Nella rassegna stampa di oggi:
1) 23/11/2008 13.14.32 – Radio Vaticana - Se ciascuno pensa solo ai propri interessi il mondo non può che andare in rovina: così il Papa nell’odierna Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo
2) 24/11/2008 8.01.56 – Radio Vaticana - Il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore. Così il card. Saraiva Martins a Nagasaki, al rito di beatificazione di 188 martiri giapponesi
3) ELUANA/ Perché la Cassazione le ha negato una “legittima difesa” - Lorenza Violini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
4) CRISI/ Protagonisti o una nuova etica delle regole - Graziano Tarantini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
5) SCUOLA/ Il dramma dei precari: quando si porrà fine a decenni di illusioni e frustrazioni? - Giovanni Cominelli - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) LETTERATURA/ Dino Buzzati, la voce del mistero nel deserto dei bempensanti - INT. Fausto Gianfranceschi - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) Notizia choc: un cardinale fa l'elogio dell'ortodossia - Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: "Al giorno d'oggi non è più l'eresia, ma la retta dottrina a fare notizia". Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio di Sandro Magister
23/11/2008 13.14.32 – Radio Vaticana - Se ciascuno pensa solo ai propri interessi il mondo non può che andare in rovina: così il Papa nell’odierna Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo
Il Signore non sa che farsene di forme ipocrite di devozione se si trascurano i suoi comandamenti: sono parole del Papa che all’Angelus ha ricordato la Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo celebrata oggi, commentando la parabola del giudizio finale. Dopo la preghiera mariana, ha poi ricordato la particolare beatificazione di 188 martiri che avverrà domani in Giappone, la terribile carestia che colpì l’Ucraina 75 anni fa e poi l’anniversario del programma polacco della radio vaticana, che festeggia domani 70 anni di trasmissioni. Il servizio di Fausta Speranza http://62.77.60.84/audio/ra/00139339.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139339.RM
“La verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati”: è questo -spiega il Papa – il messaggio del vangelo di oggi e di quella che definisce la “stupenda parabola del giudizio finale”. Ne ricorda qualche parola per poi sottolinearne l’importanza:
“Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto… (Mt 25,35) e così via. Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali.”
Il regno di Dio, come diceva Gesù non è di questo mondo e infatti Gesù rifiutò il titolo di re quando si intendeva in senso politico, ma – sottolinea Benedetto XVI – il regno di Dio “porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia”. E il Papa fa una raccomandazione precisa:
“Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.”
E il Papa ricorda che “il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive San Paolo, è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Un insegnamento chiaro e forte cui il Papa aggiunge altre forti considerazioni: “Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita”, - dice – che specialmente i suoi figli più piccoli possano accedere al banchetto che Lui ha preparato per tutti”. E il Papa poi spiega:
“Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice “Signore, Signore” e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola.”
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato due momenti particolarmente significativi per la vita della Chiesa:
“Domani, in Giappone, nella città di Nagasaki, avrà luogo la beatificazione di 188 martiri, tutti giapponesi, uomini e donne, uccisi nella prima parte del XVII secolo. In questa circostanza, così significativa per la comunità cattolica e per tutto il Paese del Sol Levante, assicuro la mia spirituale vicinanza. Sabato prossimo, inoltre, a Cuba sarà proclamato beato Fratel José Olallo Valdés, dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio. Alla sua celeste protezione affido il popolo cubano, specialmente i malati e gli operatori sanitari.”
Tra i saluti in varie lingue, un pensiero particolare ai pellegrini ucraini, ricordando che ricorre in questi giorni il 75esimo anniversario della grande carestia che negli anni 1932-33 causò milioni di morti in Ucraina e in altre regioni dell’Unione sovietica durante il regime comunista. Il Papa assicura la sua preghiera per le vittime auspicando vivamente che “nessun ordinamento politico possa più, in nome di un’ideologia, negare i diritti della persona umana e la sua libertà e dignità” e invitando le nazioni a “procedere sulle vie della riconciliazione e a costruire il presente e il futuro nel rispetto reciproco e nella ricerca sincera della pace”.
C’è poi il saluto alla sezione polacca della Radio Vaticana che celebra domani il 70esimo anniversario della sua attività. Il papa esprime il suo grazie ai redattori per il loro generoso lavoro. Infine, un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai dirigenti e ai cantori dell’Associazione Italiana Santa Cecilia, che ha tenuto il suo convegno, con uno speciale concerto, presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura, e un saluto anche alle due associazioni OARI e AVULSS, impegnate nel volontariato accanto ai malati e ai sofferenti, come pure i fedeli provenienti da Marsico Nuovo, Reggio Calabria, Avola, Priolo e Vallelunga. Per tutti, l’augurio del Papa per una buona domenica.
24/11/2008 8.01.56 – Radio Vaticana - Il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore. Così il card. Saraiva Martins a Nagasaki, al rito di beatificazione di 188 martiri giapponesi
“La fedeltà di tanti martiri, di ogni età e condizione, nella diversità di luoghi e tempi, è segno della dottrina vitale della Chiesa, giacché il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore”. Con queste parole il cardinale José Saraiva Martins, Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi, ha presieduto questa mattina a Nagasaki, in Giappone, il rito di beatificazione di Pietro Kibe, sacerdote professo della Compagnia di Gesù, e di 187 compagni martiri: sacerdoti, religiosi e laici, che persero la vita tra il 1603 e il 1639, e che ieri sono stati ricordati dal Papa all’Angelus. Sul messaggio che i 188 martiri hanno lasciato al Giappone e al mondo, Roberto Piermarini ha intervistato proprio il rappresentante di Benedetto XVI alla celebrazione, il cardinale Saraiva Martins: http://62.77.60.84/audio/ra/00139383.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139383.RM
La Chiesa cattolica del Giappone guarda, dunque, ai martiri come a compagni di fede per il futuro. Lo spiega l’arcivescovo di Nagasaki, mons. Joseph Mitsuaki Takami, intervistato da Davide Dionisi: http://62.77.60.84/audio/ra/00139325.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139325.RM
R. – Potrebbe essere un punto di partenza, ripartenza, per l’evangelizzazione e per rinnovare la nostra coscienza, forse, come cristiani. Ci hanno dato un grande messaggio: la fede, l’atteggiamento verso gli altri, la pace, la libertà di religione.
D. – Come viene vista dalle altre comunità religiose civili la beatificazione di martiri cristiani?
R. – Adesso sono molto interessati a sapere; questa beatificazione può essere anche un’occasione per noi, per la Chiesa del Giappone, di far sapere a loro questa nostra fede, il nostro messaggio che abbiamo per la società giapponese. Possiamo far sapere agli altri giapponesi che ci sono valori non mondani ma eterni, che i martiri hanno potuto per questo offrire le loro vite. Nella società giapponese, come nelle altre società, c’è tanta gente che vive un po’ troppo egoisticamente.
D. – Possiamo dire che pure nella drammaticità di quegli eventi, la loro testimonianza è un patrimonio che arricchisce il Paese?
D. – Non è solo questa beatificazione che può fare questo, ma tutti noi cristiani giapponesi dobbiamo fare più sforzi per arricchire il nostro Paese, portando il nostro patrimonio cristiano, dando la nostra testimonianza. Dobbiamo continuare, sempre.
Concorda il vescovo di Takamatsu, mons. Osamu Mizobe, presidente della Commissione dei vescovi giapponesi per la beatificazione dei 188 martiri, raggiunto telefonicamente da Pietro Cocco:
R. – Questi martiri danno una lezione: vivere con la fede, vivere con personalità, e morire; dunque, da una parte, dare un messaggio alla società giapponese di oggi, dall’altra parte, alla Chiesa cattolica. Questa potrebbe essere l’occasione di un rinnovamento spirituale della Chiesa giapponese.
D. – Come viene vista dalle altre comunità religiose e civili in Giappone questa beatificazione?
R. – In genere, molto favorevole.
D. – Ma a cosa fu dovuto questo periodo così doloroso e drammatico della Chiesa cattolica in Giappone?
R. – Il problema principale della persecuzione è questo: la religione cristiana ha insistito nell’affermare che Dio è l’unico creatore, e lo Stato giapponese non ammetteva questo.
D. – Mons. Mizobe, la beatificazione riguarda 188 persone; c’è padre Kibe, un padre gesuita, con altri tre confratelli, un padre agostiniano; gli altri sono tutti quanti laici…
R. – Nello scegliere questi martiri, noi ci siamo basati su quattro criteri. Il primo è questo: per i giapponesi, per la vita cattolica del Giappone. Il secondo è: fino ad adesso tutti questi santi beati sono stati uomini, allora questa volta abbiamo preso in considerazione le donne, i bambini. Il terzo è: 400 anni fa la Chiesa cattolica si è espansa per tutto il Giappone, allora abbiamo preferito scegliere quasi tutte le diocesi. Poi, il quarto criterio è che sono quattro sacerdoti, che sono ben noti, conosciuti, però ci sono tanti altri sacerdoti martiri.
ELUANA/ Perché la Cassazione le ha negato una “legittima difesa” - Lorenza Violini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Come è noto, la vicenda giudiziaria sul caso Englaro, recentemente conclusasi almeno dal punto di vista del diritto (ma fortunatamente ancora aperta in fatto, visto che la sentenza non è ancora stata eseguita), ha avuto una lunghissima gestazione e ha visto un susseguirsi di sentenze da parte di giudici di diversi ordini e gradi. Tali sentenze contengono argomentazioni che forse può essere utile riconsiderare, anche alla luce di quanto verrà poi stabilito dal Parlamento in tema di direttive anticipate di fine vita. Non è detto infatti che una decisione, per quanto importante e resa dal giudice più alto in grado, non possa essere posta sotto critica; anzi, è compito della dottrina – se vuole restare vergine di servo encomio – esercitare la funzione di controllo culturale e tecnico a quanto la prassi va elaborando.
Tra i molteplici temi considerati dai giudici coinvolti merita ricordare la scelta compiuta nel 2005 dalla Corte di Cassazione. In quella sede, con l’ordinanza nr. 8291, era stato dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal padre di Eluana contro la prima sentenza della Corte di Appello di Milano la quale, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Lecco, aveva negato l’assenso alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, in quanto non notificato ad alcuno e, in particolare, neppure al Procuratore Generale. Tale notificazione (fondamentale affinché si instauri correttamente un processo) non sarebbe necessaria solo nei procedimenti di volontaria giurisdizione unilaterali, in cui cioè non sia identificabile un interesse diverso da quello del ricorrente (nella specie il padre di Eluana).
Tutto ciò posto, il supremo giudice - pur non entrando in merito alla richiesta avanzata dal padre di Eluana - asserì essere di immediata evidenza (sic.) che il provvedimento richiesto - che si affermava corrispondere all’interesse dell’interdetto - possa invece non corrispondervi, con la conseguenza che «giammai il tutore potrebbe esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze, ... possa affermarsi coincidere con gli interessi dell’interdetta non in condizioni di esprimere la propria valutazione». Trattandosi pertanto di una situazione di potenziale conflitto di interessi, la Corte di Cassazione nel 2005 ritenne necessario che si nominasse un curatore speciale incaricato di agire a tutela dell’interesse dell’interdetto, interesse non tutelabile dal solo tutore.
In questo pur fragile modo l’ordinamento mira a far sì che le scelte compiute in nome e per conto di altri, siano essi minori o interdetti, vengano compiute tenendo conto di tutti i possibili interessi in gioco e non solo di quelli che stanno alla base delle richieste di una parte. La nomina del curatore speciale avviene, infatti, in estrema sintesi, quando tutore e protutore si trovano in opposizione di interessi con il minore (art.360 del codice civile) e ha come compito di tutelare al meglio l’interesse del minore ponendosi come contraddittore necessario nei giudizi.
Ora, essendo il caso così complesso e problematico, ci si sarebbe potuti aspettare che il curatore facesse emergere almeno qualche aspetto di problematicità nella posizione del tutore mentre, come è noto, fin dall’inizio il curatore non ha fatto altro che sostenere appieno le scelte del tutore stesso, con ciò avallando l’immagine dell’esistenza di un solo interesse dell’interdetta, quello a veder conclusa la propria vicenda terrena tramite la sospensione di un “trattamento” a cui essa stessa non aveva consentito e a cui non avrebbe presumibilmente consentito, a detta dei giudici, se fosse stata cosciente. Con ciò un ulteriore elemento della vicenda viene alla luce: non solo la volontà dell’interdetta viene ricostruita nel processo tramite prove testimoniali relative ad asserzioni della stessa rese in un lontano passato e in una condizione ben diversa da quella in cui ella oggi si trova, ma il possibile conflitto di interessi tra chi vuole la fine del trattamento e di chi potrebbe essere interessato a continuare nutrizione e idratazione pur nella difficile condizione di una persona in stato vegetativo (e forse l’interdetta stessa, se potesse esprimere la sua volontà) viene risolto in modo rigorosamente formale tramite – dice la stessa Cassazione – «la – mera (ndr)- presenza in causa del curatore speciale» la quale «supera ogni problema di possibile conflitto tra la tutelata e il tutore».
CRISI/ Protagonisti o una nuova etica delle regole - Graziano Tarantini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Stiamo dentro una terra incognita, alla fine sicuramente c'è, come per tutte le crisi, un cambiamento di prospettiva», ha detto il ministro Tremonti nella sua prolusione all'Università Cattolica. Davanti alla crisi finanziaria globale che di giorno in giorno assume sempre più i caratteri di un fenomeno dai contorni imprevedibili, non ci sono in effetti ricette o soluzioni preconfezionate. Tremonti parla di «una rottura di continuità, di una crisi che tuttavia porta a una soluzione». In questo senso se la situazione attuale contribuirà a ridare all'economia reale il primato che le spetta, sarà senz'altro occasione di una svolta importante. Si tratta di ristabilire un ordine delle cose che negli ultimi anni è stato sovvertito perché si è puntato, come ha ricordato Sapelli, sull'autoreferenzialità ora di un'economia ridotta a tecnica di calcoli, ora di una finanza separata dal proprio oggetto. Dunque la crisi può rappresentare il momento del ritorno a un sano realismo da cui prendere le mosse per ripartire. Indubbiamente, citando le affermazioni di Tremonti, «stiamo dentro a una situazione caratterizzata da grandi complessità». La realtà del resto si presenta sempre complessa e, proprio in forza di tale natura, non può essere ingabbiata dentro un sistema di regole ferree che pure occorrono. Abbiamo già assistito, anche in tempi recenti, al tentativo di rimettere le cose a posto con un'overdose di regolamentazioni che oggi hanno dimostrato tutta la loro inefficacia nel proteggerci dagli effetti perversi di meccanismi finanziari impazziti. Alla fine è sempre la persona che rischia, che implica se stessa in un rapporto con la realtà, nel bene e nel male, a fare la differenza.
La distinzione che fa Profumo, nelle dichiarazioni riportate dal Corriere della Sera, fra la responsabilità individuale e quella delle istituzioni non ha mai un confine netto.
In tale ottica non mi convince la sottolineatura che Tremonti ripetutamente fa sulla necessità di recuperare una dimensione etica dell'economia. È come se ci trovassimo di fronte a un pericoloso “salto di carreggiata”: prima si pone sul banco degli imputati un capitalismo schiavo del conto economico (cioè del mondo dei prezzi), vittima delle frenesie da trimestrale, che ha relegato in secondo piano lo stato patrimoniale (cioè il mondo dei valori), ma poi quando si tratta di entrare nel merito ci si rifugia nell'etica. L'impalcatura di regole, leggi e strutture che è stata concepita, si affida ultimamente alla pretesa che qualcuno sia a priori e per definizione “onesto”. Così facendo ancora una volta ci si esime dal misurarsi con la realtà che è fatta in egual misura di bene e di male. L'amministratore di una banca, per esempio, è chiamato a svolgere in modo efficace la sua funzione di sostegno allo sviluppo dell'economia reale, rischiando e decidendo, inclusa la possibilità di sbagliare. Ciò rientra nei suoi compiti. Chiedergli di essere etico significa spostare il problema da un'altra parte: si esonera di fatto la persona dalla propria responsabilità e si demanda tutto al rispetto formale della legge “con l'introduzione di un ordine, di una disciplina, di valori morali”. Un'istituzione finanziaria è stretta fra il rispetto delle regole, compreso il rapporto con le autorità di controllo, e il mercato che deve servire. Purtroppo adesso si sta creando, dai massimi vertici fino ai livelli più bassi, un'attenzione esagerata, talvolta quasi ossessiva, verso il rispetto delle regole. Queste ultime giustamente vanno applicate in modo scrupoloso e ciò è fuori discussione. Chi gestisce una banca, però, ha per sua natura a che fare col rischio, è chiamato prima di tutto a servire un mercato molto articolato che, dalla piccola alla grande impresa, dall'artigiano alla famiglia, si presenta spesso problematico e che si aspetta risposte concrete. Se viene meno tale consapevolezza accade di sentir parlare di etica molti di coloro che hanno fatto un uso spregiudicato dei derivati. Forse c'è qualcosa che non funziona, la stonatura è evidente. Sapelli acutamente osserva che «chi parla di etica spesso si comporta male». Oggi di fronte alla crisi la cosa più urgente è ricreare un clima di fiducia. Pensare che ciò possa avvenire grazie a un soprassalto etico sarebbe un'illusione foriera di cocenti delusioni. La fiducia, che è la materia prima del mercato, appartiene infatti alla società che la costruisce nel tempo ed è un asset di bilancio di enorme valore economico. E proprio a questo livello si gioca una sfida decisiva per il nostro futuro.
Una seconda questione evidenziata nella prolusione di Tremonti riguarda la globalizzazione nella quale, a suo giudizio, ha avuto origine la crisi attuale. In realtà resta un processo tutt'altro che compiuto. Se si è avuta una globalizzazione finanziaria che l'interdipendenza dei mercati oggi conferma, per quanto concerne l'economia siamo assai lontani da tale obiettivo. Nell'esperienza personale che ho potuto vivere negli organismi della Wto ho misurato direttamente quale sia il peso e il potere di interdizione dei diversi protezionismi. Basti pensare al solo settore agricolo e alle contestazioni mosse da anni all'Unione Europea per la sua politica di sussidi a tale comparto. In quest'ottica credo che nel momento presente vada piuttosto rivalutato un modello di economia legata al territorio, capace di stabilire solide relazioni di cooperazione e di scambio, e di presentarsi così sui mercati più o meno globali portando non solo beni e servizi, ma anche cultura ed evidenza che il primato della persona, sia nel suo ruolo di consumatore che in quello di lavoratore, diventa fattore di convenienza. Ciò vale soprattutto per l'Italia dove l'esperienza di tanti nostri distretti industriali può essere ancora un punto significativo da cui ripartire.
SCUOLA/ Il dramma dei precari: quando si porrà fine a decenni di illusioni e frustrazioni? - Giovanni Cominelli - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Le cifre più accreditate parlano di 200.000 insegnanti precari. L’età media oscilla attorno ai quarant’anni. Il loro carico di frustrazioni e di sofferenze individuali non è calcolabile, ma intuibile. La diminuzione prevista dalla legge 113 di Tremonti di 87.000 cattedre in tre anni avrà due conseguenze certe, anche se non precisamente quantificabili: la collocazione in soprannumero di insegnanti già di ruolo e il blocco dell’immissione in ruolo dei precari per almeno un triennio. La Moratti ne aveva immesso, in cinque anni, 165.000 e Fioroni 65.000.
Perché esiste questa figura nel nostro sistema e solo nel nostro? Il precariato è un mostro giuridico generato dal Moloch burocratico del ministero dell’Istruzione. Esce dalla fenditura che si apre tra le esigenze quotidiane e immediate delle scuole e la capacità di risposta da parte del ministero. Nasce dalla contraddizione tra i tempi della didattica e quelli burocratici. Se un insegnante si ammala o va in maternità, deve essere sostituito per giorni fino a un anno. Per una scuola che fosse davvero autonoma sul piano didattico, organizzativo e finanziario, che avesse la responsabilità totale delle risorse umane e finanziarie la soluzione sarebbe relativamente semplice. È assente per 2 settimane il prof di matematica? Si può semplicemente rinviare per 2 settimane l’insegnamento della matematica e ristrutturare gli orari, in modo da offrire altri insegnamenti. Quando il titolare ritorna, recupera le ore. Poiché, invece, l’offerta è rigida, il buco che si apre viene riempito chiamando un supplente. L’istituto della “supplenza” sta all’origine della formazione del precariato.
L’apparato amministrativo non è mai riuscito né a prevedere né a programmare sia l’aumento massiccio della domanda di insegnanti, a seguito dell’espansione della scuola di massa, né la risposta immediata alle esigenze organizzative quotidiane. Non è riuscito né mai vi riuscirà. Solo chi sta sul posto – l’autonomia scolastica – potrebbe dare una risposta tempestiva, utilizzando le risorse a disposizione, ma non ne ha la facoltà. Perciò, fin dagli inizi degli anni ’70, i supplenti che insegnavano a decine di migliaia, spesso per un anno intero, incominciarono a chiedere giustamente il riconoscimento del loro lavoro. Insegnavano tutto l’anno come e spesso meglio dei titolari di ruolo, che cosa impediva che fossero loro riconosciuti i diritti e la retribuzione dei loro colleghi?
La prima massiccia manifestazione di supplenti a Milano è del 1972. Il ministero rispose sostituendo ai concorsi ordinari, il cui espletamento era lunghissimo, i corsi abilitanti oppure i concorsi riservati a determinate categorie. Si trattava in realtà di sanatorie. Dal 1948 ad oggi se ne contano circa 28! A poco a poco i concorsi, che erano l’unico canale di reclutamento, sono venuti meno, pur senza essere mai stati aboliti, e si è creato surrettiziamente un secondo canale di reclutamento: i concorsi riservati.
Qui fa la sua comparsa in scena il sindacato. Esso chiama a raccolta i supplenti, chiede e ottiene i corsi abilitanti, li organizza, avendone in cambio tessere, potere contrattuale e soldi. Il sindacato è così diventato il gestore effettivo del secondo canale. Nel 1974 i Decreti delegati avevano deciso la formazione universitaria dei docenti, ma sarà realizzata solo vent’anni dopo, con l’opposizione dei sindacati stessi: saranno le SSIS. La lunga marcia del sindacato si compie nel 1999 con la legge 124 sulle graduatorie permanenti, imposta dai sindacati al troppo cedevole ministro Berlinguer. La legge stabilisce che a chiunque faccia supplenze venga riconosciuto un punteggio, che lo colloca dentro una graduatoria permanente. Si decide anche che di lì in avanti l’immissione in ruolo avverrà per il 50% attraverso i concorsi e per il 50% attraverso le graduatorie permanenti. In realtà i concorsi non sono più stati indetti, unico canale di reclutamento è rimasta la graduatoria permanente. Se i concorsi tradizionali accertavano quantomeno il possesso della disciplina, ma non certo le capacità didattiche, dalle graduatorie permanenti si passa al ruolo senza più nessuna verifica. Che questa procedura abbia portato all’abbassamento della qualità dei docenti è sotto gli occhi di tutti, in primo luogo dei ragazzi e delle loro famiglie.
La Moratti non riuscì a eliminare le graduatorie, ma con il Decreto legislativo 227 del 2005 delineò un nuovo itinerario di formazione dei docenti e lasciò aperta la strada anche alla chiamata diretta da parte delle scuole. Forse non è un caso che Fioroni, di nuove succube del sindacato, sospendesse o rinviasse tutti i Decreti Moratti, ma quest’ultimo lo abolisse tout court. La sua idea era di tornare ai concorsi ordinari, mentre nel frattempo chiudeva le SISS e l’accesso alle graduatorie permanenti. Di lì in avanti si sarebbe andati ad esaurimento delle medesime. In attesa che il ministro Gelmini dica qualcosa, e non essendo venuta meno la contraddizione tra i tempi reali della didattica e quelli stellari della burocrazia ministeriale, la scuola continuerà ad aver bisogno di supplenti e a generare supplenti. Non entreranno più nelle graduatorie permanenti, ma continueranno a lavorare, finché, esasperati, si metteranno insieme, troveranno il sindacato che li porterà prima in piazza e poi al tavolo ministeriale, il quale produrrà, finalmente, la ventinovesima sanatoria. A meno che il parlamento e il governo prendessero sul serio l’emergenza educativa del Paese e decidessero finalmente: a) di definire una nuova modalità di formazione e di reclutamento dei docenti; b) di riconoscere alle scuole un’autonomia completa didattica, organizzativa, finanziaria e il reclutamento del personale; c) di escludere dal governo della scuola il duo ministero-sindacato. Hic Rhodus, hic salta!
LETTERATURA/ Dino Buzzati, la voce del mistero nel deserto dei bempensanti - INT. Fausto Gianfranceschi - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Quest'anno è il quarantesimo anniversario della pubblicazione della Boutique del Mistero di Dino Buzzati. Si tratta di un libro che esprime una letteratura pressoché unica nell'ambito culturale che avvolgeva il 1968. Qual è la differenza fra la scrittura di Buzzati e quella di gran parte dei suoi contemporanei?
Una grande differenza. In effetti Buzzati è stato, non dico emarginato, ma, in un certo senso “oscurato”. Si è cercato di coprire la sua voce, di smorzarla, perché era l'unico scrittore che in quel periodo avesse una concezione della vita davvero molto complessa, molto profonda, mentre allora, dietro tanto idealismo, si viveva in superficie. Si parlava di “realismo”, ma era un realismo non reale perché la realtà dell'uomo non è semplice come da allora in poi si è preteso di farla apparire.
Quando Buzzati parla di mistero non si riferisce certo alla magia o ai giochi di un prestigiatore, ma è un mistero che ha delle dimensioni gerarchiche che vanno dalla vita materiale fino alla vita dello spirito. Buzzati si apre a tutte le dimensioni dell'esperienza umana ed esistenziale rimanendo così una delle poche eccezioni ancora al giorno d'oggi, dove la stragrande maggioranza degli scrittori è stata per così dire omologata dalla cultura materialista.
Qual è l'origine di questo senso del mistero che avvolge tutti i romanzi e racconti dello scrittore?
Quale ne sia la radice più profonda non possiamo dirlo, poiché questa appartiene all'intimità della persona dello scrittore.
Possiamo però osservare in primo luogo la sua immensa preparazione culturale e letteraria unita a un'enorme sensibilità interiore. È la sua profonda spiritualità, come dicevo prima, a consentirgli in vedere il mondo in maniera più complessa e articolata di molti altri scrittori. Per Buzzati non c'è solamente il dato materiale, o meglio, questo serve solamente a disvelarne la causa superiore. Di fronte alle montagne la prima domanda che si pone inevitabilmente è: «perché esiste la bellezza?» Ma questo atteggiamento non si limita esclusivamente alle esperienze “sublimi”. Egli infatti vede in ogni dettaglio, il suo “retroterra”.
Da dove cominciano i fenomeni e perché c'è quella concatenazione per cui si generano coincidenze che sono sì, in un certo senso, misteriose? Questa è l'eterna domanda di Dino Buzzati. Ed è questa profondità di prospettiva che affascina Buzzati e che fa della sua narrativa qualche cosa di insolito nella narrativa “realista” del novecento.
Molti indicano il “fattore natura” nella poetica di Buzzati, il fatto di aver trascorso infanzia e adolescenza fra le montagne del bellunese ha inciso sulla sua opera?
Oltre alla natura, che indubbiamente ha svolto un ruolo importante, c'è una certa cultura che non esiterei a definire mitteleuropea. E che non è solamente di stampo naturalistico, ma anche incentrata sull'uomo e sui suoi limiti. Il mistero della natura e il mistero dell'uomo si incrociano e nascono situazioni che sono sorprendenti.
Pensiamo al Crollo della Baliverna, che cosa ne determina la caduta? Una lieve crepa. Proprio questa piccola causa simboleggia lo stupore di Buzzati per le minime sfumature e i nascosti risvolti della realtà.
A quanto pare in Francia lo scrittore è particolarmente apprezzato, forse più che nel nostro Paese.
Sì, è verissimo. È talmente forte l'avversione per Buzzati nel nostro Paese, da parte di molti segmenti del potere culturale, che vi sono altre nazioni in cui i suoi scritti hanno molta più eco.
Un esempio di insofferenza della cultura italiana per Buzzati si vede dal fatto che in Francia è vissuto un grande scrittore, morto lo scorso 22 dicembre, che si è ispirato all'opera di Buzzati. Si tratta di Julien Gracq che in patria ha avuto molto successo. Di Gracq non è stata tradotta in Italia neanche un'opera. Eppure anche in Francia c'è stata, e c'è tuttora, una forte cultura di sinistra, pensiamo ad esempio a Sartre. Però, evidentemente, vi è lo stesso maggiore libertà di pensiero che da noi.
Buzzati ha avuto successo anche in altri paesi d'Europa?
Sì ma soprattutto in Francia. Là addirittura esiste l'associazione Dino Buzzati e vengono pubblicati dei chaiers sul nostro scrittore.
Molto spesso il lavoro di Dino Buzzati viene paragonato a quello di Franz Kafka. Addirittura egli stesso ne pare infastidito quando, ironicamente, afferma di non poter scrivere neanche un telegramma senza correre il rischio che qualche critico trovi delle analogie con lo scrittore praghese. Lei che cosa ne pensa?
Quando ho scritto il libro su Buzzati, che è stato il primo pubblicato in Italia, andai a trovarlo a Milano. Una delle domande che gli rivolsi riguardava il suo rapporto con Kafka. Egli mi rispose che conosceva molto bene lo scrittore ceco, ma aggiunse che quando aveva scritto I sette messaggeri non aveva ancora letto il racconto kafkiano Il messaggio dell'Imperatore. A mio avviso la spiegazione in queste coincidenze risiede nel fatto che i due scrittori condividevano alcune domande interiori.
In passato ho fatto anche un paragone tra Buzzati e Borges dimostrando che anche in essi c'è un'origine comune. I due non solo non si conoscevano, ma è pressoché certo che l'uno ignorasse completamente l'opera dell'altro e viceversa. Eppure entrambi scrissero praticamente lo stesso racconto.
Per Buzzati la trama riguarda un principe orientale ammalatosi di lebbra, il quale terrorizzato all'idea di rinunciare alla propria vita mondana si rivolge a un santone chiedendogli come possa guarire. Il santone gli consiglia di pregare insistentemente, ed egli comincia a farlo. Quando Dio gli concede la guarigione il principe è così tanto interiormente cambiato che si rifiuta di abbandonare il lazzaretto nel quale era stato rinchiuso.
Analogamente Borges descrive la storia di uno stregone sudamericano rinchiuso in carcere ai tempi dei conquistadores, il quale durante la sua prigionia scorge fra le strisce di una tigre un messaggio divino, ha un'estasi e decide di non abbandonare più il proprio carcere.
Che dire di fronte a una simile coincidenza di visioni? Soltanto che gli spiriti sensibili sono comunemente legati da una certa particolare percezione della realtà.
A suo avviso l'opera di Buzzati può avere un ruolo educativo?
Certamente. Ai miei figli e ai miei nipoti ho sempre suggerito di leggere Buzzati, poiché egli apre la mente ad altre dimensioni che vanno oltre lo schiacciamento sulla materia che pervade la cultura quotidiana. Viviamo purtroppo in un mondo minimalista, che tenta incessantemente di ridurre l'uomo ai propri immediati e semplici bisogni senza farsi troppe domande. Ma l'uomo non è fatto per essere minimalista. Tutt'al più per essere "massimalista".
Voglio aggiungere una cosa: dicono tutti che Buzzati non fosse un credente. A mio avviso non c'è nulla di più sbagliato. Egli era profondamente credente in quanto continuava a domandarsi il senso delle cose e a non accontentarsi della superficie. Inoltre in numerosi racconti testimonia il proprio grande legame con il cristianesimo cattolico. Primo fra tutti: Il disco di posò.
Notizia choc: un cardinale fa l'elogio dell'ortodossia - Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: "Al giorno d'oggi non è più l'eresia, ma la retta dottrina a fare notizia". Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio di Sandro Magister
ROMA, 24 novembre 2008 – Dal suo ritiro sulla collina di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi ha consegnato le sue riflessioni a un nuovo libro. Al quale ha dato il titolo "Pecore e pastori". Che così spiega:
"Tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del 'piccolo gregge'. C'è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo".
Come già nei suoi libri precedenti, anche questa volta le vivide parole del cardinale teologo non sono quelle familiari alle scuole di teologia più frequentate, ma attingono direttamente al linguaggio del Vangelo, aperto ai "piccoli" e chiuso ai "sapienti".
Il cardinale Biffi sa che l'eresia va di moda. Ma questa è per lui una ragione in più di difendere l'ortodossia:
"Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che 'conversione', e non 'adattamento', è parola evangelica".
L'adattamento al pensiero corrente – scrive – arriva sino ad annebbiare la divinità di Gesù, ridotto a semplice uomo sia pure di straordinario valore:
"Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, la questione ariana [dal nome di Ario, l'eresiarca condannato dal Concilio di Nicea del 321] è sempre all’ordine del giorno nella vita ecclesiale. I pretesti possono essere tanti: dal desiderio di sentire Cristo più vicino e più uno di noi, al proposito di facilitarne la comprensione esaltandone quasi in modo esclusivo gli aspetti sociali e umanitari. Alla fine l’approdo è sempre quello di togliere al Redentore dell’uomo la sua radicale unicità e di classificarlo tra gli esseri trattabili e addomesticabili. Sotto questo profilo si potrebbe dire che allora il Concilio di Nicea è oggi molto più attuale del Concilio Vaticano II".
Sono molte le pagine controcorrente del nuovo libro di Biffi. Qui di seguito è riprodotto il capitolo che riguarda un tema tra i più controversi, quello della castità, affrontato dall'autore in una forma che appare insolita e controcorrente proprio perché fa riferimento diretto alle fonti della dottrina e della morale cristiane: le parole di Gesù nei Vangeli, le lettere di Paolo e gli altri libri delle Scritture.
La sfida della castità di Giacomo Biffi
Entro la secolare vicenda dell’umanità – così monotona e ripetitiva nelle sue spirituali opacità, nelle sue sconfitte morali, nelle sue enigmatiche sofferenze – l’avvento del "piccolo gregge" di Cristo è stata forse la sola novità sostanziale: qualcosa di inedito e di positivamente originale è finalmente comparso sulla faccia della terra.
Si è affacciata per la prima volta la carità come altissimo ideale di vita: [...] un ideale ammirato spesso anche [...] dai non cristiani, pur se difficile da imitare; una testimonianza che talora ha fatto riflettere anche quelli che non sono avvezzi a far posto a Dio nei loro pensieri.
Ciò che invece è stato percepito dal mondo come qualcosa di ostico e di repulsivo nella mentalità e nello stile della Chiesa è l’ideale, il programma, la testimonianza della castità. [...] Essa si configura fin dall’inizio come una vera e propria sfida. E resta una sfida anche nei confronti della mentalità più diffusa e prevalente ai nostri giorni. [...]
Una evidente incompatibilità
Quando si affaccia alla ribalta della storia – nel mondo greco-romano, oltre che nei territori dell’antico regno d’Israele – il cristianesimo deve fare i conti con una cultura contrassegnata da una concezione dell’erotismo, da una pratica della sessualità, da una regolamentazione dell’istituto matrimoniale, che è percepita subito come estranea all’indole dell’Evangelo e anzi come stridente con l’umanità nuova, nata dall’evento pasquale.
Ma non ci furono esitazioni: s’impose dall’inizio la persuasione universale e compatta che in tale materia non fossero ammissibili ambiguità o compromessi. Il "popolo nuovo", emerso dall’acqua e dallo Spirito, doveva distinguersi – oltre che per il fenomeno inaudito dello stile di amore fraterno – anche per una forma esigente e radicale di castità. Tutte le attestazioni in nostro possesso sono concordi. [...] Lo si evince dagli elenchi delle trasgressioni inammissibili nell’esistenza cristiana, che perciò escludono dall’approdo al Regno di Dio; elenchi che con sollecitudine pastorale vengono proposti alle comunità dei credenti:
"Non illudetevi: né immorali (pornòi), né idolatri, né adùlteri (moichòi), né depravati (malakòi), né sodomiti (arsenokòitai), né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio" (1 Corinzi 6, 9).
"Sappiatelo bene, nessun fornicatore (pòrnos) o impuro (akàthartos) o avaro, cioè nessun idolatra, avrà in eredità il regno di Cristo e di Dio" (Efesini 5, 5).
"Sono ben note le opere della carne: fornicazione (pornèia), impurità (akatharsìa), dissolutezza (asèlgheia)…; riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: che chi le compie non erediterà il regno di Dio" (Galati 5, 19-21).
Esigenza di santità
Una condotta casta è tra i segni necessari e più riconoscibili del passaggio sostanziale avvenuto col battesimo tra il modo di vivere degradato e indegno, tipico del paganesimo, e uno stato di purezza nuova: è uno stacco netto tra le vecchie abitudini e la novità pasquale:
"Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione" (Romani 6, 19).
"È finito il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani vivendo nei vizi (en aselghèiais)" (1 Pietro 4, 3).
Non è una sessuofobia ossessiva e neppure un moralismo esasperato a ispirare questo comportamento. È piuttosto una consapevolezza senza precedenti della esigenza di santificazione, che proviene dall’aver aderito al Dio tre volte santo:
"Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impurità (apò tes pornèias), che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio" (1 Tessalonicesi 4, 3-5).
"Dio non ci ha chiamati all’impurità (epì akatharsìa), ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito" (1 Tessalonicesi 4, 7-8).
La giovane cristianità sente che è soprattutto l’immoralità sessuale del mondo ellenistico che merita il nome di impurità (akatharsìa) contraria a Dio.
Valore del corpo
Questa cultura, inaudita nella società greco-romana, non nasce da un eccessivo spiritualismo: qui non c’è quella diffidenza verso ciò che è materiale e corporeo, che serpeggiava nelle ideologie di matrice platonica (ma era ignota alla mentalità israelitica).
Al contrario essa si alimenta e si esprime col rispetto verso il corpo, il quale nella prospettiva cristiana è ritenuto realtà sacra e strumento di santificazione:
"State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi. Lo avete ricevuto da Dio, e voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (1 Corinzi 6, 18-20).
C’è, secondo san Paolo, come una "dimensione liturgica" della castità:
"Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Romani 12, 1).
Si capisce come la Chiesa abbia reagito subito alla disistima gnostica del matrimonio, disistima che nello gnosticismo arriva alla proibizione (cfr. 1 Timoteo 4, 3) e ne abbia difeso la dignità:
"Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio" (Ebrei 13, 4).
La nuova umanità del battezzato si rivela anche nel suo linguaggio, che deve rifuggire dal turpiloquio o anche solo dalle espressioni volgari, perché nei "santi" (così vengono chiamati i cristiani nelle lettere apostoliche) l’attenzione alla castità è totalizzante e deve rifulgere in ogni manifestazione dell’"uomo nuovo", anche nel suo contegno generale e nelle sue parole:
"Gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni (aischrologhìan) che escono dalla vostra bocca" (Colossesi 3, 8).
"Di fornicazione e di ogni specie d’impurità o di cupidigia, neppure si parli tra voi, – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità: che sono cose sconvenienti" (Efesini 5, 3-4).
La questione dell'omosessualità
Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, secondo la concezione cristiana bisogna distinguere il rispetto dovuto sempre alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dalla doverosa riprovazione di ogni esaltata ideologia dell’omosessualità.
La parola di Dio – come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo – ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione ideologica e culturale in questa materia: tale aberrazione, si afferma, è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e del rifiuto di dargli la gloria dovuta.
L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione:
"Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata . Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Romani 1, 21-22).
In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza:
"Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra di loro i propri corpi" (Romani 1, 24).
E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’Apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:
"Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne" (Romani 1, 26-28).
Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando "gli autori di tali cose... non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa" (Romani 1, 32).
È una pagina del Libro ispirato che nessuna autorità umana può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non "politicamente corretti".
Dobbiamo anzi far notare la singolare attualità di questo insegnamento della divina Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nella vicenda culturale del mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli: l’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente la "morte di Dio" – ha avuto come conseguenza e quasi come intrinseca punizione un dilagare di un’ideologia sessuale aberrante, ignota, nella sua arroganza, alle epoche precedenti.
Il pensiero di Cristo
Gesù, generalmente parlando, ha toccato poche volte queste tematiche: e sempre con uno stile sobrio, però al tempo stesso inequivocabile e risoluto. In materia di morale sessuale, egli si rivela in contrasto non solo con le abitudini dei pagani, ma anche con qualche persuasione diffusa in Israele.
Non è d’altra parte immaginabile che l’annuncio pasquale e la proposta della comunità cristiana, con la loro carica di novità e di non conformismo, non si attenessero pur su questo punto alla piena fedeltà al Vangelo e non si siano proposti la perfetta consonanza col magistero del Signore, custodito e trasmesso dalla predicazione degli Apostoli.
Gesù non dubita di annoverare anche le violazioni della castità tra i comportamenti che attentano alla dignità dell’uomo e alla sua purezza interiore, precisando inoltre che la corruzione del "cuore" (cioè del mondo interiore) è la fonte e la misura della responsabilità (e quindi della colpevolezza) delle azioni perpetrate:
"Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie. Questo rende impuro l'uomo" (Matteo 15, 19-20).
Addirittura Gesù ritiene – ed è tipico della sua antropologia – che la castità sia violata già nel segreto dell’animo quando è accolto il desiderio riprovevole, prima che ci sia la consumazione dell’atto peccaminoso:
"Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore" (Matteo 5, 28).
Un problema rabbinico circa il matrimonio
"È lecito a un uomo ripudiare la propria donna (gynàica) per qualsiasi motivo?" (Matteo 19, 3). La questione che i farisei propongono a Gesù aveva un riferimento preciso: si trattava di una questione che divideva le correnti rabbiniche dell’epoca.
La scuola di Shammai riteneva che l’unica ragione valida per procedere al ripudio fosse il cattivo comportamento morale, cioè la scostumatezza della moglie.
Per la scuola di Hillel invece bastava qualche inconveniente nella vita coniugalee: anche solo l’abitudine a salare troppo i cibi o l’aver lasciato bruciare la pietanza.
Proseguendo su tale linea permissiva, Rabbi Aquiba poche decine d’anni dopo arriverà a ritenere ragione sufficiente la possibilità da parte del marito di sposare una donna più bella.
La risposta di Gesù
Gesù non si lascia impigliare nelle controversie dei dottori della legge né si dimostra condizionato dai comportamenti diffusi tra gli ebrei. Il suo è un colpo d’ala: la sua risposta è che bisogna rifarsi al disegno originario di Dio:
"In principio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due diventeranno una carne sola. Dunque l’uomo non dividaquello che Dio ha congiunto" (Marco 10,6-9).
"In principio": questo "principio" nel quale è stata ideata e decisa la creazione (cfr. Genesi 1, 1: en archè) include già la prospettiva cristologica ed ecclesiologica, secondo la quale la realtà nuziale è segno e figura dell’unione che lega il Redentore all’umanità rinnovata, e la stessa distinzione dei sessi è allusione alla dialettica e alla comunione tra Cristo e la Chiesa.
È una visione così sublime e inattesa del matrimonio che i discepoli, trasecolati, si rifugiano nel sarcasmo: "Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Matteo 19, 10).
Notiamo che la redazione di Marco dell’episodio suppone l’idea della sostanziale parità tra l’uomo e la donna: parità che non compariva nella disposizione mosaica:
"Chi ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio" (Marco 10, 11-12).
Dal canto suo il vangelo di Luca ci ha conservato un altro detto di Gesù che ci offre un’ulteriore precisazione:
"Chiunque ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio" (Luca 16, 18).
Come si vede, la seconda parte della frase previene e scarta anche l’ipotesi che l’indissolubilità non valga più dopo che il vincolo sia stato rotto, come qualcuno ha pensato. E sconfesssa l’ipotesi che la legge dell’indissolubilità possa essere eccezionalmente violata, quando si tratti del coniuge ripudiato, non responsabile della rottura.
L’inciso di Matteo
La redazione di Matteo aggiunge un inciso che non è di facile comprensione:
"Chiunque ripudia la propria donna (ten ghynàica autoù), tranne in caso di 'pornèia', e ne sposa un'altra, commette adulterio" (Matteo 19, 9).
Che cos’è questa "pornèia"? Non può voler dire un cattivo comportamento morale della moglie, perché in tal caso Gesù si assimilerebbe alla scuola di Shammai (mentre la reazione dei discepoli si spiega solo con l’assoluta novità della sentenza di Cristo). D’altra parte, la perfetta concordanza di Marco, Luca e Paolo ci assicura che Gesù ritiene assoluto il principio dell’indissolubilità.
La soluzione più semplice è che qui si parli di una convivenza non sponsale con una donna; convivenza che non solo si può ma anche si deve interrompere. Così interpreta anche la Bibbia della conferenza episcopale italiana, che traduce: "Se non in caso di unione illegittima".
L’ideale e la misericordia
Gesù annuncia senza attenuazioni e senza sconti lo splendente disegno originario del Padre sulla donna e sull’uomo; e perciò stesso ammonisce tutti a non deturpare quell’ideale di una vita casta e santa che ci è divinamente proposto. Però guarda sempre con simpatia e comprensione agli uomini che di fatto hanno avvilito quell’ideale con le loro prevaricazioni.
I peccatori sono da lui trattati con affettuosa cordialità. Non li ritiene estranei e lontani; piuttosto li considera la ragione della sua venuta nel mondo e i naturali destinatari della sua missione: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Matteo 9, 13; Marco 2, 17; Luca 5, 32).
Con questo atteggiamento benevolo riesce a salvare l’adultera dalla lapidazione (Giovanni 8, 1-11). Difende cavallerescamente una donna che nella narrazione è qualificata "una peccatrice di quella città" (Luca 7, 37). Avvia con la samaritana dalle molte esperienze un colloquio garbato e schietto che conquista il suo cuore (Giovanni 4, 5-42).
La sua non è la misericordia apparente del permissivismo: è la misericordia salvatrice che, senza disprezzare e umiliare, sospinge al ravvedimento e alla rinascita interiore.
Il "mistero grande"
La trascendente visione cristiana del rapporto uomo-donna – e in essa la precisa ed esigente proposta di vita casta secondo la condizione propria di ciascuno – trova il suo fondamento e la sua ispirazione nel convincimento che quel rapporto è immagine della connessione sponsale che lega Cristo alla Chiesa.
È una lezione di "teologia anagogica" (che cioè si lascia illuminare dall’alto) impartitaci da san Paolo nella lettera agli Efesini. Nella reciproca donazione dei coniugi vive un "mistero grande" [...] che il Padre ha disegnato prima di tutti i secoli: "Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa" (Efesini 5, 32). L’amore del marito per la moglie evoca agli occhi dell’Apostolo l’amore di Cristo per la Chiesa: un amore che salva che purifica e santifica.
Il successivo magistero della Chiesa parlerà del matrimonio come di un "sacramento": un sacramento che, essendo allusione e figura del vincolo che fa del Redentore e dell’umanità redenta "una sola carne", attua negli sposi una speciale partecipazione a quell’evento, [...] entro il quale gli atti reciproci di donazione personale diventano occasione e veicolo di continua grazia.
Nessuna filosofia e nessuna religione è mai arrivata a esaltare così la vita sessuale; naturalmente la vita sessuale condotta secondo il piano originario di Dio.
Una sfida sempre attuale
La castità annunciata e proposta dalla predicazione apostolica è stata senza dubbio una sfida alla mentalità e al comportamento dell’umanità di quei tempi. Ed è una sfida che anche oggi conserva intatta la sua attualità. Sotto un certo profilo anzi è diventata più necessaria e più urgente.
La nostra epoca è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi.
Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni. E con la loro tenacia e la loro intraprendenza raggiungono senza volerlo il malinconico traguardo di una oggettiva comicità.
Realismo evangelico
Senza dubbio agli occhi del mondo la visione cristiana appare fatalmente astratta e utopistica: nobile e bella – si dirà – ma troppo lontana dalla realtà effettuale.
A onor del vero quest’ideale di castità è proprio impossibile e vano per chi non vive con pienezza la vita battesimale, con i suoi appuntamenti sacramentali, con la contemplazione assidua dell’evento pasquale, con il giusto spazio dedicato alla preghiera, con la decisa e gioiosa condivisione dell’esperienza ecclesiale.
La ragione sta nel fatto che la castità non è virtù che si possa inseguire e acquisire da sola, fuori dal contesto di un’integrale sequela di Cristo. Invece nel contesto di un’integrale sequela di Cristo tutto diventa possibile, facile, gioioso: "Tutto posso in colui che mi dà la forza" (Filippesi 4, 13).
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Il libro: Giacomo Biffi, "Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo", Cantagalli, Siena, 2008, pp. 256, euro 13,80.
1) 23/11/2008 13.14.32 – Radio Vaticana - Se ciascuno pensa solo ai propri interessi il mondo non può che andare in rovina: così il Papa nell’odierna Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo
2) 24/11/2008 8.01.56 – Radio Vaticana - Il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore. Così il card. Saraiva Martins a Nagasaki, al rito di beatificazione di 188 martiri giapponesi
3) ELUANA/ Perché la Cassazione le ha negato una “legittima difesa” - Lorenza Violini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
4) CRISI/ Protagonisti o una nuova etica delle regole - Graziano Tarantini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
5) SCUOLA/ Il dramma dei precari: quando si porrà fine a decenni di illusioni e frustrazioni? - Giovanni Cominelli - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
6) LETTERATURA/ Dino Buzzati, la voce del mistero nel deserto dei bempensanti - INT. Fausto Gianfranceschi - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
7) Notizia choc: un cardinale fa l'elogio dell'ortodossia - Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: "Al giorno d'oggi non è più l'eresia, ma la retta dottrina a fare notizia". Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio di Sandro Magister
23/11/2008 13.14.32 – Radio Vaticana - Se ciascuno pensa solo ai propri interessi il mondo non può che andare in rovina: così il Papa nell’odierna Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo
Il Signore non sa che farsene di forme ipocrite di devozione se si trascurano i suoi comandamenti: sono parole del Papa che all’Angelus ha ricordato la Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo celebrata oggi, commentando la parabola del giudizio finale. Dopo la preghiera mariana, ha poi ricordato la particolare beatificazione di 188 martiri che avverrà domani in Giappone, la terribile carestia che colpì l’Ucraina 75 anni fa e poi l’anniversario del programma polacco della radio vaticana, che festeggia domani 70 anni di trasmissioni. Il servizio di Fausta Speranza http://62.77.60.84/audio/ra/00139339.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139339.RM
“La verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati”: è questo -spiega il Papa – il messaggio del vangelo di oggi e di quella che definisce la “stupenda parabola del giudizio finale”. Ne ricorda qualche parola per poi sottolinearne l’importanza:
“Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto… (Mt 25,35) e così via. Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali.”
Il regno di Dio, come diceva Gesù non è di questo mondo e infatti Gesù rifiutò il titolo di re quando si intendeva in senso politico, ma – sottolinea Benedetto XVI – il regno di Dio “porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia”. E il Papa fa una raccomandazione precisa:
“Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.”
E il Papa ricorda che “il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive San Paolo, è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Un insegnamento chiaro e forte cui il Papa aggiunge altre forti considerazioni: “Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita”, - dice – che specialmente i suoi figli più piccoli possano accedere al banchetto che Lui ha preparato per tutti”. E il Papa poi spiega:
“Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice “Signore, Signore” e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola.”
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI ha ricordato due momenti particolarmente significativi per la vita della Chiesa:
“Domani, in Giappone, nella città di Nagasaki, avrà luogo la beatificazione di 188 martiri, tutti giapponesi, uomini e donne, uccisi nella prima parte del XVII secolo. In questa circostanza, così significativa per la comunità cattolica e per tutto il Paese del Sol Levante, assicuro la mia spirituale vicinanza. Sabato prossimo, inoltre, a Cuba sarà proclamato beato Fratel José Olallo Valdés, dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio. Alla sua celeste protezione affido il popolo cubano, specialmente i malati e gli operatori sanitari.”
Tra i saluti in varie lingue, un pensiero particolare ai pellegrini ucraini, ricordando che ricorre in questi giorni il 75esimo anniversario della grande carestia che negli anni 1932-33 causò milioni di morti in Ucraina e in altre regioni dell’Unione sovietica durante il regime comunista. Il Papa assicura la sua preghiera per le vittime auspicando vivamente che “nessun ordinamento politico possa più, in nome di un’ideologia, negare i diritti della persona umana e la sua libertà e dignità” e invitando le nazioni a “procedere sulle vie della riconciliazione e a costruire il presente e il futuro nel rispetto reciproco e nella ricerca sincera della pace”.
C’è poi il saluto alla sezione polacca della Radio Vaticana che celebra domani il 70esimo anniversario della sua attività. Il papa esprime il suo grazie ai redattori per il loro generoso lavoro. Infine, un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai dirigenti e ai cantori dell’Associazione Italiana Santa Cecilia, che ha tenuto il suo convegno, con uno speciale concerto, presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura, e un saluto anche alle due associazioni OARI e AVULSS, impegnate nel volontariato accanto ai malati e ai sofferenti, come pure i fedeli provenienti da Marsico Nuovo, Reggio Calabria, Avola, Priolo e Vallelunga. Per tutti, l’augurio del Papa per una buona domenica.
24/11/2008 8.01.56 – Radio Vaticana - Il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore. Così il card. Saraiva Martins a Nagasaki, al rito di beatificazione di 188 martiri giapponesi
“La fedeltà di tanti martiri, di ogni età e condizione, nella diversità di luoghi e tempi, è segno della dottrina vitale della Chiesa, giacché il martirio è il più pieno esercizio della libertà umana e l’atto supremo dell’amore”. Con queste parole il cardinale José Saraiva Martins, Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi, ha presieduto questa mattina a Nagasaki, in Giappone, il rito di beatificazione di Pietro Kibe, sacerdote professo della Compagnia di Gesù, e di 187 compagni martiri: sacerdoti, religiosi e laici, che persero la vita tra il 1603 e il 1639, e che ieri sono stati ricordati dal Papa all’Angelus. Sul messaggio che i 188 martiri hanno lasciato al Giappone e al mondo, Roberto Piermarini ha intervistato proprio il rappresentante di Benedetto XVI alla celebrazione, il cardinale Saraiva Martins: http://62.77.60.84/audio/ra/00139383.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139383.RM
La Chiesa cattolica del Giappone guarda, dunque, ai martiri come a compagni di fede per il futuro. Lo spiega l’arcivescovo di Nagasaki, mons. Joseph Mitsuaki Takami, intervistato da Davide Dionisi: http://62.77.60.84/audio/ra/00139325.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00139325.RM
R. – Potrebbe essere un punto di partenza, ripartenza, per l’evangelizzazione e per rinnovare la nostra coscienza, forse, come cristiani. Ci hanno dato un grande messaggio: la fede, l’atteggiamento verso gli altri, la pace, la libertà di religione.
D. – Come viene vista dalle altre comunità religiose civili la beatificazione di martiri cristiani?
R. – Adesso sono molto interessati a sapere; questa beatificazione può essere anche un’occasione per noi, per la Chiesa del Giappone, di far sapere a loro questa nostra fede, il nostro messaggio che abbiamo per la società giapponese. Possiamo far sapere agli altri giapponesi che ci sono valori non mondani ma eterni, che i martiri hanno potuto per questo offrire le loro vite. Nella società giapponese, come nelle altre società, c’è tanta gente che vive un po’ troppo egoisticamente.
D. – Possiamo dire che pure nella drammaticità di quegli eventi, la loro testimonianza è un patrimonio che arricchisce il Paese?
D. – Non è solo questa beatificazione che può fare questo, ma tutti noi cristiani giapponesi dobbiamo fare più sforzi per arricchire il nostro Paese, portando il nostro patrimonio cristiano, dando la nostra testimonianza. Dobbiamo continuare, sempre.
Concorda il vescovo di Takamatsu, mons. Osamu Mizobe, presidente della Commissione dei vescovi giapponesi per la beatificazione dei 188 martiri, raggiunto telefonicamente da Pietro Cocco:
R. – Questi martiri danno una lezione: vivere con la fede, vivere con personalità, e morire; dunque, da una parte, dare un messaggio alla società giapponese di oggi, dall’altra parte, alla Chiesa cattolica. Questa potrebbe essere l’occasione di un rinnovamento spirituale della Chiesa giapponese.
D. – Come viene vista dalle altre comunità religiose e civili in Giappone questa beatificazione?
R. – In genere, molto favorevole.
D. – Ma a cosa fu dovuto questo periodo così doloroso e drammatico della Chiesa cattolica in Giappone?
R. – Il problema principale della persecuzione è questo: la religione cristiana ha insistito nell’affermare che Dio è l’unico creatore, e lo Stato giapponese non ammetteva questo.
D. – Mons. Mizobe, la beatificazione riguarda 188 persone; c’è padre Kibe, un padre gesuita, con altri tre confratelli, un padre agostiniano; gli altri sono tutti quanti laici…
R. – Nello scegliere questi martiri, noi ci siamo basati su quattro criteri. Il primo è questo: per i giapponesi, per la vita cattolica del Giappone. Il secondo è: fino ad adesso tutti questi santi beati sono stati uomini, allora questa volta abbiamo preso in considerazione le donne, i bambini. Il terzo è: 400 anni fa la Chiesa cattolica si è espansa per tutto il Giappone, allora abbiamo preferito scegliere quasi tutte le diocesi. Poi, il quarto criterio è che sono quattro sacerdoti, che sono ben noti, conosciuti, però ci sono tanti altri sacerdoti martiri.
ELUANA/ Perché la Cassazione le ha negato una “legittima difesa” - Lorenza Violini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Come è noto, la vicenda giudiziaria sul caso Englaro, recentemente conclusasi almeno dal punto di vista del diritto (ma fortunatamente ancora aperta in fatto, visto che la sentenza non è ancora stata eseguita), ha avuto una lunghissima gestazione e ha visto un susseguirsi di sentenze da parte di giudici di diversi ordini e gradi. Tali sentenze contengono argomentazioni che forse può essere utile riconsiderare, anche alla luce di quanto verrà poi stabilito dal Parlamento in tema di direttive anticipate di fine vita. Non è detto infatti che una decisione, per quanto importante e resa dal giudice più alto in grado, non possa essere posta sotto critica; anzi, è compito della dottrina – se vuole restare vergine di servo encomio – esercitare la funzione di controllo culturale e tecnico a quanto la prassi va elaborando.
Tra i molteplici temi considerati dai giudici coinvolti merita ricordare la scelta compiuta nel 2005 dalla Corte di Cassazione. In quella sede, con l’ordinanza nr. 8291, era stato dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal padre di Eluana contro la prima sentenza della Corte di Appello di Milano la quale, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Lecco, aveva negato l’assenso alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, in quanto non notificato ad alcuno e, in particolare, neppure al Procuratore Generale. Tale notificazione (fondamentale affinché si instauri correttamente un processo) non sarebbe necessaria solo nei procedimenti di volontaria giurisdizione unilaterali, in cui cioè non sia identificabile un interesse diverso da quello del ricorrente (nella specie il padre di Eluana).
Tutto ciò posto, il supremo giudice - pur non entrando in merito alla richiesta avanzata dal padre di Eluana - asserì essere di immediata evidenza (sic.) che il provvedimento richiesto - che si affermava corrispondere all’interesse dell’interdetto - possa invece non corrispondervi, con la conseguenza che «giammai il tutore potrebbe esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze, ... possa affermarsi coincidere con gli interessi dell’interdetta non in condizioni di esprimere la propria valutazione». Trattandosi pertanto di una situazione di potenziale conflitto di interessi, la Corte di Cassazione nel 2005 ritenne necessario che si nominasse un curatore speciale incaricato di agire a tutela dell’interesse dell’interdetto, interesse non tutelabile dal solo tutore.
In questo pur fragile modo l’ordinamento mira a far sì che le scelte compiute in nome e per conto di altri, siano essi minori o interdetti, vengano compiute tenendo conto di tutti i possibili interessi in gioco e non solo di quelli che stanno alla base delle richieste di una parte. La nomina del curatore speciale avviene, infatti, in estrema sintesi, quando tutore e protutore si trovano in opposizione di interessi con il minore (art.360 del codice civile) e ha come compito di tutelare al meglio l’interesse del minore ponendosi come contraddittore necessario nei giudizi.
Ora, essendo il caso così complesso e problematico, ci si sarebbe potuti aspettare che il curatore facesse emergere almeno qualche aspetto di problematicità nella posizione del tutore mentre, come è noto, fin dall’inizio il curatore non ha fatto altro che sostenere appieno le scelte del tutore stesso, con ciò avallando l’immagine dell’esistenza di un solo interesse dell’interdetta, quello a veder conclusa la propria vicenda terrena tramite la sospensione di un “trattamento” a cui essa stessa non aveva consentito e a cui non avrebbe presumibilmente consentito, a detta dei giudici, se fosse stata cosciente. Con ciò un ulteriore elemento della vicenda viene alla luce: non solo la volontà dell’interdetta viene ricostruita nel processo tramite prove testimoniali relative ad asserzioni della stessa rese in un lontano passato e in una condizione ben diversa da quella in cui ella oggi si trova, ma il possibile conflitto di interessi tra chi vuole la fine del trattamento e di chi potrebbe essere interessato a continuare nutrizione e idratazione pur nella difficile condizione di una persona in stato vegetativo (e forse l’interdetta stessa, se potesse esprimere la sua volontà) viene risolto in modo rigorosamente formale tramite – dice la stessa Cassazione – «la – mera (ndr)- presenza in causa del curatore speciale» la quale «supera ogni problema di possibile conflitto tra la tutelata e il tutore».
CRISI/ Protagonisti o una nuova etica delle regole - Graziano Tarantini - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Stiamo dentro una terra incognita, alla fine sicuramente c'è, come per tutte le crisi, un cambiamento di prospettiva», ha detto il ministro Tremonti nella sua prolusione all'Università Cattolica. Davanti alla crisi finanziaria globale che di giorno in giorno assume sempre più i caratteri di un fenomeno dai contorni imprevedibili, non ci sono in effetti ricette o soluzioni preconfezionate. Tremonti parla di «una rottura di continuità, di una crisi che tuttavia porta a una soluzione». In questo senso se la situazione attuale contribuirà a ridare all'economia reale il primato che le spetta, sarà senz'altro occasione di una svolta importante. Si tratta di ristabilire un ordine delle cose che negli ultimi anni è stato sovvertito perché si è puntato, come ha ricordato Sapelli, sull'autoreferenzialità ora di un'economia ridotta a tecnica di calcoli, ora di una finanza separata dal proprio oggetto. Dunque la crisi può rappresentare il momento del ritorno a un sano realismo da cui prendere le mosse per ripartire. Indubbiamente, citando le affermazioni di Tremonti, «stiamo dentro a una situazione caratterizzata da grandi complessità». La realtà del resto si presenta sempre complessa e, proprio in forza di tale natura, non può essere ingabbiata dentro un sistema di regole ferree che pure occorrono. Abbiamo già assistito, anche in tempi recenti, al tentativo di rimettere le cose a posto con un'overdose di regolamentazioni che oggi hanno dimostrato tutta la loro inefficacia nel proteggerci dagli effetti perversi di meccanismi finanziari impazziti. Alla fine è sempre la persona che rischia, che implica se stessa in un rapporto con la realtà, nel bene e nel male, a fare la differenza.
La distinzione che fa Profumo, nelle dichiarazioni riportate dal Corriere della Sera, fra la responsabilità individuale e quella delle istituzioni non ha mai un confine netto.
In tale ottica non mi convince la sottolineatura che Tremonti ripetutamente fa sulla necessità di recuperare una dimensione etica dell'economia. È come se ci trovassimo di fronte a un pericoloso “salto di carreggiata”: prima si pone sul banco degli imputati un capitalismo schiavo del conto economico (cioè del mondo dei prezzi), vittima delle frenesie da trimestrale, che ha relegato in secondo piano lo stato patrimoniale (cioè il mondo dei valori), ma poi quando si tratta di entrare nel merito ci si rifugia nell'etica. L'impalcatura di regole, leggi e strutture che è stata concepita, si affida ultimamente alla pretesa che qualcuno sia a priori e per definizione “onesto”. Così facendo ancora una volta ci si esime dal misurarsi con la realtà che è fatta in egual misura di bene e di male. L'amministratore di una banca, per esempio, è chiamato a svolgere in modo efficace la sua funzione di sostegno allo sviluppo dell'economia reale, rischiando e decidendo, inclusa la possibilità di sbagliare. Ciò rientra nei suoi compiti. Chiedergli di essere etico significa spostare il problema da un'altra parte: si esonera di fatto la persona dalla propria responsabilità e si demanda tutto al rispetto formale della legge “con l'introduzione di un ordine, di una disciplina, di valori morali”. Un'istituzione finanziaria è stretta fra il rispetto delle regole, compreso il rapporto con le autorità di controllo, e il mercato che deve servire. Purtroppo adesso si sta creando, dai massimi vertici fino ai livelli più bassi, un'attenzione esagerata, talvolta quasi ossessiva, verso il rispetto delle regole. Queste ultime giustamente vanno applicate in modo scrupoloso e ciò è fuori discussione. Chi gestisce una banca, però, ha per sua natura a che fare col rischio, è chiamato prima di tutto a servire un mercato molto articolato che, dalla piccola alla grande impresa, dall'artigiano alla famiglia, si presenta spesso problematico e che si aspetta risposte concrete. Se viene meno tale consapevolezza accade di sentir parlare di etica molti di coloro che hanno fatto un uso spregiudicato dei derivati. Forse c'è qualcosa che non funziona, la stonatura è evidente. Sapelli acutamente osserva che «chi parla di etica spesso si comporta male». Oggi di fronte alla crisi la cosa più urgente è ricreare un clima di fiducia. Pensare che ciò possa avvenire grazie a un soprassalto etico sarebbe un'illusione foriera di cocenti delusioni. La fiducia, che è la materia prima del mercato, appartiene infatti alla società che la costruisce nel tempo ed è un asset di bilancio di enorme valore economico. E proprio a questo livello si gioca una sfida decisiva per il nostro futuro.
Una seconda questione evidenziata nella prolusione di Tremonti riguarda la globalizzazione nella quale, a suo giudizio, ha avuto origine la crisi attuale. In realtà resta un processo tutt'altro che compiuto. Se si è avuta una globalizzazione finanziaria che l'interdipendenza dei mercati oggi conferma, per quanto concerne l'economia siamo assai lontani da tale obiettivo. Nell'esperienza personale che ho potuto vivere negli organismi della Wto ho misurato direttamente quale sia il peso e il potere di interdizione dei diversi protezionismi. Basti pensare al solo settore agricolo e alle contestazioni mosse da anni all'Unione Europea per la sua politica di sussidi a tale comparto. In quest'ottica credo che nel momento presente vada piuttosto rivalutato un modello di economia legata al territorio, capace di stabilire solide relazioni di cooperazione e di scambio, e di presentarsi così sui mercati più o meno globali portando non solo beni e servizi, ma anche cultura ed evidenza che il primato della persona, sia nel suo ruolo di consumatore che in quello di lavoratore, diventa fattore di convenienza. Ciò vale soprattutto per l'Italia dove l'esperienza di tanti nostri distretti industriali può essere ancora un punto significativo da cui ripartire.
SCUOLA/ Il dramma dei precari: quando si porrà fine a decenni di illusioni e frustrazioni? - Giovanni Cominelli - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Le cifre più accreditate parlano di 200.000 insegnanti precari. L’età media oscilla attorno ai quarant’anni. Il loro carico di frustrazioni e di sofferenze individuali non è calcolabile, ma intuibile. La diminuzione prevista dalla legge 113 di Tremonti di 87.000 cattedre in tre anni avrà due conseguenze certe, anche se non precisamente quantificabili: la collocazione in soprannumero di insegnanti già di ruolo e il blocco dell’immissione in ruolo dei precari per almeno un triennio. La Moratti ne aveva immesso, in cinque anni, 165.000 e Fioroni 65.000.
Perché esiste questa figura nel nostro sistema e solo nel nostro? Il precariato è un mostro giuridico generato dal Moloch burocratico del ministero dell’Istruzione. Esce dalla fenditura che si apre tra le esigenze quotidiane e immediate delle scuole e la capacità di risposta da parte del ministero. Nasce dalla contraddizione tra i tempi della didattica e quelli burocratici. Se un insegnante si ammala o va in maternità, deve essere sostituito per giorni fino a un anno. Per una scuola che fosse davvero autonoma sul piano didattico, organizzativo e finanziario, che avesse la responsabilità totale delle risorse umane e finanziarie la soluzione sarebbe relativamente semplice. È assente per 2 settimane il prof di matematica? Si può semplicemente rinviare per 2 settimane l’insegnamento della matematica e ristrutturare gli orari, in modo da offrire altri insegnamenti. Quando il titolare ritorna, recupera le ore. Poiché, invece, l’offerta è rigida, il buco che si apre viene riempito chiamando un supplente. L’istituto della “supplenza” sta all’origine della formazione del precariato.
L’apparato amministrativo non è mai riuscito né a prevedere né a programmare sia l’aumento massiccio della domanda di insegnanti, a seguito dell’espansione della scuola di massa, né la risposta immediata alle esigenze organizzative quotidiane. Non è riuscito né mai vi riuscirà. Solo chi sta sul posto – l’autonomia scolastica – potrebbe dare una risposta tempestiva, utilizzando le risorse a disposizione, ma non ne ha la facoltà. Perciò, fin dagli inizi degli anni ’70, i supplenti che insegnavano a decine di migliaia, spesso per un anno intero, incominciarono a chiedere giustamente il riconoscimento del loro lavoro. Insegnavano tutto l’anno come e spesso meglio dei titolari di ruolo, che cosa impediva che fossero loro riconosciuti i diritti e la retribuzione dei loro colleghi?
La prima massiccia manifestazione di supplenti a Milano è del 1972. Il ministero rispose sostituendo ai concorsi ordinari, il cui espletamento era lunghissimo, i corsi abilitanti oppure i concorsi riservati a determinate categorie. Si trattava in realtà di sanatorie. Dal 1948 ad oggi se ne contano circa 28! A poco a poco i concorsi, che erano l’unico canale di reclutamento, sono venuti meno, pur senza essere mai stati aboliti, e si è creato surrettiziamente un secondo canale di reclutamento: i concorsi riservati.
Qui fa la sua comparsa in scena il sindacato. Esso chiama a raccolta i supplenti, chiede e ottiene i corsi abilitanti, li organizza, avendone in cambio tessere, potere contrattuale e soldi. Il sindacato è così diventato il gestore effettivo del secondo canale. Nel 1974 i Decreti delegati avevano deciso la formazione universitaria dei docenti, ma sarà realizzata solo vent’anni dopo, con l’opposizione dei sindacati stessi: saranno le SSIS. La lunga marcia del sindacato si compie nel 1999 con la legge 124 sulle graduatorie permanenti, imposta dai sindacati al troppo cedevole ministro Berlinguer. La legge stabilisce che a chiunque faccia supplenze venga riconosciuto un punteggio, che lo colloca dentro una graduatoria permanente. Si decide anche che di lì in avanti l’immissione in ruolo avverrà per il 50% attraverso i concorsi e per il 50% attraverso le graduatorie permanenti. In realtà i concorsi non sono più stati indetti, unico canale di reclutamento è rimasta la graduatoria permanente. Se i concorsi tradizionali accertavano quantomeno il possesso della disciplina, ma non certo le capacità didattiche, dalle graduatorie permanenti si passa al ruolo senza più nessuna verifica. Che questa procedura abbia portato all’abbassamento della qualità dei docenti è sotto gli occhi di tutti, in primo luogo dei ragazzi e delle loro famiglie.
La Moratti non riuscì a eliminare le graduatorie, ma con il Decreto legislativo 227 del 2005 delineò un nuovo itinerario di formazione dei docenti e lasciò aperta la strada anche alla chiamata diretta da parte delle scuole. Forse non è un caso che Fioroni, di nuove succube del sindacato, sospendesse o rinviasse tutti i Decreti Moratti, ma quest’ultimo lo abolisse tout court. La sua idea era di tornare ai concorsi ordinari, mentre nel frattempo chiudeva le SISS e l’accesso alle graduatorie permanenti. Di lì in avanti si sarebbe andati ad esaurimento delle medesime. In attesa che il ministro Gelmini dica qualcosa, e non essendo venuta meno la contraddizione tra i tempi reali della didattica e quelli stellari della burocrazia ministeriale, la scuola continuerà ad aver bisogno di supplenti e a generare supplenti. Non entreranno più nelle graduatorie permanenti, ma continueranno a lavorare, finché, esasperati, si metteranno insieme, troveranno il sindacato che li porterà prima in piazza e poi al tavolo ministeriale, il quale produrrà, finalmente, la ventinovesima sanatoria. A meno che il parlamento e il governo prendessero sul serio l’emergenza educativa del Paese e decidessero finalmente: a) di definire una nuova modalità di formazione e di reclutamento dei docenti; b) di riconoscere alle scuole un’autonomia completa didattica, organizzativa, finanziaria e il reclutamento del personale; c) di escludere dal governo della scuola il duo ministero-sindacato. Hic Rhodus, hic salta!
LETTERATURA/ Dino Buzzati, la voce del mistero nel deserto dei bempensanti - INT. Fausto Gianfranceschi - lunedì 24 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Quest'anno è il quarantesimo anniversario della pubblicazione della Boutique del Mistero di Dino Buzzati. Si tratta di un libro che esprime una letteratura pressoché unica nell'ambito culturale che avvolgeva il 1968. Qual è la differenza fra la scrittura di Buzzati e quella di gran parte dei suoi contemporanei?
Una grande differenza. In effetti Buzzati è stato, non dico emarginato, ma, in un certo senso “oscurato”. Si è cercato di coprire la sua voce, di smorzarla, perché era l'unico scrittore che in quel periodo avesse una concezione della vita davvero molto complessa, molto profonda, mentre allora, dietro tanto idealismo, si viveva in superficie. Si parlava di “realismo”, ma era un realismo non reale perché la realtà dell'uomo non è semplice come da allora in poi si è preteso di farla apparire.
Quando Buzzati parla di mistero non si riferisce certo alla magia o ai giochi di un prestigiatore, ma è un mistero che ha delle dimensioni gerarchiche che vanno dalla vita materiale fino alla vita dello spirito. Buzzati si apre a tutte le dimensioni dell'esperienza umana ed esistenziale rimanendo così una delle poche eccezioni ancora al giorno d'oggi, dove la stragrande maggioranza degli scrittori è stata per così dire omologata dalla cultura materialista.
Qual è l'origine di questo senso del mistero che avvolge tutti i romanzi e racconti dello scrittore?
Quale ne sia la radice più profonda non possiamo dirlo, poiché questa appartiene all'intimità della persona dello scrittore.
Possiamo però osservare in primo luogo la sua immensa preparazione culturale e letteraria unita a un'enorme sensibilità interiore. È la sua profonda spiritualità, come dicevo prima, a consentirgli in vedere il mondo in maniera più complessa e articolata di molti altri scrittori. Per Buzzati non c'è solamente il dato materiale, o meglio, questo serve solamente a disvelarne la causa superiore. Di fronte alle montagne la prima domanda che si pone inevitabilmente è: «perché esiste la bellezza?» Ma questo atteggiamento non si limita esclusivamente alle esperienze “sublimi”. Egli infatti vede in ogni dettaglio, il suo “retroterra”.
Da dove cominciano i fenomeni e perché c'è quella concatenazione per cui si generano coincidenze che sono sì, in un certo senso, misteriose? Questa è l'eterna domanda di Dino Buzzati. Ed è questa profondità di prospettiva che affascina Buzzati e che fa della sua narrativa qualche cosa di insolito nella narrativa “realista” del novecento.
Molti indicano il “fattore natura” nella poetica di Buzzati, il fatto di aver trascorso infanzia e adolescenza fra le montagne del bellunese ha inciso sulla sua opera?
Oltre alla natura, che indubbiamente ha svolto un ruolo importante, c'è una certa cultura che non esiterei a definire mitteleuropea. E che non è solamente di stampo naturalistico, ma anche incentrata sull'uomo e sui suoi limiti. Il mistero della natura e il mistero dell'uomo si incrociano e nascono situazioni che sono sorprendenti.
Pensiamo al Crollo della Baliverna, che cosa ne determina la caduta? Una lieve crepa. Proprio questa piccola causa simboleggia lo stupore di Buzzati per le minime sfumature e i nascosti risvolti della realtà.
A quanto pare in Francia lo scrittore è particolarmente apprezzato, forse più che nel nostro Paese.
Sì, è verissimo. È talmente forte l'avversione per Buzzati nel nostro Paese, da parte di molti segmenti del potere culturale, che vi sono altre nazioni in cui i suoi scritti hanno molta più eco.
Un esempio di insofferenza della cultura italiana per Buzzati si vede dal fatto che in Francia è vissuto un grande scrittore, morto lo scorso 22 dicembre, che si è ispirato all'opera di Buzzati. Si tratta di Julien Gracq che in patria ha avuto molto successo. Di Gracq non è stata tradotta in Italia neanche un'opera. Eppure anche in Francia c'è stata, e c'è tuttora, una forte cultura di sinistra, pensiamo ad esempio a Sartre. Però, evidentemente, vi è lo stesso maggiore libertà di pensiero che da noi.
Buzzati ha avuto successo anche in altri paesi d'Europa?
Sì ma soprattutto in Francia. Là addirittura esiste l'associazione Dino Buzzati e vengono pubblicati dei chaiers sul nostro scrittore.
Molto spesso il lavoro di Dino Buzzati viene paragonato a quello di Franz Kafka. Addirittura egli stesso ne pare infastidito quando, ironicamente, afferma di non poter scrivere neanche un telegramma senza correre il rischio che qualche critico trovi delle analogie con lo scrittore praghese. Lei che cosa ne pensa?
Quando ho scritto il libro su Buzzati, che è stato il primo pubblicato in Italia, andai a trovarlo a Milano. Una delle domande che gli rivolsi riguardava il suo rapporto con Kafka. Egli mi rispose che conosceva molto bene lo scrittore ceco, ma aggiunse che quando aveva scritto I sette messaggeri non aveva ancora letto il racconto kafkiano Il messaggio dell'Imperatore. A mio avviso la spiegazione in queste coincidenze risiede nel fatto che i due scrittori condividevano alcune domande interiori.
In passato ho fatto anche un paragone tra Buzzati e Borges dimostrando che anche in essi c'è un'origine comune. I due non solo non si conoscevano, ma è pressoché certo che l'uno ignorasse completamente l'opera dell'altro e viceversa. Eppure entrambi scrissero praticamente lo stesso racconto.
Per Buzzati la trama riguarda un principe orientale ammalatosi di lebbra, il quale terrorizzato all'idea di rinunciare alla propria vita mondana si rivolge a un santone chiedendogli come possa guarire. Il santone gli consiglia di pregare insistentemente, ed egli comincia a farlo. Quando Dio gli concede la guarigione il principe è così tanto interiormente cambiato che si rifiuta di abbandonare il lazzaretto nel quale era stato rinchiuso.
Analogamente Borges descrive la storia di uno stregone sudamericano rinchiuso in carcere ai tempi dei conquistadores, il quale durante la sua prigionia scorge fra le strisce di una tigre un messaggio divino, ha un'estasi e decide di non abbandonare più il proprio carcere.
Che dire di fronte a una simile coincidenza di visioni? Soltanto che gli spiriti sensibili sono comunemente legati da una certa particolare percezione della realtà.
A suo avviso l'opera di Buzzati può avere un ruolo educativo?
Certamente. Ai miei figli e ai miei nipoti ho sempre suggerito di leggere Buzzati, poiché egli apre la mente ad altre dimensioni che vanno oltre lo schiacciamento sulla materia che pervade la cultura quotidiana. Viviamo purtroppo in un mondo minimalista, che tenta incessantemente di ridurre l'uomo ai propri immediati e semplici bisogni senza farsi troppe domande. Ma l'uomo non è fatto per essere minimalista. Tutt'al più per essere "massimalista".
Voglio aggiungere una cosa: dicono tutti che Buzzati non fosse un credente. A mio avviso non c'è nulla di più sbagliato. Egli era profondamente credente in quanto continuava a domandarsi il senso delle cose e a non accontentarsi della superficie. Inoltre in numerosi racconti testimonia il proprio grande legame con il cristianesimo cattolico. Primo fra tutti: Il disco di posò.
Notizia choc: un cardinale fa l'elogio dell'ortodossia - Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: "Al giorno d'oggi non è più l'eresia, ma la retta dottrina a fare notizia". Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio di Sandro Magister
ROMA, 24 novembre 2008 – Dal suo ritiro sulla collina di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi ha consegnato le sue riflessioni a un nuovo libro. Al quale ha dato il titolo "Pecore e pastori". Che così spiega:
"Tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del 'piccolo gregge'. C'è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo".
Come già nei suoi libri precedenti, anche questa volta le vivide parole del cardinale teologo non sono quelle familiari alle scuole di teologia più frequentate, ma attingono direttamente al linguaggio del Vangelo, aperto ai "piccoli" e chiuso ai "sapienti".
Il cardinale Biffi sa che l'eresia va di moda. Ma questa è per lui una ragione in più di difendere l'ortodossia:
"Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che 'conversione', e non 'adattamento', è parola evangelica".
L'adattamento al pensiero corrente – scrive – arriva sino ad annebbiare la divinità di Gesù, ridotto a semplice uomo sia pure di straordinario valore:
"Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, la questione ariana [dal nome di Ario, l'eresiarca condannato dal Concilio di Nicea del 321] è sempre all’ordine del giorno nella vita ecclesiale. I pretesti possono essere tanti: dal desiderio di sentire Cristo più vicino e più uno di noi, al proposito di facilitarne la comprensione esaltandone quasi in modo esclusivo gli aspetti sociali e umanitari. Alla fine l’approdo è sempre quello di togliere al Redentore dell’uomo la sua radicale unicità e di classificarlo tra gli esseri trattabili e addomesticabili. Sotto questo profilo si potrebbe dire che allora il Concilio di Nicea è oggi molto più attuale del Concilio Vaticano II".
Sono molte le pagine controcorrente del nuovo libro di Biffi. Qui di seguito è riprodotto il capitolo che riguarda un tema tra i più controversi, quello della castità, affrontato dall'autore in una forma che appare insolita e controcorrente proprio perché fa riferimento diretto alle fonti della dottrina e della morale cristiane: le parole di Gesù nei Vangeli, le lettere di Paolo e gli altri libri delle Scritture.
La sfida della castità di Giacomo Biffi
Entro la secolare vicenda dell’umanità – così monotona e ripetitiva nelle sue spirituali opacità, nelle sue sconfitte morali, nelle sue enigmatiche sofferenze – l’avvento del "piccolo gregge" di Cristo è stata forse la sola novità sostanziale: qualcosa di inedito e di positivamente originale è finalmente comparso sulla faccia della terra.
Si è affacciata per la prima volta la carità come altissimo ideale di vita: [...] un ideale ammirato spesso anche [...] dai non cristiani, pur se difficile da imitare; una testimonianza che talora ha fatto riflettere anche quelli che non sono avvezzi a far posto a Dio nei loro pensieri.
Ciò che invece è stato percepito dal mondo come qualcosa di ostico e di repulsivo nella mentalità e nello stile della Chiesa è l’ideale, il programma, la testimonianza della castità. [...] Essa si configura fin dall’inizio come una vera e propria sfida. E resta una sfida anche nei confronti della mentalità più diffusa e prevalente ai nostri giorni. [...]
Una evidente incompatibilità
Quando si affaccia alla ribalta della storia – nel mondo greco-romano, oltre che nei territori dell’antico regno d’Israele – il cristianesimo deve fare i conti con una cultura contrassegnata da una concezione dell’erotismo, da una pratica della sessualità, da una regolamentazione dell’istituto matrimoniale, che è percepita subito come estranea all’indole dell’Evangelo e anzi come stridente con l’umanità nuova, nata dall’evento pasquale.
Ma non ci furono esitazioni: s’impose dall’inizio la persuasione universale e compatta che in tale materia non fossero ammissibili ambiguità o compromessi. Il "popolo nuovo", emerso dall’acqua e dallo Spirito, doveva distinguersi – oltre che per il fenomeno inaudito dello stile di amore fraterno – anche per una forma esigente e radicale di castità. Tutte le attestazioni in nostro possesso sono concordi. [...] Lo si evince dagli elenchi delle trasgressioni inammissibili nell’esistenza cristiana, che perciò escludono dall’approdo al Regno di Dio; elenchi che con sollecitudine pastorale vengono proposti alle comunità dei credenti:
"Non illudetevi: né immorali (pornòi), né idolatri, né adùlteri (moichòi), né depravati (malakòi), né sodomiti (arsenokòitai), né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio" (1 Corinzi 6, 9).
"Sappiatelo bene, nessun fornicatore (pòrnos) o impuro (akàthartos) o avaro, cioè nessun idolatra, avrà in eredità il regno di Cristo e di Dio" (Efesini 5, 5).
"Sono ben note le opere della carne: fornicazione (pornèia), impurità (akatharsìa), dissolutezza (asèlgheia)…; riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: che chi le compie non erediterà il regno di Dio" (Galati 5, 19-21).
Esigenza di santità
Una condotta casta è tra i segni necessari e più riconoscibili del passaggio sostanziale avvenuto col battesimo tra il modo di vivere degradato e indegno, tipico del paganesimo, e uno stato di purezza nuova: è uno stacco netto tra le vecchie abitudini e la novità pasquale:
"Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione" (Romani 6, 19).
"È finito il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani vivendo nei vizi (en aselghèiais)" (1 Pietro 4, 3).
Non è una sessuofobia ossessiva e neppure un moralismo esasperato a ispirare questo comportamento. È piuttosto una consapevolezza senza precedenti della esigenza di santificazione, che proviene dall’aver aderito al Dio tre volte santo:
"Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla impurità (apò tes pornèias), che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio" (1 Tessalonicesi 4, 3-5).
"Dio non ci ha chiamati all’impurità (epì akatharsìa), ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito" (1 Tessalonicesi 4, 7-8).
La giovane cristianità sente che è soprattutto l’immoralità sessuale del mondo ellenistico che merita il nome di impurità (akatharsìa) contraria a Dio.
Valore del corpo
Questa cultura, inaudita nella società greco-romana, non nasce da un eccessivo spiritualismo: qui non c’è quella diffidenza verso ciò che è materiale e corporeo, che serpeggiava nelle ideologie di matrice platonica (ma era ignota alla mentalità israelitica).
Al contrario essa si alimenta e si esprime col rispetto verso il corpo, il quale nella prospettiva cristiana è ritenuto realtà sacra e strumento di santificazione:
"State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi. Lo avete ricevuto da Dio, e voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (1 Corinzi 6, 18-20).
C’è, secondo san Paolo, come una "dimensione liturgica" della castità:
"Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Romani 12, 1).
Si capisce come la Chiesa abbia reagito subito alla disistima gnostica del matrimonio, disistima che nello gnosticismo arriva alla proibizione (cfr. 1 Timoteo 4, 3) e ne abbia difeso la dignità:
"Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio" (Ebrei 13, 4).
La nuova umanità del battezzato si rivela anche nel suo linguaggio, che deve rifuggire dal turpiloquio o anche solo dalle espressioni volgari, perché nei "santi" (così vengono chiamati i cristiani nelle lettere apostoliche) l’attenzione alla castità è totalizzante e deve rifulgere in ogni manifestazione dell’"uomo nuovo", anche nel suo contegno generale e nelle sue parole:
"Gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni (aischrologhìan) che escono dalla vostra bocca" (Colossesi 3, 8).
"Di fornicazione e di ogni specie d’impurità o di cupidigia, neppure si parli tra voi, – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità: che sono cose sconvenienti" (Efesini 5, 3-4).
La questione dell'omosessualità
Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, secondo la concezione cristiana bisogna distinguere il rispetto dovuto sempre alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dalla doverosa riprovazione di ogni esaltata ideologia dell’omosessualità.
La parola di Dio – come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo – ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione ideologica e culturale in questa materia: tale aberrazione, si afferma, è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e del rifiuto di dargli la gloria dovuta.
L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione:
"Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata . Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Romani 1, 21-22).
In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza:
"Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra di loro i propri corpi" (Romani 1, 24).
E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’Apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:
"Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne" (Romani 1, 26-28).
Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando "gli autori di tali cose... non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa" (Romani 1, 32).
È una pagina del Libro ispirato che nessuna autorità umana può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non "politicamente corretti".
Dobbiamo anzi far notare la singolare attualità di questo insegnamento della divina Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nella vicenda culturale del mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli: l’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente la "morte di Dio" – ha avuto come conseguenza e quasi come intrinseca punizione un dilagare di un’ideologia sessuale aberrante, ignota, nella sua arroganza, alle epoche precedenti.
Il pensiero di Cristo
Gesù, generalmente parlando, ha toccato poche volte queste tematiche: e sempre con uno stile sobrio, però al tempo stesso inequivocabile e risoluto. In materia di morale sessuale, egli si rivela in contrasto non solo con le abitudini dei pagani, ma anche con qualche persuasione diffusa in Israele.
Non è d’altra parte immaginabile che l’annuncio pasquale e la proposta della comunità cristiana, con la loro carica di novità e di non conformismo, non si attenessero pur su questo punto alla piena fedeltà al Vangelo e non si siano proposti la perfetta consonanza col magistero del Signore, custodito e trasmesso dalla predicazione degli Apostoli.
Gesù non dubita di annoverare anche le violazioni della castità tra i comportamenti che attentano alla dignità dell’uomo e alla sua purezza interiore, precisando inoltre che la corruzione del "cuore" (cioè del mondo interiore) è la fonte e la misura della responsabilità (e quindi della colpevolezza) delle azioni perpetrate:
"Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie. Questo rende impuro l'uomo" (Matteo 15, 19-20).
Addirittura Gesù ritiene – ed è tipico della sua antropologia – che la castità sia violata già nel segreto dell’animo quando è accolto il desiderio riprovevole, prima che ci sia la consumazione dell’atto peccaminoso:
"Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore" (Matteo 5, 28).
Un problema rabbinico circa il matrimonio
"È lecito a un uomo ripudiare la propria donna (gynàica) per qualsiasi motivo?" (Matteo 19, 3). La questione che i farisei propongono a Gesù aveva un riferimento preciso: si trattava di una questione che divideva le correnti rabbiniche dell’epoca.
La scuola di Shammai riteneva che l’unica ragione valida per procedere al ripudio fosse il cattivo comportamento morale, cioè la scostumatezza della moglie.
Per la scuola di Hillel invece bastava qualche inconveniente nella vita coniugalee: anche solo l’abitudine a salare troppo i cibi o l’aver lasciato bruciare la pietanza.
Proseguendo su tale linea permissiva, Rabbi Aquiba poche decine d’anni dopo arriverà a ritenere ragione sufficiente la possibilità da parte del marito di sposare una donna più bella.
La risposta di Gesù
Gesù non si lascia impigliare nelle controversie dei dottori della legge né si dimostra condizionato dai comportamenti diffusi tra gli ebrei. Il suo è un colpo d’ala: la sua risposta è che bisogna rifarsi al disegno originario di Dio:
"In principio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due diventeranno una carne sola. Dunque l’uomo non dividaquello che Dio ha congiunto" (Marco 10,6-9).
"In principio": questo "principio" nel quale è stata ideata e decisa la creazione (cfr. Genesi 1, 1: en archè) include già la prospettiva cristologica ed ecclesiologica, secondo la quale la realtà nuziale è segno e figura dell’unione che lega il Redentore all’umanità rinnovata, e la stessa distinzione dei sessi è allusione alla dialettica e alla comunione tra Cristo e la Chiesa.
È una visione così sublime e inattesa del matrimonio che i discepoli, trasecolati, si rifugiano nel sarcasmo: "Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Matteo 19, 10).
Notiamo che la redazione di Marco dell’episodio suppone l’idea della sostanziale parità tra l’uomo e la donna: parità che non compariva nella disposizione mosaica:
"Chi ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio" (Marco 10, 11-12).
Dal canto suo il vangelo di Luca ci ha conservato un altro detto di Gesù che ci offre un’ulteriore precisazione:
"Chiunque ripudia la propria donna e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio" (Luca 16, 18).
Come si vede, la seconda parte della frase previene e scarta anche l’ipotesi che l’indissolubilità non valga più dopo che il vincolo sia stato rotto, come qualcuno ha pensato. E sconfesssa l’ipotesi che la legge dell’indissolubilità possa essere eccezionalmente violata, quando si tratti del coniuge ripudiato, non responsabile della rottura.
L’inciso di Matteo
La redazione di Matteo aggiunge un inciso che non è di facile comprensione:
"Chiunque ripudia la propria donna (ten ghynàica autoù), tranne in caso di 'pornèia', e ne sposa un'altra, commette adulterio" (Matteo 19, 9).
Che cos’è questa "pornèia"? Non può voler dire un cattivo comportamento morale della moglie, perché in tal caso Gesù si assimilerebbe alla scuola di Shammai (mentre la reazione dei discepoli si spiega solo con l’assoluta novità della sentenza di Cristo). D’altra parte, la perfetta concordanza di Marco, Luca e Paolo ci assicura che Gesù ritiene assoluto il principio dell’indissolubilità.
La soluzione più semplice è che qui si parli di una convivenza non sponsale con una donna; convivenza che non solo si può ma anche si deve interrompere. Così interpreta anche la Bibbia della conferenza episcopale italiana, che traduce: "Se non in caso di unione illegittima".
L’ideale e la misericordia
Gesù annuncia senza attenuazioni e senza sconti lo splendente disegno originario del Padre sulla donna e sull’uomo; e perciò stesso ammonisce tutti a non deturpare quell’ideale di una vita casta e santa che ci è divinamente proposto. Però guarda sempre con simpatia e comprensione agli uomini che di fatto hanno avvilito quell’ideale con le loro prevaricazioni.
I peccatori sono da lui trattati con affettuosa cordialità. Non li ritiene estranei e lontani; piuttosto li considera la ragione della sua venuta nel mondo e i naturali destinatari della sua missione: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Matteo 9, 13; Marco 2, 17; Luca 5, 32).
Con questo atteggiamento benevolo riesce a salvare l’adultera dalla lapidazione (Giovanni 8, 1-11). Difende cavallerescamente una donna che nella narrazione è qualificata "una peccatrice di quella città" (Luca 7, 37). Avvia con la samaritana dalle molte esperienze un colloquio garbato e schietto che conquista il suo cuore (Giovanni 4, 5-42).
La sua non è la misericordia apparente del permissivismo: è la misericordia salvatrice che, senza disprezzare e umiliare, sospinge al ravvedimento e alla rinascita interiore.
Il "mistero grande"
La trascendente visione cristiana del rapporto uomo-donna – e in essa la precisa ed esigente proposta di vita casta secondo la condizione propria di ciascuno – trova il suo fondamento e la sua ispirazione nel convincimento che quel rapporto è immagine della connessione sponsale che lega Cristo alla Chiesa.
È una lezione di "teologia anagogica" (che cioè si lascia illuminare dall’alto) impartitaci da san Paolo nella lettera agli Efesini. Nella reciproca donazione dei coniugi vive un "mistero grande" [...] che il Padre ha disegnato prima di tutti i secoli: "Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa" (Efesini 5, 32). L’amore del marito per la moglie evoca agli occhi dell’Apostolo l’amore di Cristo per la Chiesa: un amore che salva che purifica e santifica.
Il successivo magistero della Chiesa parlerà del matrimonio come di un "sacramento": un sacramento che, essendo allusione e figura del vincolo che fa del Redentore e dell’umanità redenta "una sola carne", attua negli sposi una speciale partecipazione a quell’evento, [...] entro il quale gli atti reciproci di donazione personale diventano occasione e veicolo di continua grazia.
Nessuna filosofia e nessuna religione è mai arrivata a esaltare così la vita sessuale; naturalmente la vita sessuale condotta secondo il piano originario di Dio.
Una sfida sempre attuale
La castità annunciata e proposta dalla predicazione apostolica è stata senza dubbio una sfida alla mentalità e al comportamento dell’umanità di quei tempi. Ed è una sfida che anche oggi conserva intatta la sua attualità. Sotto un certo profilo anzi è diventata più necessaria e più urgente.
La nostra epoca è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi.
Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni. E con la loro tenacia e la loro intraprendenza raggiungono senza volerlo il malinconico traguardo di una oggettiva comicità.
Realismo evangelico
Senza dubbio agli occhi del mondo la visione cristiana appare fatalmente astratta e utopistica: nobile e bella – si dirà – ma troppo lontana dalla realtà effettuale.
A onor del vero quest’ideale di castità è proprio impossibile e vano per chi non vive con pienezza la vita battesimale, con i suoi appuntamenti sacramentali, con la contemplazione assidua dell’evento pasquale, con il giusto spazio dedicato alla preghiera, con la decisa e gioiosa condivisione dell’esperienza ecclesiale.
La ragione sta nel fatto che la castità non è virtù che si possa inseguire e acquisire da sola, fuori dal contesto di un’integrale sequela di Cristo. Invece nel contesto di un’integrale sequela di Cristo tutto diventa possibile, facile, gioioso: "Tutto posso in colui che mi dà la forza" (Filippesi 4, 13).
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Il libro: Giacomo Biffi, "Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo", Cantagalli, Siena, 2008, pp. 256, euro 13,80.