni Unite.
Evidentemente, però, gli effettivi della Monuc non bastano, tanto che il Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha chiesto al Consiglio di sicurezza altri tremila uomini per difendere le popolazioni del Nord Kivu minacciate dai ribelli di Nkunda e non solo. Almeno per il momento, sembrano vanificate le speranze che lo scorso 23 gennaio aveva suscitato la firma a Goma, il capoluogo del Nord Kivu, di un accordo tra il governo di Kinshasa e le varie formazioni armate, compreso il Cndp di Nkunda.
Nkunda, che già in passato aveva più volte sconfessato gli accordi con il Governo congolese guidato dal presidente Joseph Kabila, anche questa volta non si è smentito. La sua motivazione dichiarata è sempre la stessa, cioè l'accusa al Governo di connivenza con i ribelli hutu rwandesi delle Forze democratiche per la Liberazione del Rwanda (Fdlr), riparati in Nord Kivu dopo il genocidio dei tutsi in Rwanda del 1994. Da parte loro, le autorità di Kinshasa accusano esplicitamente il Rwanda non solo di equipaggiare e finanziare le milizie di Nkunda, ma di aver già più volte sconfinato con proprie truppe. Del resto, che i ribelli di Nkunda (stimati al massimo in seimila effettivi) abbiano imponenti appoggi esterni lo dicono in molti. Benché le milizie del Cndp, come del resto quasi tutte quelle dei diversi signori della guerra africani, abbiano commesso ogni tipo di crimine contro l'umanità, Nkunda non è stato mai davvero perseguito. Anzi, ha di fatto instaurato un proprio feudo soprattutto nelle zone dei monti Masisi e di Rutchuru, dove da anni impone tasse, dogane, posti di controllo con tanto di bandiere del Cndp.
A giudizio della gran parte degli analisti internazionali, altro elemento in gioco sarebbe la volontà del presidente rwandese Paul Kagame di arrivare a controllare le ricchezze naturali dei territori congolesi oltre il confine occidentale del suo Paese, densamente popolato e militarmente forte, ma con minori risorse.
Negli ultimi giorni, si sono fatte sempre più insistenti le voci sulla presenza anche di truppe angolane, in questo caso alleate di quelle governative congolesi, anche se il Governo di Luanda ha seccamente smentito. Le preoccupazioni per una riesplosione di un altro conflitto africano generalizzato non sono dunque eccessive, al punto che sono state prospettate dallo stesso Ban Ki-moon.
Resta aperta anche la crisi nell'Ituri, che negli anni scorsi, all'interno del più generale contesto della guerra congolese, assunse proprie specifiche caratteristiche, legate sia e soprattutto al controllo delle ingenti risorse naturali dell'area sia ai conflitti tra etnie, con gli Hema ritenuti manovrati da Uganda e Rwanda e i Lendu considerati legati a Kabila.
Infine, nell'intricata interconnessione tra le diverse crisi della regione africana dei Grandi Laghi, alla ripresa del conflitto in Nord Kivu si è aggiunta in queste settimane quella delle incursioni sanguinose dei ribelli nordugandesi dell'Lra guidati da Joseph Kony, protagonisti da oltre un ventennio di sistematiche atrocità in un altro dei tanti conflitti africani dimenticati, quello che ha visto massacrate le popolazioni nilotiche del nord dell'Uganda.
Anche le bande armate dell'Lra hanno riparato in territorio congolese, nella provincia Orientale, dopo aver perso le loro tradizionali basi in Sud Sudan, in seguito all'accordo che pose fine nel gennaio 2005 all'ultraventennale conflitto civile in quell'area.
Peraltro, anche questo conflitto ciclicamente rischia di riesplodere, soprattutto a causa dei contrasti tra il Governo autonomo del Sud Sudan e quello centrale sudanese di Khartoum sulla gestione delle risorse petrolifere.
E questo solleva, anche per le vicende congolesi, la questione di fondo. Le rivalità etniche sono solo uno degli aspetti dei conflitti africani e neanche il principale. Nella Repubblica Democratica del Congo, come in quasi tutta l'Africa, i contrasti sono legati innanzitutto e soprattutto al controllo delle immense risorse minerarie.
Tra le ricchezze dell'est congolese basta citare il coltan, la lega naturale di columbio e di tantalio, che fornisce elementi indispensabili all'industria più avanzata di tutto il mondo. Il columbio, chiamato anche niobio, è utilizzato per assemblare componenti della tecnologia spaziale perché ha la caratteristica di raggiungere la fusione a temperature elevatissime, mentre in lega con il titanio risulta tra i migliori superconduttori conosciuti. Il tantalio è invece utilizzato nella componentistica interna di gran parte degli strumenti elettronici, dai telefoni cellulari ai videogiochi.
Del resto, per il Congo la ricchezza è da sempre una condanna. Dagli schiavi al coltan, il Paese ha sempre fornito carburante al mondo moderno e per questo non ha mai smesso di soffrire. All'inizio del '700 i mercanti di schiavi arrivarono nel Paese e si stabilirono sulle rive del fiume Congo, da dove si spingevano all'interno per catturare schiavi destinati alle piantagioni negli Stati Uniti. Dopo la fine del commercio degli schiavi, quel territorio, come gran parte dell'Africa, venne conquistato dagli europei che depredarono risorse come l'avorio e il caucciù e provocarono violenze infinite (ne dà una testimonianza letteraria importante il romanzo-verità Viaggio all'inferno di Joseph Conrad).
Il territorio del Congo diventò per 23 anni proprietà privata di Leopoldo ii re del Belgio che costruì una grande fortuna grazie allo sfruttamento delle risorse e degli schiavi, questa volta sul loro stesso territorio, utilizzati per la raccolta del caucciù, materia pregiata per la nascente industria della gomma. Il suo esercito privato nei 23 anni di dominio, uccise circa dieci milioni di persone, la metà dell'intera popolazione. Nel 1908 il Congo venne incorporato dal Governo del Belgio e quella carneficina si fermò. Continuò però lo sfruttamento delle risorse.
Dopo la dichiarazione di indipendenza del 1960, il Paese venne governato da Mobutu Sese Seko che raggiunse il potere grazie al sostegno degli Stati Uniti e soprattutto agli aiuti economici di circa un miliardo di dollari. Mobutu sfruttò le risorse al pari degli altri conquistatori e visse nello sfarzo in patria e all'estero, dove trasferì capitali fino alla sua caduta nel 1997. Secondo alcune stime, nei suoi oltre trent'anni (1965-1997) di dominio assoluto depredò risorse per quattro miliardi di dollari. Ma il peggio è arrivato proprio con la cacciata del dittatore e con l'invasione del territorio da parte degli eserciti dei Paesi vicini e delle milizie di mercenari.
L'unico passo fatto dal mondo occidentale per cercare di fermare i conflitti e lo sfruttamento della guerra al fine di mantenere i prezzi delle risorse minerarie sotto controllo è stata la moratoria sui diamanti, con la quale cinquanta Paesi si sono impegnati a non commercializzare più diamanti provenienti dai Paesi dove esistono conflitti proprio per l'accaparramento di tale minerale.
L'accordo, anche se per il momento non funziona ancora perfettamente, viene considerato da molti un modello da applicare anche agli altri minerali insanguinati. È appunto ora il caso del coltan (oltre a petrolio e altre ricchezze) che mette di nuovo al centro della produzione mondiale il Congo. Il Paese potrebbe sfruttare l'attuale rivoluzione tecnologica per arricchirsi e invece, proprio a causa dell'interesse delle multinazionali al minerale e al contenimento del suo prezzo, subisce una carneficina continua da parte di predatori di ogni genere.
Più che un rafforzamento della Monuc servirebbe una vera determinazione internazionale a mettere fine all'avidità depredatoria di potentati locali e stranieri, più o meno occulti, che mirano al controllo delle ricchezze del sottosuolo congolese.
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
Storie di conversione: Bede Griffiths - «Finalmente ho capito cosa rende la vita moderna così vuota» - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
"Ti do l'estremità di un filo d'oro, devi solo avvolgerlo in un gomitolo, ti condurrà davanti al cancello del cielo, costruito nelle mura di Gerusalemme": da questi versi di William Blake, Bede Griffiths, monaco camaldolese morto in India nel 1993, ha tratto il titolo della sua autobiografia. Nato a Walton on Thames nel 1906, ultimo di quattro figli di una famiglia anglicana della media borghesia, il giovane Griffiths (che adora i cupi romanzi di Hardy) si allontana presto dalla religione, nutrendo un forte pregiudizio contro il dogma e la morale. Se ha una grande venerazione per Gesù in quanto essere umano perfetto - come l'ha per Socrate - ritiene invece che il cristianesimo appartenga ormai al passato. Negli anni della Grande Guerra, come molti altri giovani, Griffiths vive un profondo disinganno anche verso la società del tempo. Impegnato nel sociale, nel 1925, tra letture, riflessioni e grandi inquietudini, inizia l'università ad Oxford (ha come tutore Clive Staples Lewis). Qualche anno dopo, però, nell'aprile 1930, per reagire all'inquietudine profonda che sente rispetto al mondo, Griffiths fa un'esperienza di vita primitiva ed essenziale nella campagna del Cotswold, prima con due amici e poi da solo, rifiutando i prodotti, i tempi e le logiche che lo circondano. Il risultato di questa esperienza è un nuovo incontro con Dio, che si traduce prima in un riavvicinamento alla Chiesa anglicana e, poi, nella conversione al cattolicesimo. "Feci la mia prima comunione alla Messa di mezzanotte (del 24 dicembre 1931) nella piccola chiesa di Winchcombwe. Era una tranquilla notte di luna piena, e mentre passavo davanti alla grande chiesa gotica parrocchiale, sapevo che per me iniziava una nuova epoca". Ancora una volta, però, Griffiths si ritrova solo all'inizio nel suo percorso di ricerca che mai ha conosciuto tregua: seguire il filo d'oro è stato, infatti, un cammino impervio che a ogni passo lo ha radicalmente rimesso in discussione. Salvo poi scoprire che, in realtà, dietro l'enorme fatica di voler capire, comprendere e trovare una risposta, v'era semplicemente Dio, che lo stava attendendo. "Capii di aver cercato Dio per tutti quegli anni. La presenza che mi era apparsa sotto le forme della natura, quel giorno a scuola; la bellezza che avevo trovato nei poeti; la verità che la filosofia mi aveva mostrato; e infine la rivelazione del Cristianesimo. All'improvviso capii che per tutto quel tempo non ero stato io a cercare Dio, ma Dio a cercare me". La ricerca di Griffiths non si ferma alla conversione, ma lo conduce (nemmeno un mese dopo questa) all'ingresso in monastero. "Cominciai a rendermi conto che era possibile seguire Cristo senza diventare un predicatore. La predicazione aveva occupato al massimo due o tre anni della sua vita e non era stato principalmente tramite quella che la sua opera era stata compiuta. La maggior parte della vita Cristo l'aveva passata in completa oscurità a Nazaret. Vedevo ora che questa vita nascosta, trascorsa in un piccolo villaggio lontano dal mondo (...) era un modello di vita per ogni cristiano e, soprattutto, era proprio la cosa da cui mi sentivo attratto". Griffiths prende così l'abito di novizio benedettino il 20 dicembre 1933 (con il nome di Beda, santo per lui molto importante), mentre fa la professione semplice nel 1934 e quella solenne del 1937.
Il percorso di Griffiths è interessante anche per la prospettiva che offre sui rapporti tra cattolici e anglicani. Per un giovane inglese degli anni Venti, "la scoperta che la Chiesa anglicana era stata fondata da un Papa romano e che i primi arcivescovi di Canterbury e di York erano stati inviati da Roma fu un'illuminazione": proprio come l'Inghilterra aveva fatto parte dell'impero romano, così la Chiesa anglicana aveva fatto parte della Chiesa di Roma (a riprova della chiusura tra le due realtà, v'è il fatto che il solo cattolico che Griffiths conosceva all'epoca è il suo librario, che lo indirizzerà a Padre Palmer). "La rottura" tra le due Chiese è "un evento psichico che appartiene a tutte le nostre vite, qualcosa che giace profondamente sepolto nell'inconscio, ma è pronto a emergere a livello conscio qualora le circostanze costringano a fronteggiarlo. Era questo mostro del profondo della mia anima che ora dovevo affrontare". E così la sua prima reazione verso il cattolicesimo è la paura ("in parte era, senza dubbio, la paura dell'ignoto"). Quando finalmente una domenica trova il coraggio di andare alla chiesa di Newbury per la messa, Griffiths si sente, al contempo, attratto "per il suo mistero" e respinto "per la sua stranezza e singolarità", un'esperienza che, piuttosto che mitigarla, aumenta la sua paura. "Studiare il cattolicesimo in Dante e in san Tommaso era una cosa, ma vederlo nella sua forma moderna era molto diverso". Nel convertirsi, però, Griffiths - consapevole della sofferenza che sa di causare ai suoi cari, specie alla madre, ma "l'amore vero non esita mai a dare dolore a coloro che ama, quando la verità lo richiede" - vuole la conferma della presenza di Cristo nella Chiesa cattolica. E la conferma la riceve quando padre Palmer riesce a trascinarlo in un monastero lì vicino ("per me i monasteri erano semplicemente reliquie del passato e non avevo idea che ci fossero ancora dei monasteri esistenti nel mondo moderno"). Ma a distanza di anni Griffiths ricorderà ancora l'impressione di quella prima volta. È, innanzitutto, lo shock della dimensione comunitaria della preghiera, che per lui, invece, era sempre stata "qualcosa di privato e di isolato, qualcosa di cui non mi sarei mai sognato di parlare ad altri. Ora, invece, mi trovavo in un'atmosfera dove la preghiera era il respiro della vita". Enorme è la sorpresa quando uno dei monaci, del tutto casualmente, gli dice che avrebbe pregato per lui, "il mondo soprannaturale all'improvviso divenne per me qualcosa di concreto e reale. Capii, allora, cosa mi era mancato in tutto quel tempo. Era stata l'assenza della preghiera come base costante della vita a rendere la vita moderna così vuota e priva di significato. Avevo trovato nella fede la chiave per tutte le verità e mi resi conto che solo ora potevo realmente cominciare ad assimilarla". E assimilarla significa per Griffiths, innanzitutto, viverla: "Vedevo ora che il cristianesimo non era solo una dottrina da predicare, ma soprattutto una vita da vivere, e che il cuore vero di quella vita era da ricercarsi nel sacrificio. Non fu con la sua opera o con la sua predicazione, ma con il sacrificio della sua vita sulla croce che Cristo salvò il mondo". Proprio questa idea del sacrificio lo porterà alla prima grande crisi della sua vita monastica: sebbene la vita nel monastero non fosse facile, era però meno austera di quella alla quale Griffiths si era abituato. Una consapevolezza questa che diventa l'occasione per capire che la volontà di Dio non va ricercata seguendo i propri desideri - "per quanto spirituali possano apparire" - ma tentando di adattarsi alle circostanze in cui ci si trova, per volere divino: "Mi resi conto che il più grande ostacolo nella vita era il potere della volontà personale e che questa poteva mascherarsi nel desiderio di predicare il Vangelo o di vivere una vita austera".
Per Griffiths la fede va vissuta in una continua dialettica tra dimensione individuale e dimensione collettiva, un dialogo incredibilmente fecondo, sebbene a volte difficile. "Ho cercato Dio nella solitudine della natura e nel lavorio della mia mente, ma l'ho trovato nella comunità della sua Chiesa e nello Spirito di Carità. E tutto questo è stato per me non tanto una scoperta, quanto un riconoscimento". Scoprire Dio, del resto, "non vuol dire scoprire un'idea, ma scoprire se stessi, vuol dire prendere coscienza di quella parte della nostra esistenza che è rimasta nascosta ai nostri occhi e che abbiamo rifiutato di riconoscere. La scoperta può essere molto dolorosa; è come attraversare una specie di morte. Ma è l'unica cosa che dà valore all'esistenza. Tale riscoperta della religione è la grande avventura intellettuale, morale e spirituale del nostro tempo. Richiede tutte le nostre energie e implica sia sforzo che sacrificio. La riscoperta deve essere fatta per proprio conto da ogni singolo individuo. A ciascuno viene dato, in egual misura, il filo d'oro e ognuno deve trovare la propria via all'interno del labirinto". La religione è, dunque, individuale ma collettiva al contempo, esattamente come l'esperienza monastica non è fuga, ma una realtà il cui "vero scopo è di rendere capaci di affrontare i problemi del mondo al loro livello più profondo, cioè mettendoli in relazione con Dio e con la vita eterna".
La conversione di Griffiths è anche un progressivo abbandono. "Ciò che realmente mi spaventava era il conflitto con la mia ragione. Finora la mia ragione e il mio istinto avevano sempre camminato mano nella mano. Mi ero reso giudice di ogni cosa, in cielo e in terra, e non riconoscevo nessun potere o autorità su di me. Ora venivo sollecitato ad abbandonare questa indipendenza. All'interno della mia natura era sorto qualcosa che la mia ragione non poteva controllare". Per una persona che si riconosce come spirito libero - "né l'umiltà né l'obbedienza avevano avuto senso per me, ed era emblematico che non le avevo mai considerate delle virtù riscontrabili in Cristo" - è questa la lezione più dura. "Nulla mi sembrava più lontano dalla mia esperienza del detto di Agostino "non crederei al Vangelo se non fosse per l'autorità della Chiesa". Al contrario, sentivo che era solo perché credevo al Vangelo che ero arrivato ad accettare l'autorità della Chiesa. Ma presto cominciai a rendermi conto che, per quanto potessi esser sicuro della verità del Vangelo, la mia fede non poteva poggiare solo sulla mia esperienza individuale. Chiedeva il sostegno della testimonianza della Chiesa universale, solo quando accettai l'autorità della Chiesa universale la mia fede raggiunse la completa certezza".
Griffiths ritorna spesso anche sul fatto che Gesù è "venuto per ricapitolare tutte le fasi della storia umana", un aspetto in relazione al quale sente una vicinanza fortissima con Newman ("non penso che la mia mente avesse mai preso seriamente in considerazione il pensiero della Chiesa cattolica, e comprai Development of Christian Doctrine solamente per un interesse generale, ma il suo effetto su di me fu una prova decisiva"). Vedendo Newman "impiegare tutto il suo sapere e tutte le sue capacità esegetiche nel tentativo di dimostrare che la Chiesa delle Scritture e dei Padri non era altro che la Chiesa di Roma", Bede rimane affascinato. L'ultima tappa terrena e spirituale, Griffiths la vive trasferendosi in India (dove morirà). "Essere cristiani significa accettare la responsabilità del peccato non solo in se stessi, ma anche negli altri - scrive Griffiths -, significa riconoscere che tutti noi siamo responsabili gli uni degli altri. Ciò che desideriamo deve accedere al centro del nostro stesso essere, nell'oscurità dell'intimo, nell'unico luogo in cui è possibile incontrare il Dio che è nascosto nel profondo dell'anima".
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
12/11/2008 14.48.32 – Radio vaticana – Dialogo cattolico-ebraico: no a linguaggi che esasperano le polemiche
Il Comitato Internazionale di collegamento cattolico-ebraico, riunito a Budapest per la sua 20.ma conferenza a Budapest, ha espresso, in un comunicato congiunto diffuso ieri sera, ''profondo rammarico per alcune polemiche e dichiarazioni intemperanti che sono state fatte sulla controversia relativa al ruolo di Papa Pio XII durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale''. Il cardinale Walter Kasper e il rabbino David Rosen, co-presidenti del Comitato, hanno quindi ribadito il loro ''impegno a favore di un rapporto basato sul rispetto reciproco”. “I disaccordi che inevitabilmente si verificano di volta in volta tra di noi – continua il comunicato - devono essere espressi in un modo che rifletta questo spirito e non in un linguaggio che esaspera solo la tensione''. Da parte sua il cardinale Kasper ha sottolineato che ''le preoccupazioni della comunità ebraica sono state chiaramente riportate presso la Santa Sede al più alto livello''. Nel comunicato si ricorda infine la richiesta, presentata 10 giorni fa a Benedetto XVI da parte del Comitato ebraico internazionale per le consultazioni interreligiose (IJCIC), di mettere a disposizione degli studiosi il materiale di archivio riguardante le decisioni prese dalla Santa Sede relativo a persone e politiche durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale''.
AGOSTINO/ 1. Il dramma della vita e il dono della fede, una lezione che non muore mai - Massimo Serretti - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il 13 novembre dell'anno 354 nasceva a Tagaste, nel nord Africa, Agostino, Padre e Dottore della Chiesa nonché uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, la cui attualità di pensiero non solo è tutt'ora indiscussa, ma resta una delle più grandi fonti di ispirazione per la speculazione religiosa e laica. Massimo Serretti, docente di Teologia dogmatica nella Pontificia Università Lateranense, racconta la vita e l'opera geniale di questa enorme figura di uomo e di santo.
Professore, sono passati più di mille e seicento anni, ma l'opera di Agostino sembra parlare, a coloro che se ne accostano, in termini ancora attualissimi, molto più di tanti altri pensatori assai più recenti. Per quale motivo?
È impossibile sopravvalutare l'importanza di una figura come quella di Agostino sia dal punto di vista di quel che è stata la sua biografia, la sua storia, il profilo della sua persona sia, ancor di più, per quel che riguarda la sua opera. Agostino è uno di quei padri della Chiesa la cui opera viene continuamente ristampata e ripubblicata in pressoché tutte le parti del mondo e in quasi tutte le lingue. E anche oggi, nel terzo millennio dell'era cristiana, è uno degli autori più letti. Ciò di per sé è già un dato che da solo ci parla della sua straordinaria attualità. Le cause della modernità del pensiero di Agostino si possono ricostruire in diversi percorsi, ma ciò che sicuramente ne spiega più profondamente l'incidenza immutata è la modalità con la quale quest'uomo ha accolto il dramma della propria esistenza e del dono della fede che Dio gli ha concesso. Nell'incrocio fra queste due realtà, cioè fra la libertà dell'uomo e la grazia di Dio, nell'intreccio di questi due elementi, si consuma tutta l'importanza e l'attualità della figura di questo grande uomo e di questo grande cristiano.
In che cosa la sua opera risulta rivoluzionaria rispetto all'epoca che lo ha preceduto e quali sono gli aspetti salienti che tale rivoluzione ha lasciato al pensiero successivo?
È quasi un ardire eccessivo e rischioso tentare di inquadrare in pochi e brevi tratti l'influenza del pensiero agostiniano. Perché, per certi versi, neanche in questo caso sarebbe esagerato dire che la sua influenza sul pensiero europeo, e quindi mondiale, si allinei all'influenza che il pensiero cristiano stesso ha avuto sulla formazione della mens europea. Certamente però questo non ci esime dall'identificare alcune linee.
In primo luogo occorre considerare il grande lavoro che Agostino fece sulla libertà dell'uomo, sul libero arbitrio. Questa affermazione della libertà sicuramente lo differenziava da tutto quello che era stata l'antropologia pagana del pensiero greco e romano.
Il ripensamento sull'uomo come essere libero è sicuramente un portato straordinario come lo è anche l'accento sull'io, la forte presenza dell'io. Basti pensare alle Confessioni. Anche questa coscienza dell'io era sconosciuta all'uomo precristiano che ancora non aveva incontrato la grandezza di una Presenza che evocasse a sua volta all'uomo la grandezza della sua stessa presenza. Questo è l'io che emerge nelle riflessioni di Agostino.
E poi è da aggiungere per ultimo, ma non ultimo per importanza, il grande amore per la ragione. Agostino ha da insegnare a tutti gli illuministi e neo-illuministi un amore e una passione straordinaria per questa potenza che è partecipazione all'intelletto stesso di Dio.
E dal punto di vista teologico quali conseguenze comportò l'operato filosofico e speculativo di Agostino?
Per individuare gli aspetti nei quali il pensiero di questo grande Dottore della Chiesa si presta a una “prosecuzione” credo che sia sufficiente ripercorrere un po' la sua influenza straordinaria su tutto lo sviluppo del pensiero teologico a lui successivo. In primo luogo i suoi testi sono stati tra i più letti e studiati fino all'aprirsi della grande stagione della Scolastica. Tutta la Scolastica è stata poi anch'essa determinata da Agostino, perché tutti i grandi dottori medioevali hanno commentato per prima cosa le sentenze di Pietro Lombardo, ma queste erano composte per nove decimi da citazioni di testi di Agostino. Ciò accomuna la sua influenza nella sfera della teologia a quella di pochissimo altri uomini. Gli unici coi quali azzarderei un paragone sono Origene per l'Antichità e San Tommaso per il Medioevo.
Molti però sostengono che ci siano ancora numerosi punti da chiarire in diversi settori della sua produzione.
I punti aperti ci sono sempre nella storia del pensiero teologico. Si può anzi dire che vale per analogia ciò che è valido per tutte le scienze: non esiste un capitolo chiuso. Quello che si trova di straordinario nell'opera di Agostino è proprio l'ampiezza di argomenti trattati che corrisponde anche all'ampiezza di spirito di quest'uomo.
Praticamente non esiste un trattato o una questione che sia teologicamente rilevante a proposito della quale egli non abbia dato un contributo fondamentale. Il pensiero di Agostino è suscettibile di sviluppi ancora oggi ed è necessaria, per un approfondimento valido, una ri-comprensione sempre innovativa della sua opera. Bisogna poi tener presente che al fondo della sua riflessione c'è sì un'ampiezza eccezionale, ma c'è anche un dono singolare. Ossia, quando Agostino parla della sua esperienza nella ricerca della verità, si capisce e si intende subito che egli parla di un'esperienza personalissima. Questo fatto rende ricchissimo lo spessore della sua pagina e la vivacità assoluta delle sue opere.
Egli ha indagato nel mistero di Dio mediante un tipo di conoscenza traducibile con il concetto ebraico di questa parola che si esprime nell'avere “esperienza di qualcuno o di qualcosa”. In quest'ottica si coglie come mai a un così forte elemento conoscitivo corrisponda un vasto spessore intellettuale. E la cosa grandiosa è che in questa operazione compiuta da Agostino non c'è la minima traccia di intellettualismo.
Eppure spesso la cultura moderna ne riduce il portato filosofico. Ad esempio nei programmi di filosofia liceali il pensiero di Agostino è ridotto a un riassunto di poche pagine. Ma al di là di questo sono numerosi i tentativi di strumentalizzazione o di riduzione del suo pensiero.
Certo. Agostino è un autore cattolico. La caratteristica degli autori cattolici, in tutta la plurimillenaria storia della Chiesa, è quella di essere maggiormente presenti laddove non si fa riferimento esplicito ad essi.
Agostino ha determinato e dato abbrivio non solo a una quantità di grandi vene sotterranee del pensiero ma anche a un modo di essere e di vivere, perché non bisogna dimenticare che da lui nasce anche un'esperienza monastica. E non bisogna neppure scordare come egli interpreta il suo tempo. Nel De civitate Dei dà infatti un'interpretazione politica che avrà un risvolto rilevantissimo per tutta la politica medioevale.
Ci sono poi due grandi esperimenti interpretativi che dobbiamo ricordare. Uno è quello luterano, perché Lutero partì proprio dall'esperienza in una comunità agostiniana anche se aveva una conoscenza molto scarsa dell'opera del pensatore. L'altra è il giansenismo il quale ha segnato buona parte della cultura francese.
Il fatto però che ci siano stati nella storia dei viraggi nell'interpretazione, delle ermeneutiche distorte non solo non va contro il pensiero di Agostino, ma - da un certo punto di vista - ne dimostra la grandezza. Mi spiego: senza i Vangeli non ci sarebbero state eresie. Le deformazioni sono possibili sempre e solo nelle grandi opere.
E i filosofi cattolici contemporanei? Quanto sono debitori al pensiero agostiniano?
Esiste una grande linea del pensiero cristiano cattolico nella modernità europea. A partire dallo stesso Cartesio che era un lettore assiduo di Agostino, da Pascal a Vico fino a Bergson e a Blondel. È un filone del pensiero moderno che Augusto Del Noce aveva ben identificato e che è saldamente ancorato, attraverso Agostino, alla cattolicità.
Ci sono certamente anche le riduzioni esistenzialistiche, ma ciononostante l'impianto dottrinale di Agostino è sicurissimo e molto compatto. Non dimentichiamo che è uno di quei pensatori che ha avuto la fortuna di poter scrivere anche delle retractationes sui propri testi e quindi ha potuto egli stesso emendare o porre punti interrogativi laddove lo ritenesse necessario. Poi, come spesso accade, c'è sempre chi prende una frase e ne distorce il senso a suo piacimento. Se si prende uno dei motti di Agostino come «ama e fa ciò che vuoi» è chiaro che in base a questo si possono improntare una serie di errori gravi e nocivi per sé e per gli altri. Ma non è questo l'Agostino storico o, se si vuole, l'Agostino reale.
AGOSTINO/ 2. La lezione attuale di uno spirito inquieto che cerca senza posa - Gianfranco Dalmasso- giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Sant’Agostino è stato attuale per tutte le epoche della storia dell’Occidente. Dal 430 d.C., anno della sua morte (era nato il 13 novembre del 354 a Tagaste, l’odierna Souk-Ahras, in Algeria) egli ha sempre costituito un punto di riferimento: per il Medio Evo, per l’Umanesimo del quindicesimo e sedicesimo secolo, per l’età barocca, per il Romanticismo dell’Ottocento fino ai pensatori interpreti delle grandi domande teologiche e filosofiche del ventesimo secolo.
La ragione di questo va ricercata certamente nel fatto che egli è stato considerato, già da vivente, un grande dottore della Chiesa, cioè un autore che ha aiutato a prendere coscienza delle strutture e dei nodi su cui si organizza l’esperienza del cristiano.
Ma c’è un motivo ulteriore e ancora più decisivo della sua fortuna ed è, io credo, la natura e lo stile del suo pensiero. Per Agostino il rapporto con se stesso, la questione di chi egli sia è il punto originante delle sue domande e del suo discorso. Che egli si interroghi sulla bellezza del mondo o sul male che contraddittoriamente vi si annida, che egli cerchi la felicità o cerchi di formulare una teoria sull’uomo e sulla società, il suo dire non si limita a un mero discorrere sui problemi, non si limita a fornire dottrine e visioni della realtà.
S. Agostino piuttosto agisce tali discorsi: la sua parola ha la forma dell’invocazione, del grido, dell’appello, anche quando parla di una verità che potrebbe essere intesa come oggettivabile, come l’ordine della natura o l’esistenza di Dio. Cioè per lui la parola è un atto, è detta sempre da un parlante a un destinatario, da un io a qualcun altro. Nella natura o nell’altro essere umano egli scopre, e dà parola, a un’origine, a un movente che è all’opera in lui stesso, che lo urge e dà forma e corpo al suo discorso.
Nella sua opera Sulla Trinità - in cui egli tenta di circoscrivere il generarsi dell’idea di Dio - esclama, in modo drammatico: «Ecce enim qui haec quaero» : ecco, sono io, pensate a me che cerco questo. Qui sta anche il motivo del fascino che S. Agostino ha esercitato sui non credenti, su pensatori e intellettuali lontani dall’esperienza cristiana o anche atei professi: il linguaggio di Agostino si torce sul problema del suo stesso generarsi, si organizza e soggiace a un elemento, misterioso, in senso puramente razionale di imprendibile, ma che dà forma alla sua esperienza.
Il fascino esercitato anche oggi sul pensiero “laico” consiste nel testimoniare la nozione e l’esperienza di un io radicalmente diverso dall’io che sembra la forma disperatamente insuperabile del sapere contemporaneo: un io autonomo possessore delle sue parole e dei suoi atti, non scalfibile da nulla, amministratore borioso dei propri giudizi. L’io di Agostino è un io che si coinvolge e si spezza nel proprio discorso. Fino a poter essere, nel ritmo retorico e teatrale della sua prosa, difficilmente leggibile se non si entra in sintonia con lui.
La durezza e la drammaticità del suo linguaggio sembrano introdurci oggi, nell'assenza generalizzata di un'unificazione e nella devastazione di un ordine dell'sperienza, in un diverso approccio all’io: approccio che può essere suscitato dall’incontro con un “non proprio”, nella cui alterità ingestibile un soggetto possa attingere la sua risorsa vittoriosa.
Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tra un mese (10 dicembre) ricorre il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’articolo 18 afferma: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo; la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Le parole, che sono poste a fondamento della stessa esistenza dell’Onu, sono chiare e dirette. Fino ad ora il compleanno della Dichiarazione non ha avuto l’attenzione che merita, se si eccettua un grande discorso del Papa Benedetto XVI tenuto alle Nazioni Unite in aprile (nel quale, tra l’altro, diversi paragrafi sono dedicati al “diritto” di ricevere e dare protezione: ma nel grande palazzo sull’East River di New York, così come in quasi tutte le capitali mondiali – non si può avere soltanto l’Onu nel mirino – se ne saranno dimenticati, vista l’allucinante accidia dimostrata davanti ai massacri del Congo). Dovremmo tornare a leggere per bene la Dichiarazione. Una volta, nelle scuole elementari dell’aborrito maestro unico e del grembiulino blu o nero, si parlava parecchio dei testi e dei sistemi fondanti il Dopoguerra mondiale. Era il tempo della Speranza e dunque anche i bambini italiani avevano dimestichezza con i grandi luoghi e le grandi parole della seconda metà del secolo. Ma in questo campo mentre i bambini di oggi sono degli analfabeti, i bambini di allora lo sono ridiventati. Occorrerebbe che tutti riprendessero in mano quel testo, insieme a quello del Papa. Capiremmo il valore reale, pesante, storico della libertà religiosa. Molti, per annacquarla, le affiancano i concetti di libertà di coscienza, più largo e più vago, oppure di libertà di culto, più stretto e più innocuo. Ma nella Dichiarazione che dovrebbe fondare la storia recente del nostro pianeta, le espressioni sono precise, immediate, evidenti. E’ che in questi decenni il mondo si è diviso, forse involontariamente, proprio sulla libertà religiosa: in Occidente è diventato l’inutile accessorio di un’automobile già dotata di ogni optional: non sappiamo che farcene; l’aggettivo ha messo in ombra il sostantivo, per noi la libertà religiosa è una cosa da Paesi poveri, qui ci teniamo tutte le libertà e buttiamo tutte le religioni. Mentre l’Oriente, in particolare quello dell’India e dei paesi a maggioranza islamica, la libertà religiosa nella chiara accezione della Dichiarazione condivisa dai 191 Paesi membri dell’Onu è tuttora un tabù; si tengono stretti alla religione buttando tutte le libertà. Un tabù, del quale si parla con fatica e imbarazzo, cambiando il discorso, girando la testa dall’altra parte, usando metafore.
Una settimana fa, il giorno dell’elezione di Barack Obama, è stata presentata l’edizione 2008 del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, curato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un’opera di diritto pontificio. Anche le oltre cinquecento pagine del Rapporto sono scritte con parole chiare e dirette. Paese per Paese, dall’Afghanistan allo Zimbabwe, le schede presentano la situazione della libertà religiosa relativamente a tutti i culti. Pertanto non è un’opera confessionale, poiché si basa “sull’insopprimibile anelito di ogni essere umano alla ricerca della verità” (pag. 4). A curare il Rapporto sono dei cattolici. La lettura è di eccezionale interesse. L’indicatore della libertà religiosa fa conoscere un Paese almeno quanto la crescita del Pil o dell’andamento della popolazione. Ma i nostri giornalisti e i nostri politici sono distratti. Se si eccettua lo spazio dato dalla benemerita stampa cattolica, in particolare l’Osservatore Romano, il Rapporto è passato inosservato. Non abbiamo visto agitarsi direttori di testata, commissari europei infiammarsi di sdegno, rettori e collettivi di università urlare nei megafoni, presentatori di talk show (nelle tv italiane ce ne sono sei-otto), porgere l’argomento sia pur educatamente.
Eppure, sfogliare quelle pagine lascia di stucco: è questo il nostro mondo? questo stiamo preparando per i nostri figli?
In Oriente e in Occidente sembra una questione che interessa solo un manipolo di cattolici, incluso il loro capo. Sono rimasti gli ultimi strenui difensori della Dichiarazione, che dal dicembre 1948 avrebbe dovuto inaugurare una nuova era, perché sono gli unici a pensare che “pensiero, coscienza e religione” sono indissolubilmente legati alla natura più intima e profonda dell’uomo e pensano così perché amano l’uomo senza riserve e senza distinzioni. Così, quando vedono calpestate le libertà connesse alla sua natura, non possono stare fermi e zitti, si infiammano di dolore e compassione.
(A proposito, il Rapporto segnala anche buone notizie: in Azeirbagian la libertà religiosa è migliorata)
Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tra un mese (10 dicembre) ricorre il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’articolo 18 afferma: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo; la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Le parole, che sono poste a fondamento della stessa esistenza dell’Onu, sono chiare e dirette. Fino ad ora il compleanno della Dichiarazione non ha avuto l’attenzione che merita, se si eccettua un grande discorso del Papa Benedetto XVI tenuto alle Nazioni Unite in aprile (nel quale, tra l’altro, diversi paragrafi sono dedicati al “diritto” di ricevere e dare protezione: ma nel grande palazzo sull’East River di New York, così come in quasi tutte le capitali mondiali – non si può avere soltanto l’Onu nel mirino – se ne saranno dimenticati, vista l’allucinante accidia dimostrata davanti ai massacri del Congo). Dovremmo tornare a leggere per bene la Dichiarazione. Una volta, nelle scuole elementari dell’aborrito maestro unico e del grembiulino blu o nero, si parlava parecchio dei testi e dei sistemi fondanti il Dopoguerra mondiale. Era il tempo della Speranza e dunque anche i bambini italiani avevano dimestichezza con i grandi luoghi e le grandi parole della seconda metà del secolo. Ma in questo campo mentre i bambini di oggi sono degli analfabeti, i bambini di allora lo sono ridiventati. Occorrerebbe che tutti riprendessero in mano quel testo, insieme a quello del Papa. Capiremmo il valore reale, pesante, storico della libertà religiosa. Molti, per annacquarla, le affiancano i concetti di libertà di coscienza, più largo e più vago, oppure di libertà di culto, più stretto e più innocuo. Ma nella Dichiarazione che dovrebbe fondare la storia recente del nostro pianeta, le espressioni sono precise, immediate, evidenti. E’ che in questi decenni il mondo si è diviso, forse involontariamente, proprio sulla libertà religiosa: in Occidente è diventato l’inutile accessorio di un’automobile già dotata di ogni optional: non sappiamo che farcene; l’aggettivo ha messo in ombra il sostantivo, per noi la libertà religiosa è una cosa da Paesi poveri, qui ci teniamo tutte le libertà e buttiamo tutte le religioni. Mentre l’Oriente, in particolare quello dell’India e dei paesi a maggioranza islamica, la libertà religiosa nella chiara accezione della Dichiarazione condivisa dai 191 Paesi membri dell’Onu è tuttora un tabù; si tengono stretti alla religione buttando tutte le libertà. Un tabù, del quale si parla con fatica e imbarazzo, cambiando il discorso, girando la testa dall’altra parte, usando metafore.
Una settimana fa, il giorno dell’elezione di Barack Obama, è stata presentata l’edizione 2008 del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, curato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un’opera di diritto pontificio. Anche le oltre cinquecento pagine del Rapporto sono scritte con parole chiare e dirette. Paese per Paese, dall’Afghanistan allo Zimbabwe, le schede presentano la situazione della libertà religiosa relativamente a tutti i culti. Pertanto non è un’opera confessionale, poiché si basa “sull’insopprimibile anelito di ogni essere umano alla ricerca della verità” (pag. 4). A curare il Rapporto sono dei cattolici. La lettura è di eccezionale interesse. L’indicatore della libertà religiosa fa conoscere un Paese almeno quanto la crescita del Pil o dell’andamento della popolazione. Ma i nostri giornalisti e i nostri politici sono distratti. Se si eccettua lo spazio dato dalla benemerita stampa cattolica, in particolare l’Osservatore Romano, il Rapporto è passato inosservato. Non abbiamo visto agitarsi direttori di testata, commissari europei infiammarsi di sdegno, rettori e collettivi di università urlare nei megafoni, presentatori di talk show (nelle tv italiane ce ne sono sei-otto), porgere l’argomento sia pur educatamente.
Eppure, sfogliare quelle pagine lascia di stucco: è questo il nostro mondo? questo stiamo preparando per i nostri figli?
In Oriente e in Occidente sembra una questione che interessa solo un manipolo di cattolici, incluso il loro capo. Sono rimasti gli ultimi strenui difensori della Dichiarazione, che dal dicembre 1948 avrebbe dovuto inaugurare una nuova era, perché sono gli unici a pensare che “pensiero, coscienza e religione” sono indissolubilmente legati alla natura più intima e profonda dell’uomo e pensano così perché amano l’uomo senza riserve e senza distinzioni. Così, quando vedono calpestate le libertà connesse alla sua natura, non possono stare fermi e zitti, si infiammano di dolore e compassione.
(A proposito, il Rapporto segnala anche buone notizie: in Azeirbagian la libertà religiosa è migliorata)
SCUOLA/ Il ministro Gelmini presenta il piano di razionalizzazione: ecco le linee essenziali - Giovanni Cominelli - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Sollecitato dal massiccio sciopero della scuola, dalla continuazione delle occupazioni/autogestioni, da una ritrovata forza “fisica” (quella delle idee langue!) dell’opposizione, il governo ha presentato alla Commissione cultura della Camera del 6 novembre scorso una relazione intitolata “Piano programmatico di interventi volti alla razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali del sistema scolastico”.
È un atto di chiarezza, che dissolve la nebbia di una comunicazione insufficiente e confusa da parte del governo e il fumo ideologico e le menzogne da terrorismo psicologico dell’opposizione.
Quanto al “dimensionamento delle istituzioni scolastiche”, si assume come riferimento il DPR n. 233 del 1998 relativo alle scuole autonome e il DM n. 331 del 1998 relativo ai plessi scolastici. Era Ministro Luigi Berlinguer. Il Decreto ministeriale fissava tra i 500 e i 1000 alunni i confini per ogni istituzione scolastica con diritto di avere un dirigente. Il limite inferiore era ridotto a 300 per le scuole di montagna e piccole isole. I minimi per il numero degli iscritti di ogni scuola-punto di offerta erano fissati a 50 bambini nella scuola di base, 45 nella scuola media, 100 nelle superiori, con deroghe per le scuole di montagna. Con tutta evidenza non è ridotta l’ampiezza dell’offerta, ma solo le dirigenze. Le regioni e gli Enti locali hanno competenza esclusiva in materia di dimensionamento. Peraltro, nell’ultima riunione della Conferenza Stato-Regioni hanno chiesto e ottenuto di poter dilazionare ulteriormente di un anno un’operazione che avrebbero dovuto fare già dal 1999! Ora si lamentano con il governo per i “tagli” bruschi e ultimativi, ma sono anche le loro lunghe e non sanzionate inadempienze che hanno portato all’attuale emergenza finanziaria nella spesa scolastica. Il che la dice lunga sul cosiddetto “federalismo” di molte Regioni, oggi quasi tutte in mano all’opposizione: a loro basta che lo Stato paghi a piè di lista. Tanto più che si avvicinano le elezioni regionali del 2010. Così le Regioni si comportano come centri di spesa irresponsabili.
Quanto ai profili ordinamentali delle scuole di ogni ordine e grado, la situazione si prospetta nel modo seguente: nessuna riduzione di posti nella scuola dell’infanzia. Quanto alla scuola primaria, gli insegnamenti e le attività didattiche saranno assicurati solo da docenti interni. I modelli possibili sono quattro: 24 ore (con docente unico), 27 ore, 30 ore, 40 ore. Il tempo pieno, oggi usufruito da 34.270 classi su 136.964, sarà confermato. Il sostegno non subisce riduzioni: tendenzialmente 1 docente ogni due alunni disabili. È previsto un aumento di 1 o 2 alunni per classe. Per la secondaria di primo grado si passa dalle 32 ore attuali alle 30 ore: scompaiono le materie facoltative. Sono previsti sei Licei: l’abbassamento è a 30 ore settimanali, eccetto l’Artistico che ne avrà 34 nel biennio e 35 nel triennio e quello Musicale e Coreutico, che ne avrà 32. Complessivamente viene confermato l’impianto della riforma Moratti, che Fioroni aveva sospeso, eccetto che per la soppressione dei Licei economico e tecnologico, che tornano a far parte dell’Istruzione tecnica.
Il riordino degli istituti tecnici procederà in base alla legge Fioroni n. 40 del 2007 (è, in realtà, il Decreto legge Bersani sulle liberalizzazioni, cui Fioroni agganciò la materia del tutto estranea del riordino dell’Istruzione tecnica). Gli indirizzi sono ridotti da 39 a 11. Il monte-ore scende a 32 ore settimanali contro le 35-36 attuali.
Il risparmio di posti è di 87.400 per i docenti e di 44.500 per il personale ATA. Risparmio significa, in primo luogo, che non vi saranno nuove assunzioni, che sarà accelerato il turn over (nei prossimi 10 anni sono in uscita circa 300.000 per pensionamento) e che gli insegnanti perdenti cattedra saranno utilizzati in altro modo dall’Amministrazione scolastica e da quella pubblica. Insomma: chi è attualmente in servizio non perderà lo stipendio. E i precari? Si chiude crudelmente sulla loro pelle una storia di illusioni alimentate irresponsabilmente dal Ministero dell’istruzione, dai sindacati, dalle Università, dai politici. Una laurea non dà automaticamente diritto a un posto di lavoro nella scuola. Il diritto al lavoro non equivale al diritto al posto. Perciò questi “risparmi” obbligano non solo alla scioglimento rapido delle graduatorie permanenti, che Fioroni aveva rinviato al 2011, in coincidenza con la fine naturale della legislatura incominciata nel 2006; ma anche a istituire da subito nuove modalità di formazione e reclutamento dei nuovi insegnanti. Se non sarà fatto, inevitabilmente si riprodurranno nuovi precari.
RICORDO/ Negri: “l'estremo saluto a Monsignor Maggiolini, coraggioso difensore della fede” - Luigi Negri - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Rilascio la mia testimonianza in memoria di Sua Eccellenza Monsignor Maggiolini.
“Don Sandro”, come lo chiamavo da quando l'ho conosciuto tanti anni fa, appena uscito dal seminario, era un grande uomo di Chiesa. È stato un grande uomo di Chiesa perché era un grande uomo in sé e di enorme cultura. Egli ha ininterrottamente tenuta aperta nel suo cuore la domanda di senso, di bellezza, di giustizia e di bene. E per questo motivo era scattata, anni e anni prima, ancora in seminario, la sintonia profonda con Monsignor Giussani.
Mai in lui la visione della fede è diventata un'ideologia, ma sempre la coscienza di una risposta viva e concreta del mistero di Cristo alla domanda di felicità umana. Per questo la sua era una cultura forte, forte come la vita, e per questo dapprima fu un grande insegnante di Introduzione alla Teologia presso l'Università Cattolica di Milano. Decine e decine di persone sue alunne se lo ricordano ancora come un enorme maestro. Poi fu un geniale direttore di una delle più belle riviste ecclesiali ed ecclesiastiche, La rivista del clero italiano, fondata da padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, negli anni eroici della cristianità italiana. In seguito si rivelò un vescovo concretissimo, prudente e saggio, della piccola diocesi di Carpi per poi finalmente approdare alla grande chiesa di Como.
Fu un pastore intelligente, prudente, appassionato innovatore, ma soprattutto grande difensore dell'ortodossia. Monsignor Alessandro Maggiolini ha difeso la verità della fede. Diciamocelo chiaramente: l'ha difesa anche all'interno della stessa Chiesa.
È stato anche un perfetto interlocutore del mondo laico. Fu un eccezionale interlocutore perché cosciente della propria identità e quindi assolutamente non disponibile a nessun compromesso. Fu capace perciò di un dialogo vero, di un'interlocuzione reale e positiva. Era un oratore che meritava il rispetto sempre anche dell'avversario a condizione, certo, che quest'ultimo fosse intelligente. E poi è passato alla storia della Chiesa, e ormai ne rimarrà legato per sempre, come uno dei cinque estensori del testo del Catechismo della Chiesta Cattolica.
Dispiace solo una cosa, un rammarico che ho sempre espresso anche a lui: che gli altri estensori del Catechismo erano poi stati nominati cardinali, lui no.
In altri tempi, meno tristi ecclesialmente e socialmente, un uomo come Monsignor Maggiolini sarebbe stato definito un “Confessore della Fede”. E io amo pensarlo così, come un Confessore della Fede. È morto all'avvicinarsi del giorno che la Chiesa ha dedicato alla memoria del grande vescovo e confessore della fede, San Josafat (al secolo Giovanni Kuncewycz), perseguitato a causa della sua fede cattolica nelle lontane regioni della Lituania e della Bielorussia.
Come ho detto nel necrologio che ho preparato per il quotidiano Avvenire «la Chiesa in Italia oggi è più povera e anche, certamente, meno coraggiosa».
MOSUL, MINORANZE SOTTO TIRO - UNA CAMPAGNA MIRATA E SPIETATA - FULVIO SCAGLIONE – Avvenire, 13 novembre 2008
Sono andati a cercarle a casa loro, nel quartiere al-Qahira di Mosul, e le hanno assassinate a colpi di pistola. Lamia Sobhy e Walaa Sobhy Salloha sono morte così, colpite da una squadraccia che ha anche piazzato una bomba sulla soglia della loro casa con la quale hanno ucciso due dei poliziotti poi accorsi. La campagna per far fuggire i cristiani dalla provincia di Niniveh, di cui Mosul è la capitale, non conosce soste. Ed è una campagna scientifica, mirata, organizzata, spietata. Dall’inizio di ottobre sono già stati uccisi 16 cristiani, mentre 2.000 famiglie (per un totale di oltre 12 mila persone) hanno lasciato la città per disperdersi nei villaggi della regione o ancora più in là, lungo i confini con la Siria e la Turchia. La strategia del terrore colpisce ogni categoria e ogni età: religiosi e professionisti, medici e operai, anziani e giovanissimi come il ragazzo di 15 anni che pochi giorni fa è stato ucciso con un colpo in fronte.
I contorni brutali della tragedia non devono trarci in inganno. Non siamo di fronte a una serie di pogrom che, pur essendo più o meno eterodiretti, affondano le radici nell’ignoranza o nell’odio etnico e religioso, ma piuttosto a una battaglia politica che ha scelto lucidamente lo stragismo come proprio strumento. Nella provincia di Niniveh vivono 250 mila cristiani, dei quali 50 mila (su 450 mila abitanti) nella sola Mosul. Molti di loro si sono trasferiti qui negli ultimi anni, per sfuggire alle violenze che dominavano Baghdad e la regione centrale dell’Iraq. Il loro arrivo, che s’incrociava peraltro con il ritorno dei curdi un tempo cacciati dalle campagne di arabizzazione forzata di Saddam Hussein, ha spostato l’equilibrio demografico di una zona che nel frattempo, a causa dei suoi bacini petroliferi, diventava cruciale per il futuro del Paese.
Sulla pelle dei cristiani oggi crudelmente si giocano almeno due partite politiche. Quella tra il governo centrale di Baghdad, a predominanza sciita, e il governo regionale del Kurdistan, che si contendono le ricchezze petrolifere. Quella tra gli arabi, che non vogliono essere ricacciati a Sud verso le sabbie improduttive del deserto, e i curdi che vogliono invece allargare i confini del Kurdistan. I cristiani hanno a lungo cercato una loro neutralità, che non li ha però messi al riparo da soprusi e violenze. In passato furono i peshmerga ('Quelli che affrontano la morte', i miliziani curdi) a impedir loro di votare alle elezioni regionali, bloccando i seggi o distruggendo le schede elettorali. Oggi è il governo centrale a negare ai cristiani una degna rappresentanza, facendo approvare dal Parlamento una legge che riserva loro solo 3 seggi sui 144 dei consigli provinciali.
Alla ricerca di una degna soluzione politica, la comunità cristiana della piana di Niniveh si è inevitabilmente divisa tra coloro che preferiscono la sovranità del governo centrale e coloro, invece, che chiedono la costituzione di una diciannovesima provincia a statuto speciale, centrata appunto su Mosul, gestita dai cristiani e amministrativamente collegata con il Kurdistan. Nelle ultime settimane si sono avute diverse dimostrazioni a favore di questa seconda ipotesi e proprio a questo fatto molti ora collegano gli ultimi scoppi di violenza. Il tutto aspettando quel referendum sul futuro di Kirkuk, altro centro petrolifero poco più a Sud di Mosul, che nessuno vuole davvero organizzare per paura di scatenare una vera guerra civile. Dopo tutte le analisi, comunque, restano i fatti. Ed è indiscutibile che i cristiani sono il bersaglio, la violenza contro di loro cresce, l’indifferenza del resto del mondo non cala. E che il governo di Baghdad non arriva neanche vicino all’obiettivo elementare: garantire loro un livello minimo di protezione e sicurezza.
È SUCCESSO A RIMINI, MA PUÒ SUCCEDERE OVUNQUE - Un’aberrante pulizia sociale libera le strade da chi disturba - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2008
Una panchina bruciata, una vecchia bicicletta, qualche fagotto gonfio di stracci. Quel che resta della 'casa' del clochard che qualcuno l’altra notte a Rimini ha dato alle fiamme è ben poco.
L’uomo, terribilmente ustionato sulla metà del corpo, forse si salverà. Ma ciò che vacilla dopo una storia di assoluta gratuità del male è anche l’immagine di questa solare e benigna provincia adriatica, di cui tanti di noi conservano almeno un ricordo: la città delle fila sterminate di ombrelloni sgargianti, dei gelati e dei pedalò, dell’estate generosa e accogliente. E, anche e non in contraddizione, la città di don Benzi, di una carità generosa come un abbraccio, senza sospetti, senza carte d’identità, senza diffidenze. Ci raggela, ma non ci meraviglia che in certe periferie metropolitane desolate dei branchi di sbandati possano sfogare contro un barbone un odio oscuro, come abbeverato da frustrazioni e solitudini dentro a quei palazzi sfatti e tristi. Ma a Rimini, che senza timori accoglie ogni anno folle di stranieri, e notti infinite di adolescenti irrequieti, a Rimini dove Benzi andava a cercare a uno a uno per strada i drogati e le prostitute, la cieca gratuità di un simile male colpisce di più – come la sassata inattesa di un vandalo. Porta echi, l’atrocità della Colonnella, di idee malate di una 'pulizia' sociale che liberi le strade da chi disturba, chi intralcia, chi sporca; echi di un feroce ordine che sopprima chi non è ben allineato al pubblico decoro. Individuando quasi, nell’emarginato, il capro espiatorio cui addossare la condanna per altre oscure, private e collettive rabbie. È un meccanismo sociale elementare, che si osserva anche nelle società più primitive non appena la vita si indurisce, e occorre trovare un colpevole.
Ma: che accada a Rimini, nella Romagna dalla cadenza dolce e pacata che accoglie pacificamente ogni estate una babele chiassosa e eterogenea, inquieta, come l’ombra di un deterioramento non immaginato. La voce del vescovo della città si è levata, a questa aggressione «contro un uomo indifeso e contro Dio stesso che abita in lui». Molti si sono raccolti in una veglia di preghiera, nelle parole dell’antica tradizione cristiana che proprio nell’ultimo riconosce, più profondamente impresso, il volto di Cristo. E ancora ci è venuto in mente don Benzi. Come nelle sere d’estate sul lungomare camminava, con i suoi ottant’anni e la tonaca lisa, del tutto a suo agio tra quella folla vociante che lo urtava distratta. C’era di tutto, nel vento tiepido del mare: comitive di tedeschi alticci, belle donne, ragazzi, vecchi vestiti da giovani, poveri vestiti da ricchi, travestiti, mamme, bambini, accattoni. Ci disse don Benzi una di quelle sere: «Qui in mezzo io sto proprio bene.
Faccio contemplazione. Cerco Cristo, nella faccia di tutti gli uomini che incontro». E fu come se in lui parlasse l’anima più splendida della città, l’anima cristiana, che riconosceva, nel brusio svagato di una notte di luglio, comunque l’uomo, e la sua radicale domanda. «Contro un uomo indifeso, e Dio stesso che abita in lui», ha detto il vescovo.
Certo il volto di Cristo era anche, stampato come un’orma, nella trama stanca di freddo e di solitudine di un inerme clochard addormentato.
Qualcuno non l’ha riconosciuta, nella eclisse totale della memoria del volto dell’uomo, e di Dio. Un istante di spaventosa cecità. Fiamme, ad ardere un povero cristo come si farebbe con un sacco di rifiuti. Fuoco, che si sprigiona in un bagliore sinistro, rigurgito di tenebre, fiato di odio dal sottosuolo. In quel clochard sbalordito che urlava, la attonita meraviglia dell’innocente sacrificato. In chi ha visto e saputo, il freddo addosso – come se qualcosa di molto grande l’altra notte a Rimini fosse stato oscurato.
Rifiutare le cure? Limiti e domande nero su bianco - di Andrea Galli – Avvenire, 13 novembre 2008
Il Comitato nazionale di bioetica ha reso noto sul proprio sito web il testo definitivo del suo parere su «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico» All’importante documento, non privo però di qualche aspetto discutibile, sono state aggiunte alcune postille firmate da autorevoli esperti del Cnb
E’ stato approvato lo scorso 24 ottobre, con venti voti favorevoli e tre astensioni (quelle di Adriano Bompiani, Francesco D’Agostino e Maria Luisa Di Pietro), ma è stato reso noto solo ieri. È il parere del Comitato nazionale di bioetica su «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente- medico», curato da Stefano Canestrari, Lorenzo D’Avack e Laura Palazzani. Un documento che non riguarda «pazienti incapaci di esprimere una scelta consapevole e giuridicamente rilevante (minori, malati di mente, pazienti in stato vegetativo persistente)», quindi non tocca il caso di Eluana Englaro. Riguarda invece il rifiuto previo o la rinuncia in corso d’opera di trattamenti sanitari salva-vita da parte di un paziente «cosciente e capace di intendere e di volere, adeguatamente informato sulle terapie ed in grado di manifestare in modo attuale la propria volontà». el parere – estremamente articolato, spesso giocato sul filo della semantica nel tentativo di trovare una convergenza all’interno di una «discussione fra le più controverse del dibattito bioetico attuale del nostro Paese», come scrive il presidente del Cnb Francesco Casavola – escludendo a la liceità di atti eutanasici, si afferma che il medico è comunque «destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei confronti del paziente, e deve sempre agire previo consenso di quest’ultimo ». Si ricorda d’altra parte che «il rifiuto consapevole del paziente al trattamento medico non iniziato, così come la rinuncia ad un trattamento già avviato, non possono mai essere acriticamente acquisiti, o passivamente 'registrati', da parte del medico». E che il cosiddetto caring da parte del medico deve far sì che «il rifiuto o la rinuncia del paziente a cure necessarie alla sua sopravvivenza rimanga un’ipotesi estrema».
Viene riaffermato il diritto all’obiezione di coscienza dello stesso medico, ossia il «diritto di astensione da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali» . Tuttavia – e qui è il punto critico del testo – viene anche affermato che «a larga maggioranza il Cnb ha ritenuto che il paziente abbia in ogni caso il diritto a ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta di interruzione della cura».
Al parere seguono dunque alcune postille redatte da membri del Cnb come aggiunte o come prese di di- stanza su punti specifici dal testo approvato. È il caso per esempio della postilla firmata da Antonio Da Re e Andrea Nicolussi (ma a cui hanno aderito anche Salvatore Amato e Marianna Gensabella), che denuncia il rischio di una «spersonalizzazione della medicina», di un «grave depotenziamento» della relazione fra medico e paziente, qualora la richiesta di quest’ultimo, di fronte a un medico in disaccordo, venisse automaticamente eseguita da altri. E, più in generale, qualora si voglia «assolutizzare la rilevanza della rinuncia ». Delle altre postille riportiamo di seguito brevi estratti, rinviando al testo completo del parere e delle sue integrazioni, reperibile su http://www.governo.it/bioetica/pareri.html
1) Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo- Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Lettera di Padre Aldo Trento. - Da far girare come ci si passa - di mano in mano- una cosa preziosa
3) Da esoterista ad apolegeta - Padre Joseph Marie Verlinde risponde agli attacchi al Cristianesimo - di Antonio Gaspari
4) 12/11/2008 13:34 – PAKISTAN - Libero (ma nascosto) dottore cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam - di Qaiser Felix
5) Nel confronto tra fede e ragione - Il genio di san Paolo - di Juan Manuel de Prada – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
6) La crisi nella regione dei Grandi Laghi - Quando la ricchezza è una condanna - di Pierluigi Natalia – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
7) Storie di conversione: Bede Griffiths - «Finalmente ho capito cosa rende la vita moderna così vuota» - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
8) 12/11/2008 14.48.32 – Radio vaticana – Dialogo cattolico-ebraico: no a linguaggi che esasperano le polemiche
9) AGOSTINO/ 1. Il dramma della vita e il dono della fede, una lezione che non muore mai - Massimo Serretti - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) AGOSTINO/ 2. La lezione attuale di uno spirito inquieto che cerca senza posa - Gianfranco Dalmasso- giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
11) Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
12) SCUOLA/ Il ministro Gelmini presenta il piano di razionalizzazione: ecco le linee essenziali - Giovanni Cominelli - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
13) RICORDO/ Negri: “l'estremo saluto a Monsignor Maggiolini, coraggioso difensore della fede” - Luigi Negri - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
14) MOSUL, MINORANZE SOTTO TIRO - UNA CAMPAGNA MIRATA E SPIETATA - FULVIO SCAGLIONE – Avvenire, 13 novembre 2008
15) È SUCCESSO A RIMINI, MA PUÒ SUCCEDERE OVUNQUE - Un’aberrante pulizia sociale libera le strade da chi disturba - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2008
16) Rifiutare le cure? Limiti e domande nero su bianco - di Andrea Galli – Avvenire, 13 novembre 2008
Benedetto XVI e la parusia di Cristo nella predicazione di Paolo- Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla seconda venuta del Signore.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell'attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti.
Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l'Apostolo scrive così: "Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti" (4,14). E continua: "Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore" (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è "essere con il Signore"; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.
Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: "Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!" (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l'apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: "Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità" (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo.
La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi" (1, 21-26).
Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.
E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell'attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro.
In secondo luogo, la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c'è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.
Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna — è giudice e salvatore insieme — ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.
Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all'escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).
Infine, un ultimo punto che forse appare un po' difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell'area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa "Signore nostro, vieni!" (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, si chiude con questa preghiera: "Signore, vieni!". Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: "Vieni, Signore Gesù!". Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d'altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell'amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c'è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! "Vieni, Signore Gesù!", e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.
Lettera di Padre Aldo Trento. - Da far girare come ci si passa - di mano in mano- una cosa preziosa
Cari amici,
questa sera prima di iniziare le S.d.c.(scuola di comunità) ho sentito
>>> un bisogno tremendo di far cantare "Povera voce di un uomo che non
>>> c'è...". Però arrivati alla fine "la nostra voce deve gridare, deve
>>> cantare perché la vita c'è e tutta la vita chiede l'eternità". Mi ha
>>> preso un nodo alla gola. Perché pochi attimi prima avevo celebrato la S.
>>> Messa nella clinica, nella camera dove giacciono: Andres, un ragazzo di
>>> 22 anni che pesa 15 kg, con il corpo tutto arrotolato come un gomitolo.
>>> Non c'è una posizione che gli vedo bene perché non ha una parte del
>>> corpo normale. Ermanno lo storpio, spero che molti se lo ricordino
>>> altrimenti leggete la sua vita sul libro dei "Santi" di Martinalde, era
>>> un "capolavoro" rispetto ad Andres; e Celeste, la bimba distrutta dalla
>>> leucemia e incamminata verso la morte. Una leucemia di cui,a motivo
>>> della povertà, i suoi genitori non hanno mai avuto consapevolezza.
>>> Incomincio la Messa, arrivo alla prima lettura e come un tuono Celeste
>>> apre la bocca gridando dal dolore. Urla terribili, soffocanti. Il mio
>>> cuore, tutti i giorni fa i conti con queste grida, sembrava non farcela.
>>> Mentre l'infermiera legge la prima lettura, mi siedo a fianco di
>>> Celeste, le stringo le mani, le braccia, ma le sue grida sono più forti
>>> del mio povero cuore di padre. Non ascolto quanto l'infermiera legge,
>>> ascolto solo quel grido divino di un nuovo Gesù che stà morendo sulla
>>> croce. Mi passano per la mente le parole del Giuss nella S.d.c. dove
>>> parla dell'obbedienza, del seguire, del contenuto del seguire, della
>>> ragionevolezza del seguire. Quelle parole in particolare dove commenta
>>> il cap. VI di Giovanni e la relazione di Gesù con il padre, dal
>>> Getzemani alla croce. Parole che mi aiutano a vivere con grande
>>> ragionevolezza quelle grida, perché certo che quelle grida come quelle
>>> di Gesù sono per la salvezza mia, tua, del mondo. Se non avessi la
>>> S.d.c. (se molti non sono di C.L. dei moltissimi a cui scrivo quando mi
>>> rispondono mi chiedano cos'è che volentieri spiegherò loro di che si
>>> tratta) non potrei avere le ragioni per affrontare questi drammi che da
>>> quattro anni vivo giorno e notte. Terminata la lettura si o si dovetti
>>> alzarmi per leggere il vangelo... ma non riuscivo. Non riuscivo a
>>> parlare,né le parole di Dio. Volevo stare li inchiodato al suo fianco,
>>> baciarla, accarezzarla...però la Messa doveva continuare. Al momento
>>> dell'offertorio con il pane e il vino ho offerto Celeste al Padre per
>>> tutti noi. Ma il dramma era appena iniziato perché arrivato alla
>>> consacrazione mentre pronunciavo le parole di Gesù sul pane e sul vino,
>>> e dopo mentre alzavo il calice dicendo " Fate questo in memori di me"
>>> Celeste è scoppiata in un grido fortissimo lacerante che pervase tutta
>>> la clinica. Il medico di turno, le infermiere sono corse, l'ennesima
>>> dose di morfina... ma le urla continuavano. Ecco mi sentivo come la
>>> Madonna ai piedi della croce con Gesù che come dice l'evangelo:"emesso
>>> un forte grido, spirò". Quel "grido" di Gesù lo vedevo in quel calice
>>> che alzavo e in quell'urlo pieno di dolore di Celeste. In quel momento
>>> era un'unica scena, quella del Calvario, quella di Celeste, quella della
>>> Messa. "povera voce... ma ora deve gridare, deve cantare perché la vita
>>> c'è". Lascio a voi immaginare cosa è stato per me, per tutta quella
>>> S.d.c. non era la lettura di un libro, era l'Accaduto alcuni minuti
>>> prima a parlare, a spiegare. Ora sempre per me è così la S.d.c. e per
>>> questo non posso stare senza di essa... non ce la farei a sopportare
>>> questa croce, queste grida, questo tormento con le migliaia di perché,
>>> di domande. Oh Dio se tutti vivessero così la S.d.c., tutto sarebbe
>>> diverso perché uno comunicherebbe solo ciò che è vero per se e quindi
>>> vero per tutti e per di più sperimenteremmo come la S.d.c. sia la carne
>>> della nostra umanità."la nostra voce canta con un perché". Le urla di
>>> Celeste erano davvero la verità di questo perché. Il suo grido è per la
>>> mia e tua salvezza. E questo è il centuplo perché il centuplo è l'uomo
>>> che grida, che riconosce, cosciente o no, il Mistero. Dico cosciente o
>>> no perché anche i miei piccoli figli ammalati per il mondo non hanno
>>> coscienza ma appartenendo al corpo mistico di Dio, Cristo, eccome che ce
>>> l'hanno! Un altro fatto accadutomi.Ieri sera, oggi è il 30 ottobre, come
>>> ogni notte vado alla clinica per il bacio della buona notte. Prima verso
>>> le 20.30 vado a mettere a letto i miei 14 bambini della casetta di
>>> Betlemme N°2, la casetta più numerosa con 4 bebè. Ogni sera è uno
>>> spettacolo: " papà,papà, diciamo le preghiere e come angioletti si
>>> mettono in ginocchio sul pavimento e, dopo un bacino, tutti a letto.
>>> Tornando alla clinica, dopo aver salutato i bambini, rimango a fianco di
>>> Victor, Aldo e Cristina. Victor è come sempre in preda alla febbre
>>> alta... ma non geme nonostante le grandi piaghe da decubito dietro la
>>> testa e la parte sopra piena di acqua tenuta ferma dalla pelle che
>>> sostituisce il cranio che non c'è. Poi vedo il volto di Cristina che
>>> soffre. E' piccola, di appena un anno e mezzo, sorda e quasi cieca.
>>> Eppure con i suoi occhi neri e bellissimi segue i miei movimenti. Quasi
>>> non mi vede, ma il contatto fisico certamente lo avverte. A motivo delle
>>> convulsioni capita che si morda la lingua lasciando trasparire un poco
>>> di sangue sulle labbra che bisogna pulire continuamente. Li guardo tutti
>>> e tre lì soli e penso ai loro coetanei che alla stessa ora dormono tra
>>> le carezze e le tenerezze dei genitori. Loro invece hanno solo me e le
>>> infermiere che cercano di fare del loro meglio. Li riempio di baci e di
>>> carezze finche non si addormentano. Adesso dormono tutti e tre, li
>>> guardo e continuo a pregare. Mi sembra di essere in paradiso con gli
>>> angioletti. Penso a Gesù quando dice:"lasciate che i bambini vengano a
>>> me perché di essi è il regno dei cieli". Sto per andarmene e si avvicina
>>> la moglie di un ammalato grave di AIDS: " padre, le chiedo il permesso
>>> di poter andare al mercato generale a sfogliare mais. Ogni borsa di 50
>>> kg sfogliate mi rende 2000 guarani (1 euro=5800guarani) e in una notte
>>> riesco a sfogliarne anche 15 sacche. Padre, mi dia il permesso perché
>>> oggi è venuto uno dei miei quattro figli dicendomi che non mangiano da 2
>>> giorni". La guardo e il mio cuore scoppia vedendo le sue lacrime. Tiro
>>> fuori il portafoglio ma lei:"no padre, quello che mi da è già troppo, io
>>> voglio lavorare e guadagnarmeli". Prego per lei e l'ho assunta oggi come
>>> lavandaia. Era raggiante per la gioia. Giussani nella S.d.c. nel
>>> capitolo della obbedienza dove augura Buon Natale parla del centuplo
>>> come del vero esito. Ritrovarmi ogni giorno commosso è proprio l'esito,
>>> il centuplo. Per cui incominciare alle 4.45 e terminare alle 23.30 non è
>>> un peso, è un centuplo, un uso nuovo e pieno del tempo sempre più per me
>>> l'alba dell'eternità. Sono andato a dormire con il cuore pieno di pace.
>>> Anche se con il cuore rotto dalle urla di Celeste, dalla solitudine dei
>>> miei tanti bambini, di cui sono papà, a cui vorrei dedicare più tempo,
>>> dal dolore di Victor,Cristina e Aldo che con Celeste sono il cuore del
>>> mio ospedale, dove anche oggi è morto un uomo. La morte... ma che bella!
>>> Perché mi aiuta a capire che il dolore è una condizione momentanea di
>>> oggi. Lei infatti mi porterà definitivamente dal mio Gesù. Pregate per i
>>> miei moribondi. Preghiamo per i miei santi e per i miei morti visto che
>>> è già Novembre e la Chiesa ci ricorda insieme con i 4 novissimi (morte,
>>> giudizio,inferno,paradiso) che la scena di questo mondo è destinata a
>>> sparire per lasciare il posto a ciò che è eterno. Grazie per le vostre
>>> preghiere.
>>>
>>> Un abbraccio
>>>
>>> P.Aldo
Da esoterista ad apolegeta - Padre Joseph Marie Verlinde risponde agli attacchi al Cristianesimo - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 12 novembre 2008 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato nelle librerie il libro “Attacco al cristianesimo. 100 domande/risposte sulle questioni di fede” di padre Joseph Marie Verlinde (Edizioni Carismatici Francescani 2008, Pag. 180 - euro 9,50).
Il libro raccoglie in 100 tra domande e risposte i dubbi che danno adito a incertezze e timori a chi si avvicina alla fede cristiana.
Vengono affrontati i temi della Resurrezione, della reincarnazione, del paranormale, dell’esistenza di angeli e demoni, del purgatorio, dell’arte Zen, del naturalismo, delle arti marziali, dello sciamanesimo, del marabut, della stregoneria, della negromanzia, del new age e di come rafforzare la fede di fronte alle sfide portate dalle sette e dalla secolarizzazione.
Le domande e risposte sono riprese da una trasmissione radiofonica di grande successo condotta da padre Verlinde su Radio Notre-Dame.
Attraverso la lettura del libro si percepisce la grande competenza e soprattutto la vicenda personale dell’autore.
Nato in Belgio nel 1947 in una famiglia cattolica, Joseph-Marie Verlinde è diventato ricercatore, specializzato in chimica nucleare, presso il Fondo Nazionale della Ricerca Scientifica (FNRS).
Nel 1968 si è allontanato dalla fede cattolica approdando alla ‘meditazione trascendentale induista’, di cui è diventato così esperto da diventare segretario personale del fondatore del movimento, il Maharishi Mahesh Yogi, noto al grande pubblico come il Guru dei Beatles.
Nel 1974 abbandonò la meditazione trascendentale per far parte di altri gruppi esoterici occidentali. Il suo peregrinare alla ricerca del mistero si placò nel 1976 quando fece ritorno alla fede cattolica prima di entrare nel seminario di Avignone.
Dopo aver approfondito gli studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, nel 1983 è stato ordinato sacerdote per la diocesi di Montpellier.
Nel 1987 è diventato dottore in Filosofia all’Università Cattolica di Lovanio, ed ha iniziato a insegnare Filosofia della Natura all’Università Cattolica di Lione. Successivamente è entrato nella ‘Famiglia di San Giuseppe’, un’esperienza del Rinnovamento nello Spirito, che comprende una branca laica e una monastica.
Da quel momento è diventato un apologeta, ha pubblicato diversi volumi sulle spiritualità orientali e sui pericoli delle spiritualità confuse. In occasione della Quaresima del 2002 è stato invitato a tenere le prestigiose Conférences Notre-Dame de Paris sul tema “Le Christianisme au défi des nouvelles religiosités”.
Il testo di queste conferenze è diventato un best seller nelle librerie francesi.
Alla domanda di un radioascoltatore sulla sua esperienza nell’occultismo e sulla sua relazione con Dio, padre Verlinde ha risposto: “Lei ha ben capito che non si esce indenne da un percorso come il mio, che va dagli ‘ahram’ dell’Himalaya all’occultismo! Mi ci è voluto molto tempo per integrarlo sullo sfondo del mio incontro con Cristo”.
“Ho avuto per fortuna la grazia di poter usufruire di quasi dieci anni di studi filosofici e teologici che mi hanno consentito di trovare la mia unità interiore in Cristo”, ha raccontato padre Verlinde.
“Il lavoro di approfondimento della mia fede – ha aggiunto –, l’ascolto della Parola, la preghiera di lode, l’adorazione eucaristica, insomma: la speculazione e la contemplazione, tutto questo ha contribuito alla guarigione interiore della mia intelligenza, della mia memoria e della mia affettività, estremamente segnate dalle mie esperienze passate”.
Alla domanda su come si fa a diventare santi, padre Verlinde ha risposto: “Lasciando compiere a Dio il suo disegno d’amore su di noi”.
“L’ostacolo alla nostra santificazione – ha precisato il sacerdote – non è tanto il peccato quanto la nostra mancanza di fiducia nella misericordia e la nostra paura nel consegnarci allo Spirito Santo”.
“Il Santo – ha concluso padre Verlinde – è sempre solo un peccatore che ha osato scommettere tutto su Dio”.
12/11/2008 13:34 – PAKISTAN - Libero (ma nascosto) dottore cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam - di Qaiser Felix
Ennesimo caso di uso della legge per vendetta contro il dottore, che aveva licenziato un musulmano. Prigioniero per 5 mesi, l’accusato ha ricevuto “coraggio e speranza” dalla lettura della Bibbia. Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze, spera che vi siano nuove liberazioni di altri accusati ingiustamente di blasfemia.
Lahore (AsiaNews) – Un cristiano accusato di blasfemia contro l’Islam è stato dichiarato innocente, ma deve rimanere nascosto per timore di rappresaglie da parte di estremisti musulmani. La sentenza è stata emessa dal giudice Sardar Ahmad Makan lo scorso 4 novembre ad Hafizabad. Il cristiano, il dottore Robin Sardar, 55 anni, ha passato 5 mesi nella prigione centrale di Gujranwala. Per il reato di blasfemia è previsto l’ergastolo o la pena capitale.
Sardar, parlando con AsiaNews al telefono, da un luogo sconosciuto, ha detto: “Gesù mi ha salvato e ringrazio Dio che sono ancora vivo, dichiarato innocente e in buona salute. Purtroppo devo vivere nascosto, cambiando residenza di tanto in tanto”.
Il dottore, che è padre di 6 figli, ha detto di essere grato a tutte le organizzazioni e persone che hanno pregato per lui e lo hanno aiutato nel processo. “In prigione non ho subito alcuna tortura – ha detto – e sono rimasto sempre in silenzio, leggendo la Bibbia pregando Dio”.
“La Bibbia – ha continuato – è stata la mia unica forza durante questo tempo. Gesù ha detto: non abbiate timore se vi perseguitano a causa del mio nome. Queste parole mi hanno dato coraggio e speranza”.
Robin Sardar è stato arrestato a Hafizabad il 5 maggio scorso, accusato da un musulmano che aver violato la tristemente famosa legge sulla blasfemia, che condanna chiunque insulta il Corano e il profeta Maometto.
Gruppi di estremisti musulmani avevano chiesto per lui l’impiccagione e i familiari si erano nascosti per paura di vendette.
L’accusatore del dott. Sardar era Muhammad Bashir, già impiegato nella clinica del medico, ma poi licenziato da Sardar perché creava disordini e scompiglio fra gli impiegati, passando il tempo a discutere di questioni religiose. L’altro testimone, Muhammad Rafic, non aveva mai incontrato il medico, ma per amicizia con Bashir ha testimoniato il falso.
Subito gruppi di estremisti musulmani hanno lanciato una campagna con altoparlanti e con discorsi alle moschee chiedendo la forca per Sardar e la sua famiglia, circondando la sua casa e minacciando di bruciarla se il dottore non si consegnava alla giustizia. La polizia è intervenuta in tempo per salvarlo dal linciaccio e metterlo in prigione.
Il dott. Sardar, ormai libero, ha voluto anche ringraziare il ministro per le minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti, e la All Pakistan Minorities Alliance (Apma), per il sostegno legale e finanziario ricevuto da lui durante questo periodo.
Da Islamabad, il ministro Batti ha detto ad AsiaNews che la liberazione di Sardar “è una buona notizia per tutte le minoranze, specie per i cristiani”. Egli spera che questa sentenza spingerà alla liberazione di molti altri accusati falsamente di blasfemia.
Dalla sua introduzione nel 1986 fino ad oggi, la legge ha causato l’uccisione di 25 persone. Le morti non sono conseguenza dell’esecuzione di condanne: i presunti colpevoli sono stati uccisi da estremisti religiosi anche sotto la custodia degli agenti di polizia. Secondo alcune fonti sarebbero 892 le persone messe in stato di accusa per blasfemia.
Nel confronto tra fede e ragione - Il genio di san Paolo - di Juan Manuel de Prada – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l'impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l'orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra: poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l'eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo - che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito - deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell'Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell'uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti: basta leggere il suo discorso nell'Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice: san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l'annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori - fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici - che potevano accettare l'immortalità dell'anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell'Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole: la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell'uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un "fratello carissimo" nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo - ad esempio - aborrire l'aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto: "Come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (...) L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (...) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare". Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l'anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
La crisi nella regione dei Grandi Laghi - Quando la ricchezza è una condanna - di Pierluigi Natalia – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
Nella regione orientale congolese del Nord Kivu, alla fine di agosto sono tornate all'offensiva le milizie del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) guidate dall'ex generale dissidente Laurent Nkunda Batware. Le armi tornano di nuovo a imporsi nella lunga crisi congolese che sembrava avviata a una conclusione pacifica due anni fa, quando si tennero nel Paese elezioni generali sotto controllo internazionale e che avevano registrato una partecipazione imponente e un andamento certificato come sostanzialmente corretto dagli osservatori internazionali.
In realtà, nonostante brevi periodi di pace, il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, soprattutto nelle regioni orientali, non si è mai placato durante gli ultimi dodici anni, da quando cioè nell'ottobre del 1996 scoppiò la prima guerra congolese con l'obiettivo di rovesciare il dittatore Mobutu Sese Seko, al potere da quarant'anni. Lungo tutta la frontiera orientale - nel Sud Kivu al confine con il Burundi, nel Nord Kivu al confine con il Rwanda, nell'Ituri al confine con l'Uganda e nella provincia Orientale al confine con il Sud Sudan - hanno continuato a imperversare i gruppi armati. A poco sono serviti i diversi accordi di pace firmati, le varie iniziative diplomatiche internazionali e il dispiegamento della missione dell'Onu in territorio congolese (Monuc), che con i suoi oltre 17.000 caschi blu è la più imponente operazione mai messa in campo dalle Nazioni Unite.
Evidentemente, però, gli effettivi della Monuc non bastano, tanto che il Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha chiesto al Consiglio di sicurezza altri tremila uomini per difendere le popolazioni del Nord Kivu minacciate dai ribelli di Nkunda e non solo. Almeno per il momento, sembrano vanificate le speranze che lo scorso 23 gennaio aveva suscitato la firma a Goma, il capoluogo del Nord Kivu, di un accordo tra il governo di Kinshasa e le varie formazioni armate, compreso il Cndp di Nkunda.
Nkunda, che già in passato aveva più volte sconfessato gli accordi con il Governo congolese guidato dal presidente Joseph Kabila, anche questa volta non si è smentito. La sua motivazione dichiarata è sempre la stessa, cioè l'accusa al Governo di connivenza con i ribelli hutu rwandesi delle Forze democratiche per la Liberazione del Rwanda (Fdlr), riparati in Nord Kivu dopo il genocidio dei tutsi in Rwanda del 1994. Da parte loro, le autorità di Kinshasa accusano esplicitamente il Rwanda non solo di equipaggiare e finanziare le milizie di Nkunda, ma di aver già più volte sconfinato con proprie truppe. Del resto, che i ribelli di Nkunda (stimati al massimo in seimila effettivi) abbiano imponenti appoggi esterni lo dicono in molti. Benché le milizie del Cndp, come del resto quasi tutte quelle dei diversi signori della guerra africani, abbiano commesso ogni tipo di crimine contro l'umanità, Nkunda non è stato mai davvero perseguito. Anzi, ha di fatto instaurato un proprio feudo soprattutto nelle zone dei monti Masisi e di Rutchuru, dove da anni impone tasse, dogane, posti di controllo con tanto di bandiere del Cndp.
A giudizio della gran parte degli analisti internazionali, altro elemento in gioco sarebbe la volontà del presidente rwandese Paul Kagame di arrivare a controllare le ricchezze naturali dei territori congolesi oltre il confine occidentale del suo Paese, densamente popolato e militarmente forte, ma con minori risorse.
Negli ultimi giorni, si sono fatte sempre più insistenti le voci sulla presenza anche di truppe angolane, in questo caso alleate di quelle governative congolesi, anche se il Governo di Luanda ha seccamente smentito. Le preoccupazioni per una riesplosione di un altro conflitto africano generalizzato non sono dunque eccessive, al punto che sono state prospettate dallo stesso Ban Ki-moon.
Resta aperta anche la crisi nell'Ituri, che negli anni scorsi, all'interno del più generale contesto della guerra congolese, assunse proprie specifiche caratteristiche, legate sia e soprattutto al controllo delle ingenti risorse naturali dell'area sia ai conflitti tra etnie, con gli Hema ritenuti manovrati da Uganda e Rwanda e i Lendu considerati legati a Kabila.
Infine, nell'intricata interconnessione tra le diverse crisi della regione africana dei Grandi Laghi, alla ripresa del conflitto in Nord Kivu si è aggiunta in queste settimane quella delle incursioni sanguinose dei ribelli nordugandesi dell'Lra guidati da Joseph Kony, protagonisti da oltre un ventennio di sistematiche atrocità in un altro dei tanti conflitti africani dimenticati, quello che ha visto massacrate le popolazioni nilotiche del nord dell'Uganda.
Anche le bande armate dell'Lra hanno riparato in territorio congolese, nella provincia Orientale, dopo aver perso le loro tradizionali basi in Sud Sudan, in seguito all'accordo che pose fine nel gennaio 2005 all'ultraventennale conflitto civile in quell'area.
Peraltro, anche questo conflitto ciclicamente rischia di riesplodere, soprattutto a causa dei contrasti tra il Governo autonomo del Sud Sudan e quello centrale sudanese di Khartoum sulla gestione delle risorse petrolifere.
E questo solleva, anche per le vicende congolesi, la questione di fondo. Le rivalità etniche sono solo uno degli aspetti dei conflitti africani e neanche il principale. Nella Repubblica Democratica del Congo, come in quasi tutta l'Africa, i contrasti sono legati innanzitutto e soprattutto al controllo delle immense risorse minerarie.
Tra le ricchezze dell'est congolese basta citare il coltan, la lega naturale di columbio e di tantalio, che fornisce elementi indispensabili all'industria più avanzata di tutto il mondo. Il columbio, chiamato anche niobio, è utilizzato per assemblare componenti della tecnologia spaziale perché ha la caratteristica di raggiungere la fusione a temperature elevatissime, mentre in lega con il titanio risulta tra i migliori superconduttori conosciuti. Il tantalio è invece utilizzato nella componentistica interna di gran parte degli strumenti elettronici, dai telefoni cellulari ai videogiochi.
Del resto, per il Congo la ricchezza è da sempre una condanna. Dagli schiavi al coltan, il Paese ha sempre fornito carburante al mondo moderno e per questo non ha mai smesso di soffrire. All'inizio del '700 i mercanti di schiavi arrivarono nel Paese e si stabilirono sulle rive del fiume Congo, da dove si spingevano all'interno per catturare schiavi destinati alle piantagioni negli Stati Uniti. Dopo la fine del commercio degli schiavi, quel territorio, come gran parte dell'Africa, venne conquistato dagli europei che depredarono risorse come l'avorio e il caucciù e provocarono violenze infinite (ne dà una testimonianza letteraria importante il romanzo-verità Viaggio all'inferno di Joseph Conrad).
Il territorio del Congo diventò per 23 anni proprietà privata di Leopoldo ii re del Belgio che costruì una grande fortuna grazie allo sfruttamento delle risorse e degli schiavi, questa volta sul loro stesso territorio, utilizzati per la raccolta del caucciù, materia pregiata per la nascente industria della gomma. Il suo esercito privato nei 23 anni di dominio, uccise circa dieci milioni di persone, la metà dell'intera popolazione. Nel 1908 il Congo venne incorporato dal Governo del Belgio e quella carneficina si fermò. Continuò però lo sfruttamento delle risorse.
Dopo la dichiarazione di indipendenza del 1960, il Paese venne governato da Mobutu Sese Seko che raggiunse il potere grazie al sostegno degli Stati Uniti e soprattutto agli aiuti economici di circa un miliardo di dollari. Mobutu sfruttò le risorse al pari degli altri conquistatori e visse nello sfarzo in patria e all'estero, dove trasferì capitali fino alla sua caduta nel 1997. Secondo alcune stime, nei suoi oltre trent'anni (1965-1997) di dominio assoluto depredò risorse per quattro miliardi di dollari. Ma il peggio è arrivato proprio con la cacciata del dittatore e con l'invasione del territorio da parte degli eserciti dei Paesi vicini e delle milizie di mercenari.
L'unico passo fatto dal mondo occidentale per cercare di fermare i conflitti e lo sfruttamento della guerra al fine di mantenere i prezzi delle risorse minerarie sotto controllo è stata la moratoria sui diamanti, con la quale cinquanta Paesi si sono impegnati a non commercializzare più diamanti provenienti dai Paesi dove esistono conflitti proprio per l'accaparramento di tale minerale.
L'accordo, anche se per il momento non funziona ancora perfettamente, viene considerato da molti un modello da applicare anche agli altri minerali insanguinati. È appunto ora il caso del coltan (oltre a petrolio e altre ricchezze) che mette di nuovo al centro della produzione mondiale il Congo. Il Paese potrebbe sfruttare l'attuale rivoluzione tecnologica per arricchirsi e invece, proprio a causa dell'interesse delle multinazionali al minerale e al contenimento del suo prezzo, subisce una carneficina continua da parte di predatori di ogni genere.
Più che un rafforzamento della Monuc servirebbe una vera determinazione internazionale a mettere fine all'avidità depredatoria di potentati locali e stranieri, più o meno occulti, che mirano al controllo delle ricchezze del sottosuolo congolese.
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
Storie di conversione: Bede Griffiths - «Finalmente ho capito cosa rende la vita moderna così vuota» - di Giulia Galeotti – L’Osservatore Romano, 13 novembre 2008
"Ti do l'estremità di un filo d'oro, devi solo avvolgerlo in un gomitolo, ti condurrà davanti al cancello del cielo, costruito nelle mura di Gerusalemme": da questi versi di William Blake, Bede Griffiths, monaco camaldolese morto in India nel 1993, ha tratto il titolo della sua autobiografia. Nato a Walton on Thames nel 1906, ultimo di quattro figli di una famiglia anglicana della media borghesia, il giovane Griffiths (che adora i cupi romanzi di Hardy) si allontana presto dalla religione, nutrendo un forte pregiudizio contro il dogma e la morale. Se ha una grande venerazione per Gesù in quanto essere umano perfetto - come l'ha per Socrate - ritiene invece che il cristianesimo appartenga ormai al passato. Negli anni della Grande Guerra, come molti altri giovani, Griffiths vive un profondo disinganno anche verso la società del tempo. Impegnato nel sociale, nel 1925, tra letture, riflessioni e grandi inquietudini, inizia l'università ad Oxford (ha come tutore Clive Staples Lewis). Qualche anno dopo, però, nell'aprile 1930, per reagire all'inquietudine profonda che sente rispetto al mondo, Griffiths fa un'esperienza di vita primitiva ed essenziale nella campagna del Cotswold, prima con due amici e poi da solo, rifiutando i prodotti, i tempi e le logiche che lo circondano. Il risultato di questa esperienza è un nuovo incontro con Dio, che si traduce prima in un riavvicinamento alla Chiesa anglicana e, poi, nella conversione al cattolicesimo. "Feci la mia prima comunione alla Messa di mezzanotte (del 24 dicembre 1931) nella piccola chiesa di Winchcombwe. Era una tranquilla notte di luna piena, e mentre passavo davanti alla grande chiesa gotica parrocchiale, sapevo che per me iniziava una nuova epoca". Ancora una volta, però, Griffiths si ritrova solo all'inizio nel suo percorso di ricerca che mai ha conosciuto tregua: seguire il filo d'oro è stato, infatti, un cammino impervio che a ogni passo lo ha radicalmente rimesso in discussione. Salvo poi scoprire che, in realtà, dietro l'enorme fatica di voler capire, comprendere e trovare una risposta, v'era semplicemente Dio, che lo stava attendendo. "Capii di aver cercato Dio per tutti quegli anni. La presenza che mi era apparsa sotto le forme della natura, quel giorno a scuola; la bellezza che avevo trovato nei poeti; la verità che la filosofia mi aveva mostrato; e infine la rivelazione del Cristianesimo. All'improvviso capii che per tutto quel tempo non ero stato io a cercare Dio, ma Dio a cercare me". La ricerca di Griffiths non si ferma alla conversione, ma lo conduce (nemmeno un mese dopo questa) all'ingresso in monastero. "Cominciai a rendermi conto che era possibile seguire Cristo senza diventare un predicatore. La predicazione aveva occupato al massimo due o tre anni della sua vita e non era stato principalmente tramite quella che la sua opera era stata compiuta. La maggior parte della vita Cristo l'aveva passata in completa oscurità a Nazaret. Vedevo ora che questa vita nascosta, trascorsa in un piccolo villaggio lontano dal mondo (...) era un modello di vita per ogni cristiano e, soprattutto, era proprio la cosa da cui mi sentivo attratto". Griffiths prende così l'abito di novizio benedettino il 20 dicembre 1933 (con il nome di Beda, santo per lui molto importante), mentre fa la professione semplice nel 1934 e quella solenne del 1937.
Il percorso di Griffiths è interessante anche per la prospettiva che offre sui rapporti tra cattolici e anglicani. Per un giovane inglese degli anni Venti, "la scoperta che la Chiesa anglicana era stata fondata da un Papa romano e che i primi arcivescovi di Canterbury e di York erano stati inviati da Roma fu un'illuminazione": proprio come l'Inghilterra aveva fatto parte dell'impero romano, così la Chiesa anglicana aveva fatto parte della Chiesa di Roma (a riprova della chiusura tra le due realtà, v'è il fatto che il solo cattolico che Griffiths conosceva all'epoca è il suo librario, che lo indirizzerà a Padre Palmer). "La rottura" tra le due Chiese è "un evento psichico che appartiene a tutte le nostre vite, qualcosa che giace profondamente sepolto nell'inconscio, ma è pronto a emergere a livello conscio qualora le circostanze costringano a fronteggiarlo. Era questo mostro del profondo della mia anima che ora dovevo affrontare". E così la sua prima reazione verso il cattolicesimo è la paura ("in parte era, senza dubbio, la paura dell'ignoto"). Quando finalmente una domenica trova il coraggio di andare alla chiesa di Newbury per la messa, Griffiths si sente, al contempo, attratto "per il suo mistero" e respinto "per la sua stranezza e singolarità", un'esperienza che, piuttosto che mitigarla, aumenta la sua paura. "Studiare il cattolicesimo in Dante e in san Tommaso era una cosa, ma vederlo nella sua forma moderna era molto diverso". Nel convertirsi, però, Griffiths - consapevole della sofferenza che sa di causare ai suoi cari, specie alla madre, ma "l'amore vero non esita mai a dare dolore a coloro che ama, quando la verità lo richiede" - vuole la conferma della presenza di Cristo nella Chiesa cattolica. E la conferma la riceve quando padre Palmer riesce a trascinarlo in un monastero lì vicino ("per me i monasteri erano semplicemente reliquie del passato e non avevo idea che ci fossero ancora dei monasteri esistenti nel mondo moderno"). Ma a distanza di anni Griffiths ricorderà ancora l'impressione di quella prima volta. È, innanzitutto, lo shock della dimensione comunitaria della preghiera, che per lui, invece, era sempre stata "qualcosa di privato e di isolato, qualcosa di cui non mi sarei mai sognato di parlare ad altri. Ora, invece, mi trovavo in un'atmosfera dove la preghiera era il respiro della vita". Enorme è la sorpresa quando uno dei monaci, del tutto casualmente, gli dice che avrebbe pregato per lui, "il mondo soprannaturale all'improvviso divenne per me qualcosa di concreto e reale. Capii, allora, cosa mi era mancato in tutto quel tempo. Era stata l'assenza della preghiera come base costante della vita a rendere la vita moderna così vuota e priva di significato. Avevo trovato nella fede la chiave per tutte le verità e mi resi conto che solo ora potevo realmente cominciare ad assimilarla". E assimilarla significa per Griffiths, innanzitutto, viverla: "Vedevo ora che il cristianesimo non era solo una dottrina da predicare, ma soprattutto una vita da vivere, e che il cuore vero di quella vita era da ricercarsi nel sacrificio. Non fu con la sua opera o con la sua predicazione, ma con il sacrificio della sua vita sulla croce che Cristo salvò il mondo". Proprio questa idea del sacrificio lo porterà alla prima grande crisi della sua vita monastica: sebbene la vita nel monastero non fosse facile, era però meno austera di quella alla quale Griffiths si era abituato. Una consapevolezza questa che diventa l'occasione per capire che la volontà di Dio non va ricercata seguendo i propri desideri - "per quanto spirituali possano apparire" - ma tentando di adattarsi alle circostanze in cui ci si trova, per volere divino: "Mi resi conto che il più grande ostacolo nella vita era il potere della volontà personale e che questa poteva mascherarsi nel desiderio di predicare il Vangelo o di vivere una vita austera".
Per Griffiths la fede va vissuta in una continua dialettica tra dimensione individuale e dimensione collettiva, un dialogo incredibilmente fecondo, sebbene a volte difficile. "Ho cercato Dio nella solitudine della natura e nel lavorio della mia mente, ma l'ho trovato nella comunità della sua Chiesa e nello Spirito di Carità. E tutto questo è stato per me non tanto una scoperta, quanto un riconoscimento". Scoprire Dio, del resto, "non vuol dire scoprire un'idea, ma scoprire se stessi, vuol dire prendere coscienza di quella parte della nostra esistenza che è rimasta nascosta ai nostri occhi e che abbiamo rifiutato di riconoscere. La scoperta può essere molto dolorosa; è come attraversare una specie di morte. Ma è l'unica cosa che dà valore all'esistenza. Tale riscoperta della religione è la grande avventura intellettuale, morale e spirituale del nostro tempo. Richiede tutte le nostre energie e implica sia sforzo che sacrificio. La riscoperta deve essere fatta per proprio conto da ogni singolo individuo. A ciascuno viene dato, in egual misura, il filo d'oro e ognuno deve trovare la propria via all'interno del labirinto". La religione è, dunque, individuale ma collettiva al contempo, esattamente come l'esperienza monastica non è fuga, ma una realtà il cui "vero scopo è di rendere capaci di affrontare i problemi del mondo al loro livello più profondo, cioè mettendoli in relazione con Dio e con la vita eterna".
La conversione di Griffiths è anche un progressivo abbandono. "Ciò che realmente mi spaventava era il conflitto con la mia ragione. Finora la mia ragione e il mio istinto avevano sempre camminato mano nella mano. Mi ero reso giudice di ogni cosa, in cielo e in terra, e non riconoscevo nessun potere o autorità su di me. Ora venivo sollecitato ad abbandonare questa indipendenza. All'interno della mia natura era sorto qualcosa che la mia ragione non poteva controllare". Per una persona che si riconosce come spirito libero - "né l'umiltà né l'obbedienza avevano avuto senso per me, ed era emblematico che non le avevo mai considerate delle virtù riscontrabili in Cristo" - è questa la lezione più dura. "Nulla mi sembrava più lontano dalla mia esperienza del detto di Agostino "non crederei al Vangelo se non fosse per l'autorità della Chiesa". Al contrario, sentivo che era solo perché credevo al Vangelo che ero arrivato ad accettare l'autorità della Chiesa. Ma presto cominciai a rendermi conto che, per quanto potessi esser sicuro della verità del Vangelo, la mia fede non poteva poggiare solo sulla mia esperienza individuale. Chiedeva il sostegno della testimonianza della Chiesa universale, solo quando accettai l'autorità della Chiesa universale la mia fede raggiunse la completa certezza".
Griffiths ritorna spesso anche sul fatto che Gesù è "venuto per ricapitolare tutte le fasi della storia umana", un aspetto in relazione al quale sente una vicinanza fortissima con Newman ("non penso che la mia mente avesse mai preso seriamente in considerazione il pensiero della Chiesa cattolica, e comprai Development of Christian Doctrine solamente per un interesse generale, ma il suo effetto su di me fu una prova decisiva"). Vedendo Newman "impiegare tutto il suo sapere e tutte le sue capacità esegetiche nel tentativo di dimostrare che la Chiesa delle Scritture e dei Padri non era altro che la Chiesa di Roma", Bede rimane affascinato. L'ultima tappa terrena e spirituale, Griffiths la vive trasferendosi in India (dove morirà). "Essere cristiani significa accettare la responsabilità del peccato non solo in se stessi, ma anche negli altri - scrive Griffiths -, significa riconoscere che tutti noi siamo responsabili gli uni degli altri. Ciò che desideriamo deve accedere al centro del nostro stesso essere, nell'oscurità dell'intimo, nell'unico luogo in cui è possibile incontrare il Dio che è nascosto nel profondo dell'anima".
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
12/11/2008 14.48.32 – Radio vaticana – Dialogo cattolico-ebraico: no a linguaggi che esasperano le polemiche
Il Comitato Internazionale di collegamento cattolico-ebraico, riunito a Budapest per la sua 20.ma conferenza a Budapest, ha espresso, in un comunicato congiunto diffuso ieri sera, ''profondo rammarico per alcune polemiche e dichiarazioni intemperanti che sono state fatte sulla controversia relativa al ruolo di Papa Pio XII durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale''. Il cardinale Walter Kasper e il rabbino David Rosen, co-presidenti del Comitato, hanno quindi ribadito il loro ''impegno a favore di un rapporto basato sul rispetto reciproco”. “I disaccordi che inevitabilmente si verificano di volta in volta tra di noi – continua il comunicato - devono essere espressi in un modo che rifletta questo spirito e non in un linguaggio che esaspera solo la tensione''. Da parte sua il cardinale Kasper ha sottolineato che ''le preoccupazioni della comunità ebraica sono state chiaramente riportate presso la Santa Sede al più alto livello''. Nel comunicato si ricorda infine la richiesta, presentata 10 giorni fa a Benedetto XVI da parte del Comitato ebraico internazionale per le consultazioni interreligiose (IJCIC), di mettere a disposizione degli studiosi il materiale di archivio riguardante le decisioni prese dalla Santa Sede relativo a persone e politiche durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale''.
AGOSTINO/ 1. Il dramma della vita e il dono della fede, una lezione che non muore mai - Massimo Serretti - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il 13 novembre dell'anno 354 nasceva a Tagaste, nel nord Africa, Agostino, Padre e Dottore della Chiesa nonché uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, la cui attualità di pensiero non solo è tutt'ora indiscussa, ma resta una delle più grandi fonti di ispirazione per la speculazione religiosa e laica. Massimo Serretti, docente di Teologia dogmatica nella Pontificia Università Lateranense, racconta la vita e l'opera geniale di questa enorme figura di uomo e di santo.
Professore, sono passati più di mille e seicento anni, ma l'opera di Agostino sembra parlare, a coloro che se ne accostano, in termini ancora attualissimi, molto più di tanti altri pensatori assai più recenti. Per quale motivo?
È impossibile sopravvalutare l'importanza di una figura come quella di Agostino sia dal punto di vista di quel che è stata la sua biografia, la sua storia, il profilo della sua persona sia, ancor di più, per quel che riguarda la sua opera. Agostino è uno di quei padri della Chiesa la cui opera viene continuamente ristampata e ripubblicata in pressoché tutte le parti del mondo e in quasi tutte le lingue. E anche oggi, nel terzo millennio dell'era cristiana, è uno degli autori più letti. Ciò di per sé è già un dato che da solo ci parla della sua straordinaria attualità. Le cause della modernità del pensiero di Agostino si possono ricostruire in diversi percorsi, ma ciò che sicuramente ne spiega più profondamente l'incidenza immutata è la modalità con la quale quest'uomo ha accolto il dramma della propria esistenza e del dono della fede che Dio gli ha concesso. Nell'incrocio fra queste due realtà, cioè fra la libertà dell'uomo e la grazia di Dio, nell'intreccio di questi due elementi, si consuma tutta l'importanza e l'attualità della figura di questo grande uomo e di questo grande cristiano.
In che cosa la sua opera risulta rivoluzionaria rispetto all'epoca che lo ha preceduto e quali sono gli aspetti salienti che tale rivoluzione ha lasciato al pensiero successivo?
È quasi un ardire eccessivo e rischioso tentare di inquadrare in pochi e brevi tratti l'influenza del pensiero agostiniano. Perché, per certi versi, neanche in questo caso sarebbe esagerato dire che la sua influenza sul pensiero europeo, e quindi mondiale, si allinei all'influenza che il pensiero cristiano stesso ha avuto sulla formazione della mens europea. Certamente però questo non ci esime dall'identificare alcune linee.
In primo luogo occorre considerare il grande lavoro che Agostino fece sulla libertà dell'uomo, sul libero arbitrio. Questa affermazione della libertà sicuramente lo differenziava da tutto quello che era stata l'antropologia pagana del pensiero greco e romano.
Il ripensamento sull'uomo come essere libero è sicuramente un portato straordinario come lo è anche l'accento sull'io, la forte presenza dell'io. Basti pensare alle Confessioni. Anche questa coscienza dell'io era sconosciuta all'uomo precristiano che ancora non aveva incontrato la grandezza di una Presenza che evocasse a sua volta all'uomo la grandezza della sua stessa presenza. Questo è l'io che emerge nelle riflessioni di Agostino.
E poi è da aggiungere per ultimo, ma non ultimo per importanza, il grande amore per la ragione. Agostino ha da insegnare a tutti gli illuministi e neo-illuministi un amore e una passione straordinaria per questa potenza che è partecipazione all'intelletto stesso di Dio.
E dal punto di vista teologico quali conseguenze comportò l'operato filosofico e speculativo di Agostino?
Per individuare gli aspetti nei quali il pensiero di questo grande Dottore della Chiesa si presta a una “prosecuzione” credo che sia sufficiente ripercorrere un po' la sua influenza straordinaria su tutto lo sviluppo del pensiero teologico a lui successivo. In primo luogo i suoi testi sono stati tra i più letti e studiati fino all'aprirsi della grande stagione della Scolastica. Tutta la Scolastica è stata poi anch'essa determinata da Agostino, perché tutti i grandi dottori medioevali hanno commentato per prima cosa le sentenze di Pietro Lombardo, ma queste erano composte per nove decimi da citazioni di testi di Agostino. Ciò accomuna la sua influenza nella sfera della teologia a quella di pochissimo altri uomini. Gli unici coi quali azzarderei un paragone sono Origene per l'Antichità e San Tommaso per il Medioevo.
Molti però sostengono che ci siano ancora numerosi punti da chiarire in diversi settori della sua produzione.
I punti aperti ci sono sempre nella storia del pensiero teologico. Si può anzi dire che vale per analogia ciò che è valido per tutte le scienze: non esiste un capitolo chiuso. Quello che si trova di straordinario nell'opera di Agostino è proprio l'ampiezza di argomenti trattati che corrisponde anche all'ampiezza di spirito di quest'uomo.
Praticamente non esiste un trattato o una questione che sia teologicamente rilevante a proposito della quale egli non abbia dato un contributo fondamentale. Il pensiero di Agostino è suscettibile di sviluppi ancora oggi ed è necessaria, per un approfondimento valido, una ri-comprensione sempre innovativa della sua opera. Bisogna poi tener presente che al fondo della sua riflessione c'è sì un'ampiezza eccezionale, ma c'è anche un dono singolare. Ossia, quando Agostino parla della sua esperienza nella ricerca della verità, si capisce e si intende subito che egli parla di un'esperienza personalissima. Questo fatto rende ricchissimo lo spessore della sua pagina e la vivacità assoluta delle sue opere.
Egli ha indagato nel mistero di Dio mediante un tipo di conoscenza traducibile con il concetto ebraico di questa parola che si esprime nell'avere “esperienza di qualcuno o di qualcosa”. In quest'ottica si coglie come mai a un così forte elemento conoscitivo corrisponda un vasto spessore intellettuale. E la cosa grandiosa è che in questa operazione compiuta da Agostino non c'è la minima traccia di intellettualismo.
Eppure spesso la cultura moderna ne riduce il portato filosofico. Ad esempio nei programmi di filosofia liceali il pensiero di Agostino è ridotto a un riassunto di poche pagine. Ma al di là di questo sono numerosi i tentativi di strumentalizzazione o di riduzione del suo pensiero.
Certo. Agostino è un autore cattolico. La caratteristica degli autori cattolici, in tutta la plurimillenaria storia della Chiesa, è quella di essere maggiormente presenti laddove non si fa riferimento esplicito ad essi.
Agostino ha determinato e dato abbrivio non solo a una quantità di grandi vene sotterranee del pensiero ma anche a un modo di essere e di vivere, perché non bisogna dimenticare che da lui nasce anche un'esperienza monastica. E non bisogna neppure scordare come egli interpreta il suo tempo. Nel De civitate Dei dà infatti un'interpretazione politica che avrà un risvolto rilevantissimo per tutta la politica medioevale.
Ci sono poi due grandi esperimenti interpretativi che dobbiamo ricordare. Uno è quello luterano, perché Lutero partì proprio dall'esperienza in una comunità agostiniana anche se aveva una conoscenza molto scarsa dell'opera del pensatore. L'altra è il giansenismo il quale ha segnato buona parte della cultura francese.
Il fatto però che ci siano stati nella storia dei viraggi nell'interpretazione, delle ermeneutiche distorte non solo non va contro il pensiero di Agostino, ma - da un certo punto di vista - ne dimostra la grandezza. Mi spiego: senza i Vangeli non ci sarebbero state eresie. Le deformazioni sono possibili sempre e solo nelle grandi opere.
E i filosofi cattolici contemporanei? Quanto sono debitori al pensiero agostiniano?
Esiste una grande linea del pensiero cristiano cattolico nella modernità europea. A partire dallo stesso Cartesio che era un lettore assiduo di Agostino, da Pascal a Vico fino a Bergson e a Blondel. È un filone del pensiero moderno che Augusto Del Noce aveva ben identificato e che è saldamente ancorato, attraverso Agostino, alla cattolicità.
Ci sono certamente anche le riduzioni esistenzialistiche, ma ciononostante l'impianto dottrinale di Agostino è sicurissimo e molto compatto. Non dimentichiamo che è uno di quei pensatori che ha avuto la fortuna di poter scrivere anche delle retractationes sui propri testi e quindi ha potuto egli stesso emendare o porre punti interrogativi laddove lo ritenesse necessario. Poi, come spesso accade, c'è sempre chi prende una frase e ne distorce il senso a suo piacimento. Se si prende uno dei motti di Agostino come «ama e fa ciò che vuoi» è chiaro che in base a questo si possono improntare una serie di errori gravi e nocivi per sé e per gli altri. Ma non è questo l'Agostino storico o, se si vuole, l'Agostino reale.
AGOSTINO/ 2. La lezione attuale di uno spirito inquieto che cerca senza posa - Gianfranco Dalmasso- giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Sant’Agostino è stato attuale per tutte le epoche della storia dell’Occidente. Dal 430 d.C., anno della sua morte (era nato il 13 novembre del 354 a Tagaste, l’odierna Souk-Ahras, in Algeria) egli ha sempre costituito un punto di riferimento: per il Medio Evo, per l’Umanesimo del quindicesimo e sedicesimo secolo, per l’età barocca, per il Romanticismo dell’Ottocento fino ai pensatori interpreti delle grandi domande teologiche e filosofiche del ventesimo secolo.
La ragione di questo va ricercata certamente nel fatto che egli è stato considerato, già da vivente, un grande dottore della Chiesa, cioè un autore che ha aiutato a prendere coscienza delle strutture e dei nodi su cui si organizza l’esperienza del cristiano.
Ma c’è un motivo ulteriore e ancora più decisivo della sua fortuna ed è, io credo, la natura e lo stile del suo pensiero. Per Agostino il rapporto con se stesso, la questione di chi egli sia è il punto originante delle sue domande e del suo discorso. Che egli si interroghi sulla bellezza del mondo o sul male che contraddittoriamente vi si annida, che egli cerchi la felicità o cerchi di formulare una teoria sull’uomo e sulla società, il suo dire non si limita a un mero discorrere sui problemi, non si limita a fornire dottrine e visioni della realtà.
S. Agostino piuttosto agisce tali discorsi: la sua parola ha la forma dell’invocazione, del grido, dell’appello, anche quando parla di una verità che potrebbe essere intesa come oggettivabile, come l’ordine della natura o l’esistenza di Dio. Cioè per lui la parola è un atto, è detta sempre da un parlante a un destinatario, da un io a qualcun altro. Nella natura o nell’altro essere umano egli scopre, e dà parola, a un’origine, a un movente che è all’opera in lui stesso, che lo urge e dà forma e corpo al suo discorso.
Nella sua opera Sulla Trinità - in cui egli tenta di circoscrivere il generarsi dell’idea di Dio - esclama, in modo drammatico: «Ecce enim qui haec quaero» : ecco, sono io, pensate a me che cerco questo. Qui sta anche il motivo del fascino che S. Agostino ha esercitato sui non credenti, su pensatori e intellettuali lontani dall’esperienza cristiana o anche atei professi: il linguaggio di Agostino si torce sul problema del suo stesso generarsi, si organizza e soggiace a un elemento, misterioso, in senso puramente razionale di imprendibile, ma che dà forma alla sua esperienza.
Il fascino esercitato anche oggi sul pensiero “laico” consiste nel testimoniare la nozione e l’esperienza di un io radicalmente diverso dall’io che sembra la forma disperatamente insuperabile del sapere contemporaneo: un io autonomo possessore delle sue parole e dei suoi atti, non scalfibile da nulla, amministratore borioso dei propri giudizi. L’io di Agostino è un io che si coinvolge e si spezza nel proprio discorso. Fino a poter essere, nel ritmo retorico e teatrale della sua prosa, difficilmente leggibile se non si entra in sintonia con lui.
La durezza e la drammaticità del suo linguaggio sembrano introdurci oggi, nell'assenza generalizzata di un'unificazione e nella devastazione di un ordine dell'sperienza, in un diverso approccio all’io: approccio che può essere suscitato dall’incontro con un “non proprio”, nella cui alterità ingestibile un soggetto possa attingere la sua risorsa vittoriosa.
Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tra un mese (10 dicembre) ricorre il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’articolo 18 afferma: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo; la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Le parole, che sono poste a fondamento della stessa esistenza dell’Onu, sono chiare e dirette. Fino ad ora il compleanno della Dichiarazione non ha avuto l’attenzione che merita, se si eccettua un grande discorso del Papa Benedetto XVI tenuto alle Nazioni Unite in aprile (nel quale, tra l’altro, diversi paragrafi sono dedicati al “diritto” di ricevere e dare protezione: ma nel grande palazzo sull’East River di New York, così come in quasi tutte le capitali mondiali – non si può avere soltanto l’Onu nel mirino – se ne saranno dimenticati, vista l’allucinante accidia dimostrata davanti ai massacri del Congo). Dovremmo tornare a leggere per bene la Dichiarazione. Una volta, nelle scuole elementari dell’aborrito maestro unico e del grembiulino blu o nero, si parlava parecchio dei testi e dei sistemi fondanti il Dopoguerra mondiale. Era il tempo della Speranza e dunque anche i bambini italiani avevano dimestichezza con i grandi luoghi e le grandi parole della seconda metà del secolo. Ma in questo campo mentre i bambini di oggi sono degli analfabeti, i bambini di allora lo sono ridiventati. Occorrerebbe che tutti riprendessero in mano quel testo, insieme a quello del Papa. Capiremmo il valore reale, pesante, storico della libertà religiosa. Molti, per annacquarla, le affiancano i concetti di libertà di coscienza, più largo e più vago, oppure di libertà di culto, più stretto e più innocuo. Ma nella Dichiarazione che dovrebbe fondare la storia recente del nostro pianeta, le espressioni sono precise, immediate, evidenti. E’ che in questi decenni il mondo si è diviso, forse involontariamente, proprio sulla libertà religiosa: in Occidente è diventato l’inutile accessorio di un’automobile già dotata di ogni optional: non sappiamo che farcene; l’aggettivo ha messo in ombra il sostantivo, per noi la libertà religiosa è una cosa da Paesi poveri, qui ci teniamo tutte le libertà e buttiamo tutte le religioni. Mentre l’Oriente, in particolare quello dell’India e dei paesi a maggioranza islamica, la libertà religiosa nella chiara accezione della Dichiarazione condivisa dai 191 Paesi membri dell’Onu è tuttora un tabù; si tengono stretti alla religione buttando tutte le libertà. Un tabù, del quale si parla con fatica e imbarazzo, cambiando il discorso, girando la testa dall’altra parte, usando metafore.
Una settimana fa, il giorno dell’elezione di Barack Obama, è stata presentata l’edizione 2008 del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, curato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un’opera di diritto pontificio. Anche le oltre cinquecento pagine del Rapporto sono scritte con parole chiare e dirette. Paese per Paese, dall’Afghanistan allo Zimbabwe, le schede presentano la situazione della libertà religiosa relativamente a tutti i culti. Pertanto non è un’opera confessionale, poiché si basa “sull’insopprimibile anelito di ogni essere umano alla ricerca della verità” (pag. 4). A curare il Rapporto sono dei cattolici. La lettura è di eccezionale interesse. L’indicatore della libertà religiosa fa conoscere un Paese almeno quanto la crescita del Pil o dell’andamento della popolazione. Ma i nostri giornalisti e i nostri politici sono distratti. Se si eccettua lo spazio dato dalla benemerita stampa cattolica, in particolare l’Osservatore Romano, il Rapporto è passato inosservato. Non abbiamo visto agitarsi direttori di testata, commissari europei infiammarsi di sdegno, rettori e collettivi di università urlare nei megafoni, presentatori di talk show (nelle tv italiane ce ne sono sei-otto), porgere l’argomento sia pur educatamente.
Eppure, sfogliare quelle pagine lascia di stucco: è questo il nostro mondo? questo stiamo preparando per i nostri figli?
In Oriente e in Occidente sembra una questione che interessa solo un manipolo di cattolici, incluso il loro capo. Sono rimasti gli ultimi strenui difensori della Dichiarazione, che dal dicembre 1948 avrebbe dovuto inaugurare una nuova era, perché sono gli unici a pensare che “pensiero, coscienza e religione” sono indissolubilmente legati alla natura più intima e profonda dell’uomo e pensano così perché amano l’uomo senza riserve e senza distinzioni. Così, quando vedono calpestate le libertà connesse alla sua natura, non possono stare fermi e zitti, si infiammano di dolore e compassione.
(A proposito, il Rapporto segnala anche buone notizie: in Azeirbagian la libertà religiosa è migliorata)
Libertà religiosa, vero fondamento di civiltà - Roberto Fontolan - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tra un mese (10 dicembre) ricorre il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’articolo 18 afferma: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo; la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo, nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. Le parole, che sono poste a fondamento della stessa esistenza dell’Onu, sono chiare e dirette. Fino ad ora il compleanno della Dichiarazione non ha avuto l’attenzione che merita, se si eccettua un grande discorso del Papa Benedetto XVI tenuto alle Nazioni Unite in aprile (nel quale, tra l’altro, diversi paragrafi sono dedicati al “diritto” di ricevere e dare protezione: ma nel grande palazzo sull’East River di New York, così come in quasi tutte le capitali mondiali – non si può avere soltanto l’Onu nel mirino – se ne saranno dimenticati, vista l’allucinante accidia dimostrata davanti ai massacri del Congo). Dovremmo tornare a leggere per bene la Dichiarazione. Una volta, nelle scuole elementari dell’aborrito maestro unico e del grembiulino blu o nero, si parlava parecchio dei testi e dei sistemi fondanti il Dopoguerra mondiale. Era il tempo della Speranza e dunque anche i bambini italiani avevano dimestichezza con i grandi luoghi e le grandi parole della seconda metà del secolo. Ma in questo campo mentre i bambini di oggi sono degli analfabeti, i bambini di allora lo sono ridiventati. Occorrerebbe che tutti riprendessero in mano quel testo, insieme a quello del Papa. Capiremmo il valore reale, pesante, storico della libertà religiosa. Molti, per annacquarla, le affiancano i concetti di libertà di coscienza, più largo e più vago, oppure di libertà di culto, più stretto e più innocuo. Ma nella Dichiarazione che dovrebbe fondare la storia recente del nostro pianeta, le espressioni sono precise, immediate, evidenti. E’ che in questi decenni il mondo si è diviso, forse involontariamente, proprio sulla libertà religiosa: in Occidente è diventato l’inutile accessorio di un’automobile già dotata di ogni optional: non sappiamo che farcene; l’aggettivo ha messo in ombra il sostantivo, per noi la libertà religiosa è una cosa da Paesi poveri, qui ci teniamo tutte le libertà e buttiamo tutte le religioni. Mentre l’Oriente, in particolare quello dell’India e dei paesi a maggioranza islamica, la libertà religiosa nella chiara accezione della Dichiarazione condivisa dai 191 Paesi membri dell’Onu è tuttora un tabù; si tengono stretti alla religione buttando tutte le libertà. Un tabù, del quale si parla con fatica e imbarazzo, cambiando il discorso, girando la testa dall’altra parte, usando metafore.
Una settimana fa, il giorno dell’elezione di Barack Obama, è stata presentata l’edizione 2008 del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, curato da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, un’opera di diritto pontificio. Anche le oltre cinquecento pagine del Rapporto sono scritte con parole chiare e dirette. Paese per Paese, dall’Afghanistan allo Zimbabwe, le schede presentano la situazione della libertà religiosa relativamente a tutti i culti. Pertanto non è un’opera confessionale, poiché si basa “sull’insopprimibile anelito di ogni essere umano alla ricerca della verità” (pag. 4). A curare il Rapporto sono dei cattolici. La lettura è di eccezionale interesse. L’indicatore della libertà religiosa fa conoscere un Paese almeno quanto la crescita del Pil o dell’andamento della popolazione. Ma i nostri giornalisti e i nostri politici sono distratti. Se si eccettua lo spazio dato dalla benemerita stampa cattolica, in particolare l’Osservatore Romano, il Rapporto è passato inosservato. Non abbiamo visto agitarsi direttori di testata, commissari europei infiammarsi di sdegno, rettori e collettivi di università urlare nei megafoni, presentatori di talk show (nelle tv italiane ce ne sono sei-otto), porgere l’argomento sia pur educatamente.
Eppure, sfogliare quelle pagine lascia di stucco: è questo il nostro mondo? questo stiamo preparando per i nostri figli?
In Oriente e in Occidente sembra una questione che interessa solo un manipolo di cattolici, incluso il loro capo. Sono rimasti gli ultimi strenui difensori della Dichiarazione, che dal dicembre 1948 avrebbe dovuto inaugurare una nuova era, perché sono gli unici a pensare che “pensiero, coscienza e religione” sono indissolubilmente legati alla natura più intima e profonda dell’uomo e pensano così perché amano l’uomo senza riserve e senza distinzioni. Così, quando vedono calpestate le libertà connesse alla sua natura, non possono stare fermi e zitti, si infiammano di dolore e compassione.
(A proposito, il Rapporto segnala anche buone notizie: in Azeirbagian la libertà religiosa è migliorata)
SCUOLA/ Il ministro Gelmini presenta il piano di razionalizzazione: ecco le linee essenziali - Giovanni Cominelli - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Sollecitato dal massiccio sciopero della scuola, dalla continuazione delle occupazioni/autogestioni, da una ritrovata forza “fisica” (quella delle idee langue!) dell’opposizione, il governo ha presentato alla Commissione cultura della Camera del 6 novembre scorso una relazione intitolata “Piano programmatico di interventi volti alla razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali del sistema scolastico”.
È un atto di chiarezza, che dissolve la nebbia di una comunicazione insufficiente e confusa da parte del governo e il fumo ideologico e le menzogne da terrorismo psicologico dell’opposizione.
Quanto al “dimensionamento delle istituzioni scolastiche”, si assume come riferimento il DPR n. 233 del 1998 relativo alle scuole autonome e il DM n. 331 del 1998 relativo ai plessi scolastici. Era Ministro Luigi Berlinguer. Il Decreto ministeriale fissava tra i 500 e i 1000 alunni i confini per ogni istituzione scolastica con diritto di avere un dirigente. Il limite inferiore era ridotto a 300 per le scuole di montagna e piccole isole. I minimi per il numero degli iscritti di ogni scuola-punto di offerta erano fissati a 50 bambini nella scuola di base, 45 nella scuola media, 100 nelle superiori, con deroghe per le scuole di montagna. Con tutta evidenza non è ridotta l’ampiezza dell’offerta, ma solo le dirigenze. Le regioni e gli Enti locali hanno competenza esclusiva in materia di dimensionamento. Peraltro, nell’ultima riunione della Conferenza Stato-Regioni hanno chiesto e ottenuto di poter dilazionare ulteriormente di un anno un’operazione che avrebbero dovuto fare già dal 1999! Ora si lamentano con il governo per i “tagli” bruschi e ultimativi, ma sono anche le loro lunghe e non sanzionate inadempienze che hanno portato all’attuale emergenza finanziaria nella spesa scolastica. Il che la dice lunga sul cosiddetto “federalismo” di molte Regioni, oggi quasi tutte in mano all’opposizione: a loro basta che lo Stato paghi a piè di lista. Tanto più che si avvicinano le elezioni regionali del 2010. Così le Regioni si comportano come centri di spesa irresponsabili.
Quanto ai profili ordinamentali delle scuole di ogni ordine e grado, la situazione si prospetta nel modo seguente: nessuna riduzione di posti nella scuola dell’infanzia. Quanto alla scuola primaria, gli insegnamenti e le attività didattiche saranno assicurati solo da docenti interni. I modelli possibili sono quattro: 24 ore (con docente unico), 27 ore, 30 ore, 40 ore. Il tempo pieno, oggi usufruito da 34.270 classi su 136.964, sarà confermato. Il sostegno non subisce riduzioni: tendenzialmente 1 docente ogni due alunni disabili. È previsto un aumento di 1 o 2 alunni per classe. Per la secondaria di primo grado si passa dalle 32 ore attuali alle 30 ore: scompaiono le materie facoltative. Sono previsti sei Licei: l’abbassamento è a 30 ore settimanali, eccetto l’Artistico che ne avrà 34 nel biennio e 35 nel triennio e quello Musicale e Coreutico, che ne avrà 32. Complessivamente viene confermato l’impianto della riforma Moratti, che Fioroni aveva sospeso, eccetto che per la soppressione dei Licei economico e tecnologico, che tornano a far parte dell’Istruzione tecnica.
Il riordino degli istituti tecnici procederà in base alla legge Fioroni n. 40 del 2007 (è, in realtà, il Decreto legge Bersani sulle liberalizzazioni, cui Fioroni agganciò la materia del tutto estranea del riordino dell’Istruzione tecnica). Gli indirizzi sono ridotti da 39 a 11. Il monte-ore scende a 32 ore settimanali contro le 35-36 attuali.
Il risparmio di posti è di 87.400 per i docenti e di 44.500 per il personale ATA. Risparmio significa, in primo luogo, che non vi saranno nuove assunzioni, che sarà accelerato il turn over (nei prossimi 10 anni sono in uscita circa 300.000 per pensionamento) e che gli insegnanti perdenti cattedra saranno utilizzati in altro modo dall’Amministrazione scolastica e da quella pubblica. Insomma: chi è attualmente in servizio non perderà lo stipendio. E i precari? Si chiude crudelmente sulla loro pelle una storia di illusioni alimentate irresponsabilmente dal Ministero dell’istruzione, dai sindacati, dalle Università, dai politici. Una laurea non dà automaticamente diritto a un posto di lavoro nella scuola. Il diritto al lavoro non equivale al diritto al posto. Perciò questi “risparmi” obbligano non solo alla scioglimento rapido delle graduatorie permanenti, che Fioroni aveva rinviato al 2011, in coincidenza con la fine naturale della legislatura incominciata nel 2006; ma anche a istituire da subito nuove modalità di formazione e reclutamento dei nuovi insegnanti. Se non sarà fatto, inevitabilmente si riprodurranno nuovi precari.
RICORDO/ Negri: “l'estremo saluto a Monsignor Maggiolini, coraggioso difensore della fede” - Luigi Negri - giovedì 13 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Rilascio la mia testimonianza in memoria di Sua Eccellenza Monsignor Maggiolini.
“Don Sandro”, come lo chiamavo da quando l'ho conosciuto tanti anni fa, appena uscito dal seminario, era un grande uomo di Chiesa. È stato un grande uomo di Chiesa perché era un grande uomo in sé e di enorme cultura. Egli ha ininterrottamente tenuta aperta nel suo cuore la domanda di senso, di bellezza, di giustizia e di bene. E per questo motivo era scattata, anni e anni prima, ancora in seminario, la sintonia profonda con Monsignor Giussani.
Mai in lui la visione della fede è diventata un'ideologia, ma sempre la coscienza di una risposta viva e concreta del mistero di Cristo alla domanda di felicità umana. Per questo la sua era una cultura forte, forte come la vita, e per questo dapprima fu un grande insegnante di Introduzione alla Teologia presso l'Università Cattolica di Milano. Decine e decine di persone sue alunne se lo ricordano ancora come un enorme maestro. Poi fu un geniale direttore di una delle più belle riviste ecclesiali ed ecclesiastiche, La rivista del clero italiano, fondata da padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, negli anni eroici della cristianità italiana. In seguito si rivelò un vescovo concretissimo, prudente e saggio, della piccola diocesi di Carpi per poi finalmente approdare alla grande chiesa di Como.
Fu un pastore intelligente, prudente, appassionato innovatore, ma soprattutto grande difensore dell'ortodossia. Monsignor Alessandro Maggiolini ha difeso la verità della fede. Diciamocelo chiaramente: l'ha difesa anche all'interno della stessa Chiesa.
È stato anche un perfetto interlocutore del mondo laico. Fu un eccezionale interlocutore perché cosciente della propria identità e quindi assolutamente non disponibile a nessun compromesso. Fu capace perciò di un dialogo vero, di un'interlocuzione reale e positiva. Era un oratore che meritava il rispetto sempre anche dell'avversario a condizione, certo, che quest'ultimo fosse intelligente. E poi è passato alla storia della Chiesa, e ormai ne rimarrà legato per sempre, come uno dei cinque estensori del testo del Catechismo della Chiesta Cattolica.
Dispiace solo una cosa, un rammarico che ho sempre espresso anche a lui: che gli altri estensori del Catechismo erano poi stati nominati cardinali, lui no.
In altri tempi, meno tristi ecclesialmente e socialmente, un uomo come Monsignor Maggiolini sarebbe stato definito un “Confessore della Fede”. E io amo pensarlo così, come un Confessore della Fede. È morto all'avvicinarsi del giorno che la Chiesa ha dedicato alla memoria del grande vescovo e confessore della fede, San Josafat (al secolo Giovanni Kuncewycz), perseguitato a causa della sua fede cattolica nelle lontane regioni della Lituania e della Bielorussia.
Come ho detto nel necrologio che ho preparato per il quotidiano Avvenire «la Chiesa in Italia oggi è più povera e anche, certamente, meno coraggiosa».
MOSUL, MINORANZE SOTTO TIRO - UNA CAMPAGNA MIRATA E SPIETATA - FULVIO SCAGLIONE – Avvenire, 13 novembre 2008
Sono andati a cercarle a casa loro, nel quartiere al-Qahira di Mosul, e le hanno assassinate a colpi di pistola. Lamia Sobhy e Walaa Sobhy Salloha sono morte così, colpite da una squadraccia che ha anche piazzato una bomba sulla soglia della loro casa con la quale hanno ucciso due dei poliziotti poi accorsi. La campagna per far fuggire i cristiani dalla provincia di Niniveh, di cui Mosul è la capitale, non conosce soste. Ed è una campagna scientifica, mirata, organizzata, spietata. Dall’inizio di ottobre sono già stati uccisi 16 cristiani, mentre 2.000 famiglie (per un totale di oltre 12 mila persone) hanno lasciato la città per disperdersi nei villaggi della regione o ancora più in là, lungo i confini con la Siria e la Turchia. La strategia del terrore colpisce ogni categoria e ogni età: religiosi e professionisti, medici e operai, anziani e giovanissimi come il ragazzo di 15 anni che pochi giorni fa è stato ucciso con un colpo in fronte.
I contorni brutali della tragedia non devono trarci in inganno. Non siamo di fronte a una serie di pogrom che, pur essendo più o meno eterodiretti, affondano le radici nell’ignoranza o nell’odio etnico e religioso, ma piuttosto a una battaglia politica che ha scelto lucidamente lo stragismo come proprio strumento. Nella provincia di Niniveh vivono 250 mila cristiani, dei quali 50 mila (su 450 mila abitanti) nella sola Mosul. Molti di loro si sono trasferiti qui negli ultimi anni, per sfuggire alle violenze che dominavano Baghdad e la regione centrale dell’Iraq. Il loro arrivo, che s’incrociava peraltro con il ritorno dei curdi un tempo cacciati dalle campagne di arabizzazione forzata di Saddam Hussein, ha spostato l’equilibrio demografico di una zona che nel frattempo, a causa dei suoi bacini petroliferi, diventava cruciale per il futuro del Paese.
Sulla pelle dei cristiani oggi crudelmente si giocano almeno due partite politiche. Quella tra il governo centrale di Baghdad, a predominanza sciita, e il governo regionale del Kurdistan, che si contendono le ricchezze petrolifere. Quella tra gli arabi, che non vogliono essere ricacciati a Sud verso le sabbie improduttive del deserto, e i curdi che vogliono invece allargare i confini del Kurdistan. I cristiani hanno a lungo cercato una loro neutralità, che non li ha però messi al riparo da soprusi e violenze. In passato furono i peshmerga ('Quelli che affrontano la morte', i miliziani curdi) a impedir loro di votare alle elezioni regionali, bloccando i seggi o distruggendo le schede elettorali. Oggi è il governo centrale a negare ai cristiani una degna rappresentanza, facendo approvare dal Parlamento una legge che riserva loro solo 3 seggi sui 144 dei consigli provinciali.
Alla ricerca di una degna soluzione politica, la comunità cristiana della piana di Niniveh si è inevitabilmente divisa tra coloro che preferiscono la sovranità del governo centrale e coloro, invece, che chiedono la costituzione di una diciannovesima provincia a statuto speciale, centrata appunto su Mosul, gestita dai cristiani e amministrativamente collegata con il Kurdistan. Nelle ultime settimane si sono avute diverse dimostrazioni a favore di questa seconda ipotesi e proprio a questo fatto molti ora collegano gli ultimi scoppi di violenza. Il tutto aspettando quel referendum sul futuro di Kirkuk, altro centro petrolifero poco più a Sud di Mosul, che nessuno vuole davvero organizzare per paura di scatenare una vera guerra civile. Dopo tutte le analisi, comunque, restano i fatti. Ed è indiscutibile che i cristiani sono il bersaglio, la violenza contro di loro cresce, l’indifferenza del resto del mondo non cala. E che il governo di Baghdad non arriva neanche vicino all’obiettivo elementare: garantire loro un livello minimo di protezione e sicurezza.
È SUCCESSO A RIMINI, MA PUÒ SUCCEDERE OVUNQUE - Un’aberrante pulizia sociale libera le strade da chi disturba - MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2008
Una panchina bruciata, una vecchia bicicletta, qualche fagotto gonfio di stracci. Quel che resta della 'casa' del clochard che qualcuno l’altra notte a Rimini ha dato alle fiamme è ben poco.
L’uomo, terribilmente ustionato sulla metà del corpo, forse si salverà. Ma ciò che vacilla dopo una storia di assoluta gratuità del male è anche l’immagine di questa solare e benigna provincia adriatica, di cui tanti di noi conservano almeno un ricordo: la città delle fila sterminate di ombrelloni sgargianti, dei gelati e dei pedalò, dell’estate generosa e accogliente. E, anche e non in contraddizione, la città di don Benzi, di una carità generosa come un abbraccio, senza sospetti, senza carte d’identità, senza diffidenze. Ci raggela, ma non ci meraviglia che in certe periferie metropolitane desolate dei branchi di sbandati possano sfogare contro un barbone un odio oscuro, come abbeverato da frustrazioni e solitudini dentro a quei palazzi sfatti e tristi. Ma a Rimini, che senza timori accoglie ogni anno folle di stranieri, e notti infinite di adolescenti irrequieti, a Rimini dove Benzi andava a cercare a uno a uno per strada i drogati e le prostitute, la cieca gratuità di un simile male colpisce di più – come la sassata inattesa di un vandalo. Porta echi, l’atrocità della Colonnella, di idee malate di una 'pulizia' sociale che liberi le strade da chi disturba, chi intralcia, chi sporca; echi di un feroce ordine che sopprima chi non è ben allineato al pubblico decoro. Individuando quasi, nell’emarginato, il capro espiatorio cui addossare la condanna per altre oscure, private e collettive rabbie. È un meccanismo sociale elementare, che si osserva anche nelle società più primitive non appena la vita si indurisce, e occorre trovare un colpevole.
Ma: che accada a Rimini, nella Romagna dalla cadenza dolce e pacata che accoglie pacificamente ogni estate una babele chiassosa e eterogenea, inquieta, come l’ombra di un deterioramento non immaginato. La voce del vescovo della città si è levata, a questa aggressione «contro un uomo indifeso e contro Dio stesso che abita in lui». Molti si sono raccolti in una veglia di preghiera, nelle parole dell’antica tradizione cristiana che proprio nell’ultimo riconosce, più profondamente impresso, il volto di Cristo. E ancora ci è venuto in mente don Benzi. Come nelle sere d’estate sul lungomare camminava, con i suoi ottant’anni e la tonaca lisa, del tutto a suo agio tra quella folla vociante che lo urtava distratta. C’era di tutto, nel vento tiepido del mare: comitive di tedeschi alticci, belle donne, ragazzi, vecchi vestiti da giovani, poveri vestiti da ricchi, travestiti, mamme, bambini, accattoni. Ci disse don Benzi una di quelle sere: «Qui in mezzo io sto proprio bene.
Faccio contemplazione. Cerco Cristo, nella faccia di tutti gli uomini che incontro». E fu come se in lui parlasse l’anima più splendida della città, l’anima cristiana, che riconosceva, nel brusio svagato di una notte di luglio, comunque l’uomo, e la sua radicale domanda. «Contro un uomo indifeso, e Dio stesso che abita in lui», ha detto il vescovo.
Certo il volto di Cristo era anche, stampato come un’orma, nella trama stanca di freddo e di solitudine di un inerme clochard addormentato.
Qualcuno non l’ha riconosciuta, nella eclisse totale della memoria del volto dell’uomo, e di Dio. Un istante di spaventosa cecità. Fiamme, ad ardere un povero cristo come si farebbe con un sacco di rifiuti. Fuoco, che si sprigiona in un bagliore sinistro, rigurgito di tenebre, fiato di odio dal sottosuolo. In quel clochard sbalordito che urlava, la attonita meraviglia dell’innocente sacrificato. In chi ha visto e saputo, il freddo addosso – come se qualcosa di molto grande l’altra notte a Rimini fosse stato oscurato.
Rifiutare le cure? Limiti e domande nero su bianco - di Andrea Galli – Avvenire, 13 novembre 2008
Il Comitato nazionale di bioetica ha reso noto sul proprio sito web il testo definitivo del suo parere su «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico» All’importante documento, non privo però di qualche aspetto discutibile, sono state aggiunte alcune postille firmate da autorevoli esperti del Cnb
E’ stato approvato lo scorso 24 ottobre, con venti voti favorevoli e tre astensioni (quelle di Adriano Bompiani, Francesco D’Agostino e Maria Luisa Di Pietro), ma è stato reso noto solo ieri. È il parere del Comitato nazionale di bioetica su «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente- medico», curato da Stefano Canestrari, Lorenzo D’Avack e Laura Palazzani. Un documento che non riguarda «pazienti incapaci di esprimere una scelta consapevole e giuridicamente rilevante (minori, malati di mente, pazienti in stato vegetativo persistente)», quindi non tocca il caso di Eluana Englaro. Riguarda invece il rifiuto previo o la rinuncia in corso d’opera di trattamenti sanitari salva-vita da parte di un paziente «cosciente e capace di intendere e di volere, adeguatamente informato sulle terapie ed in grado di manifestare in modo attuale la propria volontà». el parere – estremamente articolato, spesso giocato sul filo della semantica nel tentativo di trovare una convergenza all’interno di una «discussione fra le più controverse del dibattito bioetico attuale del nostro Paese», come scrive il presidente del Cnb Francesco Casavola – escludendo a la liceità di atti eutanasici, si afferma che il medico è comunque «destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei confronti del paziente, e deve sempre agire previo consenso di quest’ultimo ». Si ricorda d’altra parte che «il rifiuto consapevole del paziente al trattamento medico non iniziato, così come la rinuncia ad un trattamento già avviato, non possono mai essere acriticamente acquisiti, o passivamente 'registrati', da parte del medico». E che il cosiddetto caring da parte del medico deve far sì che «il rifiuto o la rinuncia del paziente a cure necessarie alla sua sopravvivenza rimanga un’ipotesi estrema».
Viene riaffermato il diritto all’obiezione di coscienza dello stesso medico, ossia il «diritto di astensione da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali» . Tuttavia – e qui è il punto critico del testo – viene anche affermato che «a larga maggioranza il Cnb ha ritenuto che il paziente abbia in ogni caso il diritto a ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta di interruzione della cura».
Al parere seguono dunque alcune postille redatte da membri del Cnb come aggiunte o come prese di di- stanza su punti specifici dal testo approvato. È il caso per esempio della postilla firmata da Antonio Da Re e Andrea Nicolussi (ma a cui hanno aderito anche Salvatore Amato e Marianna Gensabella), che denuncia il rischio di una «spersonalizzazione della medicina», di un «grave depotenziamento» della relazione fra medico e paziente, qualora la richiesta di quest’ultimo, di fronte a un medico in disaccordo, venisse automaticamente eseguita da altri. E, più in generale, qualora si voglia «assolutizzare la rilevanza della rinuncia ». Delle altre postille riportiamo di seguito brevi estratti, rinviando al testo completo del parere e delle sue integrazioni, reperibile su http://www.governo.it/bioetica/pareri.html