Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI e la Resurrezione di Cristo nella predicazione di Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
3) Un solo Corpo, un solo Spirito - ROMA, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a Oreste Pesare, Direttore dell’ICCRS, apparsa sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.
4) I Vescovi USA definiscono “storica” l'elezione di Obama - “Il nostro Paese affronta molte incertezze”, avvertono
5) Il Papa esorta Obama a costruire “un mondo di pace, solidarietà e giustizia” - Telegramma di auguri al nuovo Presidente degli Stati Uniti
6) 05/11/2008 13:19 - VATICANO – ISLAM - Musulmani convertiti al cristianesimo chiedono libertà religiosa agli esperti radunati in Vaticano - L’appello, firmato da 144 persone, domanda agli esperti del dialogo di non dimenticare la difficile situazione dei cristiani, trattati come “degli esclusi e come dei paria”. Fra le richieste più urgenti, la garanzia di libertà a cambiare religione.
7) Barack Obama Presidente: Il discorso della vittoria - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
8) Barack Obama è il Presidente degli Stati Uniti - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - "Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago
9) Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
10) Politiche coercitive in Brasile contro la donna e la vita - di Danilo Quinto – L’Osservatore Romano, 6 Novembre 2008
11) Il grido di un popolo che da dodici anni invoca la pace - Pubblichiamo la testimonianza - apparsa in rete sul quotidiano ilsussidiario.net - di un responsabile dell'Associazione volontari per lo sviluppo internazionale (Avsi) sulla drammatica situazione nella Repubblica Democratica del Congo. - di Edoardo Tagliani Responsabile dell'ong Avsi in Congo
12) USA/ Ecco perché ha vinto Obama - Roberto Fontolan - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
13) ISTRUZIONE/ Via i tagli alle scuole paritarie: il governo ha forse imboccato la strada giusta - Renato Farina - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
14) MASS MEDIA/ Il paese dell’incomunicabilità: giornali e tv di fronte alle rivolte studentesche - Alberto Contri - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
15) SCIENZA&FEDE/ 2. Evoluzione creatrice, l'atto eterno che genera il mondo - Piero Benvenuti - giovedì 6 novembre 2008 – IlSussidiario.net
16) Se fosse uno scacco ai tanti razzismi - DAVIDE RONDONI - – Avvenire, 6 novembre 2008
17) Su bioetica e famiglia incognite da chiarire - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 6 novembre 2008
18) Stop alle nozze gay, ma sì alle «embrionali» - referendum - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 6 novembre 2008
19) Per questi motivi, Eluana non può morire - di Viviana Daloiso – Avvenire, 6 novembre 2008
Benedetto XVI e la Resurrezione di Cristo nella predicazione di Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla Resurrezione di Cristo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
"Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture" (1 Cor 15,4) - così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L'intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.
E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l'importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra "ricevere" e "trasmettere". San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: "Sia io che loro così predichiamo" (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l'unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del "Dio con noi", quindi la realtà della vera vita.
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati "giustificati", cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell'annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: "Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti" (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell'evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione "Cristo è risorto" è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all'inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al "Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti" (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio "con potenza". Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: "Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra". Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l'intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell'intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo "morti con Cristo" e crediamo che "vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: "Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti" (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall'altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede "tocca" il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell'ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana e porgo a ciascuno un cordiale benvenuto. Con particolare affetto mi rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. La Chiesa ci invita in questi giorni a pregare per i nostri cari defunti e il loro ricordo ci invita a meditare sul mistero della morte e della vita eterna. Il pensiero della morte non sia per voi, cari giovani, motivo di tristezza, ma stimolo ad apprezzare e valorizzare appieno la vostra giovinezza, orientando sempre il vostro spirito ai valori spirituali che non periscono. Voi, cari ammalati, rinnovate costantemente la vostra fiducia nel Signore, sapendo che in ogni situazione siamo sempre nelle sue mani: Egli è per noi Padre buono e misericordioso. E voi, cari sposi novelli, traete dalla prospettiva della vita eterna un incoraggiamento a progettare la vostra famiglia lasciandovi guidare da Cristo e dal suo Vangelo.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
«Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto (storico e non semplicemente culturale) che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4): così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerigma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 novembre 2008].
Il fatto della risurrezione avvenuto nella storia con la tomba vuota e le reali apparizioni, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori, è la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana non riducibile certo ad una cultura, pur reale, e questo dall’inizio e fino alla fine dei tempi. E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. Certo accoglierlo pienamente, celebrarlo, viverlo e pensarlo diviene cultura ma non è riducibile, come è ogni rischio gnostico sempre in agguato, ad una realtà solo storicamente culturale. San Paolo attribuisce molta importanza anche alla formulazione letterale della tradizione, a monte del suo argomentare; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo cioè evangelizzeranno. La tradizione del fatto della risurrezione avvenuto nella storia a cui si collega è la fonte alla quale in continuità attingere. L’originalità del suo argomentare cioè della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui si esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa, un unico corpo di Cristo. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto storico anche culturalmente reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà storica del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita, del mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento, un nuovo orizzonte, la direzione decisiva e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza.
Questi due fatti sono importanti: la tomba vuota e il fatto avvenuto nella storia di Gesù che è apparso realmente
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque lontano da ogni rischio di riduzione gnostica, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale, come deve essere ogni catechesi: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per voi, ed è vivo, ecclesialmente incontrabile attraverso il dono del Suo Spirito, per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui. Emerge innanzitutto il fatto avvenuto nella storia della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda e che non può essere riducibile ad una cultura. Proprio in quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema della apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente, storicamente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi e non semplicemente come un fatto culturale. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone e non creatore della risurrezione. Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco addirittura per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dai morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
A due mila anni di distanza l’affermazione, l’annuncio, l’evangelizzazione continua “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile, è attuale anche per noi?
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di due mila anni? L’affermazione “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile per lasciarci assimilare a Lui, vivere in Lui e di Lui, è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per Paolo e per noi oggi un tema così determinante per una fede professata, celebrata, vissuta, pregata? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio… che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3 – 4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino a lasciarsi uccidere in croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) perché non poteva soccombere definitivamente alla morte e in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. E’ realizzato quanto dice il Salmo 2,8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione, poiché nella fase terrena era per i figli della casa di Israele, comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il regno di Cristo, questo nuovo regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima:Gesù è Dio! Dio con noi per tutti e per tutto! Per san Paolo, pur essendolo fin dal concepimento, la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela completamente nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio Padre, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (Rm 4,25).
Noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo
Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con Lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di Lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce cioè il Pensiero di Cristo non è una teoria – è la realtà della vita cristiana di ogni giorno. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione gene e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla, celebrarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia. In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (1 Cor 15.20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
Un solo Corpo, un solo Spirito - ROMA, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a Oreste Pesare, Direttore dell’ICCRS, apparsa sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.
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Siamo i primi a visitare la nuova sede dell’International Catholic Charismatic Renewal Services (ICCRS) a piazza San Calisto, nel cuore di Trastevere. Le tracce del trasloco sono ovunque: mobili accatastati, uffici ancora vuoti e in sottofondo il ronzio dell’aspirapolvere. Ma la piccola cappella dove tutti si riuniscono per cominciare ogni giornata di lavoro è avvolta da un luminoso silenzio. Oreste Pesare, il direttore esecutivo, ci accoglie con amichevole curiosità: come mai Paulus s’interessa al Rinnovamento? Bastano poche parole per entrare subito in un fitto e appassionato dialogo attorno a san Paolo, apostolo carismatico e primo teologo dello Spirito Santo. Prima però, qualche domanda di rito per introdurci alla particolare realtà del Rinnovamento. Che non ha “un” fondatore e neppure un “governo”. E che nei propri statuti non si definisce “ movimento ecclesiale”, ma “corrente di grazia”, che permette a singoli e a gruppi – accomunati dall’esperienza del battesimo nello Spirito Santo – di esprimersi secondo organizzazioni e attività spesso indipendenti le une dalle altre. Entra qui in gioco l’ICCRS: un servizio di coordinamento, comunicazione e comunione esercitato a diversi livelli, dalle diocesi alle nazioni.
Dottor Pesare, può tratteggiarci la storia dell’ICCRS?
«L’ICCRS era nato originariamente come ICO (International Communication Office) nel 1972 in Ann Harbor, nel Michigan. Nel 1978, con il coinvolgimento del cardinal Leon Joseph Suenens, è divenuto ICCRO (International Catholic Charismatic Renewal Office). Il 14 settembre 1993, poi, il Pontificio Consiglio per i Laici ha definitivamente dato il riconoscimento pontificio all’ICCRS (International Catholic Charismatic Renewal Services) come associazione privata di fedeli, approvandone gli statuti. In tutti questi anni, i servizi offerti dall’ICCRS sono stati la promozione e il sostegno all’esperienza carismatica, in qualità di ambasciatore e testimone del battesimo nello Spirito Santo nella vita della Chiesa. Da una parte abbiamo lavorato per un più profondo radicamento cattolico nell’esperienza carismatica, nata in ambito protestante. Dall’altra parte, abbiamo favorito una migliore comprensione della grazia del Rinnovamento all’interno delle istituzioni della Chiesa. Segni eloquenti sono stati due colloqui teologici internazionali da noi organizzati a Roma, entrambi in collaborazione con il Pontificio Consiglio per i Laici: il primo, sul ministero di guarigione nella Chiesa cattolica, nel 2001, e il secondo, incentrato sui carismi, la scorsa primavera».
Il Rinnovamento è il più ampio “movimento” cristiano ecumenico, con oltre 600 milioni di aderenti, di cui circa 120 milioni cattolici...
«Il cardinal Suenens, che è stato uno dei nostri padri istituzionali, diceva spesso: “O il Rinnovamento Carismatico sarà ecumenico o non sarà nulla”. Le nostre radici sono nel Pentecostalismo, sviluppatosi nella prima metà del XX secolo – e che a sua volta si ispirava alle Holiness Churches del XIX secolo –; una realtà che ha scosso a ondate tutto il mondo protestante e quello cattolico e che ora sta toccando anche il mondo ortodosso. È davvero un disegno dello Spirito Santo toccare con il suo soffio tutte le chiese, a partire dalle più disprezzate. Che esperienza ecumenica si fa, nel Rinnovamento? Quello che viviamo è un ecumenismo di base, molto pratico, fatto di preghiera e di stima reciproca. Vedere evangelici, ortodossi e cattolici che lodano insieme il Padre – pur sapendo bene quali sono le nostre divergenze teologiche – significa davvero sentirsi fratelli in Cristo e comprendere che è lo Spirito a chiamarci e spingerci all’unità, non il nostro sforzo. E questo rapporto continuo di amicizia ha portato anche a risultati “pubblici” molto concreti. Faccio un esempio. Nel 2006, a Los Angeles, si è celebrato il centenario della nascita del Movimento Pentecostale nella famosa “Azusa Street”. E in quella occasione, per la prima volta, anche il Rinnovamento Carismatico Cattolico è stato invitato come realtà pentecostale riconosciuta, nonostante che molti leader Pentecostali vedano ancora nella Chiesa di Roma la grande Babilonia, di cui si parla nell’Apocalisse. Questo riconoscimento pubblico da parte dei fratelli Pentecostali di ciò che lo Spirito Santo sta facendo nella Chiesa cattolica è da considerarsi un passaggio storico epocale. Credo che se ne vedranno i frutti in un prossimo futuro».
Nel Rinnovamento che posto occupa san Paolo, primo “teologo” dello Spirito Santo?
«San Paolo è il primo punto di riferimento teologico e pastorale riguardo l’esperienza che oggi facciamo di una vita nuova nello Spirito Santo, cioè di essere morti al mondo e risorti per Cristo. D’altra parte, fu proprio san Paolo a inventare il nome “Rinnovamento nello Spirito Santo”. Egli, infatti, scrive che Dio “ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo” (Tt 3,5s). Questa è l’intera base teologica della vita nello Spirito. L’esperienza del battesimo nello Spirito Santo è una riscoperta del dono di grazia ricevuto nel proprio battesimo che ogni cristiano è chiamato a fare. Come spiegarla? È qualcosa che ti fa venire voglia di pregare, che ti rende la lettura della Bibbia viva e personale, che ti fa sentire una familiarità con i sacramenti. Come ci racconta padre Raniero Cantalamessa: “Prima conoscevo tutto di Gesù, ma non conoscevo Gesù. Poi, con l’esperienza del battesimo nello Spirito Santo, tutto quello che conoscevo si è illuminato”. Quest’esperienza – a cui noi, oggi, diamo appunto il nome di “battesimo nello Spirito Santo” – appartiene da sempre alla Chiesa. Milioni di credenti e di santi l’hanno vissuta nei secoli. Dunque non si tratta di sentimentalismi né di utopie. Lo posso testimoniare io stesso in base alla mia esperienza personale: vengo dal mondo della droga e dell’alcolismo; mi sono convertito quando mi hanno arrestato... e oggi – dopo una forte e ormai più che ventennale esperienza nel Rinnovamento Carismatico Cattolico – sono sposato e con tre figli, impegnato a tempo pieno per il Regno di Dio. Mi sento veramente un uomo rinnovato e maturo: lo Spirito Santo ti cambia radicalmente la vita!».
San Paolo è testimone e protagonista di molti carismi. Parlare in lingue, profetare, operare guarigioni... sono doni dello Spirito reali ed efficaci, di cui abbiamo però una percezione lontana.
«Abbiamo già detto che la peculiarità del Rinnovamento è vivere una vita nuova nello Spirito Santo, ma questo significa immediatamente fare un’esperienza concreta dei carismi dello Spirito. Si parte quindi dalla testimonianza personale… il Rinnovamento cambia prima di tutto se stessi, non solo gli altri… non puoi essere annunciatore di qualcosa che non hai. Come Gesù, o san Paolo stesso, posso dire che noi del Rinnovamento non ci preoccupiamo particolarmente dello scetticismo del nostro tempo. La sola via per combattere lo scetticismo del mondo è la testimonianza della vita e poi l’annuncio. È sintomatico che tante persone restano impressionate e cominciano un cammino di conversione dopo aver partecipato a un solo incontro di preghiera carismatica o aver sperimentato un’esperienza profetica nella propria vita, proprio come spiega Paolo in 1Cor 14,24-25».
San Paolo, come mistico e come carismatico, cosa ricorda alla Chiesa?
«Che non c’è alcuna contrapposizione tra istituzione e carisma, ma assoluta e necessaria complementarietà. Come è stato affermato anche dal nostro amato papa Giovanni Paolo II nella Pentecoste del 1998, istituzione e carismi sono coessenziali alla vita della Chiesa. E l’apostolo Paolo ne è il primo testimone. Sempre in quell’occasione, il Papa parlò di una maturità ecclesiale che deve manifestarsi attraverso impegno e comunione. Un impegno vissuto con strumenti divini, diciamo noi; e una comunione che sia conforme alla teologia paolina del corpo di Cristo, che sta alla base di tutta l’esperienza carismatica. Anche Benedetto XVI ci raccomanda di diffondere la “cultura della Pentecoste”. E cosa significa questo? Che siamo chiamati ad aspettarci la stessa forza che ricevettero a Pentecoste gli apostoli spauriti e confusi; quella forza che li rese capaci di dare perfino la propria vita per Gesù.
Paolo ci ricorda inoltre che i carismi fanno parte anche oggi della Chiesa viva, come sono sempre stati fondamentali alla vita della Chiesa, fin dalle sue origini: essi non sono un’invenzione del Rinnovamento. Grazie a Dio ci sono tanti “carismatici” che non sanno nemmeno di esserlo o, pur sapendolo, non appartengono formalmente a un Movimento che oggi c’è e domani potrebbe anche non esserci più. Prendiamo ad esempio il carisma delle guarigioni: se dai Vangeli togliessimo le pagine che ci parlano delle guarigioni nel ministero di Gesù, ci resterebbe tra le mani solo una manciata di versetti! Bisogna prendere coscienza che i carismi sono strumenti che nascono dalla relazione con il Signore e con i quali Dio insegna al suo popolo».
La Prima lettera ai Corinzi è molto importante per voi e Paolo VI, nel 1975, ne trasse tre punti per il discernimento. Vediamoli insieme. Il primo è la fedeltà all’autentica dottrina della fede e l’invito all’unità (1Cor 1-3).
«Sin dall’inizio il Rinnovamento Carismatico è stato segnato da varie divisioni: tra comunità, gruppi, leader... Purtroppo capita ancora che qualcuno creda di aver trovato l’unico modo “giusto” di vivere i carismi e voglia in qualche modo imporlo ad altri: anche questo fa parte del volto della Chiesa, non c’è ragione di negarlo. Ma è mio forte convincimento che il Signore abbia suscitato il Rinnovamento per l’unità del suo corpo: è quello per cui Gesù ha pregato nella sua ultima ora. Unità che – ci tengo a precisarlo – non significa uniformità. Parlo di unità nella diversità, secondo la teologia paolina dei carismi (1Cor 12-14). Perché, sia chiaro, non si è carismatici solo se si parla in lingue o se si hanno altri doni, ma anche quando si comincia a rispettare ed amare le diversità all’interno del corpo di Cristo. Facciamo un esempio molto concreto preso da una metafora di Paolo: se, all’interno della Chiesa corpo di Cristo, uno è naso e l’altro piede, è naturale che non scocchi subito la simpatia reciproca... ma il naso non può permettersi di fare a meno del piede, sebbene questo non profumi! e il piede sa bene di poter essere sgradevole... come però può esserlo pure il naso! Eppure entrambi sono necessari. Allora, l’unico modo per vivere l’unità è proprio attraverso la carità, cioè la misericordia che accoglie il “diverso”, che spesso ci fa paura. Sappiamo bene quanto sia comune la diffidenza e lo sparlare gli uni degli altri, anche dentro la Chiesa, persino tra i movimenti laicali. L’ideale dell’unità nello Spirito, invece ti spinge a riconoscere la bellezza che c’è in ogni singolo membro della Chiesa, e che ognuno ha ricevuto un diverso e splendido dono “per l’utilità comune”. Ognuno deve essere contento della parte che fa e della parte che fanno gli altri, bandendo la gelosia, l’invidia, l’autosufficienza. Amo la Chiesa proprio perché è cattolica, cioè universale e aperta a tutti, così come amo tutti i suoi diversi riti liturgici! Il vero carismatico è colui che ama questo Corpo nella sua diversità e nella sua complementarietà: e questo non può avvenire se non attraverso il perdono, fonte della carità e della misericordia. Alla base di tutta la teologia di Paolo mi pare ci sia proprio questa esperienza del perdono, cioè dell’accoglienza dell’altro per la costruzione del corpo di Cristo. Ma questa forma d’amore non ce la possiamo dare da soli; infatti san Paolo ci ricorda che è dono dello Spirito: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Quindi più saremo colmi dello Spirito, più riusciremo a vivere l’unità a immagine della Trinità, perché il mondo creda che il Padre ha mandato il Figlio per la salvezza del mondo. Questa per me è la vera evangelizzazione!».
Paolo VI v’invitava poi all’accoglienza dei doni spirituali per il bene comune, cioè per la costruzione della Chiesa e della società (1Cor 12,1-27.14,1-40).
«Sì, come si diceva prima, viviamo il servizio, ma con strumenti spirituali soprannaturali, perché provengono da Colui senza il quale non possiamo fare nulla. A questo servono i carismi, a edificare un edificio spirituale di pietre vive, come ci ricordano san Pietro (1Pt 2,5) e san Paolo: “In lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22). I miracoli li possono fare tutti i figli di Dio, perché i carismi sono per tutti e non dipendono dalla nostra santità. Ecco perché puoi trovare delle persone profondamente carismatiche e capaci di portenti, ma che non sono amiche di Dio. A questo proposito il vangelo di Matteo avverte: “Molti mi diranno: Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti” (Mt 7,22s). Ci sono solo due alternative: o i carismi sono a servizio dell’amore di Dio, oppure diventano strumenti per arricchirsi – con i soldi, con il potere, con la vanagloria – e allora sei già perso».
Terzo criterio: il primato dell’amore, com’è detto nell’Inno alla carità (1Cor 13,1-13).
«La carità è il collante nell’esperienza del Rinnovamento. Anzi, guardando ai capitoli 12, 13 e 14 della prima lettera ai Corinzi, sembra che san Paolo abbia fatto un sandwich: due fette di pane – che sono i capitoli 12 e 14 sui carismi –, e una fetta di prosciutto, che è il capitolo 13 sulla carità. È la carità che esalta il sapore di tutto il resto! Ma la carità si concretizza poi nel servizio dei carismi: altrimenti Pietro e Paolo, allo storpio che stava presso la Porta Bella del tempio, avrebbero potuto offrire solo due stampelle, invece che la guarigione. Nell’universo del Rinnovamento ci sono tante comunità che non sono solo luoghi di preghiera, ma s’impegnano nel sociale. Ricordo ad esempio la comunità “El minuto de Dios” in Colombia, che ha migliaia di persone che lavorano nelle Favelas. Nella Corea del sud, la comunità “Kkottongnae” ha costruito un’intera cittadella che raccoglie i poveri e i malati, perfino con un cimitero per gli ultimi che muoiono per strada. Comunità come queste ricevono donazioni anche di milioni di dollari al mese. La forte realtà carismatica dell’Uganda, poi, si adopera contro l’Aids. Questi sono solo alcuni esempi per dire che non c’è alcuna contrapposizione tra carità e carismi: Dio ci dà, con il suo Spirito, la forza di amare e gli strumenti per farlo. Nella teologia di Paolo questo è evidente: egli ci mostra la completezza di un vero uomo spirituale».
Paolo Pegoraro
I Vescovi USA definiscono “storica” l'elezione di Obama - “Il nostro Paese affronta molte incertezze”, avvertono
WASHINGTON, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- In un messaggio di auguri a Barack Obama, i Vescovi cattolici degli Stati Uniti definiscono l'elezione a Presidente del Paese del primo afroamericano un momento “storico”.
“Il nostro Paese affronta molte incertezze”, riconoscono i presuli. “Preghiamo perché usi il potere che il suo ufficio le conferisce per affrontarle, con una preoccupazione speciale per la difesa dei più vulnerabili tra noi e per il superamento delle divisioni nel nostro Paese e nel nostro mondo”.
I Vescovi dichiarano al Presidente eletto la propria disponibilità “ a collaborare in difesa e a sostegno della vita e della dignità di ogni persona umana”.
Il messaggio dei presuli, datato 4 novembre, è firmato dal Cardinale Francis George, Arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti.
“Il popolo del nostro Paese le ha affidato una grande responsabilità – ricordano –. Come Vescovi cattolici, le offriamo le nostre preghiere perché Dio le dia forza e saggezza per far fronte alle sfide future”.
“Dio benedica lei e il vicepresidente eletto Biden ora che si preparano ad assumere le rispettive responsabilità al servizio del nostro Paese e dei suoi cittadini”, termina il testo.
Il Papa esorta Obama a costruire “un mondo di pace, solidarietà e giustizia” - Telegramma di auguri al nuovo Presidente degli Stati Uniti
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha inviato un messaggio di auguri al Presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, in cui lo esorta a “costruire un mondo di pace, solidarietà e giustizia”.
In un telegramma trasmesso attraverso l'ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, il Papa assicura a Obama le sue preghiere affinché Dio lo assista nelle sue “alte responsabilità al servizio della nazione e nella comunità internazionale”.
Possano le abbondanti benedizioni del Signore “sostenere lei e l'amato popolo americano nei vostri sforzi, insieme a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, per costruire un mondo di pace, solidarietà e giustizia”, auspica il Santo Padre.
Anche il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha indirizzato un telegramma di auguri al Presidente.
La notizia del messaggio è stata comunicata ai giornalisti da padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa vaticana, che ha commentato le sfide che affronta Obama come presidente numero 44 degli USA.
“Il compito del Presidente degli Stati Uniti è un compito di immensa e altissima responsabilità non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo, dato il peso che gli Stati Uniti hanno in tutti i campi sulla scena mondiale”, ha spiegato il portavoce vaticano.
“Perciò tutti auguriamo al nuovo Presidente Obama di poter rispondere alle attese e alle speranze che si rivolgono verso di lui, servendo efficacemente il diritto e la giustizia, e trovando le vie adatte per promuovere la pace nel mondo; favorendo la crescita e la dignità delle persone nel rispetto dei valori umani e spirituali essenziali”.
“I credenti pregano che Dio lo illumini e lo assista nella sua altissima responsabilità”, ha aggiunto.
Padre Lombardi ha spiegato che il Papa invierà un messaggio a Obama anche in occasione della sua presa di possesso, il 20 gennaio 2009.
05/11/2008 13:19 - VATICANO – ISLAM - Musulmani convertiti al cristianesimo chiedono libertà religiosa agli esperti radunati in Vaticano - L’appello, firmato da 144 persone, domanda agli esperti del dialogo di non dimenticare la difficile situazione dei cristiani, trattati come “degli esclusi e come dei paria”. Fra le richieste più urgenti, la garanzia di libertà a cambiare religione.
Roma (AsiaNews) – Un gruppo di 144 cristiani, di cui 77 musulmani convertiti al cristianesimo, ha lanciato un appello agli esperti islamici e cattolici radunati in Vaticano in questi giorni perché essi non dimentichino le minoranze cristiane e i neo-convertiti nei Paesi islamici. I firmatari dell’appello – cattolici, ortodossi e protestanti dell’Africa del Nord e del Medio Oriente – domandano che il dialogo che si svolge in Vaticano porti a questi risultati:
1) che la legge islamica non si applichi ai non musulmani;
2) che sia abolita la condizione di “dhimmi”, di cittadini di seconda classe;
3) che la libertà di cambiare religione sia riconosciuto come un diritto fondamentale.
L’appello ricevuto da AsiaNews è anche pubblicato sul sito www.notredamedekabylie.net , legato ai cristiani d’Algeria.
I firmatari “gioiscono” per i passi che si stanno svolgendo in questi anni e per la Lettera dei 138 saggi musulmani, da molti definita come una testimonianza che “l’Islam non è contro i cristiani”. Ma essi sottolineano che la condizione di minoranza dei cristiani nei Paesi islamici, “già marchiata dall’insopportabile stato di ‘dhimmi’ [lett.: gruppo protetto grazie al pagamento di una tassa al governo islamico, escluso dalla effettiva parità nella società], è aggravata dalla crescita dell’islamismo militante apparso negli ultimi tempi”.
“Quanto ai neo-cristiani, o convertiti – continua l’appello – essi non hanno alcun diritto di esprimere la loro nuova scelta religiosa, pena la condanna come apostate, al punto da essere costretti all’auto-esilio, se possono”.
I firmatari chiedono allora che il dialogo che si sta aprendo fra Vaticano e esperti islamici affronti “anzitutto tre temi urgenti :
1) la legge islamica non sia applicata ai non musulmani;
2) lo stato di dhimmi, che fa dei cristiani egli esclusi e dei paria, non è più accettabile e deve essere abolito, perché esso offende la dignità umana, proprio come la schiavitù;
3) la libertà di cambiare religione deve essere riconosciuto come un diritto fondamentale, un diritto che viene da Dio, il quale non obbliga nessuno ad adorarlo”.
Il testo ricorda che nel Corano vi sono versetti favorevoli alla libertà di religione, mentre alcune Hadith [detti del profeta] domandano la morte dell’apostata. “Purtroppo – spiega l’appello – alcuni Stati hanno posto queste frasi nella loro costituzione (ad es. La Mauritania), che essi applicano nonostante la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948”.
Riaffermando che questo dialogo islamo-cristiano è necessario, i firmatari suggeriscono agli esperti di “tener conto dei cristiani che vivono nel mondo detto ‘musulmano’, o da cui provengono. Metterci da parte, dimenticarci, sarebbe un segno di ignoranza, o una volontà manifesta di non voler affrontare le questioni che ci fanno problema. L’attualità, purtroppo non cessa di dimostrarlo: i cristiani nel mondo musulmano sono in grave pericolo”.
Barack Obama Presidente: Il discorso della vittoria - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
HELLO CHICAGO
Se c’è una persona che ancora dubita che in America sia tutto possibile, che ancora mette in discussione il potere della democrazia: bene questa stasera avete avuto la vostra risposta è la risposta a tutte le domande: per chi ha creduto che stavolta starebbe stato diverso.
È una risposta data dai poveri dai ricchi, dai giovani dagli anziani, dagli abili dai disabili: noi siamo gli Stati Uniti d’America
La storia ci ha portato a credere ancora a credere che un nuovo cambiamento ci sarebbe stato
Il senatore McCain ha combattuto per questo Paese: ha sofferto una serie di sacrifici che molti non sanno voglio congratularmi con lui per tutto ciò che è stato fatto e sono felice di lavorare ancora assieme a lui per servire il nostro Paese
Voglio ringraziare il nuovo vice Presidente degli Stati Uniti
Non sarei qui senza il mio migliore amico che mi sostiene da 16 anni; senza la roccia della mia famiglia che amo più di quello che loro possano immaginare
So che mi sta guardando; mi manca tutta la mia famiglia che non c’è più devo tutto a loro so che sono qui con me adesso
Non dimenticherò mai a chi appartiene questa vittoria: a tutti voi. Non avrei mai immaginato di essere il candidato di questa campagna: abbiamo cominciato per le strade con poche risorse, col contributo delle persone che hanno cominciato a donare 10 dollari e che son andati al di là degli sforzi passati negli anni precedenti. Tutte queste persone hanno dato sé stessi per questa campagna: devo tutto a voi e so che voi non lo avete fatto solo per vincere ma perché comprendete il grande compito che ci attende.
Le sfide che ci attendono domani sono le più importanti come la grossa crisi finanziaria che stiamo attraversando. Ebbene nuovi lavori, nuove scuole devono essere ancora da fare: è una strada in salita ma oggi vi prometto che noi come popolo ci riusciremo.
Ci saranno problemi, false partenze, persone che non crederanno: io sarò sempre sincero e vi ascolterò. Vi chiederò di contribuire mattone per mattone; passo dopo passo. Questa VITTORIA non è il cambiamento ma solamente la possibilità che ci viene offerta per operare questo cambiamento. Deve esserci un senso di responsabilità dove ognuno potrà contribuire per il bene di tutto. Noi siamo un popolo, una nazione: dobbiamo resistera alla tentazione di rimanere fermi
C’è un uomo che in questo paese ha portato la bandiera del partito repubblicano: siamo consapevoli di ciò che ha contribuito al nostro successo. Io devo guadagnare il voto di chi non mi ha votato: io vi ascolterò e sarò anche il vostro Presidente. A tutti coloro che ci osservano e che ci ascoltano in tutti gli angolo del mondo: il loro destino non sarà dimenticato noi lo vediamo. A coloro che vogliono distruggere questo mondo: noi vi distruggeremo. A chi si chiede se l’America stasera è sconfitta abbiamo dimostrato che la nostra vittoria non viene dalle armi ma dai nostri IDEALI.
Voglio raccontarvi la storia di una donna, Allison Cooper ha 106 anni, nata appena dopo la schiavitù, nata quando non poteva votare per il colore della sua pelle e perché donna: tutte le volte in cui le è stato detto NON SI Può FARE lei ha continuato a lottare. Lei ha creduto che si può.
Lei ha testimoniato la volontà di una generazione durante la guerra: ha continuato a credere che noi avremmo superato tutto questo. Lei quest’anno dopo 106 è riuscita a dare il suo voto.
Abbiamo visto così tanto ma c’è ancora così tanto da fare.
Se i miei figli fossero così fortunati da vivere 100 anni quali cambiamenti e quali progressi vedranno?
Noi abbiamo la possibilità di scrivere questi progressi e questi cambiamenti
GRAZIE che Dio vi benedica e che benedica gli Stati Uniti D’America”.
Barack Obama è il Presidente degli Stati Uniti - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - "Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago
La vittoria di Barack Obama, 47 anni, padre del Kenya e madre del Kansas, rappresenta una pietra miliare nella storia degli Stati Uniti, a 45 anni dal movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King.
"Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago.
Aveva iniziato la sua campagna elettorale che pareva una prova impossibile con lo slogan - I have a dream. Io ho un sogno, - l’ha terminata con - YES WE CAN! Sì possiamo! -
Per scaramanzia ha atteso la vittoria giocando a pallacanestro e dopo una vittoria schiacciante ha esordito nel suo discorso a Chicago dicendo: “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
Molti pensavano che nel segreto dell’urna il voto sarebbe andato al suo avversario.
Presto per dimenticare le leggi razziali e per non storcere il naso davanti a un uomo che di secondo nome fa Hussein, e invece eccolo OBAMA Presidente, primo presidente nero degli Stati Uniti.
Nel suo discorso dopo la vittoria ha ringraziato tutti, ma proprio tutti, i supporter, i volontari, i due grandi manager, David Plouffe, responsabile della campagna e della comunicazione, “che ha costruito la più grande macchina politica che gli Stati Uniti d’America abbiano mai visto”,e David Axelrod, stratega politico, che ha reso possibile questa storica insperata vittoria.
Fosse accaduto in Italia il vincitore avrebbe fatto finta di nulla, ringraziando gli elettori ma fingendo di non sapere che c’è anche una strategia, un lavoro fatto a tavolino che prevede che i consensi siano attirati da una parte o dall’altra.
E’ l’America bellezza!
Con i suoi tanti difetti ma con la sua fede nella democrazia, il Paese dove il vincitore ringrazia lo sconfitto e il suo vice e offre loro di collaborare per il bene del Paese e dove lo sconfitto John McCain dichiara ai suoi sostenitori: "L'America si è espressa in modo forte e chiaro".
Potete immaginare una cosa così in Italia? Lo sconfitto avrebbe di certo fatto gli auguri a denti stretti e lasciato intendere che in fondo lui non aveva perso, erano gli lettori che non avevano capito che lui era il migliore.
Il Paese dove terminando il uso discorso il 44° Presidente dice “GRAZIE che Dio vi benedica e che benedica gli Stati Uniti D’America “ a noi, “che Dio vi benedica” lo dice solo Gerry Scotti in chiusura della sua trasmissione televisiva “chi vuol esser milionario” e a noi sembra un eccentrico, uno che 'cerca grane'.
A colloquio con padre Marco Paini missionario nell'arcidiocesi di Belo Horizonte Politiche coercitive in Brasile contro la donna e la vita - di Danilo Quinto – L’Osservatore Romano, 6 Novembre 2008
Il mezzo di controllo della natalità più diffuso nel mondo è la sterilizzazione delle donne. Secondo stime del 1995 - di recente richiamate in un dossier dell'Agenzia Fides - le ultime a disposizione, centosessanta milioni di donne in età riproduttiva hanno fatto ricorso alla legatura delle tube; centotrentotto milioni di loro vivono in Paesi in via di sviluppo.
Se nei Paesi occidentali, il ricorso alla legatura delle tube come metodo anticoncezionale è minimo - anche se nel Regno Unito, ad esempio, stando ai dati del servizio sanitario, ogni anno circa quarantamila donne sceglierebbero la sterilizzazione, un dato che fa riflettere sul come viene considerata la sterilizzazione in quel Paese, una pratica volontaria anticoncezionale - in zone del mondo povere e ad alta densità demografica, la sterilizzazione è stata usata negli ultimi decenni come una pratica di massa e questo lascia ritenere che non sia stata una libera scelta da parte delle donne.
Incentivi, disinformazione e politiche coercitive hanno fatto la loro parte. E la fanno tuttora, in alcuni casi. Del Brasile - dove la cifra degli aborti clandestini è stimata tra gli ottocentomila e il milione - parliamo con padre Marco Paini, sacerdote missionario della Comunità missionaria di Villaregia.
Partito a ventitré anni per Belo Horizonte, padre Marco ha terminato gli studi di teologia in Brasile, dov'è stato ordinato diacono e ha iniziato il ministero sacerdotale. Dopo quattro anni è rientrato in Italia e dopo nove anni è ripartito per Belo Horizonte, dove è stato fino a oggi, in una Comunità che ormai ha 22 anni di vita. Dal 1998 ha lavorato più direttamente nella pastorale della missione di Betânia, che conta circa quarantamila abitanti e, negli ultimi tre anni, ha prestato servizio nella vicaria e nell'arcidiocesi di Belo Horizonte.
Padre Marco delinea i principali problemi che ha dovuto affrontare nella sua opera missionaria. "Credo fondamentalmente tre. Il primo riguarda il processo di inculturazione. Spesso possiamo rischiare di sottovalutare l'importanza di questo aspetto nella vita missionaria. Per me - sottolinea - ha significato farmi semplice e povero per accostarmi alla gente che incontravo come fratello e amico, con il desiderio di conoscere e di imparare, di rallegrarmi per ogni bellezza vista e di rispettare quello che non riuscivo a comprendere. Il secondo si riferisce alla sfida di un meccanismo ingiusto, in cui le persone non possono realizzare i propri sogni a causa delle precarie condizioni economiche. In questi anni, innumerevoli volte mi sono trovato nella situazione di non sapere come aiutare gente capace e animata da buona volontà, ma costretta a lottare ogni giorno per la propria sopravvivenza; giovani, papà e mamme, adulti, persone intelligenti e buone, desiderose di realizzare tanti progetti per loro importanti, ma che, ogni giorno, devono fare i conti con una povertà che schiaccia, che opprime, che impedisce di vivere con dignità. Per loro esiste solo la speranza, o, in casi peggiori, la rabbia e la rassegnazione". Il terzo problema si situa a livello religioso. Secondo padre Paini "la presenza in Brasile di tantissime denominazioni religiose, cristiane e non, lascia spesso le persone confuse e insicure, sempre alla ricerca di quella "chiesa" che può soddisfare maggiormente le proprie esigenze e necessità. È stata questa una difficoltà che ci ha spinto a cercare le modalità più autentiche di testimoniare la nostra fede, prima ancora di annunciarla e predicarla".
Padre Paini illustra l'attività del Centro di Amore alla Vita. "Il Centro di Amore alla Vita (Ceavi) è nato nella nostra missione di Betânia nel 1992. Davanti a un sistema sociale che incentiva una mentalità contro la vita con la propaganda dei metodi contraccettivi tradizionali, la pillola, la spirale, il diaframma (sono forniti gratuitamente presso i centri di salute statali), abbiamo tentato di individuare proposte alternative per sostenere e incoraggiare chi desidera fare scelte in favore del diritto alla vita. Il Centro - ricorda il missionario - ha orientato il proprio lavoro alla scelta e all'applicazione dei "metodi naturali", come via a una sana ed equilibrata pianificazione familiare, rispettosa delle leggi naturali e delle persone. L'applicazione di tali metodi richiede un profondo rispetto dei ritmi naturali ed è possibile solo a persone che, in nome dell'amore, sanno rinunciare alla ricerca egoistica del proprio piacere per cercare sinceramente il bene del proprio partner e l'armonia del rapporto a due".
Padre Marco parla anche dei problemi più rilevanti che vivono la donna e la famiglia in Brasile. "Per quanto riguarda il lavoro, si sta verificando in Brasile la "femminilizzazione della povertà": si tratta, in altri termini, di una disparità dei salari tra uomini e donne. In media, gli uomini ricevono uno stipendio del 42% superiore a quello delle donne. Inoltre, mentre essi occupano i posti di lavoro meglio retribuiti, le donne svolgono attività legate a servizi personali e sociali, con salari più bassi. Il tasso di disoccupazione è del 6,7% tra le donne e del 5,9% tra gli uomini. Sono meno, poi, le donne che vanno in pensione rispetto agli uomini che, quando raggiungono questo traguardo, ricevono uno stipendio maggiore. Negli ultimi anni, si è registrato, tuttavia, un maggior inserimento delle donne sia nel mondo del lavoro sia negli ambienti politici".
A riguardo della natalità e della condizione della donna "alcune politiche pubbliche del governo, dirette sia alle gestanti sia ai neonati, hanno portato - rileva padre Marco - alla diminuzione della mortalità infantile, ma i numeri sono ancora molto alti. Cinquemila donne muoiono dando alla luce un bambino, sebbene il 96% di esse potrebbe essere salvato attraverso interventi adeguati. Circa un milione di donne ricorre ogni anno all'aborto che, realizzato in condizioni poco sicure, è la quarta causa di mortalità delle donne in Brasile. Il 45% della popolazione brasiliana è composta da negri e mulatti; costituiscono il 69% dei poveri. Il 40,7% delle brasiliane negre o mulatte muore prima dei 50 anni. Su mille bambini, figli di madri bianche, trentasette muoiono; il numero sale a sessantadue in caso di figli di madri negre o mulatte. Oggi in Brasile ogni quindici secondi una donna viene picchiata".
Circa l'interruzione volontaria della gravidanza, padre Marco traccia una situazione inquietante.
"La pratica dell'aborto - evidenzia - è sempre più diffusa come sistema di controllo delle nascite. Trattandosi di una pratica illegale, non esistono statistiche ufficiali a riguardo. Comunque, è risaputo che la frequenza è altissima e le modalità tra le più svariate: dall'intervento fatto presso cliniche clandestine alla classica "pesada" (un calcio dato con violenza nel ventre della gestante) diffusissima negli ambienti di povertà estrema. Esiste una buona parte della società brasiliana schierata a favore della legalizzazione dell'aborto; tanti la ritengono necessaria, in particolare, in riferimento a una situazione molto triste, quella cioè della prostituzione infantile. Con tutta la crudeltà e la violenza che la accompagna, la prostituzione infantile assume in questo Paese dimensioni e caratteristiche terrificanti".
Ciò che rende il problema ancora più drammatico è il fatto che esso si sta espandendo a macchia d'olio dal nord al sud del Brasile.
"In Brasile siamo di fronte a un grande paradosso. Mentre si impongono tagli drastici alle spese per la sanità, mentre il ricovero in ospedale è un lusso di una élite, - rileva ancora padre Marco Paini - le poche risorse destinate al benessere del cittadino sono investite contro il diritto alla vita. Per una polmonite si può morire perché lo Stato non fornisce gli antibiotici agli indigenti, ma per controllare la fertilità e favorire la sterilizzazione non si bada a spese. Ovviamente si evita ogni informazione sugli effetti deleteri dei contraccettivi, della sterilizzazione stessa. La voce profetica della Chiesa in Brasile ripete a tutti, senza stancarsi, "Scegli, dunque, la vita!"".
(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)
Il grido di un popolo che da dodici anni invoca la pace - Pubblichiamo la testimonianza - apparsa in rete sul quotidiano ilsussidiario.net - di un responsabile dell'Associazione volontari per lo sviluppo internazionale (Avsi) sulla drammatica situazione nella Repubblica Democratica del Congo. - di Edoardo Tagliani Responsabile dell'ong Avsi in Congo - L'Osservatore Romano, 6 novembre 2008
Col fiato inchiodato, le orecchie tese e gli occhi piantati per terra, nella speranza d'intravedere che ne sarà della prossima notte.
L'anima della città è in bilico tra disperazioni e speranze. L'anima della città sanguina per gli omicidi, i saccheggi, i regolamenti di conti che dopo il tramonto terrorizzano i quartieri più poveri. Tra le baracche di legno e di latta costruite sulla lava del grande vulcano, la gente di Goma scambia ogni tuono per un mortaio. Gira e rigira, non dorme, ansima, aspetta. E al mattino, le occhiaie di Goma raccontano in breve la storia d'una guerra infinita. Gli sguardi rassegnati di chi in questa guerra ci vive, valgono un tomo di storiografia.
Sono le 14.30 di mercoledì 29 ottobre quando i telefoni squillano all'unisono. I ribelli sfondano il fronte della città. L'esercito regolare fugge. Le strade di Goma impazziscono, le serrande si abbassano e il pomeriggio, solitamente sonnolento, corre ai mille all'ora, caotico e disordinato, verso ovest, verso la salvezza. Interi quartieri si svuotano. Le famiglie si cercano, le auto sbandano, i militari urlano, i fucili sparano. Chi può, scappa. Chi non può, si rintana come una bestia.
Una bestia senza unghie né denti.
Siamo in ufficio. Chiedo allo staff internazionale di Avsi di evacuare in Rwanda, sperando che le frontiere siano ancora aperte. Se fossero chiuse, ci sono due punti di raccolta per il personale delle Ong. Ci si deve dirigere là. Carichiamo in auto un baule di latta pieno di documenti ufficiali che non devono essere persi o, peggio ancora, cadere in mani sbagliate. Smontiamo gli hard disk dei computer.
Lo staff parte. Per fortuna, la sbarra bianca e rossa che consente di uscire dal Paese è ancora alzata.
Resto con dipendenti locali. Alcuni vogliono tornare a casa e possono farlo, perché la strada verso le loro famiglie è libera. Altri vorrebbero, ma è tardi. Quindi rimangono. Ci sediamo sui gradini dell'ingresso e ascoltiamo le raffiche di mitra farsi sempre più vicine. Ladislas è un assistente sociale. Ha più di cinquant'anni e di guerra ne ha vista fin troppa. La sua casa è stata bruciata. Mira e rimira le punte delle scarpe. Poi fa una battuta e sghignazza: "C'est terribile". E ride e ride e ride. Perché in questa guerra infinita, o impari a ridere o muori.
Ernest è un logista Lo hanno già rapito e rapinato durante diverse missioni di servizio per Avsi. Non si stacca dal telefono. Le notizie peggiorano.
Muhindo è più giovane. Anche lui, proprio dieci giorni prima, se l'è vista brutta con un altro gruppo di ribelli che lo ha trattenuto per quarantotto ore in un villaggio con l'accusa di essere una spia. Muhindo sale in moto e fa un giro del quartiere, per vedere se scappare, pur rischiando, sia più sicuro di restare.
Diventa buio. Tutti cercano di tornare a casa. Io non posso. Cerco un hotel e spremo il Land Cruiser per arrivarci il più in fretta possibile. La notte è uno spettacolo gelido di traccianti nel cielo e di violenze per strada. Brucia, Goma.
Oggi, domenica 2 novembre, non siamo ancora riusciti a fare la conta esatta dei morti solo per quanto riguarda le famiglie dei nostri dipendenti. Figuriamoci gli altri.
I tre giorni passati tra l'inizio dell'ennesima crisi del Nord Kivu e il momento in cui scrivo queste righe, sono giorni senza storia. Giorni grigi. Una calma apparente regna tra i vicoli e le officine. Qualche negozio riapre, anche se i prezzi sono triplicati.
Goma cammina sulle sue strade guardinga e spaurita, persa nei ricordi dei massacri che furono e che potrebbero essere ancora. Goma singhiozza, piangendo i morti che nemmeno lei sa. Goma accoglie i disperati delle periferie. A decine di migliaia. E Goma non sa dove metterli. Anime in marcia perenne, in fuga perenne: sulla testa un fagotto con due pignatte e una coperta lisa, tutto ciò che resta, tutto ciò che forse servirà.
Domani, lunedì 3 novembre, sarà il compleanno di mia moglie. Camilla. Un nome da fata in una fiaba di guerra. Ho comprato per lei delle candele colorate, una rana gonfiabile e una tavoletta di cioccolata. Le uniche cose che sono riuscito a trovare in città.
Mentre pagavo il conto, mi sono chiesto come passerà questa notte.
Io, bianco privilegiato con un portafoglio zeppo di dollari e una grande auto per scappare, ho dato fondo ai beni di lusso reperibili a Goma.
Nei quartieri periferici, a fatica si trovano riso e fagioli. Il colera, invece, è in svendita. Tre per due.
Ascolteremo i risultati delle mediazioni internazionali. Ascolteremo il parere dei ministri degli esteri, dei consoli, degli ambasciatori, dei delegati.
Ascolteremo il cielo, per sentire se fa bum o se resta tranquillo.
Ma chi ascolterà il grido continuo e straziante di un popolo massacrato che da dodici anni non chiede eterna giustizia, ma soltanto pace?
Chi ascolterà le risate tristi di Ladislas, le telefonate di Ernest, i commenti di Muhindo?
Oggi, il Congo è carne da audience. Ma oggi non accade nulla di strano rispetto al passato. Questo è il dramma vero di un popolo. Non esistere in Tv. Oggi, dopo qualche servizio Tg e qualche velina d'agenzia, i fondi a disposizione per l'intervento umanitario sono duplicati.
Ma oggi (e questa è la cosa da comprendere) è solo un giorno come tanti degli ultimi dodici, terribili, paurosi, indicibili anni.
(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)
USA/ Ecco perché ha vinto Obama - Roberto Fontolan - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Alla fine, con mia grandissima sorpresa un caro amico newyorchese, ebreo e repubblicano da sempre (famiglia inclusa), ha votato Barack. Lo ha convinto il figlio adolescente con una martellante campagna durata un anno, che faceva leva soprattutto sulla debolezza del Grand Ol’ Party e sull’atroce delusione subita dal secondo mandato di Bush, al quale non sono bastati i cambi di governo e di portavoce: ciò che nel primo mandato appariva come determinazione, convinzione, capacità di reazione, solidità, nel secondo si rivelava più che altro come un effetto meccanico dovuto all’11 settembre e all’immensità tragica di quella giornata.
Dentro l’America profonda c’è una forza incalcolabile e quella era sgorgata “automaticamente” dalle sue viscere. La politica, la Casa Bianca, non sapendo elaborarla e governarla davvero, ha potuto solo indirizzarla da qualche parte. Con i risultati che sappiamo, dalla guerra contro l’Iraq (un finissimo ed espertissimo cardinale profetizzò in privato: «Gli americani prima o poi dovranno andarsene e così saranno riusciti a regalare all’Iran le chiavi di Baghdad») a Guantanamo, i cui prigionieri arancioni continuano a scavare dubbi nell’anima americana, molto più di quanto non si pensi.
Tra l’altro, se è vero che nell’agenda di Obama i foreign affairs non sono in cima all’agenda - lo dicono tutti gli espertissimi commentatori che dall’altra notte ci hanno alluvionato di parole televisive, qui modestamente ne siamo molto meno convinti - ma almeno sull’Afghanistan dovrà dire e fare qualcosa molto presto: la guerra diede subito un colpo tremendo ai talebani, ma nemmeno quella storia venne sistemata e oggi dalla stessa amministrazione americana (e non solo, purtroppo) affiora l’incredibile idea di negoziare con gli esponenti di un regime ancora più cupo di quello di Pol Pot.
Quella forza aveva espresso e sospinto anche un pensiero nuovo, o per lo meno innovativo, per il quale era stato coniato il nomignolo neo-con o anche teo-con. Fiducia nella democrazia e nella sua globalizzazione, esaltazione della religione nel discorso pubblico, riaffermazione della positività americana. Soprattutto nel passaggio tra primo e secondo mandato di Bush, un passaggio molto critico e vinto di poco, era stato raccontata al mondo questa nuova America, simboleggiata dal geniale stratega elettorale Karl Rove che aveva portato a votare “milioni di cristiani del Midwest”. Anche quello era un “cambiamento epocale”, basta con le culture del politicamente corretto, con il progressismo vuoto delle coste (est e ovest), si ricomincia seriamente a fare l’America.
Ma in poco tempo questo patrimonio, se mai c’è stato, è sfumato e dopo otto anni di governo i leggendari think tank repubblicani avranno parecchio da fare per iniettare idee nuove nel partito svuotato. È precisamente il vuoto involontariamente avvertito dal figlio adolescente dell’amico newyorchese: non credeva che la coppia McCain-Palin potesse riempirlo, il padre non ha saputo opporgli resistenza.
Ora c’è Obama e la cosa più interessante è uscita diretta dal cuore dell’ex rivale John McCain: «Ha incarnato da subito la speranza degli americani».
Speranza è una parola molto abusata nel linguaggio politico della campagna elettorale americana, da tutti i presidenti (per Clinton essere nato in un paesino di nome Hope era un vantaggio) e certo non è l’uso di questa parola a fare la differenza tra vittoria e sconfitta.
Ma McCain ha capito che il senatore afroamericano (e lo è in modo letterale e diretto) nato a Honolulu, allevato per qualche anno in Indonesia e laureato a Harvard, ha fatto di più: la speranza l’ha «incarnata da subito». Si è rivolto a quella forza incalcolabile e l’ha convinta rendendo visibile un ideale grandioso e semplice, un motivo per cui agire, una meta da raggiungere: l’America che sappiamo, che appartiene al nostro dna, che è stata costruita dal desiderio di non rinunciare al desiderio.
In fondo, in un anno e mezzo di campagna elettorale, primarie incluse, Obama non ha fatto altro che chiedere all’America di guardarsi allo specchio e rispondere alla domanda «che cosa vedi?». Vediamo l’America, gli hanno risposto, una speranza incarnata da subito.
ISTRUZIONE/ Via i tagli alle scuole paritarie: il governo ha forse imboccato la strada giusta - Renato Farina - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Parlando ieri alla Fiera di Rho, Berlusconi ha ammesso di essersi sbagliato e di non aver fatto caso al taglio previsto da Tremonti e Gelmini per le scuole non statali, soprattutto cattoliche, ed in particolare materne ed elementari. IlSussidiario.net, che ha ospitato numerosi interventi di proposta e di protesta in questa direzione, segnala con soddisfazione questa solenne dichiarazione. E ora siamo certi che, con la sua capacità nel trasferire le parole nel regno dei fatti, consentirà di recuperare i 133,4 milioni di euro sottratti alla libertà di educazione. La finanziaria inopinatamente consegnata ai lavori parlamentari – e giudicata fino a poco fa immodificabile – giace ancora in commissione bilancio, e conserva nella sua pancia questa rovinosa disposizione. Ma in quella medesima commissione c’è anche un ottimo emendamento firmato da Gabriele Toccafondi (Pdl), e sottoscritto da una bella pattuglia di deputati (Lupi, Vignali, Aprea, Pagano, Goisis, Rivolta, e altri tra cui il sottoscritto) decisa a vendere cara la pelle delle scuole nate dalla tradizione della nostra terra. L’emendamento citato consente il reintegro delle cifre. L’alternativa secca sarebbe, nel caso fosse respinto e non si trovassero altre uscite di sicurezza, la chiusura di molte di queste scuole, con un danno gravissimo all’anima e al corpo dell’Italia. Come si fa ad opporsi a scelte di chi proclama la triade Dio Patria e Famiglia e poi pugnala l’unica libera espressione delle famiglie portando via alle scuole libere il pochissimo ossigeno dello Stato?
Detto questo, ed elogiato Berlusconi (ma anche la Lega che ha sostenuto vigorosamente questa necessità di reintegrare i denari espropriati), diciamo che se non va bene l’emendamento Toccafondi si possono trovare risorse in altre pieghe del bilancio, purché si faccia. Alla fine, non ci stanchiamo di ripeterlo, sarebbe un risparmio formidabile anche per le casse dell’erario. In Italia la qualità dell’istruzione può migliorare solo se c’è la concorrenza di proposte educative grazie a cui si potrebbe ottimizzare il rapporto costo-benefici.
Resterebbe anche da regolare qualche conto con chi adesso, invece di compiacersi per la leale ammissione di Berlusconi e la sua volontà di rimediare, ne fa un pretesto per apparire il primo della classe. L’onorevole Savino Pezzotta dell’Unione di centro ha attaccato la maggioranza per il taglio, proprio quando Berlusconi proclama la necessità di sanare lo sbaglio. Peccato che non sia stato depositato alla Camera dei deputati ed in nessuna commissione anche un solo emendamento che giovi alle scuole cattoliche e comunque a quelle non statali. Né dell’Udc né del Partito democratico, il quale ultimo ora chiede la restituzione dei fondi alle paritarie, ma minaccia sfracelli se saranno decurtati da quelle cosiddette “pubbliche”. Non le chiama statali ma pubbliche, l’onorevole Bastico. Così confermando che l’idea di educazione di questa sinistra resta primariamente quella dello Stato che dispensa mentalità ed idee, e la società al massimo può proporre istituti che suppliscano temporaneamente alle carenze “pubbliche”. Se abbiamo capito male, ci scusiamo, e il Partito democratico sottoscriva l’emendamento Toccafondi e avrà dimostrato di credere davvero alla libertà.
MASS MEDIA/ Il paese dell’incomunicabilità: giornali e tv di fronte alle rivolte studentesche - Alberto Contri - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Chissà quanti di coloro che si accapigliano intorno alle problematiche della scuola a forza di slogan, invettive, artifici dialettici, hanno visto i film di Antonioni sull’incomunicabilità. Io me li ricordo bene, e mi manca parecchio lo sguardo perso di Monica Vitti, perso e triste per la mancanza di comunicazione. Gli sguardi che vedo oggi paiono invece persi per un eccesso di comunicazione, però sbagliata: sono quelli di persone eccitate, agitate, spesso spinte ad agire da motivazioni per nulla chiare. Mentre la pubblicità di una grande azienda telefonica ci ricorda che abbiamo in mano il potere di comunicare e ci invita a farlo, paradossalmente sembra che nessuno riesca più a comunicare nulla. Nulla di serio, perlomeno, o che valga la pena di essere realmente discusso.
Se si analizza la nascita della protesta studentesca strettamente in base al circolo vizioso mediatico che si è creato intorno a problemi virtuali, ci accorgiamo di essere arrivati ad un punto estremamente pericoloso: sembra quasi che i mass media non siano condotti da nessuna mano, né sapiente, né ideale, né ideologica, ma siano semplicemente mossi da impulsi automatici. Come se la loro principale ragion d’essere fosse la ricerca dell’audience. Sparuti gruppetti di studenti inscenano una protesta rumorosa? Ecco pronto un obiettivo che inquadrando la scena dal basso e da vicino farà sembrare enorme ciò che è piccolissimo: ma credo che questo obiettivo sia stato utilizzato in tal guisa non sempre per motivi ideologici, bensì per aiutare la notizia a fare più notizia, a ottenere più attenzione. La dimostrazione è che la stessa pratica è stata seguita da telegiornali di opposto orientamento politico. Dopo giorni e giorni di una simile escalation nella ricerca dell’immagine più provocatoria, la protesta è inevitabilmente montata all’inverosimile. E la strumentalizzazione politica ci ha messo il resto. Nel frattempo sono stati invece accusati di atteggiamento ideologico i giornalisti capaci di dimostrare che quasi nessuno sapeva esattamente per cosa era sceso in piazza.
Ma è davvero possibile che la situazione sia scappata di mano per questo banale meccanismo? Probabilmente la verità risiede nel fatto che questo riflesso condizionato correlato alla ricerca dell’audience ha fatto lievitare una pasta i cui ingredienti erano costituiti da una larga dose di ignoranza, malafede o di strumentalizzazione politica, ma anche da una serie di errori di comunicazione – nei modi e nei contenuti – da chi doveva far comprendere ai cittadini i provvedimenti sulla scuola. Ma oramai poco importa che siano scesi in piazza gli studenti universitari quando il motivo del contendere era la scuola elementare. Oramai l’agenda è scappata di mano, ed è stata scritta diversamente da come probabilmente al Governo ci si augurava.
Personalità non certo di sinistra come Zecchi e Alberoni invitano a riflettere sul fatto che, visto che l’argomento è giunto comunque alla ribalta, nell’università non si può semplicemente tagliare ovunque, ma occorre risparmiare dove si spreca e investire dove si merita. Parlando a lungo e in profondità con docenti e studenti seri di qualsiasi cultura politica, si scopre che tutti indistintamente ammettono le inefficienze del sistema scolastico italiano. Un sistema assai ben descritto da un articolo apparso il 30 ottobre su La Stampa, nel quale Luca Ricolfi denunciava l’esistenza di due patti scellerati, uno tra genitori e figli e uno tra docenti e allievi, tutti tacitamente d’accordo nell’accettare una scuola certamente egualitaria, ma nel senso di non far fare fatica a nessuno: docenti, allievi e genitori, con buona pace per il pessimo livello di sapere distribuito. Così appare chiaro che chi ora protesta, con tutta probabilità si sarebbe trovato assai spiazzato dalla comunicazione di tagli alle aree di inefficienza in cambio di investimenti nelle aree efficienti. Da trasmissioni dove in genere soprattutto si litiga, sono emersi brandelli di verità tutt’altro che insignificanti sui ricercatori che meriterebbero un trattamento migliore e sui corsi inutili che andrebbero eliminati. Con notevole coraggio civile Stefano Zecchi ha inviato a Il Giornale in busta chiusa i nomi dei vincitori dei prossimi concorsi universitari che sarebbero noti da tempo. Autorevoli clinici universitari romani si dicono disposti a fare altrettanto per i concorsi della capitale. Finalmente qualcosa si muove, e si comincia a ragionare su una delle principali cause del disastro, che però – non va dimenticato – porta alla luce un patto altrettanto scellerato tra baroni e politica. E anche al Governo ci si è resi conto che su questi temi occorre muoversi con maggiore cautela.
Ma oramai non è più un fatto di mera comunicazione: se la crisi convince tutti della necessità di dover tagliare gli sprechi, nessuno potrà opporsi se solo gli sprechi verranno aggrediti, e non si taglierà egualmente dappertutto, mettendo in difficoltà quel poco di eccellenza che ancora resiste, mantenendo in piedi un sistema incapace di produrre sapere di qualità, come dimostrano le classifiche internazionali. E c’è anche una grande opportunità per i mass media di farci riflettere sulla verità, senza pensare sempre e solo all’audience: Vaclav Havel diceva che non si può andare impunemente per troppo tempo contro la verità. Eppure – ahimè – in queste ore vedo ancora spuntare il solito obiettivo, impiegato sempre con la stessa finalità. Posizionato in basso, da vicino, per far sembrare affollata la sala di un congresso di un partitello dove c’erano pochissimi intervenuti, o per far sembrare piena una piazza che piena non era affatto. Uno dei miei maestri di comunicazione ci potrebbe tornare a fare una delle sue famose lezioni sulla “non obbiettività” dell’obiettivo. Ma fino a quando ci si può illudere di poter ancora lottare impunemente contro la verità?
SCIENZA&FEDE/ 2. Evoluzione creatrice, l'atto eterno che genera il mondo - Piero Benvenuti - giovedì 6 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Abbiamo fatti notare, nel precedente intervento, come, nonostante i notevoli progressi, soprattutto da parte esegetica, che avrebbero dovuto già rimuovere alla radice ogni possibile conflitto tra l’osservazione scientifica dell’evoluzione e il concetto di creazione, sussistano ancora due atteggiamenti, non conflittuali, ma precludenti un vero dialogo costruttivo. Li abbiamo definiti atteggiamenti di indipendenza e di concordismo.
L’indipendenza considera gli ambiti della ricerca scientifica e della ricerca teologico-esegetica come totalmente indipendenti e impenetrabili. È sicuramente un modo per evitare ogni possibile conflitto, in quanto entrambi gli ambiti conservano un'assoluta indipendenza, ma questa divisione in compartimenti stagni sminuisce di fatto il valore della ricerca in entrambi gli ambiti e appare una soluzione “pilatesca”: ricorderete che Pilato, evidentemente colpito dall’uomo che gli stava davanti, ebbe un lampo di illuminazione e chiese a se stesso: «Ti estin alètheia? – che cos’è la Verità?». Ma fu solo un attimo: subito dopo se ne lava le mani e ritorna alle sue occupazioni, rinunciando a ricercare una risposta.
Il concordismo tenta invece – disperatamente – di far conciliare il quadro emergente e continuamente evolvente del modello cosmologico, ivi inclusa l’evoluzione biologica, con il concetto di creazione. A questo tentativo si aggiunge a volte, spesso implicitamente, quello di “dimostrare” l’esistenza di Dio derivandola dai risultati della ricerca scientifica. Gli esempi più noti sono quelli di far coincidere il Fiat lux con il Big-Bang, di confondere il nulla (ex nihilo) con il vuoto quantistico, la creazione in sette giorni con le fasi dell’evoluzione cosmica. Questo atteggiamento, purtroppo persistente, è profondamente sbagliato, principalmente perché il concetto di Dio è incommensurabile a qualunque processo di derivazione scientifica. È il presupposto irrevocabile a tutta l’esistenza e non un caso specifico derivabile. Il pericolo insito in questo atteggiamento, già sperimentato più volte, è quello di trasformare Dio in un “Deus ex machina”, in un “Dio tappabuchi” che viene chiamato in causa per colmare le lacune della nostra conoscenza, lacune che, successivamente colmate dal progredire della conoscenza, spostano inesorabilmente l’intervento divino verso nuove nostre ignoranze.
Io credo comunque che, al di là delle forme anche banali di concordismo, che possono essere facilmente confutate, il pericolo più grande sia quello di cercare di inserire il concetto di creazione in un contesto temporale. È comprensibile che questo avvenga: in fondo tutta la nostra vita si svolge nel tempo ed è l’unico contesto che la nostra esperienza biologica conosce. Per uscire da questa insidia naturale, dobbiamo riflettere profondamente sul significato di “eternità”, simbolizzato mirabilmente dai nostri padri nell’espressione in secula seculorum.
Quello che io considero la grande novità del pensiero scientifico moderno in relazione alla riflessione appena richiamata e che pone le basi per un dialogo finalmente fruttuoso tra scienza e fede, tra evoluzione e creazione, è il nuovo concetto dello spazio-tempo, proveniente dalla scienza, dalla fisica, dalla teoria della relatività.
Ritorniamo per un attimo al modello standard di evoluzione del Cosmo: questa non si svolge all’interno di uno spazio e di un tempo assoluti, di entità aliene ed impassibili al Cosmo. Spazio e tempo sono componenti integrali del Cosmo stesso: come aveva mirabilmente intuito Sant’Agostino, il tempo ha senso solo all’interno del Cosmo, non è pre-esistente (in senso ontologico) al Cosmo.
È bene sottolineare come questa conseguenza derivi dall’esperienza scientifica del mondo, non da un ragionamento astratto. È quindi ragionevole, non irrazionale, pensare all’esistenza di entità che si collocano “al di fuori” della gabbia spazio-temporale. Un'esistenza fuori dal tempo e dallo spazio fisico, anche se non dimostrabile, è razionalmente e scientificamente plausibile. Oggi, 400 anni dopo Galileo, possiamo nuovamente ardire di “tentar l’essenza”. Dobbiamo però accettare di allargare gli orizzonti della nostra razionalità e non limitarci, o meglio lasciarci abbagliare, dalla pura e sola conoscenza scientifica.
La Creazione stessa quindi, come ha illustrato in forma accessibile e chiarissima il Cardinal Ratzinger in una serie di omelie quaresimali tenute anni fa nel Duomo di Monaco di Baviera, va intesa come un concetto, non come un evento storico. È chiaro che in questa prospettiva viene rimosso alla radice ogni possibile conflitto tra il progredire “temporale” della ricerca scientifica, che interpreta e colloca razionalmente i fenomeni nello spazio e nel tempo, e la conoscenza a-temporale, l’uscita verticale della persona umana dal tunnel orizzontale dello spazio-tempo verso l’Essere, verso i secula seculorum.
Possiamo nuovamente rileggere il Prologo di Giovanni e meditare come il Logos che era presso Dio – kai Theòs en o Logos – e il Logos era Dio, e per mezzo di lui ogni cosa è stata fatta, kai o Logos Sarx eghèneto – e il Logos si fece carne e pose la sua tenda tra noi: significa che l’immanenza di Dio nel Creato, la creatio continua, è la razionalità che riconosciamo nel Cosmo.
Questa impostazione pone finalmente le basi per un dialogo vero e ricco di frutti tra scienza e fede. La ricerca scientifica può procedere libera, ovviamente nel rispetto della persona umana, ma senza temere di dare “scandalo”, in senso etimologico, alla fede e alla teologia. E la teologia, in comunione e non in opposizione con l’esegesi (proprio ieri all’inaugurazione del Sinodo c’è stato un forte richiamo ai teologi e agli esegeti perché lavorino in sinergia e non in contrapposizione) è fortemente stimolata dai risultati scientifici a ripensare e riscoprire l’ispirazione originale nella Sacra Scrittura e nei Dogmi.
Ci sono molti problemi aperti, connessi al concetto di Creazione, ovvero al pensare l’Uomo come essere creato, che, dall’evidenza scientifica dell’evoluzione, richiedono urgentemente una rivisitazione: penso al significato del Peccato Originale – che non a caso Ratzinger tratta nelle sue omelie unitamente alla Creazione - penso alla natura dell’Anima umana e del suo destino: senza sposare acriticamente le tesi di Vito Mancuso, il fatto che il suo libro dallo stesso titolo, si sia trasformato in un best-seller indica chiaramente il desiderio dell’uomo d’oggi di interrogarsi e di indagare sul proprio destino, usando per intero la propria capacità razionale.
Come procedere oltre? Non vedo altra possibilità che il dialogo.
Scrive Sergio Rondinara, ingegnere nucleare, filosofo e teologo: “La capacità di affrontare un autentico dialogo non è affatto scontata, non bastano la buona volontà e le necessarie competenze, ci vuole anche il coraggio di un certo spogliamento di sé sul piano intellettuale affinché il contributo dell’altro e l’autentica offerta del proprio “dono di scienza” siano fattivi e stimolatori di una comune crescita nella sapienza”.
Per ritrovare le radici di questa sapienza, vorrei concludere con la parole di un grande filosofo dell’antichità, Platone, che in tempi non sospetti scriveva, riguardo la possibilità di conoscere la Verità: dopo un lungo essere insieme in dialogo su questi temi, dopo una comunanza di vita, la conoscenza della Verità, improvvisamente, come luce che si accende allo scoccare di una scintilla, nasce nell’anima e da se stessa si alimenta - Platone, Lettera VII.
Concludiamo quindi questa riflessione con l’augurio che il dialogo prevalga, nell’attesa dello scoccare della scintilla della vera conoscenza.
Se fosse uno scacco ai tanti razzismi - DAVIDE RONDONI - – Avvenire, 6 novembre 2008
Saremo meno razzisti ora ? La vittoria di Obama sarà anche una vera sconfitta per il razzismo ? E si capirà meglio cosa c’è dietro questo termine contro il quale, spesso solo a parole, tutti sono pronti a schierarsi? Un presidente nero. C’è chi dice che in realtà l’America era già pronta da un pezzo, tanto è vero che pare non siano stati determinanti i voti degli afro- americani. Ma il fatto resta di notevole portata e gli aggettivi si sono sprecati. Ora la presenza sulla scena mondiale di un così potente uomo di pelle nera è un monito ineludibile. Il colore della pelle, e altri motivi di ordine religioso, etnico, culturale sono all’origine di tanti gesti di razzismo. Ci sono fatti gravissimi nel mondo, come in India, o atteggiamenti spesso ambigui o strane insofferenze anche dalle nostre parti. Tante battaglie tribali, o tante rivendicazioni nazionalistiche spesso poggiano su modi di vedere razzisti. Che l’uomo più potente del mondo sia un nero, ora, non è solo la dimostrazione dell’infondatezza di ogni razzismo, ma anche un invito a guardare meglio cosa è questo fenomeno. Spesso, infatti, è stato semplice allinearsi tutti contro gesti di sapore razzista.
Addirittura in un’occasione il campionato di calcio italiano ( una delle massime e intangibili istituzioni mondiali, quasi come la Casa Bianca) fu sospeso a causa di espressioni razziste rivolte a un giocatore. Una piaga, dunque, che appare nella nostra epoca il nemico contro cui tutti e, per così dire, facilmente si schierano.
Come se nel razzismo si fosse trovata una nuova versione di ' male assoluto'. Però si tratta di vedere bene come mai certi razzismi sono più condannati di altri. La presenza di Obama deve invitare tutti a battersi contro ogni gesto di questo tipo, qualunque ne sia il motivo. Senza ipocrisie. Ora che il politico più potente del mondo appartiene a un tipo d’uomo che non molto tempo fa, e proprio nel suo paese, era oggetto di atteggiamenti e leggi discriminatori, si tratta di lottare perché dovunque nel mondo ogni genere di razzismo sia condannato. Perché ancora oggi il fronte in apparenza compatto del ' no' a volte si incrina... C’è una specie di razzismo, ad esempio, nel pensare che una persona valga solo se in possesso di tutte le sue facoltà. È razzismo anche quello di chi non riconosce più valore a uomini che vivono in condizioni estreme di dipendenza dalle cure. È razzismo quello di chi non sopporta un figlio malformato. C’è un razzismo strisciante ma pervasivo nell’idea che un uomo o una donna valgano solo in quanto ben riusciti. C’è un razzismo meno visibile ma altrettanto velenoso nella considerazione di essere sempre i ' migliori', in politica come in cultura o in altre attività umane. Ci può essere addirittura un insopportabile razzismo ' etico': di chi si sente superiore per motivi morali. Insomma, il razzismo è tante cose e purtroppo è spesso presente. E ora che un nero, simbolo secolare di uno dei peggiori razzismi subiti nella storia, sale i gradini della casa più potente del mondo, abbiamo l’occasione di ritenere chiusa un’epoca ma non chiuso il problema. La sorte, fortunata e meritata, di Mr. Obama ci inviti a pensare al razzismo uscendo da facili slogan. E a combatterlo davvero, ovunque mostri il suo muso idiota, multiplo e feroce.
La sorte, fortunata e meritata, di Mr. Obama ci inviti a combattere davvero il pregiudizio
Su bioetica e famiglia incognite da chiarire - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 6 novembre 2008
C ambiamento, novità, svolta: la presidenza di Barack Obama inizia sotto auspici mediatici e politici che difficilmente si potrebbero immaginare più incoraggianti per il neoeletto ma che, allo stesso tempo, suonano densi di rimandi a doveri proporzionali al diffuso ottimismo. Sulle spalle del 44° inquilino della Casa Bianca gravano infatti attese che valicano ampiamente i confini americani, ben espresse ieri mattina dal direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi quando ha ricordato che «il compito del presidente degli Stati Uniti è di immensa e altissima responsabilità non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo». Un augurio, certo, ma anche un garbato promemoria: ogni passo calcato a Washington risuona per tutti, specie se a compierlo è un uomo al quale viene assegnato un credito di fiducia tanto vasto.
L’agenda del nuovo leader americano è irta di grandi temi, dalle aree dove la pace è sotto scacco alla crisi finanziaria globale. Parti integranti di questi nodi epocali sono diventate ormai le questioni connesse alla vita e alla morte, alla famiglia e al matrimonio, alla natura umana e alla dignità della persona, che interrogano in modo sempre più stringente Parlamenti e opinioni pubbliche. Americani in testa. Lo dimostrano i molti referendum – tra i 153 proposti in 39 Stati, insieme al voto presidenziale – dedicati a questioni etiche e familiari, chiusi con un esito altalenante e spesso al termine di un testa a testa: bocciati i quesiti che miravano a limitare il ricorso all’aborto, via libera al suicidio assistito (nello Stato di Washington), no alle nozze tra persone dello stesso sesso, sì alla ricerca sugli embrioni (nel Michigan). Nel sistema federale americano ogni Stato legifera per proprio conto, e le singole scelte hanno dunque un rilievo locale. È però indubbio che l’eco di una decisione presa dal presidente e dal Congresso nel campo della bioetica o della famiglia ha ormai un’immediata risonanza ben al di là dell’America. E in questo clima di attento interesse per vedere all’opera il nuovo leader è facile immaginare il risalto di ogni sua scelta su questioni di rilievo antropologico, con ipotizzabili ricadute anche nel dibattito sempre febbrile di casa nostra.
Va detto che le idee espresse in materia da Obama in una interminabile campagna elettorale offrono più di un motivo di perplessità. È certo opportuno aspettare i passi ufficiali del nuovo presidente: sfidando dapprima Hillary Clinton e poi John McCain, il candidato afro-americano non ha risparmiato argomenti retorici per blandire ora l’una ora l’altra componente del suo elettorato. Ma ci sono temi sui quali molti suoi supporter – americani e non solo – scalpitano per toccare con mano la 'svolta', il 'cambiamento', ovvero la coerenza con gli annunci spesi tra comizi e interviste. A cominciare dalla cancellazione della 'dottrina Bush' sulle staminali, cioè il fermo divieto introdotto dal presidente repubblicano all’erogazione di fondi federali per la ricerca su embrioni umani. Un punto sul quale il leader uscente si è speso fino a opporre ben due volte il proprio veto su leggi già approvate dal Parlamento. Un approccio altrettanto 'liberal' è immaginabile anche sul fronte dell’aborto, tema nel quale Obama ha affermato di pensare a una legge sulla «libera scelta» che escluda ogni limitazione nei tempi e nelle motivazioni per poter ricorrere all’interruzione di gravidanza. Al capo opposto della vita, il candidato democratico ha dichiarato poi di considerare uno errore politico il proprio voto a favore della mozione con la quale nel marzo 2005 il Senato americano tentò di salvare Terri Schiavo dalla morte per fame e sete. E se si è detto personalmente contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso – fiutando l’aria poi confermata martedì in tre diversi referendum locali – ha incluso tra le discriminazioni da abbattere proprio quelle basate sugli orientamenti sessuali pronunciandosi per la difesa della libertà di scelta e lasciando intendere, anche solo a scopo elettorale, di non escludere nulla a priori.
Concetti che fanno parte di un programma forzatamente generico, parole spese per chiamare voti, insieme a molte altre in linea con la genuina tradizione americana, incluse ripetute ed esplicite evocazioni religiose.
Attendere Barack Obama all’esame dei fatti è quindi un dovere. Ma farlo con la consapevolezza delle idee di cui viene accreditato dai molti euforici obamiani di queste ore è indispensabile.
Stop alle nozze gay, ma sì alle «embrionali» - referendum - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 6 novembre 2008
L’ America del democratico Barack Obama difende la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna e boccia il matrimonio gay. Perfino la California, dove quest’anno la Corte suprema statale aveva ammesso l’unione tra omosessuali, dice il suo «no» a tale scelta. Lo stesso Obama, durante la campagna elettorale, si era schierato proprio su quest’ultima posizione. È questo il messaggio più significativo che emerge dai 153 referendum tenutisi in 36 Stati collegati alle elezioni presidenziali. È da notare che tali decisioni etiche dell’elettorato americano sono state bipartisan, cioè approvate sia nella Florida che ha cambiato bandiera, votando Obama mentre in passato era un feudo repubblicano, sia nell’Arizona rimasta repubblicana. Non solo: anche uno Stato significativo come l’Arkansas – dove l’ex presidente democratico Clinton fu governatore –, ora conquistato da McCain, ha visto una notevole tenuta morale: qui un referendum popolare ha vietato l’adozione di bambini alle persone omosessuali. I vescovi americani avevano posto la «chiamata alla famiglia» come uno dei punti qualificanti per la scelta del voto da parte di un cattolico. I presuli statunitensi hanno salutato la «storica» vittoria del senatore di Chicago chiedendo al nuovo presidente un forte impegno a difesa della vita e dei poveri: «Siamo pronti a collaborare con lei per la difesa e l’appoggio alla vita e alla dignità di tutte le persone» ha affermato il presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francis George, il quale ha esortato Obama a «superare le divisioni nel nostro Paese e nel mondo». Non hanno avuto esito positivo invece i referendum che chiedevano misure più strette sul fronte dell’interruzione di gravidanza. In California la Proposition 4, il premesso dei genitori per una ragazza minorenne che chiedeva l’aborto, è stata bocciata. Ma di misura: hanno votato per tale proposta il 48% dei 17 milioni votanti. Dopo l’insuccesso del 2006, anche quest’anno il Sud Dakota ha visto naufragare una proposta che restringeva la concessione legale dell’aborto solo ai casi di stupro o incesto. È però da rilevare che per il «no» ha votato il 55% degli elettori, mentre il 45%, quindi una fetta notevole dell’elettorato di questo Stato, chiedeva misure più forti per contrastare l’interruzione di gravidanza. Anche in Colorado, dove veniva proposto un emendamento per dichiarare l’embrione «persona umana», non ha ricevuto l’ok del voto. Dopo l’Oregon, un secondo Stato americano ammette il suicidio medicalmente assistito per i malati terminali: nello Stato di Washington è stato approvato la Preposition I-1000 che prevede la legalizzazione dell’eutanasia su richiesta per i malati che hanno meno di 6 mesi di aspettativa di vita. La liberal California ha detto inoltre forte e chiaro il suo no alla depenalizzazione della prostituzione, ipotesi messa ai voti sotto la formula della «Proposta K». Sul fronte bioetico nuovo ”scivolone” sulle staminali: il Michigan ha approvato l’uso a scopo di ricerca degli embrioni soprannumerari derivati da procedimenti di fertilità, procedimento scientifico che, come noto, ne implica la distruzione: in questo caso il voto è stato ristretto, 52% contro il 48%. Finora tale prassi non era permessa in Michigan. Ci sono stati infine due pronunciamenti “permissivi” in tema di sostanze stupefacenti: sono stati infatti approvate le consultazioni popolari in Michigan e Massachussetts sul fronte, nel primo caso, del permesso di utilizzare la marijuana per scopi sanitari, mentre nello Stato di Boston ha ricevuto il via libera la proposta di depenalizzare il possesso personale della droga fino a 28 grammi: tale possesso passa da reato penale a sanzione puramente amministrativa.
Per questi motivi, Eluana non può morire - di Viviana Daloiso – Avvenire, 6 novembre 2008
INSINTESI
1La Cassazione è chiamata a decidere sul destino di Eluana, tenendo conto delle due obiezioni della Procura di Milano.
2Se il suo stato sia irreversibile e se la sua volontà fosse quella di morire.
Martedì prossimo la Corte di Cassazione dirà quella che potrebbe essere l’ultima parola sulla travagliata vicenda di Eluana Englaro. In quella data, a sezioni unite, i giudici decideranno se accettare o meno il ricorso presentato dalla Procura di Milano, secondo cui la sentenza che ha autorizzato il distacco del sondino che nutre e idrata la giovane lecchese non avrebbe chiarito due questioni fondamentali: primo, se lo stato vegetativo di Eluana sia davvero irreversibile; secondo, se le volontà della ragazza fossero davvero quelle accertate nel corso del processo. Due condizioni stabilite come imprescindibili dalla stessa Cassazione, il 16 ottobre del 2007. E a cui si aggiungono altri importanti argomenti, emersi nel corso del dibattito degli ultimi mesi, che qui vogliamo riepilogare.
Eluana non è «un vegetale»
Della triste storia di Eluana Englaro sappiamo tutto: l’incidente, la disperazione della famiglia, le battaglie giuridiche e mediatiche del padre. Eppure conosciamo poco della sua condizione.
Sappiamo che è in stato vegetativo da 16 anni, per esempio, eppure in pochi hanno spiegato che questa situazione non è uguale al coma: Eluana, cioè, «presenta un regolare ciclo sonno-veglia, respira autonomamente, non è attaccata a nessun macchinario» ( Matilde Leonardi, responsabile Neurologia alla Fondazione Irccs Carlo Besta di Milano, «Avvenire» 11 settembre). Insomma, non ci sono 'spine' da staccare. Sappiamo che è alimentata e idratata attraverso un sondino naso-gastrico, accudita e curata esemplarmente, ma queste azioni non sono assimilabili a 'trattamenti terapeutici', né tanto meno ad accanimento: «Acqua e cibo sono i supporti basilari forniti a ogni paziente, ai disabili, ai malati di Parkinson, Sla e Alzheimer in fase avanzata, o ai neonati se incapaci di nutrirsi spontaneamente» ( Giuliano Dolce, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone, 12 luglio). Sono necessari al suo sostentamento, non alla sua guarigione.
Sappiamo che una sentenza ha decretato che le venga tolto quel sondino, che possa essere 'lasciata morire', eppure nessuno aggiunge che la morte per fame e per sete può essere preceduta da una lunga agonia (anche più di 15 giorni), proprio come accadde a Terri Schiavo.
Eluana non è «irreversibile»
Lo stato vegetativo non è una malattia terminale e i pazienti in questa condizione, come Eluana, «sono vivi a tutti gli effetti, il loro cervello produce ormoni, fa pulsare il cuore» ( Mario Guidotti, ospedale Valduce di Como, 25 luglio). Non a caso la stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano raccomanda che Eluana, una volta tolto il sondino, sia sedata e che le vengano tenute bagnate le mucose, affinché non soffra. Lo stato vegetativo è invece una forma di disabilità estrema, in cui sussiste un difetto di coscienza: «Non è una malattia che porta a morte. In questi casi interrompere l’alimentazione non ha alcun fondamento medico» ( Rodolfo Proietti, docente di Anestesia e rianimazione all’Università Cattolica di Roma, 20 luglio). Inoltre lo stato vegetativo non può mai essere definito irreversibile, o permanente: lo ha stabilito la conferenza di Londra del 1996, quando neurologi e ricercatori di tutto il mondo si confrontarono su questa patologia, i cui decorsi possibili sono ancora sconosciuti (oggi oltre il 50% dei pazienti in questo stato riacquistano, anche dopo anni, un margine seppur minimo di coscienza). E lo hanno confermato gli studi più recenti: «Attraverso la risonanza magnetica funzionale ci siamo resi conto che, alla richiesta di compiere mentalmente delle azioni elementari, le aree cerebrali che si attivano nei pazienti in stato vegetativo e nei soggetti sani sono esattamente le stesse. Un fatto fondamentale per due ragioni: il paziente in stato vegetativo dimostra di essere cosciente (e questo non era mai stato provato prima) e, ciò che è sbalorditivo, di comprendere il senso delle parole che gli vengono rivolte, addirittura di conservare una memoria delle azioni che erano normali nel suo passato» ( Adrian Owen, responsabile dell’Unità neurologica dell’Università di Cambridge, 3 agosto).
Chi la lascerà morire?
Il decreto della Corte d’Appello di Milano presenta almeno tre aspetti problematici su cui è bene tornare alla vigilia della decisione della Cassazione. In primo luogo, autorizza il tutore di Eluana (il padre) a interrompere idratazione e alimentazione artificiali, ma senza alcun obbligo di dare esecuzione a quanto si consente. Motivo per cui la Regione Lombardia, per esempio, ha già rifiutato la disponibilità di eseguire quella sentenza in una delle sue strutture. Il Codice deontologico e il giuramento professionale dei medici, d’altra parte, prescrivono che il personale sanitario si occupi di curare i pazienti, non di causarne la morte. E ancora, come ribadito dalla stessa Regione Lombardia nella sua risposta alle richieste di Beppino Englaro, ospedali, cliniche e hospice sono luoghi in cui si riconosce la dignità della vita fino all’ultimo giorno: «L’accoglienza di Eluana in un hospice snaturerebbe completamente il motivo per cui è nato: quello di sorreggere una vita in fase terminale con la palliazione e il sollievo dei sintomi. Gli hospice sono essenzialmente luoghi di vita, non di morte, dove le persone malate vengono sostenute nel vivere la vita che gli rimane nel modo più dignitoso possibile» ( Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo, 4 settembre).
«volontà»?
Altro capitolo sui cui occorre fare chiarezza è quello delle volontà 'dedotte' di Eluana. Che la Corte d’Appello di Milano ha ricostruito durante il processo, visto che la ragazza non le ha mai espresse in modo manifesto e inequivoco. Ora, se anche nel nostro ordinamento esistessero elementi che consentano di ritenere che un soggetto possa rivendicare un 'diritto alla morte' («Per quanti sforzi io faccia, non li trovo. Mentre al contrario troviamo sempre e soltanto il principio del 'favor vitae', del diritto alla vita», Vincenzo Nardi, avvocato generale presso la Corte di Cassazione, 19 luglio) la stessa Suprema Corte recentemente, rispondendo al ricorso di un testimone di Geova, è stata chiara: «Nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivocabile, attuale, informata». E ancora: «L’efficacia di un dissenso 'ex ante' privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente». ( sentenza n. 23676 della Terza Sezione Civile, 15 settembre 2008). Queste condizioni valgono (e devono valere) anche per Eluana Englaro. Ora più che mai.
1) Benedetto XVI e la Resurrezione di Cristo nella predicazione di Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
2) Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
3) Un solo Corpo, un solo Spirito - ROMA, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a Oreste Pesare, Direttore dell’ICCRS, apparsa sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.
4) I Vescovi USA definiscono “storica” l'elezione di Obama - “Il nostro Paese affronta molte incertezze”, avvertono
5) Il Papa esorta Obama a costruire “un mondo di pace, solidarietà e giustizia” - Telegramma di auguri al nuovo Presidente degli Stati Uniti
6) 05/11/2008 13:19 - VATICANO – ISLAM - Musulmani convertiti al cristianesimo chiedono libertà religiosa agli esperti radunati in Vaticano - L’appello, firmato da 144 persone, domanda agli esperti del dialogo di non dimenticare la difficile situazione dei cristiani, trattati come “degli esclusi e come dei paria”. Fra le richieste più urgenti, la garanzia di libertà a cambiare religione.
7) Barack Obama Presidente: Il discorso della vittoria - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
8) Barack Obama è il Presidente degli Stati Uniti - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - "Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago
9) Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
10) Politiche coercitive in Brasile contro la donna e la vita - di Danilo Quinto – L’Osservatore Romano, 6 Novembre 2008
11) Il grido di un popolo che da dodici anni invoca la pace - Pubblichiamo la testimonianza - apparsa in rete sul quotidiano ilsussidiario.net - di un responsabile dell'Associazione volontari per lo sviluppo internazionale (Avsi) sulla drammatica situazione nella Repubblica Democratica del Congo. - di Edoardo Tagliani Responsabile dell'ong Avsi in Congo
12) USA/ Ecco perché ha vinto Obama - Roberto Fontolan - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
13) ISTRUZIONE/ Via i tagli alle scuole paritarie: il governo ha forse imboccato la strada giusta - Renato Farina - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
14) MASS MEDIA/ Il paese dell’incomunicabilità: giornali e tv di fronte alle rivolte studentesche - Alberto Contri - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
15) SCIENZA&FEDE/ 2. Evoluzione creatrice, l'atto eterno che genera il mondo - Piero Benvenuti - giovedì 6 novembre 2008 – IlSussidiario.net
16) Se fosse uno scacco ai tanti razzismi - DAVIDE RONDONI - – Avvenire, 6 novembre 2008
17) Su bioetica e famiglia incognite da chiarire - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 6 novembre 2008
18) Stop alle nozze gay, ma sì alle «embrionali» - referendum - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 6 novembre 2008
19) Per questi motivi, Eluana non può morire - di Viviana Daloiso – Avvenire, 6 novembre 2008
Benedetto XVI e la Resurrezione di Cristo nella predicazione di Paolo - Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in Piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana, il Santo Padre, continuando il ciclo di catechesi su San Paolo Apostolo, si è soffermato sulla sua predicazione riguardo alla Resurrezione di Cristo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
"Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati" (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture" (1 Cor 15,4) - così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L'intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.
E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l'importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra "ricevere" e "trasmettere". San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: "Sia io che loro così predichiamo" (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l'unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del "Dio con noi", quindi la realtà della vera vita.
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati "giustificati", cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell'annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: "Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti" (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell'evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione "Cristo è risorto" è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all'inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al "Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti" (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio "con potenza". Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: "Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra". Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l'intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell'intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo "morti con Cristo" e crediamo che "vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: "Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti" (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall'altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede "tocca" il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell'ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto ora i pellegrini di lingua italiana e porgo a ciascuno un cordiale benvenuto. Con particolare affetto mi rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. La Chiesa ci invita in questi giorni a pregare per i nostri cari defunti e il loro ricordo ci invita a meditare sul mistero della morte e della vita eterna. Il pensiero della morte non sia per voi, cari giovani, motivo di tristezza, ma stimolo ad apprezzare e valorizzare appieno la vostra giovinezza, orientando sempre il vostro spirito ai valori spirituali che non periscono. Voi, cari ammalati, rinnovate costantemente la vostra fiducia nel Signore, sapendo che in ogni situazione siamo sempre nelle sue mani: Egli è per noi Padre buono e misericordioso. E voi, cari sposi novelli, traete dalla prospettiva della vita eterna un incoraggiamento a progettare la vostra famiglia lasciandovi guidare da Cristo e dal suo Vangelo.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Cristo è vivo! - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 6 novembre 2008 - Kerigma cioè annuncio di evangelizzazione: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per ogni uomo, è risorto ed è vivo, incontrabile ecclesialmente qui in mezzo a noi per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui
«Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto (storico e non semplicemente culturale) che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4): così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerigma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 novembre 2008].
Il fatto della risurrezione avvenuto nella storia con la tomba vuota e le reali apparizioni, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori, è la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana non riducibile certo ad una cultura, pur reale, e questo dall’inizio e fino alla fine dei tempi. E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. Certo accoglierlo pienamente, celebrarlo, viverlo e pensarlo diviene cultura ma non è riducibile, come è ogni rischio gnostico sempre in agguato, ad una realtà solo storicamente culturale. San Paolo attribuisce molta importanza anche alla formulazione letterale della tradizione, a monte del suo argomentare; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo cioè evangelizzeranno. La tradizione del fatto della risurrezione avvenuto nella storia a cui si collega è la fonte alla quale in continuità attingere. L’originalità del suo argomentare cioè della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui si esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa, un unico corpo di Cristo. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto storico anche culturalmente reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà storica del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita, del mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento, un nuovo orizzonte, la direzione decisiva e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza.
Questi due fatti sono importanti: la tomba vuota e il fatto avvenuto nella storia di Gesù che è apparso realmente
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque lontano da ogni rischio di riduzione gnostica, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale, come deve essere ogni catechesi: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per voi, ed è vivo, ecclesialmente incontrabile attraverso il dono del Suo Spirito, per essere trasformati in Lui, vivere in Lui e di Lui. Emerge innanzitutto il fatto avvenuto nella storia della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda e che non può essere riducibile ad una cultura. Proprio in quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema della apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente, storicamente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi e non semplicemente come un fatto culturale. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone e non creatore della risurrezione. Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco addirittura per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dai morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
A due mila anni di distanza l’affermazione, l’annuncio, l’evangelizzazione continua “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile, è attuale anche per noi?
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di due mila anni? L’affermazione “Cristo è risorto”, è vivo qui con noi, ecclesialmente incontrabile per lasciarci assimilare a Lui, vivere in Lui e di Lui, è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per Paolo e per noi oggi un tema così determinante per una fede professata, celebrata, vissuta, pregata? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio… che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3 – 4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino a lasciarsi uccidere in croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) perché non poteva soccombere definitivamente alla morte e in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. E’ realizzato quanto dice il Salmo 2,8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione, poiché nella fase terrena era per i figli della casa di Israele, comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il regno di Cristo, questo nuovo regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima:Gesù è Dio! Dio con noi per tutti e per tutto! Per san Paolo, pur essendolo fin dal concepimento, la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela completamente nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio Padre, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (Rm 4,25).
Noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo
Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con Lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di Lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce cioè il Pensiero di Cristo non è una teoria – è la realtà della vita cristiana di ogni giorno. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione gene e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla, celebrarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia. In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (1 Cor 15.20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
Un solo Corpo, un solo Spirito - ROMA, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista a Oreste Pesare, Direttore dell’ICCRS, apparsa sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.
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Siamo i primi a visitare la nuova sede dell’International Catholic Charismatic Renewal Services (ICCRS) a piazza San Calisto, nel cuore di Trastevere. Le tracce del trasloco sono ovunque: mobili accatastati, uffici ancora vuoti e in sottofondo il ronzio dell’aspirapolvere. Ma la piccola cappella dove tutti si riuniscono per cominciare ogni giornata di lavoro è avvolta da un luminoso silenzio. Oreste Pesare, il direttore esecutivo, ci accoglie con amichevole curiosità: come mai Paulus s’interessa al Rinnovamento? Bastano poche parole per entrare subito in un fitto e appassionato dialogo attorno a san Paolo, apostolo carismatico e primo teologo dello Spirito Santo. Prima però, qualche domanda di rito per introdurci alla particolare realtà del Rinnovamento. Che non ha “un” fondatore e neppure un “governo”. E che nei propri statuti non si definisce “ movimento ecclesiale”, ma “corrente di grazia”, che permette a singoli e a gruppi – accomunati dall’esperienza del battesimo nello Spirito Santo – di esprimersi secondo organizzazioni e attività spesso indipendenti le une dalle altre. Entra qui in gioco l’ICCRS: un servizio di coordinamento, comunicazione e comunione esercitato a diversi livelli, dalle diocesi alle nazioni.
Dottor Pesare, può tratteggiarci la storia dell’ICCRS?
«L’ICCRS era nato originariamente come ICO (International Communication Office) nel 1972 in Ann Harbor, nel Michigan. Nel 1978, con il coinvolgimento del cardinal Leon Joseph Suenens, è divenuto ICCRO (International Catholic Charismatic Renewal Office). Il 14 settembre 1993, poi, il Pontificio Consiglio per i Laici ha definitivamente dato il riconoscimento pontificio all’ICCRS (International Catholic Charismatic Renewal Services) come associazione privata di fedeli, approvandone gli statuti. In tutti questi anni, i servizi offerti dall’ICCRS sono stati la promozione e il sostegno all’esperienza carismatica, in qualità di ambasciatore e testimone del battesimo nello Spirito Santo nella vita della Chiesa. Da una parte abbiamo lavorato per un più profondo radicamento cattolico nell’esperienza carismatica, nata in ambito protestante. Dall’altra parte, abbiamo favorito una migliore comprensione della grazia del Rinnovamento all’interno delle istituzioni della Chiesa. Segni eloquenti sono stati due colloqui teologici internazionali da noi organizzati a Roma, entrambi in collaborazione con il Pontificio Consiglio per i Laici: il primo, sul ministero di guarigione nella Chiesa cattolica, nel 2001, e il secondo, incentrato sui carismi, la scorsa primavera».
Il Rinnovamento è il più ampio “movimento” cristiano ecumenico, con oltre 600 milioni di aderenti, di cui circa 120 milioni cattolici...
«Il cardinal Suenens, che è stato uno dei nostri padri istituzionali, diceva spesso: “O il Rinnovamento Carismatico sarà ecumenico o non sarà nulla”. Le nostre radici sono nel Pentecostalismo, sviluppatosi nella prima metà del XX secolo – e che a sua volta si ispirava alle Holiness Churches del XIX secolo –; una realtà che ha scosso a ondate tutto il mondo protestante e quello cattolico e che ora sta toccando anche il mondo ortodosso. È davvero un disegno dello Spirito Santo toccare con il suo soffio tutte le chiese, a partire dalle più disprezzate. Che esperienza ecumenica si fa, nel Rinnovamento? Quello che viviamo è un ecumenismo di base, molto pratico, fatto di preghiera e di stima reciproca. Vedere evangelici, ortodossi e cattolici che lodano insieme il Padre – pur sapendo bene quali sono le nostre divergenze teologiche – significa davvero sentirsi fratelli in Cristo e comprendere che è lo Spirito a chiamarci e spingerci all’unità, non il nostro sforzo. E questo rapporto continuo di amicizia ha portato anche a risultati “pubblici” molto concreti. Faccio un esempio. Nel 2006, a Los Angeles, si è celebrato il centenario della nascita del Movimento Pentecostale nella famosa “Azusa Street”. E in quella occasione, per la prima volta, anche il Rinnovamento Carismatico Cattolico è stato invitato come realtà pentecostale riconosciuta, nonostante che molti leader Pentecostali vedano ancora nella Chiesa di Roma la grande Babilonia, di cui si parla nell’Apocalisse. Questo riconoscimento pubblico da parte dei fratelli Pentecostali di ciò che lo Spirito Santo sta facendo nella Chiesa cattolica è da considerarsi un passaggio storico epocale. Credo che se ne vedranno i frutti in un prossimo futuro».
Nel Rinnovamento che posto occupa san Paolo, primo “teologo” dello Spirito Santo?
«San Paolo è il primo punto di riferimento teologico e pastorale riguardo l’esperienza che oggi facciamo di una vita nuova nello Spirito Santo, cioè di essere morti al mondo e risorti per Cristo. D’altra parte, fu proprio san Paolo a inventare il nome “Rinnovamento nello Spirito Santo”. Egli, infatti, scrive che Dio “ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo” (Tt 3,5s). Questa è l’intera base teologica della vita nello Spirito. L’esperienza del battesimo nello Spirito Santo è una riscoperta del dono di grazia ricevuto nel proprio battesimo che ogni cristiano è chiamato a fare. Come spiegarla? È qualcosa che ti fa venire voglia di pregare, che ti rende la lettura della Bibbia viva e personale, che ti fa sentire una familiarità con i sacramenti. Come ci racconta padre Raniero Cantalamessa: “Prima conoscevo tutto di Gesù, ma non conoscevo Gesù. Poi, con l’esperienza del battesimo nello Spirito Santo, tutto quello che conoscevo si è illuminato”. Quest’esperienza – a cui noi, oggi, diamo appunto il nome di “battesimo nello Spirito Santo” – appartiene da sempre alla Chiesa. Milioni di credenti e di santi l’hanno vissuta nei secoli. Dunque non si tratta di sentimentalismi né di utopie. Lo posso testimoniare io stesso in base alla mia esperienza personale: vengo dal mondo della droga e dell’alcolismo; mi sono convertito quando mi hanno arrestato... e oggi – dopo una forte e ormai più che ventennale esperienza nel Rinnovamento Carismatico Cattolico – sono sposato e con tre figli, impegnato a tempo pieno per il Regno di Dio. Mi sento veramente un uomo rinnovato e maturo: lo Spirito Santo ti cambia radicalmente la vita!».
San Paolo è testimone e protagonista di molti carismi. Parlare in lingue, profetare, operare guarigioni... sono doni dello Spirito reali ed efficaci, di cui abbiamo però una percezione lontana.
«Abbiamo già detto che la peculiarità del Rinnovamento è vivere una vita nuova nello Spirito Santo, ma questo significa immediatamente fare un’esperienza concreta dei carismi dello Spirito. Si parte quindi dalla testimonianza personale… il Rinnovamento cambia prima di tutto se stessi, non solo gli altri… non puoi essere annunciatore di qualcosa che non hai. Come Gesù, o san Paolo stesso, posso dire che noi del Rinnovamento non ci preoccupiamo particolarmente dello scetticismo del nostro tempo. La sola via per combattere lo scetticismo del mondo è la testimonianza della vita e poi l’annuncio. È sintomatico che tante persone restano impressionate e cominciano un cammino di conversione dopo aver partecipato a un solo incontro di preghiera carismatica o aver sperimentato un’esperienza profetica nella propria vita, proprio come spiega Paolo in 1Cor 14,24-25».
San Paolo, come mistico e come carismatico, cosa ricorda alla Chiesa?
«Che non c’è alcuna contrapposizione tra istituzione e carisma, ma assoluta e necessaria complementarietà. Come è stato affermato anche dal nostro amato papa Giovanni Paolo II nella Pentecoste del 1998, istituzione e carismi sono coessenziali alla vita della Chiesa. E l’apostolo Paolo ne è il primo testimone. Sempre in quell’occasione, il Papa parlò di una maturità ecclesiale che deve manifestarsi attraverso impegno e comunione. Un impegno vissuto con strumenti divini, diciamo noi; e una comunione che sia conforme alla teologia paolina del corpo di Cristo, che sta alla base di tutta l’esperienza carismatica. Anche Benedetto XVI ci raccomanda di diffondere la “cultura della Pentecoste”. E cosa significa questo? Che siamo chiamati ad aspettarci la stessa forza che ricevettero a Pentecoste gli apostoli spauriti e confusi; quella forza che li rese capaci di dare perfino la propria vita per Gesù.
Paolo ci ricorda inoltre che i carismi fanno parte anche oggi della Chiesa viva, come sono sempre stati fondamentali alla vita della Chiesa, fin dalle sue origini: essi non sono un’invenzione del Rinnovamento. Grazie a Dio ci sono tanti “carismatici” che non sanno nemmeno di esserlo o, pur sapendolo, non appartengono formalmente a un Movimento che oggi c’è e domani potrebbe anche non esserci più. Prendiamo ad esempio il carisma delle guarigioni: se dai Vangeli togliessimo le pagine che ci parlano delle guarigioni nel ministero di Gesù, ci resterebbe tra le mani solo una manciata di versetti! Bisogna prendere coscienza che i carismi sono strumenti che nascono dalla relazione con il Signore e con i quali Dio insegna al suo popolo».
La Prima lettera ai Corinzi è molto importante per voi e Paolo VI, nel 1975, ne trasse tre punti per il discernimento. Vediamoli insieme. Il primo è la fedeltà all’autentica dottrina della fede e l’invito all’unità (1Cor 1-3).
«Sin dall’inizio il Rinnovamento Carismatico è stato segnato da varie divisioni: tra comunità, gruppi, leader... Purtroppo capita ancora che qualcuno creda di aver trovato l’unico modo “giusto” di vivere i carismi e voglia in qualche modo imporlo ad altri: anche questo fa parte del volto della Chiesa, non c’è ragione di negarlo. Ma è mio forte convincimento che il Signore abbia suscitato il Rinnovamento per l’unità del suo corpo: è quello per cui Gesù ha pregato nella sua ultima ora. Unità che – ci tengo a precisarlo – non significa uniformità. Parlo di unità nella diversità, secondo la teologia paolina dei carismi (1Cor 12-14). Perché, sia chiaro, non si è carismatici solo se si parla in lingue o se si hanno altri doni, ma anche quando si comincia a rispettare ed amare le diversità all’interno del corpo di Cristo. Facciamo un esempio molto concreto preso da una metafora di Paolo: se, all’interno della Chiesa corpo di Cristo, uno è naso e l’altro piede, è naturale che non scocchi subito la simpatia reciproca... ma il naso non può permettersi di fare a meno del piede, sebbene questo non profumi! e il piede sa bene di poter essere sgradevole... come però può esserlo pure il naso! Eppure entrambi sono necessari. Allora, l’unico modo per vivere l’unità è proprio attraverso la carità, cioè la misericordia che accoglie il “diverso”, che spesso ci fa paura. Sappiamo bene quanto sia comune la diffidenza e lo sparlare gli uni degli altri, anche dentro la Chiesa, persino tra i movimenti laicali. L’ideale dell’unità nello Spirito, invece ti spinge a riconoscere la bellezza che c’è in ogni singolo membro della Chiesa, e che ognuno ha ricevuto un diverso e splendido dono “per l’utilità comune”. Ognuno deve essere contento della parte che fa e della parte che fanno gli altri, bandendo la gelosia, l’invidia, l’autosufficienza. Amo la Chiesa proprio perché è cattolica, cioè universale e aperta a tutti, così come amo tutti i suoi diversi riti liturgici! Il vero carismatico è colui che ama questo Corpo nella sua diversità e nella sua complementarietà: e questo non può avvenire se non attraverso il perdono, fonte della carità e della misericordia. Alla base di tutta la teologia di Paolo mi pare ci sia proprio questa esperienza del perdono, cioè dell’accoglienza dell’altro per la costruzione del corpo di Cristo. Ma questa forma d’amore non ce la possiamo dare da soli; infatti san Paolo ci ricorda che è dono dello Spirito: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Quindi più saremo colmi dello Spirito, più riusciremo a vivere l’unità a immagine della Trinità, perché il mondo creda che il Padre ha mandato il Figlio per la salvezza del mondo. Questa per me è la vera evangelizzazione!».
Paolo VI v’invitava poi all’accoglienza dei doni spirituali per il bene comune, cioè per la costruzione della Chiesa e della società (1Cor 12,1-27.14,1-40).
«Sì, come si diceva prima, viviamo il servizio, ma con strumenti spirituali soprannaturali, perché provengono da Colui senza il quale non possiamo fare nulla. A questo servono i carismi, a edificare un edificio spirituale di pietre vive, come ci ricordano san Pietro (1Pt 2,5) e san Paolo: “In lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22). I miracoli li possono fare tutti i figli di Dio, perché i carismi sono per tutti e non dipendono dalla nostra santità. Ecco perché puoi trovare delle persone profondamente carismatiche e capaci di portenti, ma che non sono amiche di Dio. A questo proposito il vangelo di Matteo avverte: “Molti mi diranno: Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti” (Mt 7,22s). Ci sono solo due alternative: o i carismi sono a servizio dell’amore di Dio, oppure diventano strumenti per arricchirsi – con i soldi, con il potere, con la vanagloria – e allora sei già perso».
Terzo criterio: il primato dell’amore, com’è detto nell’Inno alla carità (1Cor 13,1-13).
«La carità è il collante nell’esperienza del Rinnovamento. Anzi, guardando ai capitoli 12, 13 e 14 della prima lettera ai Corinzi, sembra che san Paolo abbia fatto un sandwich: due fette di pane – che sono i capitoli 12 e 14 sui carismi –, e una fetta di prosciutto, che è il capitolo 13 sulla carità. È la carità che esalta il sapore di tutto il resto! Ma la carità si concretizza poi nel servizio dei carismi: altrimenti Pietro e Paolo, allo storpio che stava presso la Porta Bella del tempio, avrebbero potuto offrire solo due stampelle, invece che la guarigione. Nell’universo del Rinnovamento ci sono tante comunità che non sono solo luoghi di preghiera, ma s’impegnano nel sociale. Ricordo ad esempio la comunità “El minuto de Dios” in Colombia, che ha migliaia di persone che lavorano nelle Favelas. Nella Corea del sud, la comunità “Kkottongnae” ha costruito un’intera cittadella che raccoglie i poveri e i malati, perfino con un cimitero per gli ultimi che muoiono per strada. Comunità come queste ricevono donazioni anche di milioni di dollari al mese. La forte realtà carismatica dell’Uganda, poi, si adopera contro l’Aids. Questi sono solo alcuni esempi per dire che non c’è alcuna contrapposizione tra carità e carismi: Dio ci dà, con il suo Spirito, la forza di amare e gli strumenti per farlo. Nella teologia di Paolo questo è evidente: egli ci mostra la completezza di un vero uomo spirituale».
Paolo Pegoraro
I Vescovi USA definiscono “storica” l'elezione di Obama - “Il nostro Paese affronta molte incertezze”, avvertono
WASHINGTON, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- In un messaggio di auguri a Barack Obama, i Vescovi cattolici degli Stati Uniti definiscono l'elezione a Presidente del Paese del primo afroamericano un momento “storico”.
“Il nostro Paese affronta molte incertezze”, riconoscono i presuli. “Preghiamo perché usi il potere che il suo ufficio le conferisce per affrontarle, con una preoccupazione speciale per la difesa dei più vulnerabili tra noi e per il superamento delle divisioni nel nostro Paese e nel nostro mondo”.
I Vescovi dichiarano al Presidente eletto la propria disponibilità “ a collaborare in difesa e a sostegno della vita e della dignità di ogni persona umana”.
Il messaggio dei presuli, datato 4 novembre, è firmato dal Cardinale Francis George, Arcivescovo di Chicago e presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti.
“Il popolo del nostro Paese le ha affidato una grande responsabilità – ricordano –. Come Vescovi cattolici, le offriamo le nostre preghiere perché Dio le dia forza e saggezza per far fronte alle sfide future”.
“Dio benedica lei e il vicepresidente eletto Biden ora che si preparano ad assumere le rispettive responsabilità al servizio del nostro Paese e dei suoi cittadini”, termina il testo.
Il Papa esorta Obama a costruire “un mondo di pace, solidarietà e giustizia” - Telegramma di auguri al nuovo Presidente degli Stati Uniti
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 novembre 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha inviato un messaggio di auguri al Presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, in cui lo esorta a “costruire un mondo di pace, solidarietà e giustizia”.
In un telegramma trasmesso attraverso l'ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, Mary Ann Glendon, il Papa assicura a Obama le sue preghiere affinché Dio lo assista nelle sue “alte responsabilità al servizio della nazione e nella comunità internazionale”.
Possano le abbondanti benedizioni del Signore “sostenere lei e l'amato popolo americano nei vostri sforzi, insieme a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, per costruire un mondo di pace, solidarietà e giustizia”, auspica il Santo Padre.
Anche il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha indirizzato un telegramma di auguri al Presidente.
La notizia del messaggio è stata comunicata ai giornalisti da padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa vaticana, che ha commentato le sfide che affronta Obama come presidente numero 44 degli USA.
“Il compito del Presidente degli Stati Uniti è un compito di immensa e altissima responsabilità non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo, dato il peso che gli Stati Uniti hanno in tutti i campi sulla scena mondiale”, ha spiegato il portavoce vaticano.
“Perciò tutti auguriamo al nuovo Presidente Obama di poter rispondere alle attese e alle speranze che si rivolgono verso di lui, servendo efficacemente il diritto e la giustizia, e trovando le vie adatte per promuovere la pace nel mondo; favorendo la crescita e la dignità delle persone nel rispetto dei valori umani e spirituali essenziali”.
“I credenti pregano che Dio lo illumini e lo assista nella sua altissima responsabilità”, ha aggiunto.
Padre Lombardi ha spiegato che il Papa invierà un messaggio a Obama anche in occasione della sua presa di possesso, il 20 gennaio 2009.
05/11/2008 13:19 - VATICANO – ISLAM - Musulmani convertiti al cristianesimo chiedono libertà religiosa agli esperti radunati in Vaticano - L’appello, firmato da 144 persone, domanda agli esperti del dialogo di non dimenticare la difficile situazione dei cristiani, trattati come “degli esclusi e come dei paria”. Fra le richieste più urgenti, la garanzia di libertà a cambiare religione.
Roma (AsiaNews) – Un gruppo di 144 cristiani, di cui 77 musulmani convertiti al cristianesimo, ha lanciato un appello agli esperti islamici e cattolici radunati in Vaticano in questi giorni perché essi non dimentichino le minoranze cristiane e i neo-convertiti nei Paesi islamici. I firmatari dell’appello – cattolici, ortodossi e protestanti dell’Africa del Nord e del Medio Oriente – domandano che il dialogo che si svolge in Vaticano porti a questi risultati:
1) che la legge islamica non si applichi ai non musulmani;
2) che sia abolita la condizione di “dhimmi”, di cittadini di seconda classe;
3) che la libertà di cambiare religione sia riconosciuto come un diritto fondamentale.
L’appello ricevuto da AsiaNews è anche pubblicato sul sito www.notredamedekabylie.net , legato ai cristiani d’Algeria.
I firmatari “gioiscono” per i passi che si stanno svolgendo in questi anni e per la Lettera dei 138 saggi musulmani, da molti definita come una testimonianza che “l’Islam non è contro i cristiani”. Ma essi sottolineano che la condizione di minoranza dei cristiani nei Paesi islamici, “già marchiata dall’insopportabile stato di ‘dhimmi’ [lett.: gruppo protetto grazie al pagamento di una tassa al governo islamico, escluso dalla effettiva parità nella società], è aggravata dalla crescita dell’islamismo militante apparso negli ultimi tempi”.
“Quanto ai neo-cristiani, o convertiti – continua l’appello – essi non hanno alcun diritto di esprimere la loro nuova scelta religiosa, pena la condanna come apostate, al punto da essere costretti all’auto-esilio, se possono”.
I firmatari chiedono allora che il dialogo che si sta aprendo fra Vaticano e esperti islamici affronti “anzitutto tre temi urgenti :
1) la legge islamica non sia applicata ai non musulmani;
2) lo stato di dhimmi, che fa dei cristiani egli esclusi e dei paria, non è più accettabile e deve essere abolito, perché esso offende la dignità umana, proprio come la schiavitù;
3) la libertà di cambiare religione deve essere riconosciuto come un diritto fondamentale, un diritto che viene da Dio, il quale non obbliga nessuno ad adorarlo”.
Il testo ricorda che nel Corano vi sono versetti favorevoli alla libertà di religione, mentre alcune Hadith [detti del profeta] domandano la morte dell’apostata. “Purtroppo – spiega l’appello – alcuni Stati hanno posto queste frasi nella loro costituzione (ad es. La Mauritania), che essi applicano nonostante la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948”.
Riaffermando che questo dialogo islamo-cristiano è necessario, i firmatari suggeriscono agli esperti di “tener conto dei cristiani che vivono nel mondo detto ‘musulmano’, o da cui provengono. Metterci da parte, dimenticarci, sarebbe un segno di ignoranza, o una volontà manifesta di non voler affrontare le questioni che ci fanno problema. L’attualità, purtroppo non cessa di dimostrarlo: i cristiani nel mondo musulmano sono in grave pericolo”.
Barack Obama Presidente: Il discorso della vittoria - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
HELLO CHICAGO
Se c’è una persona che ancora dubita che in America sia tutto possibile, che ancora mette in discussione il potere della democrazia: bene questa stasera avete avuto la vostra risposta è la risposta a tutte le domande: per chi ha creduto che stavolta starebbe stato diverso.
È una risposta data dai poveri dai ricchi, dai giovani dagli anziani, dagli abili dai disabili: noi siamo gli Stati Uniti d’America
La storia ci ha portato a credere ancora a credere che un nuovo cambiamento ci sarebbe stato
Il senatore McCain ha combattuto per questo Paese: ha sofferto una serie di sacrifici che molti non sanno voglio congratularmi con lui per tutto ciò che è stato fatto e sono felice di lavorare ancora assieme a lui per servire il nostro Paese
Voglio ringraziare il nuovo vice Presidente degli Stati Uniti
Non sarei qui senza il mio migliore amico che mi sostiene da 16 anni; senza la roccia della mia famiglia che amo più di quello che loro possano immaginare
So che mi sta guardando; mi manca tutta la mia famiglia che non c’è più devo tutto a loro so che sono qui con me adesso
Non dimenticherò mai a chi appartiene questa vittoria: a tutti voi. Non avrei mai immaginato di essere il candidato di questa campagna: abbiamo cominciato per le strade con poche risorse, col contributo delle persone che hanno cominciato a donare 10 dollari e che son andati al di là degli sforzi passati negli anni precedenti. Tutte queste persone hanno dato sé stessi per questa campagna: devo tutto a voi e so che voi non lo avete fatto solo per vincere ma perché comprendete il grande compito che ci attende.
Le sfide che ci attendono domani sono le più importanti come la grossa crisi finanziaria che stiamo attraversando. Ebbene nuovi lavori, nuove scuole devono essere ancora da fare: è una strada in salita ma oggi vi prometto che noi come popolo ci riusciremo.
Ci saranno problemi, false partenze, persone che non crederanno: io sarò sempre sincero e vi ascolterò. Vi chiederò di contribuire mattone per mattone; passo dopo passo. Questa VITTORIA non è il cambiamento ma solamente la possibilità che ci viene offerta per operare questo cambiamento. Deve esserci un senso di responsabilità dove ognuno potrà contribuire per il bene di tutto. Noi siamo un popolo, una nazione: dobbiamo resistera alla tentazione di rimanere fermi
C’è un uomo che in questo paese ha portato la bandiera del partito repubblicano: siamo consapevoli di ciò che ha contribuito al nostro successo. Io devo guadagnare il voto di chi non mi ha votato: io vi ascolterò e sarò anche il vostro Presidente. A tutti coloro che ci osservano e che ci ascoltano in tutti gli angolo del mondo: il loro destino non sarà dimenticato noi lo vediamo. A coloro che vogliono distruggere questo mondo: noi vi distruggeremo. A chi si chiede se l’America stasera è sconfitta abbiamo dimostrato che la nostra vittoria non viene dalle armi ma dai nostri IDEALI.
Voglio raccontarvi la storia di una donna, Allison Cooper ha 106 anni, nata appena dopo la schiavitù, nata quando non poteva votare per il colore della sua pelle e perché donna: tutte le volte in cui le è stato detto NON SI Può FARE lei ha continuato a lottare. Lei ha creduto che si può.
Lei ha testimoniato la volontà di una generazione durante la guerra: ha continuato a credere che noi avremmo superato tutto questo. Lei quest’anno dopo 106 è riuscita a dare il suo voto.
Abbiamo visto così tanto ma c’è ancora così tanto da fare.
Se i miei figli fossero così fortunati da vivere 100 anni quali cambiamenti e quali progressi vedranno?
Noi abbiamo la possibilità di scrivere questi progressi e questi cambiamenti
GRAZIE che Dio vi benedica e che benedica gli Stati Uniti D’America”.
Barack Obama è il Presidente degli Stati Uniti - Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 5 novembre 2008 - "Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago
La vittoria di Barack Obama, 47 anni, padre del Kenya e madre del Kansas, rappresenta una pietra miliare nella storia degli Stati Uniti, a 45 anni dal movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King.
"Ci è voluto molto, ma stanotte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, il cambiamento è arrivato per l'America", ha detto Obama a 200.000 sostenitori riuniti a Grant Park a Chicago.
Aveva iniziato la sua campagna elettorale che pareva una prova impossibile con lo slogan - I have a dream. Io ho un sogno, - l’ha terminata con - YES WE CAN! Sì possiamo! -
Per scaramanzia ha atteso la vittoria giocando a pallacanestro e dopo una vittoria schiacciante ha esordito nel suo discorso a Chicago dicendo: “Questa notte abbiamo dimostrato che l’America può cambiare, l’America è cambiata se solo sessant’anni fa non si poteva votare per cause di sesso o di colore della pelle. L’America è cambiata se uno come me può diventare presidente”
Molti pensavano che nel segreto dell’urna il voto sarebbe andato al suo avversario.
Presto per dimenticare le leggi razziali e per non storcere il naso davanti a un uomo che di secondo nome fa Hussein, e invece eccolo OBAMA Presidente, primo presidente nero degli Stati Uniti.
Nel suo discorso dopo la vittoria ha ringraziato tutti, ma proprio tutti, i supporter, i volontari, i due grandi manager, David Plouffe, responsabile della campagna e della comunicazione, “che ha costruito la più grande macchina politica che gli Stati Uniti d’America abbiano mai visto”,e David Axelrod, stratega politico, che ha reso possibile questa storica insperata vittoria.
Fosse accaduto in Italia il vincitore avrebbe fatto finta di nulla, ringraziando gli elettori ma fingendo di non sapere che c’è anche una strategia, un lavoro fatto a tavolino che prevede che i consensi siano attirati da una parte o dall’altra.
E’ l’America bellezza!
Con i suoi tanti difetti ma con la sua fede nella democrazia, il Paese dove il vincitore ringrazia lo sconfitto e il suo vice e offre loro di collaborare per il bene del Paese e dove lo sconfitto John McCain dichiara ai suoi sostenitori: "L'America si è espressa in modo forte e chiaro".
Potete immaginare una cosa così in Italia? Lo sconfitto avrebbe di certo fatto gli auguri a denti stretti e lasciato intendere che in fondo lui non aveva perso, erano gli lettori che non avevano capito che lui era il migliore.
Il Paese dove terminando il uso discorso il 44° Presidente dice “GRAZIE che Dio vi benedica e che benedica gli Stati Uniti D’America “ a noi, “che Dio vi benedica” lo dice solo Gerry Scotti in chiusura della sua trasmissione televisiva “chi vuol esser milionario” e a noi sembra un eccentrico, uno che 'cerca grane'.
A colloquio con padre Marco Paini missionario nell'arcidiocesi di Belo Horizonte Politiche coercitive in Brasile contro la donna e la vita - di Danilo Quinto – L’Osservatore Romano, 6 Novembre 2008
Il mezzo di controllo della natalità più diffuso nel mondo è la sterilizzazione delle donne. Secondo stime del 1995 - di recente richiamate in un dossier dell'Agenzia Fides - le ultime a disposizione, centosessanta milioni di donne in età riproduttiva hanno fatto ricorso alla legatura delle tube; centotrentotto milioni di loro vivono in Paesi in via di sviluppo.
Se nei Paesi occidentali, il ricorso alla legatura delle tube come metodo anticoncezionale è minimo - anche se nel Regno Unito, ad esempio, stando ai dati del servizio sanitario, ogni anno circa quarantamila donne sceglierebbero la sterilizzazione, un dato che fa riflettere sul come viene considerata la sterilizzazione in quel Paese, una pratica volontaria anticoncezionale - in zone del mondo povere e ad alta densità demografica, la sterilizzazione è stata usata negli ultimi decenni come una pratica di massa e questo lascia ritenere che non sia stata una libera scelta da parte delle donne.
Incentivi, disinformazione e politiche coercitive hanno fatto la loro parte. E la fanno tuttora, in alcuni casi. Del Brasile - dove la cifra degli aborti clandestini è stimata tra gli ottocentomila e il milione - parliamo con padre Marco Paini, sacerdote missionario della Comunità missionaria di Villaregia.
Partito a ventitré anni per Belo Horizonte, padre Marco ha terminato gli studi di teologia in Brasile, dov'è stato ordinato diacono e ha iniziato il ministero sacerdotale. Dopo quattro anni è rientrato in Italia e dopo nove anni è ripartito per Belo Horizonte, dove è stato fino a oggi, in una Comunità che ormai ha 22 anni di vita. Dal 1998 ha lavorato più direttamente nella pastorale della missione di Betânia, che conta circa quarantamila abitanti e, negli ultimi tre anni, ha prestato servizio nella vicaria e nell'arcidiocesi di Belo Horizonte.
Padre Marco delinea i principali problemi che ha dovuto affrontare nella sua opera missionaria. "Credo fondamentalmente tre. Il primo riguarda il processo di inculturazione. Spesso possiamo rischiare di sottovalutare l'importanza di questo aspetto nella vita missionaria. Per me - sottolinea - ha significato farmi semplice e povero per accostarmi alla gente che incontravo come fratello e amico, con il desiderio di conoscere e di imparare, di rallegrarmi per ogni bellezza vista e di rispettare quello che non riuscivo a comprendere. Il secondo si riferisce alla sfida di un meccanismo ingiusto, in cui le persone non possono realizzare i propri sogni a causa delle precarie condizioni economiche. In questi anni, innumerevoli volte mi sono trovato nella situazione di non sapere come aiutare gente capace e animata da buona volontà, ma costretta a lottare ogni giorno per la propria sopravvivenza; giovani, papà e mamme, adulti, persone intelligenti e buone, desiderose di realizzare tanti progetti per loro importanti, ma che, ogni giorno, devono fare i conti con una povertà che schiaccia, che opprime, che impedisce di vivere con dignità. Per loro esiste solo la speranza, o, in casi peggiori, la rabbia e la rassegnazione". Il terzo problema si situa a livello religioso. Secondo padre Paini "la presenza in Brasile di tantissime denominazioni religiose, cristiane e non, lascia spesso le persone confuse e insicure, sempre alla ricerca di quella "chiesa" che può soddisfare maggiormente le proprie esigenze e necessità. È stata questa una difficoltà che ci ha spinto a cercare le modalità più autentiche di testimoniare la nostra fede, prima ancora di annunciarla e predicarla".
Padre Paini illustra l'attività del Centro di Amore alla Vita. "Il Centro di Amore alla Vita (Ceavi) è nato nella nostra missione di Betânia nel 1992. Davanti a un sistema sociale che incentiva una mentalità contro la vita con la propaganda dei metodi contraccettivi tradizionali, la pillola, la spirale, il diaframma (sono forniti gratuitamente presso i centri di salute statali), abbiamo tentato di individuare proposte alternative per sostenere e incoraggiare chi desidera fare scelte in favore del diritto alla vita. Il Centro - ricorda il missionario - ha orientato il proprio lavoro alla scelta e all'applicazione dei "metodi naturali", come via a una sana ed equilibrata pianificazione familiare, rispettosa delle leggi naturali e delle persone. L'applicazione di tali metodi richiede un profondo rispetto dei ritmi naturali ed è possibile solo a persone che, in nome dell'amore, sanno rinunciare alla ricerca egoistica del proprio piacere per cercare sinceramente il bene del proprio partner e l'armonia del rapporto a due".
Padre Marco parla anche dei problemi più rilevanti che vivono la donna e la famiglia in Brasile. "Per quanto riguarda il lavoro, si sta verificando in Brasile la "femminilizzazione della povertà": si tratta, in altri termini, di una disparità dei salari tra uomini e donne. In media, gli uomini ricevono uno stipendio del 42% superiore a quello delle donne. Inoltre, mentre essi occupano i posti di lavoro meglio retribuiti, le donne svolgono attività legate a servizi personali e sociali, con salari più bassi. Il tasso di disoccupazione è del 6,7% tra le donne e del 5,9% tra gli uomini. Sono meno, poi, le donne che vanno in pensione rispetto agli uomini che, quando raggiungono questo traguardo, ricevono uno stipendio maggiore. Negli ultimi anni, si è registrato, tuttavia, un maggior inserimento delle donne sia nel mondo del lavoro sia negli ambienti politici".
A riguardo della natalità e della condizione della donna "alcune politiche pubbliche del governo, dirette sia alle gestanti sia ai neonati, hanno portato - rileva padre Marco - alla diminuzione della mortalità infantile, ma i numeri sono ancora molto alti. Cinquemila donne muoiono dando alla luce un bambino, sebbene il 96% di esse potrebbe essere salvato attraverso interventi adeguati. Circa un milione di donne ricorre ogni anno all'aborto che, realizzato in condizioni poco sicure, è la quarta causa di mortalità delle donne in Brasile. Il 45% della popolazione brasiliana è composta da negri e mulatti; costituiscono il 69% dei poveri. Il 40,7% delle brasiliane negre o mulatte muore prima dei 50 anni. Su mille bambini, figli di madri bianche, trentasette muoiono; il numero sale a sessantadue in caso di figli di madri negre o mulatte. Oggi in Brasile ogni quindici secondi una donna viene picchiata".
Circa l'interruzione volontaria della gravidanza, padre Marco traccia una situazione inquietante.
"La pratica dell'aborto - evidenzia - è sempre più diffusa come sistema di controllo delle nascite. Trattandosi di una pratica illegale, non esistono statistiche ufficiali a riguardo. Comunque, è risaputo che la frequenza è altissima e le modalità tra le più svariate: dall'intervento fatto presso cliniche clandestine alla classica "pesada" (un calcio dato con violenza nel ventre della gestante) diffusissima negli ambienti di povertà estrema. Esiste una buona parte della società brasiliana schierata a favore della legalizzazione dell'aborto; tanti la ritengono necessaria, in particolare, in riferimento a una situazione molto triste, quella cioè della prostituzione infantile. Con tutta la crudeltà e la violenza che la accompagna, la prostituzione infantile assume in questo Paese dimensioni e caratteristiche terrificanti".
Ciò che rende il problema ancora più drammatico è il fatto che esso si sta espandendo a macchia d'olio dal nord al sud del Brasile.
"In Brasile siamo di fronte a un grande paradosso. Mentre si impongono tagli drastici alle spese per la sanità, mentre il ricovero in ospedale è un lusso di una élite, - rileva ancora padre Marco Paini - le poche risorse destinate al benessere del cittadino sono investite contro il diritto alla vita. Per una polmonite si può morire perché lo Stato non fornisce gli antibiotici agli indigenti, ma per controllare la fertilità e favorire la sterilizzazione non si bada a spese. Ovviamente si evita ogni informazione sugli effetti deleteri dei contraccettivi, della sterilizzazione stessa. La voce profetica della Chiesa in Brasile ripete a tutti, senza stancarsi, "Scegli, dunque, la vita!"".
(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)
Il grido di un popolo che da dodici anni invoca la pace - Pubblichiamo la testimonianza - apparsa in rete sul quotidiano ilsussidiario.net - di un responsabile dell'Associazione volontari per lo sviluppo internazionale (Avsi) sulla drammatica situazione nella Repubblica Democratica del Congo. - di Edoardo Tagliani Responsabile dell'ong Avsi in Congo - L'Osservatore Romano, 6 novembre 2008
Col fiato inchiodato, le orecchie tese e gli occhi piantati per terra, nella speranza d'intravedere che ne sarà della prossima notte.
L'anima della città è in bilico tra disperazioni e speranze. L'anima della città sanguina per gli omicidi, i saccheggi, i regolamenti di conti che dopo il tramonto terrorizzano i quartieri più poveri. Tra le baracche di legno e di latta costruite sulla lava del grande vulcano, la gente di Goma scambia ogni tuono per un mortaio. Gira e rigira, non dorme, ansima, aspetta. E al mattino, le occhiaie di Goma raccontano in breve la storia d'una guerra infinita. Gli sguardi rassegnati di chi in questa guerra ci vive, valgono un tomo di storiografia.
Sono le 14.30 di mercoledì 29 ottobre quando i telefoni squillano all'unisono. I ribelli sfondano il fronte della città. L'esercito regolare fugge. Le strade di Goma impazziscono, le serrande si abbassano e il pomeriggio, solitamente sonnolento, corre ai mille all'ora, caotico e disordinato, verso ovest, verso la salvezza. Interi quartieri si svuotano. Le famiglie si cercano, le auto sbandano, i militari urlano, i fucili sparano. Chi può, scappa. Chi non può, si rintana come una bestia.
Una bestia senza unghie né denti.
Siamo in ufficio. Chiedo allo staff internazionale di Avsi di evacuare in Rwanda, sperando che le frontiere siano ancora aperte. Se fossero chiuse, ci sono due punti di raccolta per il personale delle Ong. Ci si deve dirigere là. Carichiamo in auto un baule di latta pieno di documenti ufficiali che non devono essere persi o, peggio ancora, cadere in mani sbagliate. Smontiamo gli hard disk dei computer.
Lo staff parte. Per fortuna, la sbarra bianca e rossa che consente di uscire dal Paese è ancora alzata.
Resto con dipendenti locali. Alcuni vogliono tornare a casa e possono farlo, perché la strada verso le loro famiglie è libera. Altri vorrebbero, ma è tardi. Quindi rimangono. Ci sediamo sui gradini dell'ingresso e ascoltiamo le raffiche di mitra farsi sempre più vicine. Ladislas è un assistente sociale. Ha più di cinquant'anni e di guerra ne ha vista fin troppa. La sua casa è stata bruciata. Mira e rimira le punte delle scarpe. Poi fa una battuta e sghignazza: "C'est terribile". E ride e ride e ride. Perché in questa guerra infinita, o impari a ridere o muori.
Ernest è un logista Lo hanno già rapito e rapinato durante diverse missioni di servizio per Avsi. Non si stacca dal telefono. Le notizie peggiorano.
Muhindo è più giovane. Anche lui, proprio dieci giorni prima, se l'è vista brutta con un altro gruppo di ribelli che lo ha trattenuto per quarantotto ore in un villaggio con l'accusa di essere una spia. Muhindo sale in moto e fa un giro del quartiere, per vedere se scappare, pur rischiando, sia più sicuro di restare.
Diventa buio. Tutti cercano di tornare a casa. Io non posso. Cerco un hotel e spremo il Land Cruiser per arrivarci il più in fretta possibile. La notte è uno spettacolo gelido di traccianti nel cielo e di violenze per strada. Brucia, Goma.
Oggi, domenica 2 novembre, non siamo ancora riusciti a fare la conta esatta dei morti solo per quanto riguarda le famiglie dei nostri dipendenti. Figuriamoci gli altri.
I tre giorni passati tra l'inizio dell'ennesima crisi del Nord Kivu e il momento in cui scrivo queste righe, sono giorni senza storia. Giorni grigi. Una calma apparente regna tra i vicoli e le officine. Qualche negozio riapre, anche se i prezzi sono triplicati.
Goma cammina sulle sue strade guardinga e spaurita, persa nei ricordi dei massacri che furono e che potrebbero essere ancora. Goma singhiozza, piangendo i morti che nemmeno lei sa. Goma accoglie i disperati delle periferie. A decine di migliaia. E Goma non sa dove metterli. Anime in marcia perenne, in fuga perenne: sulla testa un fagotto con due pignatte e una coperta lisa, tutto ciò che resta, tutto ciò che forse servirà.
Domani, lunedì 3 novembre, sarà il compleanno di mia moglie. Camilla. Un nome da fata in una fiaba di guerra. Ho comprato per lei delle candele colorate, una rana gonfiabile e una tavoletta di cioccolata. Le uniche cose che sono riuscito a trovare in città.
Mentre pagavo il conto, mi sono chiesto come passerà questa notte.
Io, bianco privilegiato con un portafoglio zeppo di dollari e una grande auto per scappare, ho dato fondo ai beni di lusso reperibili a Goma.
Nei quartieri periferici, a fatica si trovano riso e fagioli. Il colera, invece, è in svendita. Tre per due.
Ascolteremo i risultati delle mediazioni internazionali. Ascolteremo il parere dei ministri degli esteri, dei consoli, degli ambasciatori, dei delegati.
Ascolteremo il cielo, per sentire se fa bum o se resta tranquillo.
Ma chi ascolterà il grido continuo e straziante di un popolo massacrato che da dodici anni non chiede eterna giustizia, ma soltanto pace?
Chi ascolterà le risate tristi di Ladislas, le telefonate di Ernest, i commenti di Muhindo?
Oggi, il Congo è carne da audience. Ma oggi non accade nulla di strano rispetto al passato. Questo è il dramma vero di un popolo. Non esistere in Tv. Oggi, dopo qualche servizio Tg e qualche velina d'agenzia, i fondi a disposizione per l'intervento umanitario sono duplicati.
Ma oggi (e questa è la cosa da comprendere) è solo un giorno come tanti degli ultimi dodici, terribili, paurosi, indicibili anni.
(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)
USA/ Ecco perché ha vinto Obama - Roberto Fontolan - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Alla fine, con mia grandissima sorpresa un caro amico newyorchese, ebreo e repubblicano da sempre (famiglia inclusa), ha votato Barack. Lo ha convinto il figlio adolescente con una martellante campagna durata un anno, che faceva leva soprattutto sulla debolezza del Grand Ol’ Party e sull’atroce delusione subita dal secondo mandato di Bush, al quale non sono bastati i cambi di governo e di portavoce: ciò che nel primo mandato appariva come determinazione, convinzione, capacità di reazione, solidità, nel secondo si rivelava più che altro come un effetto meccanico dovuto all’11 settembre e all’immensità tragica di quella giornata.
Dentro l’America profonda c’è una forza incalcolabile e quella era sgorgata “automaticamente” dalle sue viscere. La politica, la Casa Bianca, non sapendo elaborarla e governarla davvero, ha potuto solo indirizzarla da qualche parte. Con i risultati che sappiamo, dalla guerra contro l’Iraq (un finissimo ed espertissimo cardinale profetizzò in privato: «Gli americani prima o poi dovranno andarsene e così saranno riusciti a regalare all’Iran le chiavi di Baghdad») a Guantanamo, i cui prigionieri arancioni continuano a scavare dubbi nell’anima americana, molto più di quanto non si pensi.
Tra l’altro, se è vero che nell’agenda di Obama i foreign affairs non sono in cima all’agenda - lo dicono tutti gli espertissimi commentatori che dall’altra notte ci hanno alluvionato di parole televisive, qui modestamente ne siamo molto meno convinti - ma almeno sull’Afghanistan dovrà dire e fare qualcosa molto presto: la guerra diede subito un colpo tremendo ai talebani, ma nemmeno quella storia venne sistemata e oggi dalla stessa amministrazione americana (e non solo, purtroppo) affiora l’incredibile idea di negoziare con gli esponenti di un regime ancora più cupo di quello di Pol Pot.
Quella forza aveva espresso e sospinto anche un pensiero nuovo, o per lo meno innovativo, per il quale era stato coniato il nomignolo neo-con o anche teo-con. Fiducia nella democrazia e nella sua globalizzazione, esaltazione della religione nel discorso pubblico, riaffermazione della positività americana. Soprattutto nel passaggio tra primo e secondo mandato di Bush, un passaggio molto critico e vinto di poco, era stato raccontata al mondo questa nuova America, simboleggiata dal geniale stratega elettorale Karl Rove che aveva portato a votare “milioni di cristiani del Midwest”. Anche quello era un “cambiamento epocale”, basta con le culture del politicamente corretto, con il progressismo vuoto delle coste (est e ovest), si ricomincia seriamente a fare l’America.
Ma in poco tempo questo patrimonio, se mai c’è stato, è sfumato e dopo otto anni di governo i leggendari think tank repubblicani avranno parecchio da fare per iniettare idee nuove nel partito svuotato. È precisamente il vuoto involontariamente avvertito dal figlio adolescente dell’amico newyorchese: non credeva che la coppia McCain-Palin potesse riempirlo, il padre non ha saputo opporgli resistenza.
Ora c’è Obama e la cosa più interessante è uscita diretta dal cuore dell’ex rivale John McCain: «Ha incarnato da subito la speranza degli americani».
Speranza è una parola molto abusata nel linguaggio politico della campagna elettorale americana, da tutti i presidenti (per Clinton essere nato in un paesino di nome Hope era un vantaggio) e certo non è l’uso di questa parola a fare la differenza tra vittoria e sconfitta.
Ma McCain ha capito che il senatore afroamericano (e lo è in modo letterale e diretto) nato a Honolulu, allevato per qualche anno in Indonesia e laureato a Harvard, ha fatto di più: la speranza l’ha «incarnata da subito». Si è rivolto a quella forza incalcolabile e l’ha convinta rendendo visibile un ideale grandioso e semplice, un motivo per cui agire, una meta da raggiungere: l’America che sappiamo, che appartiene al nostro dna, che è stata costruita dal desiderio di non rinunciare al desiderio.
In fondo, in un anno e mezzo di campagna elettorale, primarie incluse, Obama non ha fatto altro che chiedere all’America di guardarsi allo specchio e rispondere alla domanda «che cosa vedi?». Vediamo l’America, gli hanno risposto, una speranza incarnata da subito.
ISTRUZIONE/ Via i tagli alle scuole paritarie: il governo ha forse imboccato la strada giusta - Renato Farina - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Parlando ieri alla Fiera di Rho, Berlusconi ha ammesso di essersi sbagliato e di non aver fatto caso al taglio previsto da Tremonti e Gelmini per le scuole non statali, soprattutto cattoliche, ed in particolare materne ed elementari. IlSussidiario.net, che ha ospitato numerosi interventi di proposta e di protesta in questa direzione, segnala con soddisfazione questa solenne dichiarazione. E ora siamo certi che, con la sua capacità nel trasferire le parole nel regno dei fatti, consentirà di recuperare i 133,4 milioni di euro sottratti alla libertà di educazione. La finanziaria inopinatamente consegnata ai lavori parlamentari – e giudicata fino a poco fa immodificabile – giace ancora in commissione bilancio, e conserva nella sua pancia questa rovinosa disposizione. Ma in quella medesima commissione c’è anche un ottimo emendamento firmato da Gabriele Toccafondi (Pdl), e sottoscritto da una bella pattuglia di deputati (Lupi, Vignali, Aprea, Pagano, Goisis, Rivolta, e altri tra cui il sottoscritto) decisa a vendere cara la pelle delle scuole nate dalla tradizione della nostra terra. L’emendamento citato consente il reintegro delle cifre. L’alternativa secca sarebbe, nel caso fosse respinto e non si trovassero altre uscite di sicurezza, la chiusura di molte di queste scuole, con un danno gravissimo all’anima e al corpo dell’Italia. Come si fa ad opporsi a scelte di chi proclama la triade Dio Patria e Famiglia e poi pugnala l’unica libera espressione delle famiglie portando via alle scuole libere il pochissimo ossigeno dello Stato?
Detto questo, ed elogiato Berlusconi (ma anche la Lega che ha sostenuto vigorosamente questa necessità di reintegrare i denari espropriati), diciamo che se non va bene l’emendamento Toccafondi si possono trovare risorse in altre pieghe del bilancio, purché si faccia. Alla fine, non ci stanchiamo di ripeterlo, sarebbe un risparmio formidabile anche per le casse dell’erario. In Italia la qualità dell’istruzione può migliorare solo se c’è la concorrenza di proposte educative grazie a cui si potrebbe ottimizzare il rapporto costo-benefici.
Resterebbe anche da regolare qualche conto con chi adesso, invece di compiacersi per la leale ammissione di Berlusconi e la sua volontà di rimediare, ne fa un pretesto per apparire il primo della classe. L’onorevole Savino Pezzotta dell’Unione di centro ha attaccato la maggioranza per il taglio, proprio quando Berlusconi proclama la necessità di sanare lo sbaglio. Peccato che non sia stato depositato alla Camera dei deputati ed in nessuna commissione anche un solo emendamento che giovi alle scuole cattoliche e comunque a quelle non statali. Né dell’Udc né del Partito democratico, il quale ultimo ora chiede la restituzione dei fondi alle paritarie, ma minaccia sfracelli se saranno decurtati da quelle cosiddette “pubbliche”. Non le chiama statali ma pubbliche, l’onorevole Bastico. Così confermando che l’idea di educazione di questa sinistra resta primariamente quella dello Stato che dispensa mentalità ed idee, e la società al massimo può proporre istituti che suppliscano temporaneamente alle carenze “pubbliche”. Se abbiamo capito male, ci scusiamo, e il Partito democratico sottoscriva l’emendamento Toccafondi e avrà dimostrato di credere davvero alla libertà.
MASS MEDIA/ Il paese dell’incomunicabilità: giornali e tv di fronte alle rivolte studentesche - Alberto Contri - giovedì 6 novembre 2008 – Il Sussidiario. Net
Chissà quanti di coloro che si accapigliano intorno alle problematiche della scuola a forza di slogan, invettive, artifici dialettici, hanno visto i film di Antonioni sull’incomunicabilità. Io me li ricordo bene, e mi manca parecchio lo sguardo perso di Monica Vitti, perso e triste per la mancanza di comunicazione. Gli sguardi che vedo oggi paiono invece persi per un eccesso di comunicazione, però sbagliata: sono quelli di persone eccitate, agitate, spesso spinte ad agire da motivazioni per nulla chiare. Mentre la pubblicità di una grande azienda telefonica ci ricorda che abbiamo in mano il potere di comunicare e ci invita a farlo, paradossalmente sembra che nessuno riesca più a comunicare nulla. Nulla di serio, perlomeno, o che valga la pena di essere realmente discusso.
Se si analizza la nascita della protesta studentesca strettamente in base al circolo vizioso mediatico che si è creato intorno a problemi virtuali, ci accorgiamo di essere arrivati ad un punto estremamente pericoloso: sembra quasi che i mass media non siano condotti da nessuna mano, né sapiente, né ideale, né ideologica, ma siano semplicemente mossi da impulsi automatici. Come se la loro principale ragion d’essere fosse la ricerca dell’audience. Sparuti gruppetti di studenti inscenano una protesta rumorosa? Ecco pronto un obiettivo che inquadrando la scena dal basso e da vicino farà sembrare enorme ciò che è piccolissimo: ma credo che questo obiettivo sia stato utilizzato in tal guisa non sempre per motivi ideologici, bensì per aiutare la notizia a fare più notizia, a ottenere più attenzione. La dimostrazione è che la stessa pratica è stata seguita da telegiornali di opposto orientamento politico. Dopo giorni e giorni di una simile escalation nella ricerca dell’immagine più provocatoria, la protesta è inevitabilmente montata all’inverosimile. E la strumentalizzazione politica ci ha messo il resto. Nel frattempo sono stati invece accusati di atteggiamento ideologico i giornalisti capaci di dimostrare che quasi nessuno sapeva esattamente per cosa era sceso in piazza.
Ma è davvero possibile che la situazione sia scappata di mano per questo banale meccanismo? Probabilmente la verità risiede nel fatto che questo riflesso condizionato correlato alla ricerca dell’audience ha fatto lievitare una pasta i cui ingredienti erano costituiti da una larga dose di ignoranza, malafede o di strumentalizzazione politica, ma anche da una serie di errori di comunicazione – nei modi e nei contenuti – da chi doveva far comprendere ai cittadini i provvedimenti sulla scuola. Ma oramai poco importa che siano scesi in piazza gli studenti universitari quando il motivo del contendere era la scuola elementare. Oramai l’agenda è scappata di mano, ed è stata scritta diversamente da come probabilmente al Governo ci si augurava.
Personalità non certo di sinistra come Zecchi e Alberoni invitano a riflettere sul fatto che, visto che l’argomento è giunto comunque alla ribalta, nell’università non si può semplicemente tagliare ovunque, ma occorre risparmiare dove si spreca e investire dove si merita. Parlando a lungo e in profondità con docenti e studenti seri di qualsiasi cultura politica, si scopre che tutti indistintamente ammettono le inefficienze del sistema scolastico italiano. Un sistema assai ben descritto da un articolo apparso il 30 ottobre su La Stampa, nel quale Luca Ricolfi denunciava l’esistenza di due patti scellerati, uno tra genitori e figli e uno tra docenti e allievi, tutti tacitamente d’accordo nell’accettare una scuola certamente egualitaria, ma nel senso di non far fare fatica a nessuno: docenti, allievi e genitori, con buona pace per il pessimo livello di sapere distribuito. Così appare chiaro che chi ora protesta, con tutta probabilità si sarebbe trovato assai spiazzato dalla comunicazione di tagli alle aree di inefficienza in cambio di investimenti nelle aree efficienti. Da trasmissioni dove in genere soprattutto si litiga, sono emersi brandelli di verità tutt’altro che insignificanti sui ricercatori che meriterebbero un trattamento migliore e sui corsi inutili che andrebbero eliminati. Con notevole coraggio civile Stefano Zecchi ha inviato a Il Giornale in busta chiusa i nomi dei vincitori dei prossimi concorsi universitari che sarebbero noti da tempo. Autorevoli clinici universitari romani si dicono disposti a fare altrettanto per i concorsi della capitale. Finalmente qualcosa si muove, e si comincia a ragionare su una delle principali cause del disastro, che però – non va dimenticato – porta alla luce un patto altrettanto scellerato tra baroni e politica. E anche al Governo ci si è resi conto che su questi temi occorre muoversi con maggiore cautela.
Ma oramai non è più un fatto di mera comunicazione: se la crisi convince tutti della necessità di dover tagliare gli sprechi, nessuno potrà opporsi se solo gli sprechi verranno aggrediti, e non si taglierà egualmente dappertutto, mettendo in difficoltà quel poco di eccellenza che ancora resiste, mantenendo in piedi un sistema incapace di produrre sapere di qualità, come dimostrano le classifiche internazionali. E c’è anche una grande opportunità per i mass media di farci riflettere sulla verità, senza pensare sempre e solo all’audience: Vaclav Havel diceva che non si può andare impunemente per troppo tempo contro la verità. Eppure – ahimè – in queste ore vedo ancora spuntare il solito obiettivo, impiegato sempre con la stessa finalità. Posizionato in basso, da vicino, per far sembrare affollata la sala di un congresso di un partitello dove c’erano pochissimi intervenuti, o per far sembrare piena una piazza che piena non era affatto. Uno dei miei maestri di comunicazione ci potrebbe tornare a fare una delle sue famose lezioni sulla “non obbiettività” dell’obiettivo. Ma fino a quando ci si può illudere di poter ancora lottare impunemente contro la verità?
SCIENZA&FEDE/ 2. Evoluzione creatrice, l'atto eterno che genera il mondo - Piero Benvenuti - giovedì 6 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Abbiamo fatti notare, nel precedente intervento, come, nonostante i notevoli progressi, soprattutto da parte esegetica, che avrebbero dovuto già rimuovere alla radice ogni possibile conflitto tra l’osservazione scientifica dell’evoluzione e il concetto di creazione, sussistano ancora due atteggiamenti, non conflittuali, ma precludenti un vero dialogo costruttivo. Li abbiamo definiti atteggiamenti di indipendenza e di concordismo.
L’indipendenza considera gli ambiti della ricerca scientifica e della ricerca teologico-esegetica come totalmente indipendenti e impenetrabili. È sicuramente un modo per evitare ogni possibile conflitto, in quanto entrambi gli ambiti conservano un'assoluta indipendenza, ma questa divisione in compartimenti stagni sminuisce di fatto il valore della ricerca in entrambi gli ambiti e appare una soluzione “pilatesca”: ricorderete che Pilato, evidentemente colpito dall’uomo che gli stava davanti, ebbe un lampo di illuminazione e chiese a se stesso: «Ti estin alètheia? – che cos’è la Verità?». Ma fu solo un attimo: subito dopo se ne lava le mani e ritorna alle sue occupazioni, rinunciando a ricercare una risposta.
Il concordismo tenta invece – disperatamente – di far conciliare il quadro emergente e continuamente evolvente del modello cosmologico, ivi inclusa l’evoluzione biologica, con il concetto di creazione. A questo tentativo si aggiunge a volte, spesso implicitamente, quello di “dimostrare” l’esistenza di Dio derivandola dai risultati della ricerca scientifica. Gli esempi più noti sono quelli di far coincidere il Fiat lux con il Big-Bang, di confondere il nulla (ex nihilo) con il vuoto quantistico, la creazione in sette giorni con le fasi dell’evoluzione cosmica. Questo atteggiamento, purtroppo persistente, è profondamente sbagliato, principalmente perché il concetto di Dio è incommensurabile a qualunque processo di derivazione scientifica. È il presupposto irrevocabile a tutta l’esistenza e non un caso specifico derivabile. Il pericolo insito in questo atteggiamento, già sperimentato più volte, è quello di trasformare Dio in un “Deus ex machina”, in un “Dio tappabuchi” che viene chiamato in causa per colmare le lacune della nostra conoscenza, lacune che, successivamente colmate dal progredire della conoscenza, spostano inesorabilmente l’intervento divino verso nuove nostre ignoranze.
Io credo comunque che, al di là delle forme anche banali di concordismo, che possono essere facilmente confutate, il pericolo più grande sia quello di cercare di inserire il concetto di creazione in un contesto temporale. È comprensibile che questo avvenga: in fondo tutta la nostra vita si svolge nel tempo ed è l’unico contesto che la nostra esperienza biologica conosce. Per uscire da questa insidia naturale, dobbiamo riflettere profondamente sul significato di “eternità”, simbolizzato mirabilmente dai nostri padri nell’espressione in secula seculorum.
Quello che io considero la grande novità del pensiero scientifico moderno in relazione alla riflessione appena richiamata e che pone le basi per un dialogo finalmente fruttuoso tra scienza e fede, tra evoluzione e creazione, è il nuovo concetto dello spazio-tempo, proveniente dalla scienza, dalla fisica, dalla teoria della relatività.
Ritorniamo per un attimo al modello standard di evoluzione del Cosmo: questa non si svolge all’interno di uno spazio e di un tempo assoluti, di entità aliene ed impassibili al Cosmo. Spazio e tempo sono componenti integrali del Cosmo stesso: come aveva mirabilmente intuito Sant’Agostino, il tempo ha senso solo all’interno del Cosmo, non è pre-esistente (in senso ontologico) al Cosmo.
È bene sottolineare come questa conseguenza derivi dall’esperienza scientifica del mondo, non da un ragionamento astratto. È quindi ragionevole, non irrazionale, pensare all’esistenza di entità che si collocano “al di fuori” della gabbia spazio-temporale. Un'esistenza fuori dal tempo e dallo spazio fisico, anche se non dimostrabile, è razionalmente e scientificamente plausibile. Oggi, 400 anni dopo Galileo, possiamo nuovamente ardire di “tentar l’essenza”. Dobbiamo però accettare di allargare gli orizzonti della nostra razionalità e non limitarci, o meglio lasciarci abbagliare, dalla pura e sola conoscenza scientifica.
La Creazione stessa quindi, come ha illustrato in forma accessibile e chiarissima il Cardinal Ratzinger in una serie di omelie quaresimali tenute anni fa nel Duomo di Monaco di Baviera, va intesa come un concetto, non come un evento storico. È chiaro che in questa prospettiva viene rimosso alla radice ogni possibile conflitto tra il progredire “temporale” della ricerca scientifica, che interpreta e colloca razionalmente i fenomeni nello spazio e nel tempo, e la conoscenza a-temporale, l’uscita verticale della persona umana dal tunnel orizzontale dello spazio-tempo verso l’Essere, verso i secula seculorum.
Possiamo nuovamente rileggere il Prologo di Giovanni e meditare come il Logos che era presso Dio – kai Theòs en o Logos – e il Logos era Dio, e per mezzo di lui ogni cosa è stata fatta, kai o Logos Sarx eghèneto – e il Logos si fece carne e pose la sua tenda tra noi: significa che l’immanenza di Dio nel Creato, la creatio continua, è la razionalità che riconosciamo nel Cosmo.
Questa impostazione pone finalmente le basi per un dialogo vero e ricco di frutti tra scienza e fede. La ricerca scientifica può procedere libera, ovviamente nel rispetto della persona umana, ma senza temere di dare “scandalo”, in senso etimologico, alla fede e alla teologia. E la teologia, in comunione e non in opposizione con l’esegesi (proprio ieri all’inaugurazione del Sinodo c’è stato un forte richiamo ai teologi e agli esegeti perché lavorino in sinergia e non in contrapposizione) è fortemente stimolata dai risultati scientifici a ripensare e riscoprire l’ispirazione originale nella Sacra Scrittura e nei Dogmi.
Ci sono molti problemi aperti, connessi al concetto di Creazione, ovvero al pensare l’Uomo come essere creato, che, dall’evidenza scientifica dell’evoluzione, richiedono urgentemente una rivisitazione: penso al significato del Peccato Originale – che non a caso Ratzinger tratta nelle sue omelie unitamente alla Creazione - penso alla natura dell’Anima umana e del suo destino: senza sposare acriticamente le tesi di Vito Mancuso, il fatto che il suo libro dallo stesso titolo, si sia trasformato in un best-seller indica chiaramente il desiderio dell’uomo d’oggi di interrogarsi e di indagare sul proprio destino, usando per intero la propria capacità razionale.
Come procedere oltre? Non vedo altra possibilità che il dialogo.
Scrive Sergio Rondinara, ingegnere nucleare, filosofo e teologo: “La capacità di affrontare un autentico dialogo non è affatto scontata, non bastano la buona volontà e le necessarie competenze, ci vuole anche il coraggio di un certo spogliamento di sé sul piano intellettuale affinché il contributo dell’altro e l’autentica offerta del proprio “dono di scienza” siano fattivi e stimolatori di una comune crescita nella sapienza”.
Per ritrovare le radici di questa sapienza, vorrei concludere con la parole di un grande filosofo dell’antichità, Platone, che in tempi non sospetti scriveva, riguardo la possibilità di conoscere la Verità: dopo un lungo essere insieme in dialogo su questi temi, dopo una comunanza di vita, la conoscenza della Verità, improvvisamente, come luce che si accende allo scoccare di una scintilla, nasce nell’anima e da se stessa si alimenta - Platone, Lettera VII.
Concludiamo quindi questa riflessione con l’augurio che il dialogo prevalga, nell’attesa dello scoccare della scintilla della vera conoscenza.
Se fosse uno scacco ai tanti razzismi - DAVIDE RONDONI - – Avvenire, 6 novembre 2008
Saremo meno razzisti ora ? La vittoria di Obama sarà anche una vera sconfitta per il razzismo ? E si capirà meglio cosa c’è dietro questo termine contro il quale, spesso solo a parole, tutti sono pronti a schierarsi? Un presidente nero. C’è chi dice che in realtà l’America era già pronta da un pezzo, tanto è vero che pare non siano stati determinanti i voti degli afro- americani. Ma il fatto resta di notevole portata e gli aggettivi si sono sprecati. Ora la presenza sulla scena mondiale di un così potente uomo di pelle nera è un monito ineludibile. Il colore della pelle, e altri motivi di ordine religioso, etnico, culturale sono all’origine di tanti gesti di razzismo. Ci sono fatti gravissimi nel mondo, come in India, o atteggiamenti spesso ambigui o strane insofferenze anche dalle nostre parti. Tante battaglie tribali, o tante rivendicazioni nazionalistiche spesso poggiano su modi di vedere razzisti. Che l’uomo più potente del mondo sia un nero, ora, non è solo la dimostrazione dell’infondatezza di ogni razzismo, ma anche un invito a guardare meglio cosa è questo fenomeno. Spesso, infatti, è stato semplice allinearsi tutti contro gesti di sapore razzista.
Addirittura in un’occasione il campionato di calcio italiano ( una delle massime e intangibili istituzioni mondiali, quasi come la Casa Bianca) fu sospeso a causa di espressioni razziste rivolte a un giocatore. Una piaga, dunque, che appare nella nostra epoca il nemico contro cui tutti e, per così dire, facilmente si schierano.
Come se nel razzismo si fosse trovata una nuova versione di ' male assoluto'. Però si tratta di vedere bene come mai certi razzismi sono più condannati di altri. La presenza di Obama deve invitare tutti a battersi contro ogni gesto di questo tipo, qualunque ne sia il motivo. Senza ipocrisie. Ora che il politico più potente del mondo appartiene a un tipo d’uomo che non molto tempo fa, e proprio nel suo paese, era oggetto di atteggiamenti e leggi discriminatori, si tratta di lottare perché dovunque nel mondo ogni genere di razzismo sia condannato. Perché ancora oggi il fronte in apparenza compatto del ' no' a volte si incrina... C’è una specie di razzismo, ad esempio, nel pensare che una persona valga solo se in possesso di tutte le sue facoltà. È razzismo anche quello di chi non riconosce più valore a uomini che vivono in condizioni estreme di dipendenza dalle cure. È razzismo quello di chi non sopporta un figlio malformato. C’è un razzismo strisciante ma pervasivo nell’idea che un uomo o una donna valgano solo in quanto ben riusciti. C’è un razzismo meno visibile ma altrettanto velenoso nella considerazione di essere sempre i ' migliori', in politica come in cultura o in altre attività umane. Ci può essere addirittura un insopportabile razzismo ' etico': di chi si sente superiore per motivi morali. Insomma, il razzismo è tante cose e purtroppo è spesso presente. E ora che un nero, simbolo secolare di uno dei peggiori razzismi subiti nella storia, sale i gradini della casa più potente del mondo, abbiamo l’occasione di ritenere chiusa un’epoca ma non chiuso il problema. La sorte, fortunata e meritata, di Mr. Obama ci inviti a pensare al razzismo uscendo da facili slogan. E a combatterlo davvero, ovunque mostri il suo muso idiota, multiplo e feroce.
La sorte, fortunata e meritata, di Mr. Obama ci inviti a combattere davvero il pregiudizio
Su bioetica e famiglia incognite da chiarire - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 6 novembre 2008
C ambiamento, novità, svolta: la presidenza di Barack Obama inizia sotto auspici mediatici e politici che difficilmente si potrebbero immaginare più incoraggianti per il neoeletto ma che, allo stesso tempo, suonano densi di rimandi a doveri proporzionali al diffuso ottimismo. Sulle spalle del 44° inquilino della Casa Bianca gravano infatti attese che valicano ampiamente i confini americani, ben espresse ieri mattina dal direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi quando ha ricordato che «il compito del presidente degli Stati Uniti è di immensa e altissima responsabilità non solo per il suo Paese, ma per tutto il mondo». Un augurio, certo, ma anche un garbato promemoria: ogni passo calcato a Washington risuona per tutti, specie se a compierlo è un uomo al quale viene assegnato un credito di fiducia tanto vasto.
L’agenda del nuovo leader americano è irta di grandi temi, dalle aree dove la pace è sotto scacco alla crisi finanziaria globale. Parti integranti di questi nodi epocali sono diventate ormai le questioni connesse alla vita e alla morte, alla famiglia e al matrimonio, alla natura umana e alla dignità della persona, che interrogano in modo sempre più stringente Parlamenti e opinioni pubbliche. Americani in testa. Lo dimostrano i molti referendum – tra i 153 proposti in 39 Stati, insieme al voto presidenziale – dedicati a questioni etiche e familiari, chiusi con un esito altalenante e spesso al termine di un testa a testa: bocciati i quesiti che miravano a limitare il ricorso all’aborto, via libera al suicidio assistito (nello Stato di Washington), no alle nozze tra persone dello stesso sesso, sì alla ricerca sugli embrioni (nel Michigan). Nel sistema federale americano ogni Stato legifera per proprio conto, e le singole scelte hanno dunque un rilievo locale. È però indubbio che l’eco di una decisione presa dal presidente e dal Congresso nel campo della bioetica o della famiglia ha ormai un’immediata risonanza ben al di là dell’America. E in questo clima di attento interesse per vedere all’opera il nuovo leader è facile immaginare il risalto di ogni sua scelta su questioni di rilievo antropologico, con ipotizzabili ricadute anche nel dibattito sempre febbrile di casa nostra.
Va detto che le idee espresse in materia da Obama in una interminabile campagna elettorale offrono più di un motivo di perplessità. È certo opportuno aspettare i passi ufficiali del nuovo presidente: sfidando dapprima Hillary Clinton e poi John McCain, il candidato afro-americano non ha risparmiato argomenti retorici per blandire ora l’una ora l’altra componente del suo elettorato. Ma ci sono temi sui quali molti suoi supporter – americani e non solo – scalpitano per toccare con mano la 'svolta', il 'cambiamento', ovvero la coerenza con gli annunci spesi tra comizi e interviste. A cominciare dalla cancellazione della 'dottrina Bush' sulle staminali, cioè il fermo divieto introdotto dal presidente repubblicano all’erogazione di fondi federali per la ricerca su embrioni umani. Un punto sul quale il leader uscente si è speso fino a opporre ben due volte il proprio veto su leggi già approvate dal Parlamento. Un approccio altrettanto 'liberal' è immaginabile anche sul fronte dell’aborto, tema nel quale Obama ha affermato di pensare a una legge sulla «libera scelta» che escluda ogni limitazione nei tempi e nelle motivazioni per poter ricorrere all’interruzione di gravidanza. Al capo opposto della vita, il candidato democratico ha dichiarato poi di considerare uno errore politico il proprio voto a favore della mozione con la quale nel marzo 2005 il Senato americano tentò di salvare Terri Schiavo dalla morte per fame e sete. E se si è detto personalmente contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso – fiutando l’aria poi confermata martedì in tre diversi referendum locali – ha incluso tra le discriminazioni da abbattere proprio quelle basate sugli orientamenti sessuali pronunciandosi per la difesa della libertà di scelta e lasciando intendere, anche solo a scopo elettorale, di non escludere nulla a priori.
Concetti che fanno parte di un programma forzatamente generico, parole spese per chiamare voti, insieme a molte altre in linea con la genuina tradizione americana, incluse ripetute ed esplicite evocazioni religiose.
Attendere Barack Obama all’esame dei fatti è quindi un dovere. Ma farlo con la consapevolezza delle idee di cui viene accreditato dai molti euforici obamiani di queste ore è indispensabile.
Stop alle nozze gay, ma sì alle «embrionali» - referendum - DI LORENZO FAZZINI – Avvenire, 6 novembre 2008
L’ America del democratico Barack Obama difende la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna e boccia il matrimonio gay. Perfino la California, dove quest’anno la Corte suprema statale aveva ammesso l’unione tra omosessuali, dice il suo «no» a tale scelta. Lo stesso Obama, durante la campagna elettorale, si era schierato proprio su quest’ultima posizione. È questo il messaggio più significativo che emerge dai 153 referendum tenutisi in 36 Stati collegati alle elezioni presidenziali. È da notare che tali decisioni etiche dell’elettorato americano sono state bipartisan, cioè approvate sia nella Florida che ha cambiato bandiera, votando Obama mentre in passato era un feudo repubblicano, sia nell’Arizona rimasta repubblicana. Non solo: anche uno Stato significativo come l’Arkansas – dove l’ex presidente democratico Clinton fu governatore –, ora conquistato da McCain, ha visto una notevole tenuta morale: qui un referendum popolare ha vietato l’adozione di bambini alle persone omosessuali. I vescovi americani avevano posto la «chiamata alla famiglia» come uno dei punti qualificanti per la scelta del voto da parte di un cattolico. I presuli statunitensi hanno salutato la «storica» vittoria del senatore di Chicago chiedendo al nuovo presidente un forte impegno a difesa della vita e dei poveri: «Siamo pronti a collaborare con lei per la difesa e l’appoggio alla vita e alla dignità di tutte le persone» ha affermato il presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francis George, il quale ha esortato Obama a «superare le divisioni nel nostro Paese e nel mondo». Non hanno avuto esito positivo invece i referendum che chiedevano misure più strette sul fronte dell’interruzione di gravidanza. In California la Proposition 4, il premesso dei genitori per una ragazza minorenne che chiedeva l’aborto, è stata bocciata. Ma di misura: hanno votato per tale proposta il 48% dei 17 milioni votanti. Dopo l’insuccesso del 2006, anche quest’anno il Sud Dakota ha visto naufragare una proposta che restringeva la concessione legale dell’aborto solo ai casi di stupro o incesto. È però da rilevare che per il «no» ha votato il 55% degli elettori, mentre il 45%, quindi una fetta notevole dell’elettorato di questo Stato, chiedeva misure più forti per contrastare l’interruzione di gravidanza. Anche in Colorado, dove veniva proposto un emendamento per dichiarare l’embrione «persona umana», non ha ricevuto l’ok del voto. Dopo l’Oregon, un secondo Stato americano ammette il suicidio medicalmente assistito per i malati terminali: nello Stato di Washington è stato approvato la Preposition I-1000 che prevede la legalizzazione dell’eutanasia su richiesta per i malati che hanno meno di 6 mesi di aspettativa di vita. La liberal California ha detto inoltre forte e chiaro il suo no alla depenalizzazione della prostituzione, ipotesi messa ai voti sotto la formula della «Proposta K». Sul fronte bioetico nuovo ”scivolone” sulle staminali: il Michigan ha approvato l’uso a scopo di ricerca degli embrioni soprannumerari derivati da procedimenti di fertilità, procedimento scientifico che, come noto, ne implica la distruzione: in questo caso il voto è stato ristretto, 52% contro il 48%. Finora tale prassi non era permessa in Michigan. Ci sono stati infine due pronunciamenti “permissivi” in tema di sostanze stupefacenti: sono stati infatti approvate le consultazioni popolari in Michigan e Massachussetts sul fronte, nel primo caso, del permesso di utilizzare la marijuana per scopi sanitari, mentre nello Stato di Boston ha ricevuto il via libera la proposta di depenalizzare il possesso personale della droga fino a 28 grammi: tale possesso passa da reato penale a sanzione puramente amministrativa.
Per questi motivi, Eluana non può morire - di Viviana Daloiso – Avvenire, 6 novembre 2008
INSINTESI
1La Cassazione è chiamata a decidere sul destino di Eluana, tenendo conto delle due obiezioni della Procura di Milano.
2Se il suo stato sia irreversibile e se la sua volontà fosse quella di morire.
Martedì prossimo la Corte di Cassazione dirà quella che potrebbe essere l’ultima parola sulla travagliata vicenda di Eluana Englaro. In quella data, a sezioni unite, i giudici decideranno se accettare o meno il ricorso presentato dalla Procura di Milano, secondo cui la sentenza che ha autorizzato il distacco del sondino che nutre e idrata la giovane lecchese non avrebbe chiarito due questioni fondamentali: primo, se lo stato vegetativo di Eluana sia davvero irreversibile; secondo, se le volontà della ragazza fossero davvero quelle accertate nel corso del processo. Due condizioni stabilite come imprescindibili dalla stessa Cassazione, il 16 ottobre del 2007. E a cui si aggiungono altri importanti argomenti, emersi nel corso del dibattito degli ultimi mesi, che qui vogliamo riepilogare.
Eluana non è «un vegetale»
Della triste storia di Eluana Englaro sappiamo tutto: l’incidente, la disperazione della famiglia, le battaglie giuridiche e mediatiche del padre. Eppure conosciamo poco della sua condizione.
Sappiamo che è in stato vegetativo da 16 anni, per esempio, eppure in pochi hanno spiegato che questa situazione non è uguale al coma: Eluana, cioè, «presenta un regolare ciclo sonno-veglia, respira autonomamente, non è attaccata a nessun macchinario» ( Matilde Leonardi, responsabile Neurologia alla Fondazione Irccs Carlo Besta di Milano, «Avvenire» 11 settembre). Insomma, non ci sono 'spine' da staccare. Sappiamo che è alimentata e idratata attraverso un sondino naso-gastrico, accudita e curata esemplarmente, ma queste azioni non sono assimilabili a 'trattamenti terapeutici', né tanto meno ad accanimento: «Acqua e cibo sono i supporti basilari forniti a ogni paziente, ai disabili, ai malati di Parkinson, Sla e Alzheimer in fase avanzata, o ai neonati se incapaci di nutrirsi spontaneamente» ( Giuliano Dolce, direttore scientifico della clinica Sant’Anna di Crotone, 12 luglio). Sono necessari al suo sostentamento, non alla sua guarigione.
Sappiamo che una sentenza ha decretato che le venga tolto quel sondino, che possa essere 'lasciata morire', eppure nessuno aggiunge che la morte per fame e per sete può essere preceduta da una lunga agonia (anche più di 15 giorni), proprio come accadde a Terri Schiavo.
Eluana non è «irreversibile»
Lo stato vegetativo non è una malattia terminale e i pazienti in questa condizione, come Eluana, «sono vivi a tutti gli effetti, il loro cervello produce ormoni, fa pulsare il cuore» ( Mario Guidotti, ospedale Valduce di Como, 25 luglio). Non a caso la stessa sentenza della Corte d’Appello di Milano raccomanda che Eluana, una volta tolto il sondino, sia sedata e che le vengano tenute bagnate le mucose, affinché non soffra. Lo stato vegetativo è invece una forma di disabilità estrema, in cui sussiste un difetto di coscienza: «Non è una malattia che porta a morte. In questi casi interrompere l’alimentazione non ha alcun fondamento medico» ( Rodolfo Proietti, docente di Anestesia e rianimazione all’Università Cattolica di Roma, 20 luglio). Inoltre lo stato vegetativo non può mai essere definito irreversibile, o permanente: lo ha stabilito la conferenza di Londra del 1996, quando neurologi e ricercatori di tutto il mondo si confrontarono su questa patologia, i cui decorsi possibili sono ancora sconosciuti (oggi oltre il 50% dei pazienti in questo stato riacquistano, anche dopo anni, un margine seppur minimo di coscienza). E lo hanno confermato gli studi più recenti: «Attraverso la risonanza magnetica funzionale ci siamo resi conto che, alla richiesta di compiere mentalmente delle azioni elementari, le aree cerebrali che si attivano nei pazienti in stato vegetativo e nei soggetti sani sono esattamente le stesse. Un fatto fondamentale per due ragioni: il paziente in stato vegetativo dimostra di essere cosciente (e questo non era mai stato provato prima) e, ciò che è sbalorditivo, di comprendere il senso delle parole che gli vengono rivolte, addirittura di conservare una memoria delle azioni che erano normali nel suo passato» ( Adrian Owen, responsabile dell’Unità neurologica dell’Università di Cambridge, 3 agosto).
Chi la lascerà morire?
Il decreto della Corte d’Appello di Milano presenta almeno tre aspetti problematici su cui è bene tornare alla vigilia della decisione della Cassazione. In primo luogo, autorizza il tutore di Eluana (il padre) a interrompere idratazione e alimentazione artificiali, ma senza alcun obbligo di dare esecuzione a quanto si consente. Motivo per cui la Regione Lombardia, per esempio, ha già rifiutato la disponibilità di eseguire quella sentenza in una delle sue strutture. Il Codice deontologico e il giuramento professionale dei medici, d’altra parte, prescrivono che il personale sanitario si occupi di curare i pazienti, non di causarne la morte. E ancora, come ribadito dalla stessa Regione Lombardia nella sua risposta alle richieste di Beppino Englaro, ospedali, cliniche e hospice sono luoghi in cui si riconosce la dignità della vita fino all’ultimo giorno: «L’accoglienza di Eluana in un hospice snaturerebbe completamente il motivo per cui è nato: quello di sorreggere una vita in fase terminale con la palliazione e il sollievo dei sintomi. Gli hospice sono essenzialmente luoghi di vita, non di morte, dove le persone malate vengono sostenute nel vivere la vita che gli rimane nel modo più dignitoso possibile» ( Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi al Centro Don Orione di Bergamo, 4 settembre).
«volontà»?
Altro capitolo sui cui occorre fare chiarezza è quello delle volontà 'dedotte' di Eluana. Che la Corte d’Appello di Milano ha ricostruito durante il processo, visto che la ragazza non le ha mai espresse in modo manifesto e inequivoco. Ora, se anche nel nostro ordinamento esistessero elementi che consentano di ritenere che un soggetto possa rivendicare un 'diritto alla morte' («Per quanti sforzi io faccia, non li trovo. Mentre al contrario troviamo sempre e soltanto il principio del 'favor vitae', del diritto alla vita», Vincenzo Nardi, avvocato generale presso la Corte di Cassazione, 19 luglio) la stessa Suprema Corte recentemente, rispondendo al ricorso di un testimone di Geova, è stata chiara: «Nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivocabile, attuale, informata». E ancora: «L’efficacia di un dissenso 'ex ante' privo di qualsiasi informazione medico-terapeutica deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo pienamente». ( sentenza n. 23676 della Terza Sezione Civile, 15 settembre 2008). Queste condizioni valgono (e devono valere) anche per Eluana Englaro. Ora più che mai.