domenica 9 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 09/11/2008 12.18.24 - L'Angelus di Benedetto XVI
2) Tempi 23-10-2008 - Nel paese dello zio Ho - di Lorenzo Fazzini - "Lei non conosce i comunisti. Se le raccontassi apertamente tutto quello che fanno contro la Chiesa, domani mi arresterebbero e mi manderebbero in prigione". Il vescovo vietnamita che mi fa questa confidenza allarga le braccia sconsolato. Perchè finire in carcere per la propria fede è un'opzione realistica, in un paese in cui il Partito è ancora sovieticamente un dio.
3) Appello per la difesa della vita in Uruguay - Autore: Monteiro, Alberto R. S. Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 8 novembre 2008 Abbiamo ricevuto questo pressante appello: anche in Uruguay si cerca di far passare l'aborto di stato ricorrendo a strategie fraudolente.
4) Il Papa ai partecipanti al congresso promosso dalla Lateranense e dalla Gregoriana - Un insegnamento inestimabile - Ecco il magistero di Pio XII - Letture unilaterali hanno impedito di valutare il suo grande spessore storico e teologico - Nonostante ricostruzioni storiche parziali e inadeguate, il "poliedrico e fecondo magistero" di Pio XII conserva ancora oggi "un valore inestimabile". Lo ha affermato Benedetto XVI ricevendo in udienza sabato mattina, 8 novembre, i partecipanti al congresso su Papa Pacelli promosso dalla Lateranense e dalla Gregoriana. – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
5) Fede e ragione tra verità e libero arbitrio - Le goffe contraddizioni - dello scientismo - L'ultimo numero della rivista bimestrale "Vita e Pensiero" - che esce la prossima settimana - interviene nel dibattito sul tema del rapporto tra scienza e religione con un articolo che pubblichiamo quasi integralmente. L'autore è un ministro della Chiesa anglicana, fisico e vincitore nel 2002 del Premio Templeton proprio per i suoi studi sulla materia trattata in questo contributo. - di John Polkinghorne – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
6) Settecento anni fa moriva il filosofo e teologo francescano - Duns Scoto - sulle tracce dell'infinito - "Pro statu isto. L'appello dell'uomo all'infinito" è il titolo del convegno organizzato a Milano dal Dipartimento di Filosofia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con la Provincia dei Frati minori della Lombardia nel settimo centenario della morte di Giovanni Duns Scoto. Pubblichiamo alcune parti dell'intervento introduttivo. di Alessandro Ghisalberti Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
7) Quando il Dottor Sottile andava a scuola - Pubblichiamo alcuni stralci di una relazione tenuta nell'ambito delle "Lezioni Scotiste" organizzate dalla Facoltà di Filosofia e dalla Scuola superiore di studi medievali e francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma. - di Timothy B. Noone - The Catholic University of America Washington – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
8) BENEDETTO XVI SUI TRAPIANTI - PAROLE LIMPIDE PER UN DONO STRAORDINARIO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 9 novembre 2008


09/11/2008 12.18.24 - L'Angelus di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle!
La liturgia ci fa celebrare oggi la Dedicazione della Basilica Lateranense, chiamata “madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e dell’Orbe”. In effetti, questa Basilica fu la prima ad essere costruita dopo l’editto dell’imperatore Costantino che, nel 313, concesse ai cristiani la libertà di praticare la loro religione. Lo stesso imperatore donò al Papa Melchiade l’antico possedimento della famiglia dei Laterani e vi fece edificare la Basilica, il Battistero e il Patriarchio, cioè la residenza del Vescovo di Roma, dove i Papi abitarono fino al periodo avignonese. La dedicazione della Basilica fu celebrata dal Papa Silvestro verso il 324 e il tempio fu intitolato al Santissimo Salvatore; solo dopo il VI secolo vennero aggiunti i titoli dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, da cui la comune denominazione. Questa ricorrenza interessò dapprima la sola città di Roma; poi, a partire dal 1565, si estese a tutte le Chiese di rito romano. In tal modo, onorando l’edificio sacro, si intende esprimere amore e venerazione per la Chiesa romana che, come afferma sant’Ignazio di Antiochia, “presiede alla carità” dell’intera comunione cattolica (Ai Romani, 1, 1).

La Parola di Dio in questa solennità richiama una verità essenziale: il tempio di mattoni è simbolo della Chiesa viva, la comunità cristiana, che già gli Apostoli Pietro e Paolo, nelle loro lettere, intendevano come “edificio spirituale”, costruito da Dio con le “pietre vive” che sono i cristiani, sopra l’unico fondamento che è Gesù Cristo, paragonato a sua volta alla “pietra angolare” (cfr 1 Cor 3,9-11.16-17; 1 Pt 2,4-8; Ef 2,20-22). “Fratelli, voi siete edificio di Dio”, scrive san Paolo e aggiunge: “santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1 Cor 3,9c.17). La bellezza e l’armonia delle chiese, destinate a rendere lode a Dio, invita anche noi esseri umani, limitati e peccatori, a convertirci per formare un “cosmo”, una costruzione bene ordinata, in stretta comunione con Gesù, che è il vero Santo dei Santi. Ciò avviene in modo culminante nella liturgia eucaristica, in cui l’“ecclesìa”, cioè la comunità dei battezzati, si ritrova unita per ascoltare la Parola di Dio e per nutrirsi del Corpo e Sangue di Cristo. Intorno a questa duplice mensa la Chiesa di pietre vive si edifica nella verità e nella carità e viene interiormente plasmata dallo Spirito Santo trasformandosi in ciò che riceve, conformandosi sempre più al suo Signore Gesù Cristo. Essa stessa, se vive nell’unità sincera e fraterna, diventa così sacrificio spirituale gradito a Dio.

Cari amici, la festa odierna celebra un mistero sempre attuale: che cioè Dio vuole edificarsi nel mondo un tempio spirituale, una comunità che lo adori in spirito e verità (cfr Gv 4,23-24). Ma questa ricorrenza ci ricorda anche l’importanza degli edifici materiali, in cui le comunità si raccolgono per celebrare le lodi di Dio. Ogni comunità ha pertanto il dovere di custodire con cura i propri edifici sacri, che costituiscono un prezioso patrimonio religioso e storico. Invochiamo perciò l’intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti a diventare, come Lei, “casa di Dio”, tempio vivo del suo amore.

DOPO ANGELUS
Ricorre quest’oggi il 70° anniversario di quel triste avvenimento, verificatosi nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938, quando si scatenò in Germania la furia nazista contro gli ebrei. Furono attaccati e distrutti negozi, uffici, abitazioni e sinagoghe, furono anche uccise numerose persone, dando inizio alla sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah. Ancora oggi provo dolore per quanto accadde in quella tragica circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all’accoglienza reciproca. Invito, inoltre, a pregare per le vittime di allora e ad unirvi a me nel manifestare profonda solidarietà al mondo ebraico.

Continuano a giungere inquietanti notizie dalla regione del Nord-Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Sanguinosi scontri armati e sistematiche atrocità hanno provocato e stanno provocando numerose vittime tra i civili innocenti; distruzioni, saccheggi e violenze di ogni tipo hanno costretto altre decine di migliaia di persone ad abbandonare anche quel poco che avevano per sopravvivere. Si calcola che i profughi siano attualmente più di un milione e mezzo. A tutti e a ciascuno di loro desidero esprimere la mia particolare vicinanza, mentre incoraggio e benedico quanti si stanno adoperando per alleviare le loro sofferenze, tra i quali menziono in particolare gli operatori pastorali di quella Chiesa locale. Alle famiglie private dei loro cari giungano il mio cordoglio e l’assicurazione della mia preghiera di suffragio. Infine, rinnovo il mio fervido appello affinché tutti collaborino al ripristino della pace in quella terra da troppo tempo martoriata, nel rispetto della legalità e soprattutto della dignità di ogni persona.

Si celebra oggi in Italia la Giornata del Ringraziamento, che quest’anno ha per tema: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. Unisco la mia voce a quella dei Vescovi italiani che, a partire da queste parole di Gesù, attirano l’attenzione sul grave e complesso problema della fame, reso più drammatico dall’aumento dei prezzi di alcuni alimenti di base. La Chiesa, mentre ripropone il principio etico fondamentale della destinazione universale dei beni, lo mette in pratica, sull’esempio del Signore Gesù, con molteplici iniziative di condivisione. Prego per il mondo rurale, specialmente per i piccoli coltivatori dei Paesi in via di sviluppo. Incoraggio e benedico quanti si impegnano perché a nessuno manchi un’alimentazione sana e adeguata: chi soccorre il povero soccorre Cristo stesso.


Tempi 23-10-2008 - Nel paese dello zio Ho - di Lorenzo Fazzini - "Lei non conosce i comunisti. Se le raccontassi apertamente tutto quello che fanno contro la Chiesa, domani mi arresterebbero e mi manderebbero in prigione". Il vescovo vietnamita che mi fa questa confidenza allarga le braccia sconsolato. Perchè finire in carcere per la propria fede è un'opzione realistica, in un paese in cui il Partito è ancora sovieticamente un dio.
Con termini più diplomatici il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Manh, arcivescovo di Ho Chi Minh City, ammette che "la situazione è difficile". Nelle sue parole c’è tutto quel che basta a evocare quella finzione di "libertà" religiosa che stritola la Chiesa in Vietnam. "La Chiesa è libera ma non ha il diritto di esserlo", afferma il cardinale mentre mi apre la porta della sua residenza nei pressi della centralissima cattedrale di Notre Dame. Di fronte al vescovado, sulla facciata dell’ex palazzo presidenziale del Vietnam del Sud, fa mostra di sé un cartellone propagandistico dipinto di rosso. "Il Partito comunista, il governo e il distretto popolare 5 ti dicono: studia e segui l’esempio di zio Ho Chi Minh", recita la scritta, col padre della patria che sorride col suo pizzetto bianco.

In Vietnam i cattolici sono l’8 per cento degli 84 milioni di abitanti e la Chiesa gode di un prestigio sociale indiscusso anche tra i non cristiani, ma dalla fine della scorsa estate le tensioni sono arrivate a un punto di rottura. Oggetto del contendere sono alcuni terreni, edifici e strutture un tempo di proprietà ecclesiastica, confiscati dai vietminh dopo la conquista del potere ad Hanoi, nel Nord, nel 1954; confische che si sono ripetute nel 1975 nel Sud una volta occupata Saigon, l’attuale Ho Chi Minh City. Sono questi beni che ora la Chiesa richiede indietro a un paese che inizia ad aprirsi alle libertà economiche e che nel 2006 è entrato nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, WTO.

Per oltre dieci anni – fino alla metà degli anni Ottanta – i comunisti hanno tenuto chiuse le chiese. La cappella dell’università di Dalat, secondo centro accademico del paese, ha subìto una singolare trasformazione: al posto della croce, sul campanile, oggi svetta una stella rossa di sovietica memoria. I seminari sono divenuti edifici statali. A Huê, antica capitale imperiale, il seminario minore nel quale studiò il futuro cardinale François-Xavier Nguyên Van Thuân, martire della fede, imprigionato per 13 anni, è diventato il più lussuoso albergo della città. Il convento carmelitano di Hanoi – qui Santa Teresa di Lisieux sognava di venire missionaria – è stato trasformato in un ospedale. Una chiesa a pochi passi dall’ambasciata d'Italia nella capitale è divenuta un magazzino.

Di fronte a episodi di corruzione sfacciata, in cui i terreni vengono venduti a industrie statali o private in cambio di cospicue tangenti ai funzionari di governo, i cattolici sono scesi in piazza. In piazza a pregare, come spiegano alla conferenza episcopale vietnamita, che raccoglie i vescovi delle 27 diocesi del paese. La Chiesa esige la restituzione di proprietà di cui oggi ha più bisogno che mai per accudire un popolo di fedeli in crescita: solo a Ho Chi Minh City si contano ogni anno 9 mila battesimi di adulti. Fedeli e pastori si pongono una domanda semplice: perché in un Vietnam che cresce economicamente al tasso dell’8 per cento all’anno, con aziende giapponesi e “yankee” che investono, grattacieli che spuntano come funghi assieme a hotel di lusso (nella località costiera di Nha Trang il il vescovado è ora circondato da un nuovo hotel Hilton a destra e da due torri avveniristiche a sinistra), la Chiesa non ha il diritto di vedersi riconsegnati beni e proprietà portati via con la forza trent'anni fa?

A metà agosto hanno iniziato a manifestare pacificamente i fedeli della parrocchia redentorista di Thai Ha, nei sobborghi di Hanoi. Su un terreno di 14 mila metri quadrati, che le autorità sostengono falsamente essere stato ceduto dai religiosi allo Stato negli anni Sessanta, un’azienda statale vuole costruire una strada. La polizia è intervenuta con bastoni elettrici e gas irritanti contro anziani e bambini. Sei persone sono state arrestate. Perché?

"Perché pregavano in maniera pacifica. Questa violazione dei diritti dell’uomo è inaccettabile, lo scriva e lo dica al mondo". Monsignor Joseph Ngo Quang Kiet, arcivescovo di Hanoi da poco più di 3 anni, non ha paura di denunciare quanto avvenuto a Thai Ha e non solo. Ora lui è nell’occhio del ciclone per essersi schierato prima a fianco della parrocchia redentorista e poi per aver guidato la più grande manifestazione di protesta non violenta che si ricordi ad Hanoi dal 1954.

Il 21 settembre 10 mila persone si sono radunate a pregare sul piazzale dell’ex nunziatura apostolica, adiacente al vescovado di Hanoi, nel centralissimo distretto di Hoàn Kiem. La protesta era la risposta al fatto che dopo nove mesi di trattative con le autorità della capitale, due giorni prima, di notte, improvvisamente, bulldozer e operai edili scortati da esercito e polizia erano entrati nel terreno dell’ex delegazione apostolica per realizzare un parco pubblico.

"Non ci hanno avvertiti, hanno fatto tutto in maniera unilaterale interrompendo il dialogo che portavamo avanti da mesi", è la lamentela che arriva dai piani alti della Chiesa vietnamita. Il cardinale Pham Minh Manh rincara la dose: "Ho pubblicamente ribadito che la politica della Chiesa si basa su un dialogo fondato su verità, giustizia e carità. Ma questo dialogo è difficile perché tale parola, dialogo, neppure esiste nel vocabolario comunista, come non esiste il termine solidarietà".

Ora le preghiere di protesta sono state sospese, come i lavori edilizi. Intanto però monsignor Kiet ha vissuto da sorvegliato speciale per alcune settimane. Andare a incontrarlo significava passare tra registratori, macchine fotografiche e cineprese nascoste, piazzate intorno al vescovado per identificare chiunque si avvicinasse a lui. Solo dopo la prima settimana di ottobre questo vescovo di 56 anni che ha studiato all’Institut Catholique a Parigi e ha guidato due diocesi del Nord – dove i cattolici sono stati ridotti a soli 6 mila fedeli dalla repressione comunista – ha potuto comparire di nuovo in pubblico. Per assistere all’ordinazione episcopale del nuovo vescovo di Bac Ninh, 30 chilometri a nord dalla capitale, i fedeli lo hanno quasi travolto nel manifestargli la loro solidarietà in questa sua coraggiosa azione per la libertà della Chiesa.

Infatti, quella che potrebbe sembrare una mera questione edilizia è in realtà un atto di repressione della Chiesa. Da alcune voci autorevoli del cattolicesimo vietnamita arrivano stringenti argomentazioni sul perché questa vicenda – la restituzione dei beni confiscati – sia la linea di resistenza da cui dipende il futuro del cattolicesimo nella patria di zio Ho.

"Abbiamo chiesto molte volte al governo, con domande scritte, la restituzione delle nostre proprietà, di cui possediamo i documenti. Il più delle volte le autorità non ci hanno nemmeno risposto. Qualche volta hanno detto: vediamo, stiamo valutando", spiega padre Thomas Vu Quang Trung, provinciale dei gesuiti a Thu Duc, periferia di Saigon. "Nel ’75, dopo l’espulsione dei religiosi stranieri, il ragionamento del governo è stato semplice: siete troppo pochi per tutte queste strutture, le prendiamo noi per usarle per il popolo".

Padre Trung allarga le braccia: "Si può anche accettare che usino una nostra vecchia proprietà, come la nostra casa di Dalat, per uno scopo pubblico, cioè per farne scuole o ospedali. Ma farle diventare una discoteca, come è capitato a una struttura di suore a Ho Chi Minh City, questo no! Il nostro studentato di Hu è diventato un supermercato. Le nostre richieste di restituzione continuano, anche perché è una questione che riguarda non solo i cattolici, ma tutte le confessioni religiose e anche la gente normale, il popolo. Le due vertenze del Nord – l’ex nunziatura di Hanoi e la parrocchia redentorista – non riguardano solo la proprietà di un terreno, ma il modo in cui è amministrata la giustizia".

Padre John Nguyen Van Ty, già superiore dei salesiani, consigliere del cardinale Pham Minh Manh, è ancora più esplicito: "Le autorità temono un effetto domino: se cedono su Hanoi, c’è il rischio che tutte le religioni reclamino le loro esigenze in nome della giustizia. Questa vicenda di Hanoi, secondo alcuni, può essere la scintilla che fa bruciare tutto. Sia i cattolici del Vietnam che quelli della diaspora sono uniti: non cediamo, è una questione di giustizia, non di libertà religiosa ma di diritto. Fa bene il Vaticano a non intervenire sulla questione, considerandola un affare della Chiesa locale. Altrimenti la cosa verrebbe considerata un fatto solo confessionale e invece è un problema di giustizia. Certo, stanno facendo pesanti intimidazioni con minacce all’arcivescovo, incursioni di bande violente, arresti di cattolici, insulti quotidiani sui media contro la Chiesa. I comunisti hanno paura dei cattolici perché sono la religione organizzata più forte in tutto il paese. Ma tra gli intellettuali, docenti universitari, studenti e giornalisti, si inizia a capire la realtà, cioè che il comunismo opprime, e vedono nella Chiesa un luogo di libertà".

Padre Francis Xavier Phan Long, guida della provincia francescana, spiega che i vescovi vietnamiti hanno fatto benissimo a "piantare il chiodo" della proprietà privata, chiedendo pubblicamente al governo di rivedere la legge – "sorpassata e datata" l’ha definita il presidente della conferenza episcopale, monsignor Peter Nguyen Van Nhon – che assegna solo allo Stato il possesso della terra.

"Sono contento del fatto che i vescovi abbiano avuto per la prima volta una posizione comune su un problema concreto. Di solito, quando facevano la loro assemblea annuale, emettevano un comunicato finale che riguardava questioni molto generali", spiega padre Long nel suo ufficio nel centro di Ho Chi Minh City. "Questa volta, in maniera nuova, hanno affrontato una questione calda come quella di Hanoi, insistendo sul dialogo franco e diretto con le autorità. Non sappiamo se la legge sulla proprietà privata cambierà, ma noi ci speriamo. Io una cosa alle autorità l’ho già detta...".

Che cosa? Risponde: "Quando sono iniziati i fatti di Hanoi, il ministero della sicurezza mi ha convocato per chiedere la mia opinione su quanto stava accadendo. Ho avvertito che se il governo in futuro si impossessasse di proprietà dei francescani noi saremo pronti a lottare. Pacificamente, visto che siamo figli di san Francesco. Ma non saremo comunque disposti a rinunciare alla lotta".


Appello per la difesa della vita in Uruguay - Autore: Monteiro, Alberto R. S. Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 8 novembre 2008
Abbiamo ricevuto questo pressante appello: anche in Uruguay si cerca di far passare l'aborto di stato ricorrendo a strategie fraudolente.
Martedì 4 novembre 2008 si è votata la legalizzazione dell'aborto in Uruguay alla Camera dei Deputati. La votazione si è conclusa con 49 voti a favore dell'aborto contro 48 a favore della vita.

Fino ad oggi nel sito del Parlamento Uruguayo (http://www.parlamento.gub.uy) non c'era nessuna convocazione precedente la seduta, né un’informazione sul come e che cosa si è votato. Le notizie si sanno attraverso la stampa e i contatti locali.

http://www.aciprensa.com/noticia.php?n=23309

http://www.elpais.com.uy/08/11/05/pnacio_379785.asp

Il progetto deve ritornare adesso in Senato, non perché l'aborto sia stato bocciato, ma perché c'è stato un voto che non concordava con l'articolo che dichiarava che "i diritti sessuali e riproduttivi sono diritti umani universali, intrasferibili e inalienabili".

Dopo che il Senato avrà concordato o no con questa osservazione della Camera, il progetto sarà inoltrato alla Presidenza della Repubblica, che ha promesso ripetute volte di bloccarlo, anche solo nella parte che riguarda la legalizzazione dell'aborto.

Oltre all'aborto, il progetto vieta ai genitori il diritto di decidere cosa sarà insegnato ai loro figli nella scuola in materia di sessualità, stabilisce l'educazione obbligatoria sull'esercizio dei diritti sessuali e riproduttivi dalla scuola elementare, e il dovere dello Stato di "combattere qualsiasi pressione sociale o culturale" in materia sessuale, con il che si apre la porta a un maestro che, religioso o no, voglia insegnare qualsiasi cosa ad esempio sul tema della castità. Il progetto obbliga anche lo Stato ad adottare ufficialmente l'ideologia di genere, che è il presupposto ideologico appositamente introdotto non solo per scatenare le politiche che favoriscono l'educazione sessuale liberale, il movimento omosessuale, i modelli alternativi di famiglia e l'aborto come diritto umano, ma anche per impedire con base nella legge qualsiasi critica a questi temi sotto la rubrica della discriminazione ideologica. Nessuno di questi punti sarà bloccato dalla presidenza.

Secondo la denuncia dall'agenzia di notizie Aciprensa, ma anche abbondanti conferme dai gruppi locali che hanno seguito in loco tutti i fatti, c'erano alla Camera i voti necessari per far vincere la vita, ma i deputati che avrebbero votato contro l'aborto sono stati forzati dai loro colleghi a non presentarsi alla votazione, e a lasciarsi sostituire da supplenti a favore dell'aborto.

http://www.aciprensa.com/noticia.php?n=23295

Però il fatto peggiore di tutti, esaustivamente comprovato da documenti ufficiali che qualsiasi cittadino può scaricare da Internet, ma che è stato sistematicamente censurato dalla stampa ai cittadini dell'Uruguay, è che il progetto votato questo martedì 4 novembre 2008 era stato bocciato dal Senato nell'ottobre 2007 e non potrebbe più essere votato dalla Camera in questa legislatura.
Mediante varie frodi che non sono state divulgate al pubblico, la legge è stata votata come se fosse stata approvata dal Senato.
Nessun giornalista lo ha manifestato e nessun politico ne ha parlato.

Il bollettino di notizie SDV - Situación de la Defensa de la Vida (Situazione della Difesa della Vita) diffonde dalla metà dell'ultima settimana di ottobre la notizia che il progetto di legge finalmente votato martedì dai deputati era stato bocciato alla fine del 2007 dal Senato; ciononostante fu inviato alla Camera dei Deputati come se fosse stato approvato. Avvocati dei gruppi a favore della vita hanno presentato un rapporto dettagliato ai Deputati su questairregolarità, però la presidenza della Camera semplicemente ha fatto finta di niente.

Probabilmente a causa delle insistenti denunce dei gruppi a favore della vita, che anche se non hanno spazio nei mezzi di comunicazione, sono presenti e diffusi nella società, i giornalisti, nonostante tutta la documentazione ufficiale e pubblica contenga da tempo le medesime informazioni, solo nella mattina di questo martedì 4 novembre 2008 hanno cominciato a parlare timidamente di questi fatti e a riconoscere che effettivamente ci sono state due votazioni del presente progetto nel Senato. Però menzionano questi fatti come se si trattasse di avvenimenti completamente normali, invece di qualificarli come frode, disonestà e corruzione legislativa.

ABBIAMO BISOGNO DEL TUO AIUTO.

Il vero motivo per cui vogliono legalizzare l'aborto in Uruguay è per spargere in seguito questo genocidio in tutta l’America Latina.

DIFFONDI QUESTO MESSAGGIO.

NON SOTTOVALUTARE QUANTO È DECISIVO IL TUO INTERVENTO. È PROPRIO DAL TUO AIUTO CHE SPERIAMO LA VITTORIA DELLA VITA, COME SI È VERIFICATO TANTE VOLTE.

Scrivi, anche se in italiano, un messaggio elettronico a tutti i deputati, e anche ai senatori, che dovranno ora trattare, prima di inviare il progetto alla presidenza, di un particolare di una legge che era già stato bocciata da loro stessi. Di’ a loro, rispettosamente, che le frodi che si sono verificate sono conosciute dappertutto.
Manda anche un fax, se non a tutti, almeno ad alcuni, altri lo faranno ai restanti. Il fax non si può cancellare con un semplice colpo di mouse senza neanche essere visto. Se puoi, fai anche una telefonata. Se parli lentamente, anche se non sai lo spagnolo, certamente capiranno cosa vuoi dire.

CHIEDI A MOLTI ALTRI CHE SCRIVANO.

Ringraziamo profondamente il grandissimo bene che tutti stanno aiutando a promuovere. L'umanità intera vi deve molto per l'attenzione che avrete dato a questo messaggio. Con l'aiuto di tutti, alla fine la vita dovrà vincere.

Alberto R. S. Monteiro


Il Papa ai partecipanti al congresso promosso dalla Lateranense e dalla Gregoriana - Un insegnamento inestimabile - Ecco il magistero di Pio XII - Letture unilaterali hanno impedito di valutare il suo grande spessore storico e teologico - Nonostante ricostruzioni storiche parziali e inadeguate, il "poliedrico e fecondo magistero" di Pio XII conserva ancora oggi "un valore inestimabile". Lo ha affermato Benedetto XVI ricevendo in udienza sabato mattina, 8 novembre, i partecipanti al congresso su Papa Pacelli promosso dalla Lateranense e dalla Gregoriana. – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'Episcopato
e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di accogliervi in occasione del Congresso su "L'eredità del Magistero di Pio XII e il Concilio Vaticano ii", promosso dalla Pontificia Università Lateranense insieme con la Pontificia Università Gregoriana. È un Congresso importante per il tema che affronta e per le persone erudite, provenienti da varie Nazioni, che vi prendono parte. Nel rivolgere a ciascuno il mio cordiale saluto, ringrazio in particolare Mons. Rino Fisichella, Rettore Magnifico dell'Università Lateranense, e P. Gianfranco Ghirlanda, Rettore dell'Università Gregoriana, per le espressioni gentili con cui hanno interpretato i comuni sentimenti.

Ho apprezzato l'impegnativo tema sul quale avete concentrato la vostra attenzione. Negli ultimi anni, quando si è parlato di Pio XII, l'attenzione si è concentrata in modo eccessivo su una sola problematica, trattata per di più in maniera piuttosto unilaterale. A parte ogni altra considerazione, ciò ha impedito un approccio adeguato ad una figura di grande spessore storico-teologico qual è quella del Papa Pio XII. L'insieme della imponente attività svolta da questo Pontefice e, in modo del tutto speciale, il suo magistero sul quale vi siete soffermati in questi giorni, sono una prova eloquente di quanto ho appena affermato. Il suo magistero si qualifica infatti per la vasta e benefica ampiezza, come anche per la sua eccezionale qualità, così che può ben dirsi che esso costituisca una preziosa eredità di cui la Chiesa ha fatto e continua a fare tesoro.
Ho parlato di "vasta e benefica ampiezza" di questo magistero. Basti ricordare, al riguardo, le Encicliche e i moltissimi discorsi e radiomessaggi contenuti nei venti volumi dei suoi "Insegnamenti". Sono più di quaranta le Encicliche da lui pubblicate. Tra esse spicca la "Mystici Corporis", nella quale il Papa affronta il tema della vera ed intima natura della Chiesa. Con ampiezza di indagine egli mette in luce la nostra profonda unione ontologica con Cristo e - in Lui, per Lui e con Lui - con tutti gli altri fedeli animati dal suo Spirito, che si nutrono del suo Corpo e, trasformati in Lui, gli danno modo di continuare ed estendere nel mondo la sua opera salvifica. Intimamente connesse con la "Mystici Corporis" sono altre due Encicliche: la "Divino afflante Spiritu" sulla Sacra Scrittura e la "Mediator Dei" sulla sacra Liturgia, nelle quali vengono presentate le due sorgenti a cui devono sempre attingere coloro che appartengono a Cristo, Capo di quel mistico Corpo che è la Chiesa.
In questo contesto di ampio respiro Pio XII ha trattato delle varie categorie di persone che, per volere del Signore, fanno parte della Chiesa, pur con vocazioni e compiti differenziati: i sacerdoti, i religiosi ed i laici. Così egli ha emanato sagge norme sulla formazione dei sacerdoti, che si devono distinguere per l'amore personale a Cristo, la semplicità e la sobrietà di vita, la lealtà verso i loro Vescovi e la disponibilità verso coloro che sono affidati alle loro cure pastorali. Nell'Enciclica "Sacra Virginitas" poi e in altri documenti sulla vita religiosa Pio XII ha messo in chiara luce l'eccellenza del "dono" che Dio concede a certe persone invitandole a consacrarsi totalmente al servizio suo e del prossimo nella Chiesa. In tale prospettiva il Papa insiste fortemente sul ritorno al Vangelo ed all'autentico carisma dei Fondatori e delle Fondatrici dei vari Ordini e Congregazioni religiose, prospettando anche la necessità di alcune sane riforme. Numerose sono state poi le occasioni in cui Pio XII ha trattato della responsabilità dei laici nella Chiesa, profittando in particolare dei grandi Congressi internazionali dedicati a queste tematiche. Volentieri egli affrontava i problemi delle singole professioni, indicando, ad esempio, i doveri dei giudici, degli avvocati, degli operatori sociali, dei medici: a questi ultimi il Sommo Pontefice dedicò numerosi discorsi illustrando le norme deontologiche che essi devono rispettare nella loro attività. Nell'Enciclica "Miranda prorsus", poi, il Papa si soffermò sulla grande importanza dei moderni mezzi di comunicazione, che in modo sempre più incisivo andavano influenzando l'opinione pubblica. Proprio per questo il Sommo Pontefice, che valorizzò al massimo la nuova invenzione della Radio, sottolineava il dovere dei giornalisti di fornire informazioni veritiere e rispettose delle norme morali.
Anche alle scienze e agli straordinari progressi da esse compiuti Pio XII rivolse la sua attenzione. Pur ammirando le conquiste raggiunte in tali campi, il Papa non mancava di mettere in guardia dai rischi che una ricerca non attenta ai valori morali poteva comportare. Basti un solo esempio: restò famoso il discorso da lui pronunciato sulla raggiunta scissione degli atomi; con straordinaria lungimiranza, però, il Papa ammoniva circa la necessità di impedire ad ogni costo che questi geniali progressi scientifici venissero utilizzati per la costruzione di armi micidiali che avrebbero potuto provocare catastrofi immani e perfino la totale distruzione dell'umanità. Come non ricordare poi i lunghi ed ispirati discorsi concernenti l'auspicato riordinamento della società civile, nazionale ed internazionale, per il quale egli indicava come fondamento imprescindibile la giustizia, vero presupposto per una convivenza pacifica fra i popoli: "opus iustitiae pax!". Ugualmente meritevole di speciale menzione è l'insegnamento mariologico di Pio XII, che ebbe il suo culmine nella proclamazione del dogma dell'Assunzione di Maria Santissima, per mezzo del quale il Santo Padre intendeva sottolineare la dimensione escatologica della nostra esistenza ed esaltare altresì la dignità della donna.
Che dire della qualità dell'insegnamento di Pio XII? Egli era contrario alle improvvisazioni: scriveva con la massima cura ogni discorso, soppesando ogni frase ed ogni parola prima di pronunciarla in pubblico. Studiava attentamente le varie questioni ed aveva l'abitudine di chiedere consiglio ad eminenti specialisti, quando si trattava di temi che richiedevano una competenza particolare. Per natura ed indole Pio XII era un uomo misurato e realista, alieno da facili ottimismi, ma era altresì immune dal pericolo di quel pessimismo che non si addice ad un credente. Aborriva le sterili polemiche ed era profondamente diffidente nei confronti del fanatismo e del sentimentalismo.
Questi suoi atteggiamenti interiori rendono ragione del valore e della profondità, come anche dell'affidabilità del suo insegnamento, e spiegano l'adesione fiduciosa ad esso riservata non solo dai fedeli, ma anche da tante persone non appartenenti alla Chiesa. Considerando la grande ampiezza e l'alta qualità del magistero di Pio XII, viene da chiedersi come egli sia riuscito a fare tanto, pur dovendo dedicarsi ai numerosi altri compiti connessi col suo ufficio di Sommo Pontefice: il governo quotidiano della Chiesa, le nomine e le visite dei Vescovi, le visite di Capi di Stato e di diplomatici, le innumerevoli udienze concesse a persone private ed a gruppi molto diversificati.
Tutti riconoscono a Pio XII un'intelligenza non comune, una memoria di ferro, una singolare dimestichezza con le lingue straniere ed una notevole sensibilità. Si è detto che egli era un diplomatico compito, un eminente giurista, un ottimo teologo. Tutto questo è vero, ma ciò non spiega tutto. Vi era altresì in lui il continuo sforzo e la ferma volontà di donare se stesso a Dio senza risparmio e senza riguardo per la sua salute cagionevole. Questo è stato il vero movente del suo comportamento: tutto nasceva dall'amore per il suo Signore Gesù Cristo e dall'amore per la Chiesa e per l'umanità. Egli infatti era innanzitutto il sacerdote in costante ed intima unione con Dio, il sacerdote che trovava la forza per il suo immane lavoro in lunghe soste di preghiera davanti al Santissimo Sacramento, in colloquio silenzioso con il suo Creatore e Redentore. Da lì traeva origine e slancio il suo magistero, come d'altronde ogni altra sua attività.
Non deve pertanto stupire che il suo insegnamento continui anche oggi a diffondere luce nella Chiesa. Sono ormai trascorsi cinquant'anni dalla sua morte, ma il suo poliedrico e fecondo magistero resta anche per i cristiani di oggi di un valore inestimabile. Certamente la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è un organismo vivo e vitale, non arroccato immobilmente su ciò che era cinquant'anni fa. Ma lo sviluppo avviene nella coerenza. Per questo l'eredità del magistero di Pio XII è stata raccolta dal Concilio Vaticano ii e riproposta alle generazioni cristiane successive. È noto che negli interventi orali e scritti presentati dai Padri del Concilio Vaticano ii si riscontrano ben più di mille riferimenti al magistero di Pio XII. Non tutti i documenti del Concilio hanno un apparato di Note, ma in quei documenti che lo hanno, il nome di Pio XII ricorre oltre duecento volte. Ciò vuol dire che, fatta eccezione per la Sacra Scrittura, questo Papa è la fonte autorevole più frequentemente citata. Si sa inoltre che le note apposte a tali documenti non sono, in genere, semplici rimandi esplicativi, ma costituiscono spesso vere e proprie parti integranti dei testi conciliari; non forniscono solo giustificazioni a supporto di quanto affermato nel testo, ma ne offrono una chiave interpretativa.
Possiamo dunque ben dire che, nella persona del Sommo Pontefice Pio XII, il Signore ha fatto alla sua Chiesa un eccezionale dono, per il quale noi tutti dobbiamo esserGli grati. Rinnovo, pertanto, l'espressione del mio apprezzamento per l'importante lavoro da voi svolto nella preparazione e nello svolgimento di questo Simposio Internazionale sul Magistero di Pio XII ed auspico che si continui a riflettere sulla preziosa eredità lasciata alla Chiesa dall'immortale Pontefice, per trarne proficue applicazioni alle problematiche oggi emergenti. Con questo augurio, mentre invoco sul vostro impegno l'aiuto del Signore, di cuore imparto a ciascuno la mia Benedizione.
(©L'Osservatore Romano - 9 novembre 2008)


Fede e ragione tra verità e libero arbitrio - Le goffe contraddizioni - dello scientismo - L'ultimo numero della rivista bimestrale "Vita e Pensiero" - che esce la prossima settimana - interviene nel dibattito sul tema del rapporto tra scienza e religione con un articolo che pubblichiamo quasi integralmente. L'autore è un ministro della Chiesa anglicana, fisico e vincitore nel 2002 del Premio Templeton proprio per i suoi studi sulla materia trattata in questo contributo. - di John Polkinghorne – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
Ho trascorso metà della mia vita studiando fisica teorica, lavorando nel campo delle particelle elementari. La mia passione era usare la matematica per comprendere il comportamento delle più piccole unità della materia. Poi, nel 1979, ho lasciato la mia cattedra a Cambridge per seguire una vocazione completamente diversa: ho cominciato a prepararmi per diventare sacerdote nella Chiesa d'Inghilterra.
In ogni occasione sottolineo che non ho lasciato la fisica perché deluso da questa scienza. Ho in grande considerazione la capacità della fisica di capire la realtà naturale e conservo un vivo interesse per i progressi di questo settore della ricerca scientifica. Ho semplicemente sentito che - dopo aver dato, per 25 anni, il mio piccolo contributo alla scienza - era ora di provare a fare qualcosa di diverso. Fin da ragazzo sono stato cristiano, e la fede religiosa occupa il centro della mia vita; perciò abbandonare la condizione di laico e diventare sacerdote mi è parsa una scelta naturale. Poi, dopo alcuni anni di servizio in parrocchia, sono tornato - restando prete - al mondo accademico di Cambridge perché, nel frattempo, ero arrivato a una chiara e ferma conclusione. Avendo sperimentato i due ruoli di scienziato e di sacerdote, mi ero convinto che il modo migliore di soddisfare la mia vocazione sarebbe stato quello di pensare e scrivere su un tema di stringente attualità: come la scienza e la fede possono collaborare fra loro. Mi sono proposto di dedicarmi alla scienza e alla fede con uguale impegno. Le considero complementari fra loro. Hanno in comune una caratteristica molto importante: entrambe credono nell'esistenza di una verità da cercare e da trovare, una verità il cui raggiungimento richiede una ben motivata convinzione. Naturalmente i due tipi di ricerca vedono la realtà da differenti punti di vista; la scienza studia i processi materiali del mondo, la religione s'interessa di questioni più profonde: indaga sul senso della vita, s'interroga sull'esistenza di un significato soprannaturale e su un obiettivo che si trova al di là di ciò che accade. Come un esploratore in viaggio ha bisogno di un binocolo più che di una sola lente, così io sono convinto di dover contare sul duplice sostegno della scienza e della religione, per poter operare con giustizia nella profonda e ricca realtà del mondo in cui vivo. Di me stesso e di alcuni miei colleghi che hanno compiuto la mia scelta, penso che siamo scienziati-teologi che operano veramente "con due occhi".
Un'importante differenza tra la scienza e la religione è che nella scienza tutte le precedenti acquisizioni si accumulano. Io sono un fisico come tanti altri ma, poiché vivo all'inizio del xxi secolo, sull'universo so molto di più di quanto potesse saperne Isaac Newton più di tre secoli fa, benché lui fosse un grande genio. Non è necessario che io legga i suoi Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, nonostante sia uno dei classici del pensiero umano. Sembrerò presuntuoso, ma dal tempo di Newton, specie negli anni dal 1950 al 1980, si sono accumulate una quantità incalcolabile di scoperte.
E quello che ho detto a proposito di Newton vale per James Clerk Maxwell (1831-1879), il cui Trattato sull'elettricità e il magnetismo ci appare oggi quasi grossolano - e chiedo scusa a Maxwell per questo aggettivo. Le attuali conoscenze sull'elettromagnetismo sono molto più raffinate, grazie all'elettrodinamica quantistica. E poi oggi conosciamo nei particolari la struttura dell'atomo. Solo mezzo secolo fa, i fisici delle alte energie erano convinti che le particelle di base fossero protoni e neutroni. Venticinque anni dopo, un contrordine: protoni e neutroni sono particelle composite, formate da quark e gluoni.
Nel campo della religione, la conoscenza si forma diversamente. È chiaro che io debba leggere la Bibbia. Tutte le tradizioni religiose guardano a quelli che sono i loro eventi fondanti, e il dialogo che ne segue deve spaziare attraverso i secoli perché non può essere confinato alla sola scena contemporanea. Nella storia del pensiero filosofico-religioso, ogni generazione ha contribuito alla riflessione con l'apporto delle proprie intuizioni. Ma le intuizioni dei pensatori del passato non sono affatto superate, anzi sono utilissime per lo studioso di oggi, anche se possono richiedere un riesame alla luce delle acquisizioni della conoscenza odierna.
Per me, due grandi campioni e maestri - direi "eroi - sono Agostino e Tommaso d'Aquino. Il progresso non si ottiene abbandonando il passato, ma incorporandolo nel presente in modo consono. È chiaro che non possiamo prendere le intuizioni dei pensatori del passato senza sottoporle alla nostra analisi. Ogni generazione è tenuta a far proprie le conoscenze e la cultura religiosa che ha ereditato e a renderle attuali nel proprio tempo e con i propri mezzi. Per noi, nel xxi secolo, questo significa dare impulso al dialogo tra scienza e religione, che è una grande necessità.

Oggi una delle questioni più pressanti è capire come potrebbero correlarsi l'una all'altra le grandi tradizioni religiose presenti nel mondo. Penso che un interesse condiviso con la scienza possa costituire un punto d'incontro vantaggioso per tutti. Una delle iniziative formulate proprio secondo questo criterio è Science and Spiritual Quest - Scienza e Ricerca Spirituale - progetto attualmente sostenuto dalla John Templeton Foundation che vuole dimostrare che il conflitto fra scienza e fede - di cui si legge e si sente parlare spesso - in realtà non esiste. Questi due mondi dovranno forse restare separati, come due torreggianti istituzioni che si contrappongono l'una all'altra, e fra di loro hanno solo un fragilissimo ponte che le colleghi? Oppure possiamo sperare in una sorta di filosofia e teologia della scienza che, intellettualmente onesta, sia capace di integrare i due sistemi?
A queste domande si può dare una risposta preliminare: non c'è conflitto fra scienza e religione - almeno quella cristiana - e non c'è stato neanche in passato. Anzi, tutti i pionieri della scienza moderna appartenevano alla cultura cristiana o giudaica. E questo particolare non è affatto accidentale. C'è, naturalmente, un conflitto tra la religione e l'ateismo, un tipo di ateismo che ha abbandonato il credo materialistico - caduto sotto il peso delle proprie contraddizioni - e ora adotta il fisicalismo, dottrina filosofica avanzata dal Circolo di Vienna - culla del neopositivismo - secondo la quale anche le scienze morali devono sottostare ai criteri metodologici della fisica. In pratica, si cerca di usare il prestigio della scienza per sostenere una visione ateistica del mondo, che si contraddice da sola. Uno dei temi che dibatto più spesso con quanti mi scrivono riguarda il libero arbitrio dell'uomo. Dobbiamo ritenere che Dio limiti la propria onniscienza per permettere all'uomo di esercitare la propria libera volontà? A tutta prima la questione può sembrare molto, troppo semplice.
In partenza bisognerebbe stabilire se il tempo è lineare o ramificato. Supponiamo che sia già fissato che il 1° luglio 2010, nonostante le attese, John non sposerà Betsy; allora i due non hanno scelta. Non c'è ragionamento che tenga, secondo l'interpretazione naturale è poco probabile che in questo caso sussista il libero arbitrio.
Non pochi filosofi, per la verità, provano ad argomentare che non esiste contraddizione in termini: il libero arbitrio è compatibile con il determinismo. Io però preferisco battere una mia via, che mi convince di più ed è una spiegazione assolutamente compatibile con l'onnipotenza di Dio. Oltretutto nessuno sa esattamente come il tempo appare a Dio. Il mio punto di vista è che, per garantire il libero arbitrio dell'uomo, non sia affatto necessario ritenere che Dio limiti la propria capacità di conoscere il futuro. Io penso che un mondo che può contenere esseri dotati di libera scelta deve essere aperto al futuro, come un mondo del vero divenire. Allora Dio lo conoscerà davvero, secondo la sua vera natura, cioè nel suo effettivo trasformarsi e divenire. La conseguenza è una divina scelta nei confronti del tempo, che non comporta la conoscenza di tutti i dettagli del futuro.
Questa mi sembra la via di cui parla la Bibbia a proposito del rapporto tra Dio e le creature. Tuttavia questo argomento è complesso e controverso, e la nostra comprensione al riguardo è molto limitata. Del resto, l'idea di un Dio che conosce sempre e di colpo l'intera storia del tempo ha avuto molti sostenitori, tra cui Agostino e Tommaso.
Alla domanda sul libero arbitrio se ne aggiunge subito un'altra, strettamente legata alla prima. Se Dio è buono e onnipotente, perché permette che le creature soffrano e incontrino il male? Questa è una domanda che continuamente tormenta il credente. È l'antica questione della "teodicea", parola ideata dal filosofo Leibniz, che alla lettera significa "giustificazione di Dio" e si riferisce all'esistenza del male nel mondo e al libero arbitrio dell'uomo. L'esistenza del male nel mondo sarebbe una prova dell'inesistenza di Dio, secondo i più duri fra gli scienziati materialisti, in particolare secondo Richard Dawkins, il quale ha scelto la fede religiosa come bersaglio di tiri incessanti. Secondo lui, la fede è "un'allucinazione", mentre l'ateismo poggerebbe su incrollabili basi razionali. Ma si contraddice perché i suoi attacchi sono retorici e privi di argomentazioni logiche.
Scrive Dawkins che in un universo "di cieche forze fisiche, non vi è né ragione né giustizia" e chiama Dio "l'orologiaio cieco". Il suo cupo giudizio dimostra soltanto che è certa scienza a rivelarsi cieca, quella scienza che si è bendata gli occhi davanti alla possibilità di distinguere il bene e il male. Torniamo al libero arbitrio e alla scelta tra bene e male, con una premessa: perché Dawkins non si rivolge a me e ai colleghi che, come me, sono al tempo stesso scienziati e credenti? Noi non studiamo il mondo fisico per trovare prove dell'esistenza di Dio; al contrario, ci basiamo sull'esistenza di Dio per comprendere come si è evoluto il mondo fisico che ci circonda. Il Creatore, donando l'amore alle sue creature, ha fatto loro il dono della libertà.
Alla domanda di Dawkins - può esistere un Dio che consente all'uomo di commettere il male e le peggiori nefandezze? - io rispondo con un'altra domanda: a una realtà caratterizzata dall'esistenza del male e dalla possibilità di commetterlo, preferiremmo forse un teatro di burattini, cioè un mondo fatto di esseri assolutamente telecomandati, cioè di autentici automi? No. Meglio un mondo di creature che possono peccare, ma hanno ricevuto da Dio la libertà di azione: quello che io chiamo lo "spazio metafisico" per essere sé stessi, per autorealizzarsi.
Ma, fra gli scienziati non credenti, ce ne sono molti ai quali non sfugge la potente esperienza di coscienza che l'uomo prova quando sceglie di compiere il bene. Questi scienziati si rendono conto che l'intuizione etica è un segno della dimensione trascendente della vita. Ma non sanno proprio come conciliare questa consapevolezza con la loro filosofia atea. C'è l'altruismo fra consanguinei, studiato dal pensiero evoluzionista - si tratta di proteggere il pool di geni della famiglia, per garantirne la sopravvivenza. C'è l'altruismo reciproco - io aiuto te, in vista dell'aiuto che tu darai a me quando ne avrò bisogno.
Ma che dire dell'altruismo del tutto disinteressato, per esempio quello che spinse la polacca Irena Sendlerova a rischiare ripetutamente la vita per salvare 2500 bambini ebrei intrappolati nel ghetto di Varsavia? Questa eroica donna, morta a 98 anni il 12 maggio scorso, non riusciva a darsi pace per non aver potuto sottrarre alla morte altre piccole vite.
Per risolvere le questioni sollevate dalla teodicea, che Dawkins non riesce a capire, un concreto aiuto viene ai teologi proprio dalla scienza e, in particolare, dalla scoperta che i processi naturali sono inestricabilmente agganciati fra loro. Cercando di conoscere come funziona il mondo, la ricerca scientifica è arrivata alla conclusione che i processi naturali non possono essere separati l'uno dall'altro, in modo che il Creatore possa conservare e convalidare quelli che producono buone conseguenze ed eliminare quelli che hanno conseguenze cattive. Per esempio, il processo di mutazione genetica ha prodotto nuove forme di vita, ma ha anche dato luogo a forme degenerative.
Insomma, l'integrità della Creazione presuppone un "tutto compreso"; non si può avere l'uno senza l'altro, potremmo dire oggi, ricorrendo a una formula commerciale che, in questo caso, appare forse troppo divulgativa. John Humphrys, intervistando Dawkins per la Bbc, si chiede perché non si sia ripetuto un intervento divino, questa volta per impedire il male. Ma io credo che un intervento del genere avrebbe potuto aver luogo soltanto in un mondo magico, non nel nostro mondo, perché il Creatore non è un mago capriccioso. Che le cose, nel nostro mondo, stiano come stanno non è dovuto a indifferenza divina; è soltanto il costo necessario di una creazione cui il Creatore ha accordato la libertà di essere se stessa, nel bene e nel male.
A questo punto possiamo vedere un altro aspetto del rapporto tra fede e ragione. Non le divide una rivalità né un'inevitabile contraddizione. La fede religiosa non comporta affatto che si debbano accettare, con obbedienza cieca, credenze immotivate imposte da un potere superiore. È esattamente il contrario. Con la fede ci si impegna in una forma di credenza motivata; dalla ragione scientifica la fede differisce solo per la natura del soggetto, e per il tipo di motivazioni che la caratterizzano. La scienza mette a segno i propri successi perché le sue ambizioni sono modeste, in quanto considera soltanto esperienze impersonali, che possono essere ripetute a volontà. L'esperienza personale, invece, ci permette di incontrare la realtà transpersonale di Dio, mentre lo scientismo che cosa ci offre? Un mondo di sistemi meta-stabili che processano l'informazione, senza spazio per la persona. E i sistemi meta-stabili sono quelli in cui la condizione di equilibrio regge finché non sopraggiunge un'energia anche minima che spezza lo stato di inerzia. Tutto ciò ci riporta a Richard Dawkins e alla sua incapacità di credere nel potere dell'immaginazione come forza per esplorare la realtà. Di Dawkins è stato detto che "sembra voler sostituire Re Lear con una serie di rapporti e casi clinici sulla demenza senile". Ma il dibattito sul rapporto tra scienza e fede non farà alcun progresso se chi vi partecipa non avrà maturato la convinzione che la questione della verità è essenziale tanto per la religione quanto per la scienza. La religione non ha l'accesso alla prova assoluta delle proprie credenze. Ma non lo possiede neanche la scienza.
(©L'Osservatore Romano - 9 novembre 2008)


Settecento anni fa moriva il filosofo e teologo francescano - Duns Scoto - sulle tracce dell'infinito - "Pro statu isto. L'appello dell'uomo all'infinito" è il titolo del convegno organizzato a Milano dal Dipartimento di Filosofia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con la Provincia dei Frati minori della Lombardia nel settimo centenario della morte di Giovanni Duns Scoto. Pubblichiamo alcune parti dell'intervento introduttivo. di Alessandro Ghisalberti Università Cattolica del Sacro Cuore – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
"La nostra volontà può desiderare o amare qualcosa di più grande di qualsiasi fine limitato, come l'intelletto può, dal canto suo, conoscerlo. Sembra anzi che la volontà possieda un'inclinazione ad amare sommamente il Bene infinito. Infatti l'esistenza di un'inclinazione naturale nella volontà verso una cosa si arguisce dal fatto che la vuole prontamente e gioiosamente, pur non avendone l'abitudine. Ora, la volontà libera - come ci sembra di percepirla attraverso l'amore del Bene infinito - non riposa perfettamente che nel Bene sommo". Così scrive Giovanni Duns Scoto nel trattato De primo principio mentre parla dell'infinità di Dio. La stessa considerazione è sviluppata nell'Ordinatio, dove è costruita come terza via per dimostrare l'infinità di Dio. L'esperienza interna dell'uomo, a parere di Duns Scoto, suffraga queste due constatazioni: la volontà umana, il cui oggetto è il bene, non si appaga mai nel possesso di un bene finito; il desiderio dell'uomo è sempre pronto ad appetere et amare qualcosa di maggiore, un bene più grande di qualsiasi bene finito dato. Inoltre, la volontà mostra la propria naturale inclinazione ad amare al massimo un bene infinito: l'inclinazione naturale della volontà verso qualche cosa è infatti evidenziata dal fatto che di sua iniziativa, senza un previo abito, vuole quella cosa prompte et delectabiliter, ossia immediatamente e con appagamento del desiderio, e tale è l'inclinazione della volontà umana verso il bene infinito. Questi dati consentono di concludere non solo che l'uomo esperisce attualmente in sé il desiderio di amare un bene infinito, ma altresì che la volontà umana non sembra acquietarsi in modo perfetto in nessun altro bene. La conferma è data dal fatto che l'uomo odia il non-essere, ossia la natura razionale rifugge da tutto ciò che si configura come distruttivo dell'ordine ontologico: se il bene infinito risultasse qualcosa di impossibile e di assurdo, qualcosa di contrario all'oggetto del volere umano, la volontà lo odierebbe, ossia lo rifuggirebbe istintivamente. L'argomentazione di Duns Scoto mira a stabilire l'infinità come caratteristica di Dio (...). La qualifica dell'infinità esprime per il Dottor Sottile il vertice della perfezione formale di Dio; per l'uomo, l'infinità è il concetto più elevato che possa avere di Dio in questa vita, e perciò il nostro maestro si era premurato di mostrare preliminarmente la non ripugnanza dell'infinità all'ente: enti non repugnat infinitas. Non c'è contraddizione tra il concetto di ente e il concetto di infinito, perché l'intelletto non prova alcuna ripugnanza nel pensare qualcosa di infinito, lo vede anzi come l'intelligibile più perfetto. L'aspirazione della volontà dell'uomo a un bene infinito non si presenta come una passione inutile o irrazionale di un soggetto inappagato dai risultati delle proprie azioni; essa è calata in un fondo di razionalità, quella per cui si è potuto stabilire che non solo il concetto di infinito non è intrinsecamente contraddittorio, ma anzi è, secondo le parole stesse di Duns Scoto nell'Ordinatio "il concetto insieme più perfetto e più semplice a noi possibile". L'intuizione come la fruizione diretta di un ente-bene caratterizzato dall'infinità non è tuttavia garantita all'intelletto finito e alla volontà finita dell'uomo viatore: l'infinito è ovviamente obiectum naturale di un intelletto e di una volontà naturalmente infiniti. Da ciò traiamo una prima considerazione (...): affermando l'esistenza di un essere infinito nell'ordine delle conoscenze, si afferma contemporaneamente l'esistenza di un ambito di conoscenze eccedente l'orizzonte delle conoscenze intellettive dell'uomo; l'intelletto infinito di Dio istituisce un sapere transmetafisico, ossia si deve ammettere che all'affermazione dell'esistenza dell'infinito consegue l'affermazione dell'ordine delle conoscenze proprio dell'essere infinito, ulteriore a ogni sapere metafisico dell'intelletto umano, e che nel linguaggio di Duns Scoto è definito la theologia in se, naturalmente intenzionata dall'intelletto divino e alla quale l'uomo ha accesso solo se una rivelazione positiva gliene offre dei contenuti articolati e resi comprensibili dalle forme del linguaggio umano. La rivelazione appare così in una prospettiva che dice la compatibilità e l'intrinseca coerenza tra l'ordine delle conoscenze dell'intelletto umano e l'ordine delle verità rivelate, proprio perché la dimostrazione dell'esistenza dell'infinito comporta l'ammissione dell'esistenza di un sapere infinito, per sua natura sottratto all'intelletto del metafisico. La rivelazione di alcuni contenuti di questo sapere infinito assume perciò i connotati di coerente supporto alla natura dell'intelletto umano, che non dispone in proprio di possibilità alcuna di accedere per altra via alla conoscenza di quel sapere infinito, di cui ha peraltro dimostrato l'esistenza. Una seconda considerazione consegue alla connessione esplicita operata da Duns Scoto parlando dell'infinitas Dei, tra la natura dell'intelletto divino che deve avere simultaneamente presente un'infinità di oggetti, dall'eternità, distintamente e indipendentemente dalla loro esistenza, e la volontà onnipotente o potenza causale atta a creare una infinità di cose, ossia la perfezione dell'efficienza propria della causa di tutto l'essere attuale e possibile. L'aspirazione umana a un bene infinito risulta non velleitaria e non contraddittoria proprio perché l'infinità non ripugna all'intelletto e al volere; non siamo dunque in una prospettiva di "volontarismo", non siamo di fronte a una prevaricazione che attribuisce alla volontà totale autonomia rispetto all'intelletto, come spesso la storiografia della prima metà del Novecento ha scritto in riferimento a Duns Scoto.
Il rigoroso percorso, che consente di pervenire all'affermazione dell'ens infinitum e al riconoscimento della intrinseca validità dell'aspirazione dell'uomo all'infinito, ha messo in risalto lo stretto rapporto tra essere e bene, tra intelligenza e volontà, che la libertà della volontà non potrà mai alterare o sopprimere, perché non potrà mai decidere di annullare la propria natura più intima e costituiva, ossia la strutturale capacità della volontà di amare l'oggetto più amabile, di volere il bene più sommo, di desiderare cioè la fruizione di un bene infinito. Il "cantore dell'infinito", come qualche studioso ama definire Duns Scoto, offre alla nostra speculazione un itinerario del tutto nuovo e peculiare, che dall'analisi dei tratti caratteristici del volto filosofico di Dio come ente infinito, riesce a dedurre i lineamenti e i connotati del volto dell'uomo; l'infinito svela il finito, rivela i tratti più reconditi e significativi di un soggetto che non solo è capace di conoscere e di amare gli enti finiti o i beni limitati, ma che è strutturalmente aperto alla totalità dell'essere e del bene, al punto che solo un abbraccio con l'infinito può saziare ogni suo desiderio.
(©L'Osservatore Romano - 9 novembre 2008)


Quando il Dottor Sottile andava a scuola - Pubblichiamo alcuni stralci di una relazione tenuta nell'ambito delle "Lezioni Scotiste" organizzate dalla Facoltà di Filosofia e dalla Scuola superiore di studi medievali e francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma. - di Timothy B. Noone - The Catholic University of America Washington – L’Osservatore Romano, 9 Novembre 2008
L'ordine fondato da san Francesco non era nato, come quello dei domenicani, per estirpare eresie o, strettamente parlando, per la predicazione. L'insegnamento di una imitazione autentica di Cristo con il loro proprio esempio, come aveva fatto Francesco prima di loro, costituiva il primo e più grande ministero dei fratres minores. In questo senso l'elaborazione di un formale sistema educativo poteva sembrare un'impresa fuori luogo, se non del tutto opposta, all'intenzione fondamentale dell'ordine francescano. E tuttavia i francescani si interessarono sin dall'inizio all'organizzazione dello studio e Francesco stesso, nonostante i suoi molteplici sospetti, sembra averne riconosciuto le potenzialità come strumento per il conseguimento del fine dell'ordine. In circa una decina di anni, dalla morte di Francesco, l'ordine aveva eretto dei centri di studio a Parigi, Bologna, Oxford e Montpellier. La forma di educazione fondamentale all'interno dell'ordine francescano era teologica e, per il periodo di cui stiamo trattando, scolastica. Statuti che risalgono sino al 1239 (ma certamente standardizzati nel 1260) danno disposizioni circa le tappe che dovevano assicurare la formazione teologica dei frati. Si sperava che ogni convento di circa trenta membri avesse uno o due lettori, che tenessero lectiones sui libri della Bibbia, su un'opera teologica standard come quella delle Sentenze e, di tanto in tanto tenessero delle disputationes su temi prescelti. Per tutto il medioevo il principale desiderio dei francescani era quello di avere lettori a sufficienza per riempire ogni casa o comunità francescana in Europa. E per creare un gruppo di docenti qualificati l'ordine istituì e seguì un programma di formazione nei suoi propri studia generalia, dei quali il più in vista si trovava a Parigi. Ogni provincia dell'ordine poteva mandare a Parigi due frati per volta per partecipare al lettorato, così era definito il programma formativo per i lettori. Le spese per i due erano a carico della comunità di Parigi, benché sovvenzionate dal capitolo generale dell'ordine (studentes de debito); altri due frati potevano essere iscritti a spese della propria provincia (studentes de gratia). Gli studenti del lettorato non erano studenti universitari e seguivano il loro proprio curriculum ideato dall'ordine, che consisteva principalmente nello studio della Bibbia e delle Sentenze. Dopo il loro lettorato, che durava quattro anni, i frati di solito ritornavano nelle loro proprie province per iniziare l'insegnamento o altri doveri amministrativi.
Il lettorato era l'equivalente di un moderno dottorato nel sistema educativo francescano, distinto dal sistema educativo delle università medievali e coloro che ricevevano questo tipo di formazione erano qualificati per l'insegnamento negli studia delle loro proprie province e per essere riassegnati a studia di altre province. In altre parole, il lettorato, e non il magistero in teologia, era la prova di qualifica o ius ubique docendi nell'ordine francescano. Quanti continuavano per il baccellierato e il magistero in teologia emergevano all'interno del sistema universitario.
Come questa visione d'insieme possa applicarsi a Scoto e alla sua carriera letteraria e d'insegnamento non è del tutto facile da stabilire. Quando Scoto era baccelliere, la sua biografia poteva ancora essere influenzata dal sistema francescano per quanto riguarda la sua attività di insegnamento dal momento che sappiamo che i frati già baccellieri ancora insegnavano filosofia negli studia francescani. Ockham, ad esempio, insegnò le sue opere logiche a Londra dopo che era già baccalaureus formatus.
Certamente molto degli inizi della storia personale di Scoto è legato al destino dello studium francescano di Oxford. A tal proposito una delle più generali difficoltà è che, a differenza del caso di molti studia continentali, vi sono pochi documenti istituzionali sopravvissuti riguardanti direttamente questo e i documenti del capitolo provinciale sono andati in gran parte perduti.
Quanto sappiamo di Oxford è che quando Scoto vi giunse verso il 1280 era già uno studium generale all'interno dell'ordine e aveva i suoi propri corsi per il lettorato. Pertanto, era possibile che ci fosse un insegnamento di filosofia nel convento di Grayfriars e probabilmente ciò a due diversi livelli: uno di base per i frati che ricevevano l'educazione generale della provincia o che si preparavano al lettorato; un altro per il lettorato degli studenti che compivano ad Oxford il lettorato.
Sebbene molto probabilmente Scoto abbia ricevuto il suo lettorato a Parigi, la sua educazione filosofica sarebbe iniziata prima, forse ad Haddington, dove potrebbe aver completato i tre anni di logica o grammatica necessari per iniziare il processo formativo. I corsi di filosofia veri e propri che egli avrebbe fatto potrebbero essere stati compiuti in uno studium regionale, ma c'è ragione di pensare che la sua filosofia provenisse da Oxford, dal momento che è lì che Duns Scoto si recò, secondo John Mair, dopo aver lasciato la Scozia. Mi sia concesso di completare leggermente il quadro del mondo di Oxford in cui entrò Scoto verso il 1280 e ove rimase, ad eccezione della partenza per il lettorato, sino alla sua partenza per Parigi per leggere le Sentenze nel 1302. I teologi che insegnavano ad Oxford in questo periodo includevano Nicola di Ockam e Ruggero Marston. L'arcivescovo di Canterbury e dunque primate d'Inghilterra era Giovanni Peckam, mentre da qualche altra parte nell'ombra, per così dire, del convento francescano, viveva, almeno ad intermittenza, il rinomato Ruggero Bacone. Inoltre, verso il periodo della morte di Peckam nel 1292, Marston divenne ministro provinciale e fu senza dubbio il provinciale che fece da supervisore alla nomina di Scoto a leggere le Sentenze a Oxford. Da un punto di vista fisico, Grayfriars conteneva una media dai 70 ai 75 studenti e professori. Ciò significava che il numero di residenti nel convento di Oxford era leggermente inferiore alla metà di quanti si trovavano nello studium di Parigi, i cui occupanti erano 173 secondo le lettere di adesione del 1303.
Non ci è possibile sapere con esattezza cosa fu insegnato a Scoto durante il periodo in cui studiò logica e filosofia, benché sopravvivano alcuni documenti che ci aiutano ad individuarne alcuni elementi. Prima di tutto, lo studio della logica probabilmente significò lo studio della logica vetus di Aristotele, anche se lo studio di tali opere poteva essere stato aiutato da compendi come ad esempio si vede nella Summa delle Categorie di Guglielmo di Montoriel, ad opera di un frate e che circolava ad Oxford nel 1280. Secondo, sappiamo da alcune fonti come gli Statuta antiqua Oxoniensia e da opere come lo Scriptum super Metaphisicam di Riccardo Rufo che i libri letti dovevano aver compreso la Fisica, il De anima e la Metafisica di Aristotele, anche se ciò non avrebbe precluso l'uso di commentari e sintesi schematiche di autori come Averroè, Avicenna e, al tempo di Scoto, Tommaso d'Aquino.
(©L'Osservatore Romano - 9 novembre 2008)


BENEDETTO XVI SUI TRAPIANTI - PAROLE LIMPIDE PER UN DONO STRAORDINARIO - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 9 novembre 2008
Rivolgendosi ai partecipanti a un con­vegno internazionale sulla donazio­ne di organi, Benedetto XVI ha riassunto con fermezza la dottrina della Chiesa in materia, ormai da tempo consolidata. La donazione di organi non solo è moral­mente lecita, ma ammirevole, perché in essa si esprime una genuina testimo­nianza di carità, capace di incrementare la cultura del dono e della gratuità. Un do­no, quello che si esprime attraverso il tra­pianto di organo, straordinario e singola­rissimo, perché va ben oltre il beneficio te­rapeutico che ne ricava il ricevente. Se in­fatti in una prospettiva strettamente chi­rurgica ciò che viene trapiantato è un or­gano, in una prospettiva antropologica più ampia, in specie nelle donazioni da cadavere, l’organo non è riducibile a me­ro oggetto, né può essere assimilato a semplice materiale terapeutico, perché è l’intera persona del donante, sintesi in­scindibile di corpo e di spirito, che entra in questione. Donare un organo, così co­me riceverlo in dono, testimonia come l’universale fraternità tra gli esseri uma­ni non sia solo un nobilissimo postulato teorico, ma una vera e propria esperien­za umana, assolutamente estrema e nel­lo stesso tempo concretamente reale.
Con molta delicatezza il Papa insiste sul­la necessità di rispettare le numerose con­dizioni che legittimano la donazione di organi: condizioni sulle quali la bioetica ha ragionato a lungo e sulle quali si sono ormai raggiunte posizioni generalmente condivise. Poiché la donazione deve es­sere assolutamente gratuita, ciò compor­ta l’illiceità di qualsiasi coercizione nel prelievo, di ogni forma di commercializ­zazione e soprattutto di criminale traffi­co di organi: ipotesi, queste, che il Papa non esita a definire abominevoli e alle quali egli associa la commercializzazio­ne e il traffico di embrioni (anche se com­piuti a scopo terapeutico), con la loro con­seguente inevitabile distruzione.
Nel caso della donazione da cadavere è indispensabile, insiste il Papa, che la mor­te del donante sia accertata scientifica­mente in modo assolutamente rigoroso, per eliminare 'il minimo sospetto di ar­bitrio'; di fronte ad ogni, sia pur minimo, dubbio sull’effettivo decesso del donato­re bisogna ricorrere nel modo più drasti­co al principio di precauzione, che esclu­de ovviamente che si possa procedere in tali casi a qualsiasi espianto di organi.
Il Papa non fa alcun cenno a quali criteri di accertamento della morte del donan­te vadano ritenuti legittimi, né mostra quindi alcuna perplessità sulla possibi­lità di ricorrere alle metodiche di accer­tamento della morte cerebrale: è que­stione, questa, di evidente ed esclusivo carattere scientifico. Consapevole però di come la tematica dei trapianti attivi com­plesse questioni antropologiche, sociali, etiche, giuridiche, egli esorta scienziati e ricercatori a incrementare la loro ricerca, per fugare nell’opinione pubblica 'pre­giudizi e malintesi', per dissipare 'diffi­denze e paure' e per sostituirle con 'cer­tezze e garanzie'. Sono parole estremamente soppesate, quelle del Papa, che inducono ad una du­plice riflessione. Da una parte è evidente che con questo discorso il Papa ha voluto ribadire come le tecniche di trapianto di organi vadano ritenute un’autentica con­quista della scienza, capace di aprire oriz­zonti di speranza per tanti malati, una con­quista che non può essere messa in ombra dai rischi morali, pur non trascurabili, che ad essa si riconnettono e che vanno fer­mamente controllati e denunciati. Dal­­l’altra va rilevato in questo discorso il con­sueto, chiarissimo, garbato (e spesso in­tenzionalmente sottovalutato) omaggio del Papa alla scienza e agli scienziati che operano per il bene umano: nei limiti in cui la morte è un processo biologico di cui bi­sogna accertare il definitivo compimento ( e questo è l’ovvio presupposto dell’e­spianto di organi) è esclusivamente alla specifica competenza degli uomini di scienza, dei ricercatori, dei medici che ci si deve rivolgere. Parole limpide, che non legittimano alcuna interpretazione in un senso indebitamente restrittivo.