Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Santa Sede al Seminario dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea - "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto” - discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008)
2) Kenya: rapite due suore italiane e condotte nel sud della Somalia
3) Ebrei e cattolici preoccupati per la rinascita dei nazionalismi - Il Cardinale Kasper guida la delegazione cattolica
4) Con la religione si educa la persona - I Vescovi italiani invitano a scegliere l’insegnamento della religione cattolica
5) “Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me” (Paolo VI, 28 giugno 1978) - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
6) Obama: il presidente abortista che farà male ai neri d’America - Autore: Tardiff, Mark Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=13703&geo=5&size=A - martedì 11 novembre 2008
7) La Notte dei cristalli punto di non ritorno verso la Shoah - Fu l'inizio della fine - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 11 novembre 2008
8) Ricordo di Giuseppe Fanin, sindacalista cristiano, martire - Autore: Pelizzari, Daniele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 10 novembre 2008 - Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna. - «Noi chiamammo poco tempo fa l'Emilia "Messico d'Italia", ma ciò è ingiusto perché piuttosto si deve dire che il Messico è l'Emilia d'America. Cose terribili succedono a Castelfranco Emilia e gente ci manda lettere piene di terrore elencando assassinii. Quarantadue persone sono già state soppresse misteriosamente per cause di politica o di vendetta, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, in piena pianura. E la gente sa, ma non parla perché ha paura». - Era la Primavera del 1946 e così scriveva Guareschi ma non in un suo romanzo, stava riportando quello che avveniva sotto gli occhi di tutti in quelle zone, dove un anno dopo il 25 aprile il sangue scorreva ancora, anzi più copiosamente di prima.
9) 10/11/2008 15.28.51 – Radio vaticana - Conferenza internazionale in Vaticano sulla pastorale nella cura dei bambini malati: intervista con il cardinale Lozano Barragán
10) Libertà di scelta educativa per le famiglie: un impegno da cui il governo non può retrocedere - Redazione - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
11) EDUCAZIONE/ Socci: la scuola, ultima ridotta dell'ideologia. Ma gli studenti chiedono veri maestri - INT. Antonio Socci - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
12) ECOCARBURANTI/ C'è una pianta che cresce senz'acqua che può scaldare case e far andare auto. Perchè non la usiamo? - Alberto Contri - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) UNIVERSITA'/ Dal Governo il primo passo per una vera riforma - Alfredo Marra - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
14) IL CORAGGIO DELL’AMORE - MADRI, NON VOLEVANO ABBANDONARE I FIGLI BISOGNOSI - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 novembre 2008
15) INDEGNA GAZZARRA DI RELIGIOSI AL SANTO SEPOLCRO - Scazzottarsi alla Sua presenza Una pena che rompe il cuore - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 novembre 2008
La Santa Sede al Seminario dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea - "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto” - discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008)
NORIMBERGA/CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008) sul tema: "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto".
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Signor Presidente,
vorrei innanzitutto esprimere il ringraziamento della Delegazione della Santa Sede e mio personale alle autorità tedesche che ospitano questo Seminario ministeriale per i loro impegno organizzativo e per la cortesia con la quale ci hanno accolto in questa storica città di Norimberga. Il luogo in cui ci troviamo è ricco di memoria. In esso si svolsero avvenimenti drammatici, che hanno segnato la storia europea: i grandi raduni nazisti, ma anche il processo a quanti si macchiarono di gravi delitti contro l’umanità. Quei fatti, di cui questa città è stata testimone, ci parlano del dramma di un’epoca, in cui furono negate libertà e giustizia, calpestata la dignità dell’uomo.
1. Il ricordo del dramma delle vittime, l’omaggio alla loro memoria esige che tutti si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere una chiamata alla responsabilità nel costruire l’oggi e il domani del nostro continente, perché in nessun angolo dell’Europa e di tutto il mondo si ripetano tali tragedie. A riguardo la Santa Sede apprezza l’impegno dei paesi aderenti alla Convenzione culturale europea affinchè attraverso l’insegnamento della memoria si possa contribuire non solo conoscenza del passato, ma alla mutua comprensione, al dialogo, alla prevenzione dei crimini contro l’umanità, al consolidamento di un’Europa della libertà e del diritto.
2. Il diritto e la libertà sono essenziali per evitare ricadute totalitarie non rispettose dell’uomo. Un diritto, però, che si fondi su un alto senso della dignità e della giustizia. Salvaguardare la dignità dell’uomo non significa soltanto non ucciderlo, non mutilarlo, non torturarlo. Significa anche dare alla fame e sete di giustizia e libertà che è in lui la possibilità di essere saziate. Rischieremmo di cadere nuovamente nella barbarie, se non avessimo la passione per la giustizia e la libertà e se non ci impegnassimo, ciascuno secondo le proprie capacità, a far sì che il male non prevalga sul bene, come è accaduto nei confronti di milioni di figli del popolo ebraico. Occorre dunque raddoppiare gli sforzi per liberare l’uomo dagli spettri del razzismo, dell’esclusione, dell’emarginazione, dell’asservimento, della xenofobia; per estirpare anche le radici di questi mali, che si insinuano anche nella società odierna e minano le fondamenta della pacifica convivenza umana.
3. Il dovere della memoria deve così continuare a scuotere il nostro cuore e la nostra mente, a portare la ragione a riconoscere il male e a rifiutarlo, a suscitare in noi il coraggio del bene e della resistenza contro il male. Esso deve portarci "a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: sono qui non per odiare insieme, ma par insieme amare"1.
4. Il tempo che passa porta alla progressiva scomparsa dei testimoni diretti di quella tragedia, ciò deve condurre ad uno sforzo maggiore per conservare la memoria e trasmetterla alle nuove generazioni. Sono pertanto da incoraggiare tutte quelle iniziative, come "La giornata della memoria e della prevenzione dei crimini contro l’umanità", che contribuiscono a tenere viva la memoria di quei tragici eventi, a riflettere ed ad interrogarsi.
5. Un tale impegno si colloca in un contesto più ampio che la Santa Sede segue con interesse. Mi riferisco ai progetti del Consiglio d’Europa promossi nell’ambito della Convenzione Culturale Europea, rilevando in particolare come essi esprimano lo sforzo comune di contribuire attraverso l’educazione alla costruzione di un’Europa più solidale e democratica, rispettosa delle diversità e consapevole della sua identità. Al centro di ogni interesse educativo deve rimanere l’uomo e la sua dignità. L’insegnamento della memoria contribuirà così ad un obbiettivo che è tra i più alti, quello cioè di rendere sempre più umano l’uomo. Un uomo che possa essere di più e non solo avere di più, che impari non solo a vivere con gli altri, ma per gli altri, con una personalità equilibrata e matura.
Grazie
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1 Benedetto XVI, Discorso al campo di sterminio di Auschwitz, 26 maggio 2006, www.vatican.va
Kenya: rapite due suore italiane e condotte nel sud della Somalia
Nessuno ha ancora rivendicato il sequestro
ROMA, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Sono suor Caterina Giraudo e Maria Teresa Oliviero, rispettivamente di 67 e 61 anni, le due suore italiane rapite durante la notte a Elwak, nel nord est del Kenya a ridosso della frontiera con la Somalia.
Le due religiose – ha fatto sapere l'agenzia Misna – si trovavano in Kenya da molti anni, dove lavoravano con i profughi somali. Suor Giraudo, infermiera, lavorava soprattutto con i malati di epilessia.
In una intervista sempre all'agenzia Misna una consorella delle due suore italiane del Movimento Contemplativo Missionario Padre de Foucauld di Cuneo ha riferito che “nonostante le molte voci in circolazione non sappiamo ancora chi abbia rapito suor Caterina Giraudo e suor Maria Teresa Oliviero”.
“Nessuno si è fatto avanti, ha telefonato o rivendicato il sequestro. E non sapendo chi le ha prese diventa difficile dire il perché”, ha aggiunto.
“Purtroppo – ha proseguito – nonostante siano stati attivati canali di contatto attraverso gli anziani delle comunità locali, non abbiamo ancora ricevuto notizie. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che sarebbero state portate nel sud della Somalia”.
Parlando ai microfoni di Radio Vaticana, don Pino Isoardi, responsabile del Movimento Contemplativo Missionario Padre de Foucauld, ha detto che al momento si sa solo che i rapitori “non sono stati lì per cercare soldi o altro, ma sono andati proprio a prendere queste persone. Non sappiamo se ci siano motivazioni politiche o altri motivi”.
Ebrei e cattolici preoccupati per la rinascita dei nazionalismi - Il Cardinale Kasper guida la delegazione cattolica
BUDAPEST, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Da questa domenica a mercoledì è in svolgimento a Budapest (Ungheria) il 20° incontro dell'International Jewish-Catholic Liaison Committee (Ilc), che rifletterà sul ruolo della religione nella società attuale, informa "L'Osservatore Romano".
La delegazione cattolica che partecipa all'incontro è guidata dal Cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, e ad essa partecipano il Cardinale Theodore McCarrick, il Vescovo William Murphy e il salesiano Norbert Hoffmann, segretario della Commissione. Dalla parte ebraica, partecipano i membri del Gran Rabbinato di Israele per i rapporti con la Chiesa cattolica.
L'incontro è stato inaugurato dal Cardinale Kasper. Uno degli argomenti affrontati sono le relazioni tra i cristiani e gli ebrei nei Paesi dell'est europeo. Secondo Hoffmann, in tali questioni acquista grande importanza la collaborazione della Chiesa ortodossa. "Ci sarà un osservatore del Patriarcato ecumenico a questo incontro", ha spiegato. Rilevanza verrà poi data al ruolo dei giovani nel dialogo interreligioso.
Si tratta, afferma, di riflettere su come l'ebraismo e il cattolicesimo possano incidere sul tessuto sociale in cui vivono.
I partecipanti esprimono la loro preoccupazione per l'attuale contesto di rinascita dei nazionalismi, spesso portatori di xenofobia e antisemitismo, soprattutto nell'Europa dell'Est.
A questo proposito, padre Hoffman ha dichiarato alla "Radio Vaticana" che "gli ebrei hanno in noi cristiani un alleato per combattere l'antisemitismo. Troviamo già nella Dichiarazione conciliare 'Nostra aetate' la condanna dell'antisemitismo: quindi, possono contare su di noi, i nostri fratelli maggiori ebrei, perché l'antisemitismo non è conciliabile con l'etica cristiana".
Di fatto, questa preoccupazione ha portato alla scelta della data e del luogo dell'incontro: il 9 novembre, 70° anniversario della Notte dei Cristalli, che diede inizio all'Olocausto, a Budapest, una delle città più colpite dalla furia antisemita, che spezzò la vita della metà della sua popolazione ebraica.
In questo senso, il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, primate d'Ungheria e presidente della Conferenza Episcopale del Paese, sta svolgendo un'importante opera di salvaguardia della memoria degli ebrei morti durante la Shoah e di quanti hanno lavorato per salvarli.
"Dobbiamo ricordare questo triste anniversario per non dimenticare mai, perché atti di violenza razzista o atti di discriminazione e violenza contro gruppi religiosi o etnici non si ripetano più nella storia del mondo", ha dichiarato all'emittente pontificia.
"Purtroppo – ha aggiunto –, nel mondo vediamo adesso simili atti anche contro i cristiani. Oltre a prendere atto di questi fenomeni di violenza, cerchiamo anche di protestare insieme con i responsabili della Santa Sede, per difendere i diritti umani dei cristiani in Iraq, in India, in altri Paesi del Medio Oriente".
L'International Jewish-Catholic Liaison Committee è stato istituito a Roma nel 1970 per promuovere l'avvicinamento tra le due religioni, in base alla Dichiarazione "Nostra Aetate". Da allora celebra incontri periodici in varie città del mondo.
I partecipanti all'incontro attuale sono stati ricevuti il 30 ottobre scorso da Papa Benedetto XVI, che ha riaffermato l'impegno della Chiesa "per la realizzazione dei principi esposti nella storica dichiarazione 'Nostra Aetate' del Concilio Vaticano II", che "ha condannato con fermezza tutte le forme di antisemitismo" ed è stata "una pietra miliare significativa nella lunga storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei".
Con la religione si educa la persona - I Vescovi italiani invitano a scegliere l’insegnamento della religione cattolica
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Scegliere l’insegnamento della religione cattolica significa educare la persona, riconoscendo la sua dignità e libertà.
Questo il senso del messaggio della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2009-2010.
Insieme al saluto e agli auguri, a studenti, genitori e docenti, la Presidenza della CEI ribadisce che l’insegnamento della religione cattolica (IRC), “favorisce la riflessione sul senso profondo dell’esistenza, aiutando a ritrovare, al di là delle singole conoscenze, un senso unitario e un’intuizione globale”.
“Tale insegnamento – sottolinea il messaggio – pone al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità, lasciandosi illuminare dalla vicenda unica di Gesù di Nazaret, di cui si ha cura di investigare l’identità, che non cessa da duemila anni di interrogare gli uomini”.
La presidenza della CEI è convinta che in questo modo l’insegnamento della religione cattolica “risveglia il coraggio delle decisioni definitive, al di là dell’erosione dei valori e della figura stessa dell’uomo, ambiguamente divulgata da non poche correnti del pensiero contemporaneo”.
Il messaggio spiega che l’insegnamento della religione non intralcia il percorso didattico, né minimizza la fatica del conoscere, al contrario favorisce la crescita della persona e può essere “un utile spazio di integrazione”, aiutando gli stranieri presenti nel nostro Paese ad “accostare valori e tradizioni che sono largamente segnati dalla presenza di uno specifico patrimonio storico e artistico, permeato profondamente dallo spirito cristiano”.
Nonostante la secolarizzazione e la critica montante nei confronti della Chiesa cattolica, nel 2008 l’insegnamento dell’IRC è stato scelto dal 91,1% delle famiglie e degli alunni.
Tale dato sale al 91,8 % se si tiene conto anche di quanti frequentano scuole cattoliche.
“I numeri – conclude il messaggio della Presidenza della CEI – sono tali da incoraggiare quanti già scelgono l’IRC e da provocare positivamente quanti ancora vogliono aderire a questo singolare momento di educazione alle più autentiche dimensioni della vita umana”.
“Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me” (Paolo VI, 28 giugno 1978) - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
Un giudizio critico ed approfondito sul libro-intervista del Card. Martini. Abbiamo letto sul Foglio del 10 novembre queste parole del Card. Martini: “Siccome credo nella vita eterna, su quella temporale, fisica, di questa terra, posso transigere, sfumare, variare a seconda dei tempi e della storia e delle culture, e alla fine nascere e morire sono misteri sui quali ciascuno può e deve giudicare secondo la propria sensibilità. Contro un’etica non negoziabile della vita, dal concepimento alla morte naturale, c`è il relativismo cristiano della libertà che decide”. E ci siamo interrogati sul suo nuovo libro…
«Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando dieci anni fa, promanammo l’Enciclica ‘Humanae vitae’ (25 luglio 1968): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno» [Paolo VI, Omelia fidem servavi, 28 giugno 1978].
A quarant’anni di distanza abbiamo tante argomentazioni per ringraziare Dio e il magistero della Chiesa: Paolo VI, di fronte alla sfida e al rischio di esporre all’arbitrio degli uomini l’ethos della sessualità disgiungendo l’aspetto unitivo da quello procreativo e la missione santificante di generare, come dono, la vita ha riconosciuto i limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; Giovanni Paolo II, in sintonia con il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980 e illuminando il fondamento antropologico e morale mediante la legge della gradualità e non la gradualità della legge, ha offerto linee pedagogico-pastorali veramente adeguate; Benedetto XVI, con il profondo magistero sull’agape e sul suo rapporto con l’eros, ha sollecitato ad evitare il pericolo mortale dell’uomo suscettibile di essere trattato come ogni altro animale soprattutto a livello di sessualità, allargando gli spazi della ragione, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, sia per comprendere il messaggio della Chiesa sull’ethos della sessualità, sia per il coraggio di dire che la tecnica non può sostituire la maturazione della libertà quando è in gioco l’amore. Anzi neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere poiché l’amore sponsale cristiano si conosce solo con il cuore. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano.
Certo all’uscita dell’Humanae vitae le difficoltà immediate che gli sposi hanno incontrato nel loro cammino morale sono state grandi. In particolare ci sono da tenere presenti “i casi difficili” della vita familiare, in cui rispettare la legge sembra disumano e al di là delle reali possibilità dei coniugi, e l’attuale promiscuità del contatto fisico per i giovani.
Per chi, nel 1968, aveva già presa una decisione non conforme alla dottrina della Chiesa era difficile tornare indietro. Si sono presentati casi in cui sembrava che la fedeltà alla morale comportasse il sacrificio di altri valori morali importanti, casi in cui marito e moglie non erano d’accordo sulla valutazione etica: che cosa fare? Si è teorizzato il riconoscimento della “verità fondamentale”, ma non basta. Occorreva trovare strade di soluzione e di crescita, adeguate al cammino dei coniugi e strade possibili a tutti, ai giovani in particolare.
Di fatto, il Magistero ecclesiastico, anche di fronte alla svolta epocale relativista dell’ethos sessuale con le potenzialità della tecno-scienza – per cui il mondo e con esso molti cattolici hanno trovato difficoltà non solo a praticarlo ma addirittura a comprenderlo – è stato capace di conservare, sul fondamento biblico, una continuità solida e tuttavia protesa ad una conoscenza sempre più profonda, documentando anche culturalmente la preminente e decisiva azione guida dello Spirito Santo. Per cui non è condivisibile il giudizio del cardinale Carlo Maria Martini in Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza”. Ma non cogliere questa preminente e decisiva azione di guida dello Spirito Santo è grave per tutti, tanto più per un cardinale! Profeticamente Paolo VI il 4 maggio del 1970, proprio nel culmine della bufera, invitato a cena da una coppia in difficoltà, ha anticipato tutto il cammino successivo della Chiesa: “Il cammino degli sposi, come ogni vita umana, conosce molte tappe, e le fasi difficili e dolorose – voi lo esperimentate nel corso degli anni – vi hanno il loro posto. Ma bisogna dirlo ad alta voce: mai l’angoscia e la paura dovrebbero trovarsi in anime di buona volontà, perché, infine, il vangelo non è forse una buona novella anche per i coniugi, ed un messaggio che, se pur esigente, non è meno profondamente liberatore? Prendere coscienza del fatto che non si è ancora conquistata la propria libertà interiore, che si è ancora sottoposti all’impulso delle proprie tendenze, scoprirsi quasi incapaci di rispettare, sul momento, la legge morale in un campo così fondamentale, suscita naturalmente una reazione di sconforto. Ma è il momento decisivo in cui il cristiano, nel suo sgomento, invece di abbandonarsi alla rivolta sterile e distruttiva, accede nell’umiltà alla scoperta sconvolgente dell’uomo davanti a Dio, di un peccatore davanti all’amore di Cristo salvatore. A partire da questa presa di coscienza radicale ha inizio tutto il progresso, la tensione della vita morale, poiché la coppia si trova in tal modo “evangelizzata” nel profondo, gli sposi scoprono “con timore e tremore” (Fil 2,12), ma con una gioia piena di meraviglia, che nel loro matrimonio, come nell’unione di Cristo e della Chiesa, si realizza il mistero pasquale di morte e di risurrezione”. C’è già l’intuizione della legge della gradualità argomentata nel Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980: saper capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandoli ad accogliere come tensione, come un tentare e ritentare con fiducia e speranza senza scoraggiarsi mai anche quando immediatamente non si riesce, quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza è un miracolo della presenza e del rapporto con Dio, non opera dell’uomo e quindi va invocata senza sosta nella preghiera. Segno della moralità cristiana allora non è la riuscita, ma l’atteggiamento del cuore che cerca di essere fedele a come è stato fatto all’origine: si chiama povertà di spirito. La moralità in tutti i campi, soprattutto nell’ethos della sessualità, è una tensione, come quella di un bambino che impara a camminare e cade dieci volte nei dieci metri che deve percorrere, ma tende a sua madre, si rialza e tende: è la legge della gradualità.
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“Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me”
Obama: il presidente abortista che farà male ai neri d’America - Autore: Tardiff, Mark Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=13703&geo=5&size=A - martedì 11 novembre 2008
La gioia per il primo capo di stato nero non deve far dimenticare che Obama è fautore di leggi sull’aborto molto permissive e contrario ai diritti del non-nato. L’aborto sta riducendo le comunità nere americane. Il programma della Planned Parenthood, per il controllo della popolazione, è sempre stato quello di usare leader neri per aiutare i neri all’auto-distruzione. Mark Tardiff, americano, appartiene al Pontificio Istituto Missioni Estere ed è stato missionario in Giappone.
Caro direttore,
come confratello di p. Gheddo, e originario degli Stati Uniti, vorrei rispondere al suo recente articolo (Cfr. P. Gheddo: Sono contento della vittoria di Barack Obama).
Posso capire la gioia di p. Gheddo per l’elezione di un afro-americano a presidente, data la vergognosa storia di razzismo che ha contraddistinto gli Stati Uniti in passato. Ho ancora un nitido ricordo del dolore che provavo, da patriota americano, durante gli anni di liceo, nel conoscere le storie di schiavitù e razzismo. Il fondo è stato toccato con il caso Dred Scott vs Sanford, 60 U.S. 393 (1856)[1]. È già un male che la schiavitù sia tollerata. In quel caso, tuttavia, la Corte Suprema degli Stati Uniti, la massima autorità giuridica del Paese, ha sancito che la schiavitù era giustificata dalla Costituzione, ed era per questo una parte fondamentale dell’ordinamento della nazione. La Corte ha citato le parole della Dichiarazione di Indipendenza degli Usa [il documento che segna la nascita della nazione, ratificato a Filadelfia il 4 luglio del 1776] che recita: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”; poi ha stabilito che queste parole non si potevano applicare ai neri, i quali erano considerati come una mera proprietà.
Tragicamente, allo stesso modo, la posizione di Barack Obama sull’aborto contraddice la portata storica della sua elezione. Nei casi Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973),e in quello vicino Doe v. Bolton, 410 U.S. 179 (1973)[2], la Corte suprema ha dichiarato che fare l’aborto lungo tutti i nove mesi di gravidanza, fino al momento della nascita, era legale. La Corte ha stabilito che ogni restrizione doveva tener conto di eccezioni a causa della salute e poiché le eccezioni dovevano includere aspetti psicologici e emotivi, le tensioni di una donna in gravidanza nell’aver da partorire un figlio sono una ragione sufficienti per un aborto a qualunque stadio. La Corte ha dichiarato che “la legge non ha mai riconosciuto i non nati come persone in senso pieno”, escludendoli così dalla comunità di persone che gode del diritto inalienabile alla vita, proprio allo stesso modo in cui il tribunale Dred Scott ha escluso i neri dall’inalienabile diritto alla libertà.
Il neo-eletto presidente Obama è da tempo impegnato con forza non solo a preservare, ma anche estendere l’attuale regime in tema di aborto che domina negli Stati Uniti. Quando era senatore dell’Illinois, egli si è opposto a misure che avrebbero reso obbligatorie cure mediche per bambini sopravvissuti all’aborto e riusciti a nascere vivi. Il suo ragionamento era che una legge simile avrebbe potuto mettere in questione la mancanza di diritti dei non nati. La sua netta posizione nel considerare il non nato come una “non persona legale” è tragicamente ironica, per il fatto che egli appartiene ad una razza che in passato è stata trattata allo stesso modo dei non nati.
A rendere piena la tragedia – come pure una triste ironia – è che gli Afro-americani sono fra i più colpiti dall’aborto. I neri sono il 12% della popolazione americana, ma il 35% di tutti gli aborti sono eseguiti su donne nere. Gli Afro-americani sono l’unica minoranza che negli Usa sta diminuendo di numero. Planned Parenthood, la più grande organizzazione abortista degli Usa ha il 78% delle loro cliniche nei quartieri delle minoranze. Ciò corrisponde al pensiero di una delle sue fondatrici, Margaret Sanger, una entusiasta eugenista, che ha scritto: “le persone di colore sono come dell’erbaccia umana, che va sterminata”.
È comprensibile che gli Afro-americani abbiano votato in massa per Obama, sfruttando l’occasione di affermare il loro ruolo nella società americana. Ma tragicamente, troppo pochi fra loro hanno capito questo: il candidato che essi pensano darà loro valore politico, è anche un forte sostenitore del Planned Parenthood e delle sue politiche abortiste che, se continuano come adesso, ridurrà all’insignificanza il voto nero entro il 2038. Anche questo è all’interno della strategia di Margaret Sanger. Lei ha capito che se i bianchi tentavano di “eliminare l’erbaccia umana”, la cosa avrebbe destato sospetto. Per questo ha dedicato molto tempo a reclutare leader neri, che possono convincere la propria gente a cooperare nell’auto- distruzione.
È più che tragico il fatto che il primo Afro-americano, eletto presidente degli Stati Uniti d’America, è un uomo che avrebbe ricevuto l’applauso di Margaret Sanger, piuttosto che l’applauso di Martin Luther King.
Sinceramente,
P. Mark Tardiff
[1] Il riferimento è alla causa fra lo schiavo Dred Scott e i suoi padroni, i Sanford, nello stato del Missouri. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha sancito che i discendenti degli africani importati in America e i loro eredi – siano essi sottoposti a regime di schiavitù o meno – non potranno mai essere considerati cittadini americani. Al contempo la Corte ha sancito che il Congresso non ha il potere di abolire la schiavitù nei singoli Stati della Federazione.
La Notte dei cristalli punto di non ritorno verso la Shoah - Fu l'inizio della fine - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 11 novembre 2008
La notte che segnò per gli ebrei tedeschi la fine dell'illusione di una possibile convivenza con il nazismo, nonostante tutte le umiliazioni già subite e le limitazioni imposte, fu quella tra il 9 e il 10 novembre 1938. Fu allora che si scatenò una furiosa ondata di violenza che, tra devastazioni, aggressioni e intimidazioni anche mortali, sarebbe tristemente passata alla storia come Kristallnacht, la "Notte dei cristalli": l'inizio della fine. Nel giro di poche ore in tutta la Germania vennero incendiate e distrutte oltre un migliaio di sinagoghe. Laddove si correva il rischio di dar fuoco a edifici anche non ebraici vicini, gli aggressori fecero a pezzi i locali con asce e martelli. In centinaia di quartieri ebraici le squadracce della Sturmabteilung, le famigerate SA, in uniforme o in abiti civili, saccheggiarono anche decine di migliaia di negozi, uffici e abitazioni. Alla fine delle violenze si contarono 91 morti. Sotto la supervisione di Reinhard Heydrich, vicecomandante della Gestapo e delle SS, più di trentamila uomini tra i sedici e i sessant'anni - un quarto dei maschi ebrei residenti - furono arrestati e avviati ai campi di concentramento di Dachau, Sachsenhausen e Buchenwald. Oltre un migliaio vi morirono nei mesi seguenti per le violenze subite. Quanto accadde non fu un'azione improvvisa e spontanea, ma un attacco coordinato e globale. Ebbe luogo sull'intero territorio nazionale, fu condotto da uomini che ostentavano l'uniforme della milizia del partito nazista, programmato con cura e realizzato con metodica precisione. Che per realizzarsi trovò un casuale ma allettante pretesto. Il 18 ottobre del 1938, poche settimane dopo l'accordo quadripartito di Monaco, su ordine di Hitler vennero espulsi più di dodicimila ebrei polacchi. Quattromila furono accolti dalla Polonia, ma gli altri furono trattenuti a lungo alla frontiera in condizioni pietose. Da uno di quei posti di confine un'anziana coppia inviò una cartolina al figlio che si trovava a Parigi per chiedere un po' di denaro. Ricevuto il messaggio, Herschel Grynszpan, indignato e furioso, si recò armato all'ambasciata tedesca chiedendo di essere ricevuto dall'ambasciatore. Quando, giunto nell'ufficio di un giovane diplomatico, Ernst vom Rath, questi gli chiese la ragione della visita, Grynszpan estrasse la pistola e sparò cinque colpi. L'uomo rimase gravemente ferito. Era il 7 novembre. La notizia giunse in Germania e scatenò le prime reazioni restrittive del Governo e immediate, anche se limitate, ondate di violenza antiebraica, con le quali - su indicazione del Führer - la polizia non doveva interferire. Ma quando la sera del 9 si apprese della morte di vom Rath, i leader nazisti colsero al volo l'occasione per togliere ogni freno e scatenare, su ordine del ministro della propaganda, Joseph Goebbels, la gigantesca rappresaglia, facendo intervenire le camicie brune. Di tutto ciò dà conto con dovizia di particolari lo storico britannico Martin Gilbert in un volume pubblicato nel 2006 e ora tradotto in Italia (9 novembre 1938. La Notte dei cristalli, Milano, Corbaccio, 2008, pagine 310, euro 19,60), ricostruendo non soltanto quanto accadde in quei terribili giorni di settant'anni fa, ma anche come vi si arrivò e cosa accadde immediatamente dopo. Lo studioso si sofferma sulla politica ebraica del Terzo Reich nei cinque anni precedenti attraverso le parole dei superstiti e dei loro congiunti, nonché dei tedeschi e degli stranieri, diplomatici in particolare, che cercarono di aiutare le vittime del pogrom. Per Gilbert, la Notte dei cristalli fu una sorta di crinale a metà strada fra gli anni della preparazione, durante i quali la persecuzione fu soprattutto amministrativa grazie a leggi discriminatorie, e quelli dell'esecuzione, nel corso dei quali il disegno della "soluzione finale" venne gradualmente realizzato. Ma fu anche "un'indicazione di ciò che accade quando una società soccombe ai suoi istinti più bassi".
Ricostruendo la storia, Gilbert sottolinea come i fatti della notte tra il 9 e 10 novembre 1938 avvennero sotto gli occhi del mondo. In Germania, dove solo poche settimane prima era stato siglato il trattato di Monaco - che secondo il primo ministro britannico Neville Chamberlain avrebbe dovuto inaugurare "la pace per la nostra epoca" - c'erano i corrispondenti dei principali giornali e agenzie di stampa internazionali.
Le violenze ebbero quindi vasta eco e suscitarono indignazione e proteste in tutti i Paesi democratici, ponendo fine - scrive Gilbert - "a qualsiasi tipo di attrattiva per il nazismo fra la gente comune e i rispettivi governi". Mentre il fumo delle sinagoghe incendiate anneriva ancora il cielo delle città e Goebbels attribuiva pubblicamente gli eventi ai "sani istinti" della popolazione tedesca, il "Times" in un articolo dell'11 novembre intitolato A black day for Germany scriveva: "Nessun propagandista estero determinato a screditare la Germania davanti al resto del mondo potrà mai superare il racconto di incendi e percosse, di assalti condotti con perfidia su gente indifesa e innocente, che ieri ha funestato quel Paese". Di fatto l'eco negativa degli eventi sulla stampa mondiale fu molto più forte e vasta di quanto il ministero della propaganda si attendesse. Tanto che Hitler si raccomandò che in futuro si agisse con maggiore discrezione. Anche la Santa Sede, l'11 novembre, si unì alle proteste dei leader britannico e francese. Quella stessa notte - scrive lo storico - "i nazisti organizzarono manifestazioni di massa sia contro gli ebrei sia contro i cattolici. Il Gauleiter nazista della Baviera, Adolf Wagner, mise in guardia un pubblico di cinquemila persone: "Ogni discorso del Papa a Roma è un incitamento agli ebrei di tutto il mondo a mobilitarsi contro la Germania". L'arcivescovo cattolico di Monaco, il cardinale Michael von Faulhaber, aveva fornito un camion al rabbino della comunità per salvare gli oggetti sacri della sinagoga Ohel Yaakov prima che venisse abbattuta durante la Notte dei cristalli. A seguito delle invettive del Gauleiter, una folla attaccò il palazzo vescovile, rompendo tutte le finestre del primo e del secondo piano". Successivamente, il 21 novembre - annota ancora lo storico - rivolgendosi ai fedeli "Pio xi sfidò l'affermazione nazista di superiorità razziale ariana, insistendo sull'esistenza di un'unica razza umana. (...) Sulla scia della decisa presa di posizione di Pio xi, c'erano state aperte condanne della Notte dei cristalli da parte di parecchi eminenti uomini di Chiesa cattolici, fra cui il cardinale Schuster di Milano, il cardinale belga Van Roey e il cardinale Verdier di Parigi". Ma anche tra i sacerdoti non mancarono prese di posizione forti e coraggiose. Nella stessa Berlino il prevosto della cattedrale di Sankt Hedwig, Bernhard Lichtenberg, terminava la celebrazione serale, ogni giorno, con una preghiera "per gli ebrei e i poveri prigionieri dei campi di concentramento".
Dopo la Notte dei cristalli molti Paesi aprirono le loro frontiere agli ebrei che volevano lasciare la Germania e l'Austria, iniziativa che i nazisti, all'inizio, non ostacolarono, anzi Heydrich fece del suo meglio per accelerare le partenze: l'obiettivo era incoraggiare l'esodo di massa dell'ebraismo tedesco. Così nei dieci mesi che intercorsero tra la Kristallnacht e lo scoppio della guerra poterono lasciare la Germania 120.000 ebrei (poco meno di quanti lo avevano fatto nei cinque anni precedenti) e altri 140.000 l'Austria.
Quanto accadde il 9 e 10 novembre di settant'anni fa - conclude Gilbert - lasciò un segno profondo: "Insegnò a coloro che costituirono la fonte del pregiudizio che un intero popolo può essere demonizzato; che un'intera nazione può essere rivolta in maniera totale e immorale contro una sua parte rispettabile, tenacemente lavoratrice, creativa, fedele e integra. (...) Insegnò, a posteriori, una lezione storica: ciò che comincia come qualcosa di circoscritto in termini di distruzione e di tempo, si può rapidamente trasformare in una strage mostruosa; che il male mostra delle sfumature, ma è anche un processo graduale, e può evolversi facilmente in un male più grande". Ma insegnò inoltre che anche in quei tempi bui c'era spazio per il bene. Un bene fatto da poche persone, ma generose, coraggiose e dall'animo grande. "Grazie a loro, nel mezzo del crollo di qualsiasi morale, la morale sopravvisse. Fra le rovine della civiltà, la civiltà rinacque. Ma le perdite rimangono insostituibili".
(©L'Osservatore Romano - 10-11 novembre 2008)
Ricordo di Giuseppe Fanin, sindacalista cristiano, martire - Autore: Pelizzari, Daniele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 10 novembre 2008 - Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna. - «Noi chiamammo poco tempo fa l'Emilia "Messico d'Italia", ma ciò è ingiusto perché piuttosto si deve dire che il Messico è l'Emilia d'America. Cose terribili succedono a Castelfranco Emilia e gente ci manda lettere piene di terrore elencando assassinii. Quarantadue persone sono già state soppresse misteriosamente per cause di politica o di vendetta, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, in piena pianura. E la gente sa, ma non parla perché ha paura». - Era la Primavera del 1946 e così scriveva Guareschi ma non in un suo romanzo, stava riportando quello che avveniva sotto gli occhi di tutti in quelle zone, dove un anno dopo il 25 aprile il sangue scorreva ancora, anzi più copiosamente di prima.
Non si trattò soltanto di omicidi causati da vendette personali ma da una vera e propria strategia attuata da minoranze del Partito Comunista, che intesero la Resistenza come fase iniziale di un piano che avrebbe portato alla rivoluzione, necessaria per instaurare in Italia un regime di tipo socialista.
Tutte queste vittime, ora sappiamo che furono migliaia, non erano soltanto imprenditori, agrari e benestanti ma soprattutto padri e madri di famiglie contadine, giovani, sacerdoti: persone pacifiche che per i rivoluzionari sarebbero diventati dei potenziali oppositori alla conquista del potere.
Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna, cittadina confinante con la provincia di Modena e quella di Ferrara.
Era un giovane di 24 anni, terzo di dieci figli, da poco laureatosi in agraria, che la sera del 4 novembre 1948 dopo aver accompagnato a casa la fidanzata, a sua volta rincasava in bicicletta: venne aggredito a colpi di spranga e morì senza riprendere conoscenza all’ospedale.
Contrariamente a quanto succedeva per tutti gli omicidi simili il colpevole poco dopo si costituì: era il segretario di una locale sezione del Pci, lui era il mandante dell’omicidio ed indicò i nomi degli esecutori.
Ma perché fu ucciso uno come Fanin ?
Era un ragazzo generosissimo, stimato da tutti, legato al popolo contadino dal quale proveniva e che desiderava difendere con la sua attività di sindacalista, era anche molto religioso:
era impegnato nelle Acli e il sindacato lo viveva totalmente come apostolato e servizio per il prossimo.
“Servi sciocchi degli agrari “: così erano bollati da certi sindacalisti comunisti i sindacalisti cristiani e additati come nemici del popolo in quanto servi dei possidenti agrari e dei fascisti: per questo Fanin era già stato minacciato e picchiato, ma quando intimidazioni e botte come nel suo caso non bastavano non restava che uccidere.
Il giovane martire non è mai stato dimenticato e soprattutto quest’anno a San Giovanni in Persiceto, la Chiesa di Bologna in collaborazione con Azione cattolica, Acli, Cisl, Coldiretti, Confcooperative e Movimento cristiano lavoratori ha organizzato una nutrita serie di incontri per ricordarne la figura.
L’arcivescovo di Bologna, card.Caffarra, ha ricordato che: ”...se a noi sono stati risparmiati anni di disumana devastazione della dignità dell’uomo, come non avvenne in altri paesi dell’Europa dell’Est, ciò fu dovuto, secondo una visione di fede, anche al sacrificio di queste vittime innocenti. Non siamone eredi immemori.”
Da qualche anno è stato avviato il processo di canonizzazione per Giuseppe Fanin: per questo il fratello Carlo su “Avvenire” ci tiene a precisare: “In precedenza, il ricordo di quel fatto aveva un significato prevalentemente politico; ora ne ha uno prevalentemente ecclesiale, di fede: Giuseppe non può più essere definito un personaggio di parte, ma è un esempio per tutti”.
Il suo sacrificio non dimenticato ha un valore importante per ognuno di noi cristiani, come ha richiamato l’arcivescovo Caffarra : “…non lasciarsi vincere dall’insidia di separare l’esperienza della fede dall’esperienza umana; di separare ciò che si celebra alla domenica da ciò che si vive il lunedì.”
Sul sito “www.il mascellaro.it” si trova una interessante documentazione sul servo di Dio Giuseppe Fanin e sugli avvenimenti accaduti in Emilia Romagna dopo la Liberazione.
10/11/2008 15.28.51 – Radio vaticana - Conferenza internazionale in Vaticano sulla pastorale nella cura dei bambini malati: intervista con il cardinale Lozano Barragán
Domani mattina sarà presentata, nella Sala Stampa della Santa Sede, la XXIII Conferenza Internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, sul tema: “La pastorale nella cura dei bambini malati”, che si svolgerà in Vaticano dal 13 al 15 novembre prossimi. Obiettivo della Conferenza è quello di disegnare un futuro di speranza per tanti piccoli, vittime della malattia nei primi anni di vita. In particolare si affronterà la questione della mortalità infantile: ancora oggi, ogni anno 4 milioni di neonati muoiono a meno di 26 giorni di vita. Ma era già stato affrontato altre volte questo tema? Ascoltiamo il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, al microfono di Romilda Ferrauto:http://62.77.60.84/audio/ra/00137541.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137541.RM
R. – In una maniera così precisa, non era mai stato affrontato; era stato affrontato genericamente, fra altri temi, per esempio quello dell’AIDS, quello della depressione, per esempio anche quello del nesso tra malattia ed economia … Tutto questo è stato affrontato nelle Conferenze internazionali precedenti. Siccome ogni anno se ne svolge una, certamente ci sono sempre state attinenze a questo tema. Però, in maniera concreta, soltanto in questa occasione abbiamo trattato questo argomento, perché questo argomento è stato scelto dal Santo Padre: lui personalmente, ci ha chiesto di trattare specificamente il tema della pastorale nella cura dei bambini malati. Abbiamo infatti alcuni milioni di bambini malati: due milioni e mezzo sono i bambini malati di AIDS trasmesso dai genitori, e poi ci sono tante altre malattie. Non parliamo di come curare i malati: questo spetta ai medici; bensì di come fare la cura pastorale, come evangelizzare il bambino malato. Questo è un problema urgente.
D. – Parteciperanno specialisti del mondo intero, grandi specialisti. Quali sono stati i criteri per lascelta dei partecipanti e dei temi dei loro interventi? C’è qualche priorità per il dicastero?
R. – E’ la realtà, il pensiero e l’azione: sono tre spazi che dobbiamo coprire intensamente. Qual è la realtà dei bambini malati e la pastorale che si svolge con loro? Che cosa ci dice la Parola di Dio su questo argomento? E che cosa dobbiamo fare? Nel senso che non è direttamente il Dicastero ad agire: infatti, noi siamo una specie di “braccio lungo” del Santo Padre per quanto riguarda l’orientamento, il coordinamento e la promozione della evangelizzazione. E’ quindi necessario che ci siano specialisti nella realtà, nel pensiero e nell’azione. Noi mettiamo a disposizione quanto di meglio si trovi, nel momento attuale, su questi argomenti.
D. – C’è qualche aspetto particolare di questo tema sul quale desiderate esprimervi specialmente? C’è qualcosa che vi tocca in particolare, che vorreste far passare come messaggio?
R. – Quello che mi sta a cuore è l’evangelizzazione, cioè non soltanto l’assistenza: vogliamo capire come fare concretamente una sorta di cura della felicità e della salute che poi sboccia nella salvezza eterna. Cioè, come lasciare che i bambini si avvicinino al Signore Gesù e non impedirglielo. Glielo si può impedire, per esempio, attraverso la psicologia: la psicologia ci aiuta tanto a comprendere l’età evolutiva, a comprendere il bambino, sì. Però, a volte, nei presupposti della psicologia, ci si allontana da Cristo. E allora: “Lasciate che i bambini vengano a me!”. Questo è quello che maggiormente mi interessa.
D. – Si sa che la Chiesa – le strutture della Chiesa – sono in prima linea nell’assistenza ai malati, che siano bambini o adulti. Ma a volte si ha la sensazione che non tutta l’opinione pubblica sia cosciente di quanto l’azione della Chiesa sia capillare, anche in alcune malattie come l’AIDS. Lei pensa che forse sarebbe necessario che fosse meglio conosciuta l’azione della Chiesa?
R. – Sì, è necessario che sia meglio conosciuta; però, io ho l’esperienza di alcuni Paesi, dove si avversa la Chiesa, nel senso che non si vuole riconoscere e nemmeno si vuole che l’opinione pubblica conosca quello che sta facendo la Chiesa. Faccio un esempio: l’AIDS. Noi abbiamo nel mondo il 27 per cento di tutti i centri per la cura dei malati, contro il 44 per cento dei centri tenuti dai governi e poi, ad una distanza considerevole, ci sono altre organizzazioni, come le ONG con l’11 per cento, e altre denominazioni religiose con l’8 per cento. I cattolici, quindi, gestiscono il 27 per cento di questi centri per la cura dell'AIDS, ma questo lo si vuole sempre nascondere. Io faccio del mio meglio perché ciò sia reso noto: abbiamo anche pubblicato degli opuscoli con questi dati … Ma queste entità non lo vogliono conoscere. Dicono soltanto, per quanto riguarda l’AIDS, che la Chiesa è co-responsabile dell’AIDS perché si oppone all’uso del profilattico. Il motivo è sempre lo stesso: ci sono entità a cui per varie ragioni, forse anche per interesse, non conviene che si sappia quanto la Chiesa stia facendo contro l'AIDS. La Chiesa è il partner principale di tutti i governi del mondo: bisogna pensare che, soltanto per quanto riguarda l'AIDS, la Chiesa nel mondo ha circa 114 mila centri di assistenza sanitaria.
Libertà di scelta educativa per le famiglie: un impegno da cui il governo non può retrocedere - Redazione - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Ieri mattina in Aula il sottosegretario Vegas, parlando a nome del Governo, ha rassicurato circa i fondi destinati alle scuole paritarie, per i quali i provvedimenti in discussione prevedono un taglio delle risorse di oltre il 20%.
Nei giorni scorsi numerosi abbiamo segnalato la cosa al Governo manifestando la nostra preoccupazione a riguardo. Anzitutto per il fatto che l’attenzione per l’educazione è il primo e fondamentale atto di un Governo che vuole favorire lo sviluppo e la crescita di un paese. L’educazione, come hanno inequivocabilmente espresso la stragrande maggioranza degli intervistati del rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà (“Sussidiarietà ed Educazione”) è la prima emergenza.
Non vi è quindi alcuna ragione per colpire questo settore, anche e soprattutto in situazioni di emergenza o di crisi. Il primo fattore dello sviluppo è infatti il fattore educativo.
In secondo luogo, non meno importante per chi si trova a prendere decisioni sulla “cosa pubblica”, un taglio di fondi alle scuole paritarie rappresenta solamente un risparmio apparente per le casse dello Stato. Infatti, come è noto, ogni studente che frequenta la scuola statale “costa” di più, considerevolmente di più, rispetto ad uno studente di una scuola paritaria. Dati alla mano, per un bambino iscritto alla scuola dell’infanzia, lo Stato, se questo è iscritto ad una scuola non statale, contribuisce con 584 euro l’anno. Se il bambino frequenta una scuola statale il costo arriva a 6.116 euro l’anno.
Ciò significa che è ragionevole prevedere che una minore o più onerosa offerta formativa nella scuola non statale comporti una migrazione di studenti verso la scuola statale. Questa migrazione, seppur limitata, avrebbe un impatto consistente sul bilancio dello Stato.
Ulteriore elemento: una decurtazione dei finanziamenti alla scuola paritaria avrebbe una ricaduta immediata sulle tasche delle famiglie che, per mantenere il percorso educativo che liberamente hanno scelto per il proprio figlio, si vedrebbero costrette ad un maggiore esborso annuale o addirittura la impossibilità di iscrivere i propri figli alla scuola paritaria.
La linea politica che il Governo ha deciso di adottare, sin dalla presentazione del Programma Elettorale, è quella di una reale libertà di scelta per le famiglie, di un reale sostegno alla famiglia ed alla libertà educativa. Libertà di fare scuole e di scegliere per i propri figli la proposta educativa più convincente.
Ora, come ha in più occasioni manifestato il Presidente del Consiglio, il Governo è estremamente consapevole dell’importanza delle scuole paritarie e della effettiva libertà di scelta delle famiglie.
Riteniamo quindi che l’impegno assunto in aula rappresenti una risposta concreta, ancorché un primo passo, verso una reale e piena autonomia scolastica, libertà di scelta e sostegno alle famiglie.
Maurizio Lupi
Gabriele Toccafondi
Renato Farina
Raffaello Vignali
EDUCAZIONE/ Socci: la scuola, ultima ridotta dell'ideologia. Ma gli studenti chiedono veri maestri - INT. Antonio Socci - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Universitari in tumulto, professori che fanno lezioni in piazza, ministri che ritirano improvvisamente decisioni che sembravano irrevocabili. Una confusione che non solo riguarda la politica italiana e le politiche scolastiche, ma che riflette anche uno stato culturale in declino. Antonio Socci spiega cosa sta succedendo all'educazione italiana, e non solo, nell'ottica di un vasto processo storico e sociale.
Alcuni anni fa Don Luigi Giussani, commentando la terribile strage di Nassirya di cui a breve ricorrerà l'anniversario, sorprese chi lo intervistava riportando il punto sull'educazione con la frase: «se ci fosse un'educazione del popolo tutti starebbero meglio». Sembra un'intuizione mirabilmente profetica soprattutto ripensando agli ultimi avvenimenti legati anche, purtroppo, a forme di violenza. Come, a suo avviso, questo messaggio ha speranza di essere recepito?
Personalmente mi piacerebbe che venisse recepito subito e universalmente, ma sarebbe troppo bello per essere vero.
Come insegna la storia cristiana del primo millennio, nelle tenebre, nell'inciviltà e nella barbarie che dilagava sul continente rinacque tutto da piccoli gruppi di persone che iniziarono su di sé una sorta di disciplina educativa.
A quel tempo rifarsi a una disciplina significava pressoché sottomettersi solamente all'obbedienza nei confronti della Chiesa cristiana. E fu una pratica che segnò l'Occidente e la sua cultura nei secoli a venire.
A partire da questo punto fermo, che concepiva il conoscere sempre mediante l'esperienza religiosa, è emerso, come sovrappiù, il frutto di scienza e conoscenza che ha generato un'intera civiltà, la nostra. I monaci, i primi cristiani nel medioevo, hanno letteralmente reinsegnato tutto lo scibile di allora a un continente che ormai si trovava nelle tenebre: dall'agricoltura alla tecnologia, tutto passava attraverso un ordine culturale che procedeva dalla Chiesa. La frase fu pronunciata da Don Giussani, sì in occasione di Nassirya, ma soprattutto in un quadro più ampio, quello attuale, con la consapevolezza che il compito cui chiamava tutti ci impiegherà due o trecento anni per tradursi in una cultura diffusa fra la gente.
Perché, sebbene in alcuni punti la voglia di riforme risulti condivisibile, ci si trova sempre di fronte ad atteggiamenti di inciviltà e di totale assenza di democrazia da parte di coloro che protestano?
Non c'è un'unica risposta ai loro atteggiamenti e sarebbe un'opera lunga elencare dove essi sbaglino. Ma hanno anche delle validissime ragioni nella protesta, salvo il fatto che poi, immediatamente, le loro ragioni sono strumentalizzate politicamente e ideologicamente.
Questo si vede anche dal fatto che alcune iniziative prese dal governo in merito a scuola e università sono passate in cavalleria, non sono state realizzate. Sicuramente dietro le loro mosse c'è dunque un'organizzazione politica. Ma non mancano giuste esigenze di riforma. I giovani si sono accorti della totale inefficienza della classe docente nel rispondere alla loro domanda di conoscenza. Io sono propenso a ritenere che al fondo di tutto ci sia un'inconsapevole sete e fame di padri e di maestri.
È un problema che riguarda soltanto la scuola?
No. Questo è il vero problema della cultura attuale. Purtroppo gli studenti sono privati dei veri maestri non solo nelle scuole, ma da ogni parte, nell'arte, nei teatri, nei musei, nei film, in famiglia. Dappertutto questa paternità e questo saper introdurre i ragazzi alla conoscenza ragionevole della realtà rappresenta un'impresa in cui gli adulti stessi dovrebbero essere aiutati.
Non trova, a questo proposito, riprovevole il fatto che molti rappresentanti della classe docente sfruttino l'ondata dei tumulti per garantire la propria posizione a scuola o in università? Si tratta di “cattivi maestri”?
Sono casi diversi sul piano pratico se si parla di università o di scuola. Nella prima la collaborazione fra decenti e studenti è molto più forte, mentre nella seconda i protagonisti sono per lo più maestri. Molto più simile è la situazione sul piano umano, dove paghiamo lo scotto degli ultimi trenta/quarant'anni di ideologia. Nell'ambito educativo questo prezzo è ancora il più alto. Paradossalmente la scuola è l'ultima ridotta dell'ideologia. Ma attenzione, dicendo questo non voglio indicare per forza, o soltanto, l'ideologia marxista, che pure era la più in voga negli anni in cui si originò questa classe di cattivi maestri. Dal punto di vista della mia esperienza di cristiano mi sono accorto che, come recentemente Ernesto Galli della Loggia ha scritto in un suo bell'editoriale sul Corriere della Sera, è incredibile come tanti “ismi”, per origine anche avversi e contrari fra di loro, si siano trovati d'accordo nel combattere la Chiesa e i cristiani. Questo in un continente che, ripeto, è nato culturalmente su maestri cristiani.
Ciò è connesso all'attuale situazione?
Certamente. Perché significa che c'è quindi stato un odio nei confronti della precedente generazione di maestri che è sfociato in un libertarismo svincolato da qualsivoglia figura autoritaria. Non c'è stata una persecuzione armata, ma persiste un'acrimonia e un odio ideologico che in pratica unisce gli eredi della cultura laicista, borghese, volterriana a quella marxista.
Però bisogna anche cogliere dei segni positivi quali, come è stato in Italia, il sorgere negli ultimi anni di un diverso mondo laico, di un diverso pensiero, il quale pur oscillando, non ordisce questo progetto distruttivo nei confronti del cristianesimo e della cultura precedente.
Non è però molto diffuso nel mondo accademico
No infatti, questo è un vero problema. E, se si vuole buttarla in politica, questa dovrebbe essere una vera e propria battaglia del centrodestra che, analogamente al pensiero cristiano, è anch'esso dal punto di vista culturale particolarmente minoritario nelle istituzioni educative. Non che ci debba essere una scuola di centrodestra e una di centrosinistra, però, dal punto di vista culturale se si vuole una cultura liberale, moderata e non laicista è necessario che si ripensi un sistema di diffusione di cultura e di valori assai più efficace di quello attualmente esistente che rappresenta solo una parte del sentire nazionale. Purtroppo, e stranamente, il centrodestra fatica ancora a capirne l'urgenza.
Un'ultima domanda che si rifà anche alla sua personale esperienza di genitore: come possono al giorno d'oggi un padre o una madre offrire un'autentica educazione ai propri figli?
Imparando ad essere figli. Si può imparare a essere padri soltanto continuando a essere figli e poi si impara ad essere anche migliori figli nei confronti dei propri genitori. Da questo punto di vista una realtà educativa efficace risulta davvero cruciale. Perché educare significa anche entrare in rapporto con gli altri per costruire. Penso soprattutto ai giovani che si avvicinano a mettere su famiglia. Al giorno d'oggi aleggia su tutti un'inquietudine tremenda. Si accorgono tutti che non esiste una scuola dove si insegna ad essere padri e madri. Ma pochi si accorgono del ruolo di un'educazione che offra reali punti di riferimento per aiutare a diventarlo. E gli errori dei padri e delle madri li pagano i figli sulla loro pelle. Questo è ancora più rischioso degli errori commessi dai professori.
ECOCARBURANTI/ C'è una pianta che cresce senz'acqua che può scaldare case e far andare auto. Perchè non la usiamo? - Alberto Contri - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
L’amara profezia che ritroviamo nei Cori della Rocca di Eliot (“L’uomo ha abbandonato tutti gli dei tranne la lussuria, il denaro e il potere”) potrebbe essere resa ancora più drammatica, se ci aggiungiamo il fatto che nel suo operare economico l’uomo sembra aver perso anche il senno. Altri ben più esperti di me in materia stanno autorevolmente commentando su IlSussidiario.net la crisi epocale provocata dallo sciagurato rapporto tra finanza ed economia, così come si è delineato negli ultimi 25 anni.
Vorrei invece attirare l’attenzione su un’altra delle follie che l’homo oeconomicus si è messo a perseguire con una tenacia degna di miglior causa. Preoccupato dai problemi sull’effetto serra causati dagli idrocarburi, ma ancora più preoccupato della loro crescente scarsità, si è dedicato con molto impegno a estrarre carburante dai vegetali, una volta che se ne è scoperta la possibilità.
Così si è cominciato a produrre bio-carburanti da barbabietole, canna da zucchero, cereali, soia, mais, legno, eccetera. Senza riflettere sul fatto che, ad un'attenta riflessione, nell’applicazione di questa conversione, gli svantaggi sembrano superare di gran lunga i vantaggi.
Innanzitutto va detto che ancora non è certo che i bio-carburanti siano meno inquinanti di quelli tradizionali, mentre è certo che la loro produzione sta aumentando la fame nel mondo a causa della riduzione di terreni coltivati a scopo alimentare. Poiché la grande richiesta ha fatto lievitare i prezzi, è del tutto evidente che proprietari e conduttori di aziende agricole preferiscano destinare le proprie coltivazioni all’impiego più redditizio, come si sta rivelando quello dei bio-carburanti..
Crescendo di conseguenza il prezzo dei cereali, è aumentato inevitabilmente quello di prodotti derivati come pane, pasta, e anche dei foraggi, con evidenti riflessi sul prezzo della carne. Se si sommano gli effetti di questo meccanismo redditizio per pochi e dannoso per molti (ma che novità…) con gli effetti della recessione, sembra davvero lecito affermare che l’homo oeconomicus abbia perso sul serio il senno.
E non basta: si è riflettuto seriamente su cosa significhi effettivamente “rinnovabile”? Lo è una risorsa sempre più scarsa come l’acqua, ad esempio? Dai mutamenti climatici in corso non pare proprio: e allora come la mettiamo con il fatto che per produrre un litro di biodiesel servono 4000 litri di acqua per l’irrigazione e la trasformazione chimica? Come la mettiamo con il fatto che, secondo alcuni ricercatori, se si volesse produrre le quantità adeguate ad alimentare i motori diesel di tutta Italia (è solo un esempio) occorrerebbe utilizzare – sottraendoli alla produzione agricola alimentare - quasi tutti i terreni coltivabili? Sul portale della BBC c’è un articolo nel quale alcuni esperti dell’Onu parlano dei bio-carburanti come di un “crimine contro l’umanità”. Alcuni autori della rivista Natural Resources Research, già nel 2005 affermavano che “la produzione di biodiesel e bioetanolo consuma di gran lunga più energia di quanta se ne possa ricavare, non tenendo inoltre conto né dei danni ambientali né delle tasse”.
Eppure l’idea sembrava buona. Semplicemente, invece che ricercare la strada più ovvia, forse occorreva continuare a ricercare. E soprattutto a non ignorare ciò che sta sotto il nostro naso.
Alludo alla Jatropha, pianta sconosciuta ai più.
Che cos’è la Jatropha? È una pianta selvatica con alcune caratteristiche assai particolari: a) produce dei baccelli i cui semi (inutilizzabili per usi alimentari in quanto addirittura velenosi) risultano eccellenti per la produzione di bio-carburante. B) cresce senza alcun bisogno di irrigazione, bastandole l’umidità notturna. C) cresce anche in terreni pietrosi, aridi e secchi e quindi inutilizzabili per l’agricoltura. D) lascia scarti di lavorazione che costituiscono un ottimo integratore per i mangimi animali.
Per portare a regime una coltivazione di jatropha occorrono circa due anni, senza bisogno di cure troppo sofisticate, ed è lo stesso tempo richiesto da una piantagione di olio di palma, tanto per fare un esempio. Naturalmente anche questo tipo di agricoltura richiede superfici sufficientemente ampie per potere giungere ad un buon rapporto investimento/produzione…ma non dimentichiamo che i terreni richiesti non sono quelli irrigui – e quindi pregiati – necessari per la palma, il cocco, i cerali e la soia, bensì quelli che non interessano a nessuno. In Ghana, ad esempio, si potrebbero usare quelle che stanno diventando ex-miniere per via dello scadere delle concessioni e soprattutto per l’esaurimento dei filoni di minerali pregiati. Poiché si calcola che molto presto, a causa di ciò, circa 50.000 minatori di questo paese verranno privati del lavoro, è facile intuire come la loro conversione in coltivatori di jatropha da far crescere in terreni che non valgono più nulla, potrebbe risolvere almeno una delle tante catastrofi umanitarie che affliggono il mondo. Oltre che impedire la trasformazione dei nuovi disperati in altrettanti immigrati clandestini pronti ad arrivare in Italia, visto che le periferie delle città ghanesi già scoppiano per l’alto numero di senza lavoro privi di prospettive. Analoga conversione potrebbe avvenire in Burkina Faso, Mozambico, Togo e Costa d’Avorio, tanto per citare paesi nei quali la jatropha attecchisce da sola…
Sembra la classica opzione win-win, come dicono gli anglosassoni. Perché avendo a disposizione una pianta che non può servire ad altro, che non sottrae risorse scarse come l’acqua o terra buona, e quindi non provoca scarsità di produzione agricola per l’alimentazione, sarebbe un delitto non approfittarne.
Questo mi pare un campo (in questo caso metaforico) nel quale associazioni umanitarie ma anche il nostro Governo, tramite istituzioni come la Cooperazione allo Sviluppo, potrebbe fornire know-how dedicato e poco costoso, ottenendo anche lo scopo di eliminare alla radice il motivo che spinge sempre nuove masse di disperati a iniziare il periglioso, inutile, dannoso viaggio verso le nostre coste.
UNIVERSITA'/ Dal Governo il primo passo per una vera riforma - Alfredo Marra - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
«Difficilmente criticabile». Così si è espresso il Ministro Gelmini riguardo al decreto legge appena varato dal Consiglio dei ministri. «Difficilmente criticabile». Vero, ma solo se si tratta di un primo passo.
Il testo del provvedimento (pubblicato da IlSole24ore in versione non ancora definitiva) presenta in effetti a prima vista più luci che ombre. Le luci concernono le modifiche al turn over, il diritto allo studio, la destinazione di una parte dei finanziamenti in base ai risultati della valutazione. Le ombre riguardano le modifiche dei meccanismi di formazione e la composizione delle commissioni dei concorsi già banditi e il divieto, imposto agli atenei con i conti dissestati, di assumere nuovo personale docente. Vediamo più in dettaglio.
1. Le rigidità del turn over fissate dalla L. 133 vengono ammorbidite, consentendo alle università di assumere unità di personale nel limite del 50% della spesa cessata nell’anno precedente. Viene dunque cancellato il limite relativo alle “teste”. In parole povere, se prima si poteva assumere una persona ogni cinque pensionamenti ora il vincolo riguarda solo la spesa ed è meno stringente. Ad esempio, a fronte del pensionamento di un ordinario (il cui costo lordo poniamo sia circa 165.000 euro all’anno) si potranno usare 82.500 euro per assunzione di nuovo personale (per esempio 2 ricercatori).
2. Positivo è anche lo stanziamento di risorse per il diritto allo studio. Il Ministro ha dichiarato di voler così accogliere le osservazioni del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari che, con una mozione di pochi giorni fa, aveva denunciato la gravità e irrazionalità dei tagli previsti nelle tabelle della finanziaria.
3. Molto importante, sebbene per ora solo parziale, l’allocazione di una quota di FFO in base ai risultati della valutazione (ma aspettiamo il decreto ministeriale prima di cantare vittoria). Si tratterebbe finalmente dell’introduzione di un criterio di differenziazione in base al merito.
4. Insoddisfacente è invece la decisione di modificare i meccanismi di composizione delle commissioni dei concorsi già banditi. Questa operazione appare più di facciata che di sostanza: non assicura necessariamente maggiori garanzie di imparzialità e rischia di dar luogo a una raffica di ricorsi giurisdizionali.
5. Al di là della prima impressione, altrettanto di facciata sembra essere il divieto di reclutamento di nuovi docenti per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% di FFO (queste università sono anche escluse dalla ripartizione dei fondi stanziati dalla finanziaria 2007 per il reclutamento straordinario dei ricercatori). La disposizione non convince in quanto: a) una norma che limita la possibilità di assumere nuovo personale per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% esiste dal 1997 (art. 51 comma 4 L. 449/97), ma ciò non è stato sufficiente ad assicurare un equilibrato sviluppo degli organici; b) come in passato non sono previsti meccanismi che ne garantiscano l’applicazione (attraverso eventualmente irrogazione di sanzioni); c) riguarda solo il personale docente (e non quello tecnico amministrativo). Sarebbe stato più efficace prevedere specifici accordi finanziari di programma con gli atenei che si trovano in situazioni economiche di dissesto.
Considerato tutto quanto sopra sinteticamente descritto il decreto legge è da valutarsi nel complesso positivo. Ma, intendiamoci, con questo provvedimento il Governo ha parzialmente rimediato alle misure cieche contenute nella manovra d’estate. Come ha detto lo stesso Ministro Gelmini, non si tratta di una riforma dell’università. Il vero banco di prova, dove il Governo è chiamato a dimostrare il suo spessore culturale e politico, si gioca nel prossimo (sottolineo prossimo) futuro. Ben vengano allora le linee guida, ma si tenga presente che non è concepibile nessuna riforma seria dell’Università senza affrontare due questioni fondamentali e connesse cui tutto il resto è subordinato.
1. In primo luogo occorre ripensare alla radice i meccanismi del finanziamento statale alle università in modo da assicurare una dinamica certa dell’andamento del FFO e da garantire una seria ed efficace programmazione economica in cui siano chiari gli incentivi (in base al merito) e le responsabilità. È evidente che si tratta di un problema complesso, ma non ce la si può cavare continuando a mettere pezze nuove su un vestito vecchio. Perpetuare una politica sull’università “a singhiozzo” non fa altro che aggravare la situazione rinviando sine die la soluzione di problemi che non sono contingenti, ma strutturali.
2. L’altro aspetto decisivo riguarda i modelli organizzativi (l’autonomia) degli atenei. La questione comprende il (ma non si esaurisce nel) problema della governance poiché non si tratta appena di ristabilire il riparto di funzioni e di poteri tra rettore, senato accademico e consiglio di amministrazione. «Mi riferisco alla necessità di spezzare l’attuale carattere di uniformità disciplinare, scientifica e organizzativa dell’università italiana e di promuovere un sistema di autonomie cautamente competitive negli atenei, stimolando anche in università l’imprenditorialità individuale e collettiva e assicurando al sistema universitario adeguati livelli di produttività». Così scriveva un autorevole professore di diritto amministrativo, Umberto Pototschnig nel 1988. Parole che oggi, a distanza di vent’anni, sono più vere che mai e sottintendono la necessità di capovolgere il rapporto tra Ministero e Università: al primo tocca di operare le grandi scelte della politica universitaria e di risponderne poi in Parlamento; alle seconde spetta la responsabilità di tutto il resto (in questo senso il problema dei modelli organizzativi adombra altri problemi ben noti: valore legale del titolo di studio, autonomia didattica, competizione e comparazione tra atenei, stato giuridico dei docenti, ecc.). Il punto non è opporre privato a pubblico, ma autonomia a centralismo. Tutto questo, infatti, riguarda la forma organizzativa delle università. Queste ultime devono (per dimensioni, contesto territoriale, specificità formative) potersi articolare in modo diverso, realizzando quella promessa di autonomia sempre ritardata da un centralismo antico che affonda le sue radici nella legge Casati del 1859 e di cui non riusciamo a liberarci.
La nostra storia ci ha spesso mostrato come interventi legislativi tampone siano poi rimasti in vigore per anni. Bisogna a tutti i costi evitare che – dopo questo decreto legge – ci si fermi. Occorre che da oggi in poi il tavolo istituito dal Ministro con CRUI, CUN e CNSU lavori giorno e notte, perché questa è l’unica azione proporzionata alla serietà della questione universitaria. Senza una chiara strategia di rilancio che affronti il problema dell’impegno finanziario dello Stato e dei modelli organizzativi degli atenei, questo sarà l’ennesimo tra i tanti (troppi) provvedimenti estemporanei che hanno riguardato (e spesso funestato) l’università italiana negli ultimi venti anni. Troppo facile sarebbe accontentarsi di puntellare un sistema ormai vecchio e, in una logica gattopardesca, fingere di cambiare tutto per non cambiare niente. Governo e rettori sono chiamati alle loro responsabilità.
IL CORAGGIO DELL’AMORE - MADRI, NON VOLEVANO ABBANDONARE I FIGLI BISOGNOSI - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 novembre 2008
Un commando di uomini armati che piomba come uno stormo di rapaci, nella notte, su un villaggio al confine tra Kenya e Somalia. Spari, razzie, grida, stridore di pneumatici d’auto che partono a tutto gas. La notte di fuoco a El Wak è confusa, nelle testimonianze dei pochi che terrorizzati da dietro le finestre hanno visto. Di certo c’è che all’alba in quell’agglomerato polveroso di case di frontiera mancano due italiane. Rapite da banditaglia alla famelica ricerca di un riscatto, o nella logica di terra da nessuno che quest’angolo tra la Somalia e il Kenya è diventato, e che non vuole occhi stranieri a testimoni?
Caterina Giraudo, da Boves, e Maria Teresa Olivero, da Centallo, hanno 67 e 59 anni. Dai dati anagrafici potresti immaginare due signore con i capelli grigi, nella quiete sonnolenta della campagna cuneese. Invece sono suore dell’Ordine contemplativo missionario Charles de Foucauld, da ben 25 anni in Africa. Non se ne sono andate da laggiù per la guerra, né per la guerriglia tribale che si allarga incontenibile nel momento in cui ogni ordine sociale è cancellato e i profughi vagano abbandonati. Due donne anziane in un universo senza tetto né legge, a duecento chilometri dalla prima città, a un mondo dall’Occidente. In mezzo a una popolazione islamica che tuttavia le amava: perché si prendevano cura dei figli malati, tubercolotici, o epilettici – quella malattia che ancora in molte culture africane è temuta come la oscura maledizione di un dio. Le suore sono dunque rimaste laggiù, quando molti degli occidentali hanno ragionevolmente dovuto andarsene. Possiamo immaginare che non se la siano sentite di abbandonare la loro gente, i loro malati, proprio in un momento in cui la situazione sembra così disperata. Si abbandonano, forse, i figli?
Il restare tenacemente in quel cantone d’Africa tanto lontano da ogni memoria di civiltà e di diritto si spiega solo così: non si abbandonano i figli, e tanto meno nell’ora peggiore. Solo una logica di maternità dà ragione del testardo non partire di queste donne, come di moltissime altre nel Terzo mondo, pure nell’epicentro della violenza cieca - quando un minimo buon senso imporrebbe il ritorno. Maternità e paternità come imperativo di un rimanere, che ai più sembra inconsulto.
Per farsi capire da 'noi', a volte i missionari ti fanno un esempio: «Ma se ne andrebbe da una città in guerra – chiedono –, se i suoi figli avessero bisogno di lei?». E normalmente l’interlocutore risponde di no; e però quei disperati, quei morti di fame, tenderebbe umanamente a obiettare, «non sono vostri figli ». Non secondo la carne, certo – l’unica paternità e maternità che la maggior parte degli uomini comprende. Ma testimoniano, le migliaia di missionari che vanno, e rimangono, in terre abbandonate e feroci, di un’altra maternità e paternità, possente e radicale come e più che quella del sangue.
E dunque Caterina Giraudo da Boves, Cuneo, e Maria Teresa Olivero da Centallo, sono cadute nelle mani di guerriglieri, o banditi. Si può sperare, si deve sperare di salvarle, in un passaparola popolare che di bocca in bocca raggiunga i sequestratori: non toccatele, curano i nostri figli, sono nostre amiche. A volte i missionari devono molto a questa umile gratitudine di sconosciuti.
Ma intanto, mentre si prega che un destino misericordioso riporti a casa le due suore, il pensiero si sofferma ancora, con stupore, su quei loro oltre sessant’anni. L’età in cui 'noi' andiamo in pensione, ci curiamo gli acciacchi e non ci spingiamo, nei viaggi, oltre la riviera adriatica. E queste donne invece, e tante come loro, ancora nel cuore della battaglia. Non madri, eppure più madri di molte. A El Wak e nelle altre buie terre di nessuno il mistero più grande non è il rapimento: ma donne e uomini, che vogliono restare.
INDEGNA GAZZARRA DI RELIGIOSI AL SANTO SEPOLCRO - Scazzottarsi alla Sua presenza Una pena che rompe il cuore - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 novembre 2008
L o scandalo, sì. Ma ancor di più la pena. Ora che abbiamo visto, e le immagini della gazzarra davanti al Santo Sepolcro hanno fatto il giro del mondo ci resta il taglio dello scandalo, e di più, l’amaro della pena. Perché è scandaloso litigare proprio lì, e arrivare addirittura alle mani. È per così dire doppiamente scandaloso. Perché c’è la contesa invece dell’unità, e perché l’istinto e la scelta della contesa non rispettano nemmeno il luogo del più alto sacrificio di Gesù. Lo scandalo è forte, come di una scena indecente. Della più grave indecenza. E cosa importa sapere se qualcuno aveva ragione. Che ragione è quella che porta ad accapigliarsi davanti al luogo dove Gesù ha patito la morte? Dei cristiani hanno dato questo scandalo, e i media hanno tolto ogni riparo possibile. Hanno rilanciato la notizia e le immagini. Non poteva essere altrimenti. Si è trattato di un fatto così grave. Chi conosce quei luoghi santi – e non solo quelli cari alla cristianità – sa che possono crearsi certe situazioni di tensione, di scomodità, di confusione. Ma il motivo per cui ci si reca in quei luoghi suggerisce il supplemento di pazienza necessaria. E dove anche verrebbe da reagire sopra le righe, il rispetto e la coscienza del gesto che si sta compiendo frenano, correggono. Ma oltre allo scandalo resta la pena. Di vedere la cosa peggiore per un cristiano: Gesù ridotto a monumento. Sì, di questo si è trattato. Perché se si arriva a litigare davanti al Suo Sepolcro, è perché si considera quel posto come uno dei tanti monumenti. Importante, sì, ma un monumento. E non segno della Sua Presenza viva. È come se invece che trovarsi di fronte a un Cristo vivo si fossero trovati dinanzi a un Cristo morto.
A un museo cristiano. A un Cristo pietrificato. E allora si poteva litigare.
Come se Lui non ci fosse. Invece, come sa chi ama qualcosa, qualcuno di vivo, quando ti ci trovi di fronte, tutta l’energia dell’attenzione è tesa a quella presenza. E si dimentica ogni altra scoria. Addirittura quel che sembrava importante trova la giusta dimensione. Lo sanno i bambini, quando si trovano di fronte alla madre. O l’innamorato alla sua donna. Invece per quei litiganti si trattava in quei momenti solo di un monumento. Di uno spazio da occupare. Non il segno di Gesù vivo. E così hanno prevalso le ragioni, o meglio le non ragioni della discordia. Che prevale nei cristiani quando pensano di sapere cosa è Cristo. Invece che domandarlo. La discordia che prevale quando trasformano Cristo in un monumento da possedere, in un discorso da ripetere, in una morale di cui vantarsi. Invece che il corpo di Dio che accetta di morire come un delinquente, per amore. E il corpo Risorto. Vivo. La pena di vedere Gesù ridotto a monumento. Per chi lo ama, questa è la maggiore pena di quelle immagini. La pena profonda. Più ancora dello scandalo bruciante. Perché gli uomini, noi tutti, provochiamo mille scandali e chiediamo che Dio ne abbia pietà. Ma quel trattare i segni della Sua morte e della Sua Resurrezione, della sua Vita come fossero monumenti, mette una pena infinita. Una pena che rompe il cuore. Che fa pensare a quante volte – in tanti templi, riti, raduni – si compiono gesti in modo meccanico, banale, smemorati della Sua Presenza. Per nulla commossi dalla Sua Presenza. Quel gesto scandaloso, e la pena che ci procura, ci spinga a considerare quante volte si compiono gesti cristiani fatti male.
Insomma, gesti, riti, o raduni che si nominano cristiani e che sono fatti male, trasandati, ignari di Lui. L’indegna gazzarra di fronte al Suo sepolcro ci ha ferito. Come il segno della necessità continua della nostra conversione. Allo scandalo e alla pena, infatti, sarebbe ancor peggio si accompagnasse l’insopportabile moralismo di chi pensa di non esser capace di arrivare a tanto. O la inutile, capziosa ricerca delle motivazioni dell’uno o dell’altro. La ferita di questo scandalo e la nascosta ferocissima pena che ci provoca lavorino dentro di noi, fino a poter esclamare di fronte alla Presenza viva di Gesù, come sa fare ogni peccatore e ogni santo: Tu lo sai che Ti amo.
1) La Santa Sede al Seminario dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea - "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto” - discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008)
2) Kenya: rapite due suore italiane e condotte nel sud della Somalia
3) Ebrei e cattolici preoccupati per la rinascita dei nazionalismi - Il Cardinale Kasper guida la delegazione cattolica
4) Con la religione si educa la persona - I Vescovi italiani invitano a scegliere l’insegnamento della religione cattolica
5) “Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me” (Paolo VI, 28 giugno 1978) - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
6) Obama: il presidente abortista che farà male ai neri d’America - Autore: Tardiff, Mark Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=13703&geo=5&size=A - martedì 11 novembre 2008
7) La Notte dei cristalli punto di non ritorno verso la Shoah - Fu l'inizio della fine - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 11 novembre 2008
8) Ricordo di Giuseppe Fanin, sindacalista cristiano, martire - Autore: Pelizzari, Daniele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 10 novembre 2008 - Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna. - «Noi chiamammo poco tempo fa l'Emilia "Messico d'Italia", ma ciò è ingiusto perché piuttosto si deve dire che il Messico è l'Emilia d'America. Cose terribili succedono a Castelfranco Emilia e gente ci manda lettere piene di terrore elencando assassinii. Quarantadue persone sono già state soppresse misteriosamente per cause di politica o di vendetta, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, in piena pianura. E la gente sa, ma non parla perché ha paura». - Era la Primavera del 1946 e così scriveva Guareschi ma non in un suo romanzo, stava riportando quello che avveniva sotto gli occhi di tutti in quelle zone, dove un anno dopo il 25 aprile il sangue scorreva ancora, anzi più copiosamente di prima.
9) 10/11/2008 15.28.51 – Radio vaticana - Conferenza internazionale in Vaticano sulla pastorale nella cura dei bambini malati: intervista con il cardinale Lozano Barragán
10) Libertà di scelta educativa per le famiglie: un impegno da cui il governo non può retrocedere - Redazione - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
11) EDUCAZIONE/ Socci: la scuola, ultima ridotta dell'ideologia. Ma gli studenti chiedono veri maestri - INT. Antonio Socci - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
12) ECOCARBURANTI/ C'è una pianta che cresce senz'acqua che può scaldare case e far andare auto. Perchè non la usiamo? - Alberto Contri - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) UNIVERSITA'/ Dal Governo il primo passo per una vera riforma - Alfredo Marra - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
14) IL CORAGGIO DELL’AMORE - MADRI, NON VOLEVANO ABBANDONARE I FIGLI BISOGNOSI - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 novembre 2008
15) INDEGNA GAZZARRA DI RELIGIOSI AL SANTO SEPOLCRO - Scazzottarsi alla Sua presenza Una pena che rompe il cuore - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 novembre 2008
La Santa Sede al Seminario dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea - "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto” - discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008)
NORIMBERGA/CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Jean-Louis Bruguès, O.P., Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il 6 novembre, nel corso del IV Seminario del Consiglio d’Europa dei Ministri dell’Educazione dei Paesi firmatari della Convenzione Culturale Europea (Norimberga- Dachau, 5-7 novembre 2008) sul tema: "Insegnare la memoria: per vivere in un’Europa di libertà e di diritto".
* * *
Signor Presidente,
vorrei innanzitutto esprimere il ringraziamento della Delegazione della Santa Sede e mio personale alle autorità tedesche che ospitano questo Seminario ministeriale per i loro impegno organizzativo e per la cortesia con la quale ci hanno accolto in questa storica città di Norimberga. Il luogo in cui ci troviamo è ricco di memoria. In esso si svolsero avvenimenti drammatici, che hanno segnato la storia europea: i grandi raduni nazisti, ma anche il processo a quanti si macchiarono di gravi delitti contro l’umanità. Quei fatti, di cui questa città è stata testimone, ci parlano del dramma di un’epoca, in cui furono negate libertà e giustizia, calpestata la dignità dell’uomo.
1. Il ricordo del dramma delle vittime, l’omaggio alla loro memoria esige che tutti si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere una chiamata alla responsabilità nel costruire l’oggi e il domani del nostro continente, perché in nessun angolo dell’Europa e di tutto il mondo si ripetano tali tragedie. A riguardo la Santa Sede apprezza l’impegno dei paesi aderenti alla Convenzione culturale europea affinchè attraverso l’insegnamento della memoria si possa contribuire non solo conoscenza del passato, ma alla mutua comprensione, al dialogo, alla prevenzione dei crimini contro l’umanità, al consolidamento di un’Europa della libertà e del diritto.
2. Il diritto e la libertà sono essenziali per evitare ricadute totalitarie non rispettose dell’uomo. Un diritto, però, che si fondi su un alto senso della dignità e della giustizia. Salvaguardare la dignità dell’uomo non significa soltanto non ucciderlo, non mutilarlo, non torturarlo. Significa anche dare alla fame e sete di giustizia e libertà che è in lui la possibilità di essere saziate. Rischieremmo di cadere nuovamente nella barbarie, se non avessimo la passione per la giustizia e la libertà e se non ci impegnassimo, ciascuno secondo le proprie capacità, a far sì che il male non prevalga sul bene, come è accaduto nei confronti di milioni di figli del popolo ebraico. Occorre dunque raddoppiare gli sforzi per liberare l’uomo dagli spettri del razzismo, dell’esclusione, dell’emarginazione, dell’asservimento, della xenofobia; per estirpare anche le radici di questi mali, che si insinuano anche nella società odierna e minano le fondamenta della pacifica convivenza umana.
3. Il dovere della memoria deve così continuare a scuotere il nostro cuore e la nostra mente, a portare la ragione a riconoscere il male e a rifiutarlo, a suscitare in noi il coraggio del bene e della resistenza contro il male. Esso deve portarci "a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: sono qui non per odiare insieme, ma par insieme amare"1.
4. Il tempo che passa porta alla progressiva scomparsa dei testimoni diretti di quella tragedia, ciò deve condurre ad uno sforzo maggiore per conservare la memoria e trasmetterla alle nuove generazioni. Sono pertanto da incoraggiare tutte quelle iniziative, come "La giornata della memoria e della prevenzione dei crimini contro l’umanità", che contribuiscono a tenere viva la memoria di quei tragici eventi, a riflettere ed ad interrogarsi.
5. Un tale impegno si colloca in un contesto più ampio che la Santa Sede segue con interesse. Mi riferisco ai progetti del Consiglio d’Europa promossi nell’ambito della Convenzione Culturale Europea, rilevando in particolare come essi esprimano lo sforzo comune di contribuire attraverso l’educazione alla costruzione di un’Europa più solidale e democratica, rispettosa delle diversità e consapevole della sua identità. Al centro di ogni interesse educativo deve rimanere l’uomo e la sua dignità. L’insegnamento della memoria contribuirà così ad un obbiettivo che è tra i più alti, quello cioè di rendere sempre più umano l’uomo. Un uomo che possa essere di più e non solo avere di più, che impari non solo a vivere con gli altri, ma per gli altri, con una personalità equilibrata e matura.
Grazie
_________________________
1 Benedetto XVI, Discorso al campo di sterminio di Auschwitz, 26 maggio 2006, www.vatican.va
Kenya: rapite due suore italiane e condotte nel sud della Somalia
Nessuno ha ancora rivendicato il sequestro
ROMA, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Sono suor Caterina Giraudo e Maria Teresa Oliviero, rispettivamente di 67 e 61 anni, le due suore italiane rapite durante la notte a Elwak, nel nord est del Kenya a ridosso della frontiera con la Somalia.
Le due religiose – ha fatto sapere l'agenzia Misna – si trovavano in Kenya da molti anni, dove lavoravano con i profughi somali. Suor Giraudo, infermiera, lavorava soprattutto con i malati di epilessia.
In una intervista sempre all'agenzia Misna una consorella delle due suore italiane del Movimento Contemplativo Missionario Padre de Foucauld di Cuneo ha riferito che “nonostante le molte voci in circolazione non sappiamo ancora chi abbia rapito suor Caterina Giraudo e suor Maria Teresa Oliviero”.
“Nessuno si è fatto avanti, ha telefonato o rivendicato il sequestro. E non sapendo chi le ha prese diventa difficile dire il perché”, ha aggiunto.
“Purtroppo – ha proseguito – nonostante siano stati attivati canali di contatto attraverso gli anziani delle comunità locali, non abbiamo ancora ricevuto notizie. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che sarebbero state portate nel sud della Somalia”.
Parlando ai microfoni di Radio Vaticana, don Pino Isoardi, responsabile del Movimento Contemplativo Missionario Padre de Foucauld, ha detto che al momento si sa solo che i rapitori “non sono stati lì per cercare soldi o altro, ma sono andati proprio a prendere queste persone. Non sappiamo se ci siano motivazioni politiche o altri motivi”.
Ebrei e cattolici preoccupati per la rinascita dei nazionalismi - Il Cardinale Kasper guida la delegazione cattolica
BUDAPEST, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Da questa domenica a mercoledì è in svolgimento a Budapest (Ungheria) il 20° incontro dell'International Jewish-Catholic Liaison Committee (Ilc), che rifletterà sul ruolo della religione nella società attuale, informa "L'Osservatore Romano".
La delegazione cattolica che partecipa all'incontro è guidata dal Cardinale Walter Kasper, presidente della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, e ad essa partecipano il Cardinale Theodore McCarrick, il Vescovo William Murphy e il salesiano Norbert Hoffmann, segretario della Commissione. Dalla parte ebraica, partecipano i membri del Gran Rabbinato di Israele per i rapporti con la Chiesa cattolica.
L'incontro è stato inaugurato dal Cardinale Kasper. Uno degli argomenti affrontati sono le relazioni tra i cristiani e gli ebrei nei Paesi dell'est europeo. Secondo Hoffmann, in tali questioni acquista grande importanza la collaborazione della Chiesa ortodossa. "Ci sarà un osservatore del Patriarcato ecumenico a questo incontro", ha spiegato. Rilevanza verrà poi data al ruolo dei giovani nel dialogo interreligioso.
Si tratta, afferma, di riflettere su come l'ebraismo e il cattolicesimo possano incidere sul tessuto sociale in cui vivono.
I partecipanti esprimono la loro preoccupazione per l'attuale contesto di rinascita dei nazionalismi, spesso portatori di xenofobia e antisemitismo, soprattutto nell'Europa dell'Est.
A questo proposito, padre Hoffman ha dichiarato alla "Radio Vaticana" che "gli ebrei hanno in noi cristiani un alleato per combattere l'antisemitismo. Troviamo già nella Dichiarazione conciliare 'Nostra aetate' la condanna dell'antisemitismo: quindi, possono contare su di noi, i nostri fratelli maggiori ebrei, perché l'antisemitismo non è conciliabile con l'etica cristiana".
Di fatto, questa preoccupazione ha portato alla scelta della data e del luogo dell'incontro: il 9 novembre, 70° anniversario della Notte dei Cristalli, che diede inizio all'Olocausto, a Budapest, una delle città più colpite dalla furia antisemita, che spezzò la vita della metà della sua popolazione ebraica.
In questo senso, il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, primate d'Ungheria e presidente della Conferenza Episcopale del Paese, sta svolgendo un'importante opera di salvaguardia della memoria degli ebrei morti durante la Shoah e di quanti hanno lavorato per salvarli.
"Dobbiamo ricordare questo triste anniversario per non dimenticare mai, perché atti di violenza razzista o atti di discriminazione e violenza contro gruppi religiosi o etnici non si ripetano più nella storia del mondo", ha dichiarato all'emittente pontificia.
"Purtroppo – ha aggiunto –, nel mondo vediamo adesso simili atti anche contro i cristiani. Oltre a prendere atto di questi fenomeni di violenza, cerchiamo anche di protestare insieme con i responsabili della Santa Sede, per difendere i diritti umani dei cristiani in Iraq, in India, in altri Paesi del Medio Oriente".
L'International Jewish-Catholic Liaison Committee è stato istituito a Roma nel 1970 per promuovere l'avvicinamento tra le due religioni, in base alla Dichiarazione "Nostra Aetate". Da allora celebra incontri periodici in varie città del mondo.
I partecipanti all'incontro attuale sono stati ricevuti il 30 ottobre scorso da Papa Benedetto XVI, che ha riaffermato l'impegno della Chiesa "per la realizzazione dei principi esposti nella storica dichiarazione 'Nostra Aetate' del Concilio Vaticano II", che "ha condannato con fermezza tutte le forme di antisemitismo" ed è stata "una pietra miliare significativa nella lunga storia dei rapporti fra cattolici ed ebrei".
Con la religione si educa la persona - I Vescovi italiani invitano a scegliere l’insegnamento della religione cattolica
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 10 novembre 2008 (ZENIT.org).- Scegliere l’insegnamento della religione cattolica significa educare la persona, riconoscendo la sua dignità e libertà.
Questo il senso del messaggio della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2009-2010.
Insieme al saluto e agli auguri, a studenti, genitori e docenti, la Presidenza della CEI ribadisce che l’insegnamento della religione cattolica (IRC), “favorisce la riflessione sul senso profondo dell’esistenza, aiutando a ritrovare, al di là delle singole conoscenze, un senso unitario e un’intuizione globale”.
“Tale insegnamento – sottolinea il messaggio – pone al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità, lasciandosi illuminare dalla vicenda unica di Gesù di Nazaret, di cui si ha cura di investigare l’identità, che non cessa da duemila anni di interrogare gli uomini”.
La presidenza della CEI è convinta che in questo modo l’insegnamento della religione cattolica “risveglia il coraggio delle decisioni definitive, al di là dell’erosione dei valori e della figura stessa dell’uomo, ambiguamente divulgata da non poche correnti del pensiero contemporaneo”.
Il messaggio spiega che l’insegnamento della religione non intralcia il percorso didattico, né minimizza la fatica del conoscere, al contrario favorisce la crescita della persona e può essere “un utile spazio di integrazione”, aiutando gli stranieri presenti nel nostro Paese ad “accostare valori e tradizioni che sono largamente segnati dalla presenza di uno specifico patrimonio storico e artistico, permeato profondamente dallo spirito cristiano”.
Nonostante la secolarizzazione e la critica montante nei confronti della Chiesa cattolica, nel 2008 l’insegnamento dell’IRC è stato scelto dal 91,1% delle famiglie e degli alunni.
Tale dato sale al 91,8 % se si tiene conto anche di quanti frequentano scuole cattoliche.
“I numeri – conclude il messaggio della Presidenza della CEI – sono tali da incoraggiare quanti già scelgono l’IRC e da provocare positivamente quanti ancora vogliono aderire a questo singolare momento di educazione alle più autentiche dimensioni della vita umana”.
“Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me” (Paolo VI, 28 giugno 1978) - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
Un giudizio critico ed approfondito sul libro-intervista del Card. Martini. Abbiamo letto sul Foglio del 10 novembre queste parole del Card. Martini: “Siccome credo nella vita eterna, su quella temporale, fisica, di questa terra, posso transigere, sfumare, variare a seconda dei tempi e della storia e delle culture, e alla fine nascere e morire sono misteri sui quali ciascuno può e deve giudicare secondo la propria sensibilità. Contro un’etica non negoziabile della vita, dal concepimento alla morte naturale, c`è il relativismo cristiano della libertà che decide”. E ci siamo interrogati sul suo nuovo libro…
«Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando dieci anni fa, promanammo l’Enciclica ‘Humanae vitae’ (25 luglio 1968): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno» [Paolo VI, Omelia fidem servavi, 28 giugno 1978].
A quarant’anni di distanza abbiamo tante argomentazioni per ringraziare Dio e il magistero della Chiesa: Paolo VI, di fronte alla sfida e al rischio di esporre all’arbitrio degli uomini l’ethos della sessualità disgiungendo l’aspetto unitivo da quello procreativo e la missione santificante di generare, come dono, la vita ha riconosciuto i limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; Giovanni Paolo II, in sintonia con il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980 e illuminando il fondamento antropologico e morale mediante la legge della gradualità e non la gradualità della legge, ha offerto linee pedagogico-pastorali veramente adeguate; Benedetto XVI, con il profondo magistero sull’agape e sul suo rapporto con l’eros, ha sollecitato ad evitare il pericolo mortale dell’uomo suscettibile di essere trattato come ogni altro animale soprattutto a livello di sessualità, allargando gli spazi della ragione, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, sia per comprendere il messaggio della Chiesa sull’ethos della sessualità, sia per il coraggio di dire che la tecnica non può sostituire la maturazione della libertà quando è in gioco l’amore. Anzi neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere poiché l’amore sponsale cristiano si conosce solo con il cuore. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano.
Certo all’uscita dell’Humanae vitae le difficoltà immediate che gli sposi hanno incontrato nel loro cammino morale sono state grandi. In particolare ci sono da tenere presenti “i casi difficili” della vita familiare, in cui rispettare la legge sembra disumano e al di là delle reali possibilità dei coniugi, e l’attuale promiscuità del contatto fisico per i giovani.
Per chi, nel 1968, aveva già presa una decisione non conforme alla dottrina della Chiesa era difficile tornare indietro. Si sono presentati casi in cui sembrava che la fedeltà alla morale comportasse il sacrificio di altri valori morali importanti, casi in cui marito e moglie non erano d’accordo sulla valutazione etica: che cosa fare? Si è teorizzato il riconoscimento della “verità fondamentale”, ma non basta. Occorreva trovare strade di soluzione e di crescita, adeguate al cammino dei coniugi e strade possibili a tutti, ai giovani in particolare.
Di fatto, il Magistero ecclesiastico, anche di fronte alla svolta epocale relativista dell’ethos sessuale con le potenzialità della tecno-scienza – per cui il mondo e con esso molti cattolici hanno trovato difficoltà non solo a praticarlo ma addirittura a comprenderlo – è stato capace di conservare, sul fondamento biblico, una continuità solida e tuttavia protesa ad una conoscenza sempre più profonda, documentando anche culturalmente la preminente e decisiva azione guida dello Spirito Santo. Per cui non è condivisibile il giudizio del cardinale Carlo Maria Martini in Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza”. Ma non cogliere questa preminente e decisiva azione di guida dello Spirito Santo è grave per tutti, tanto più per un cardinale! Profeticamente Paolo VI il 4 maggio del 1970, proprio nel culmine della bufera, invitato a cena da una coppia in difficoltà, ha anticipato tutto il cammino successivo della Chiesa: “Il cammino degli sposi, come ogni vita umana, conosce molte tappe, e le fasi difficili e dolorose – voi lo esperimentate nel corso degli anni – vi hanno il loro posto. Ma bisogna dirlo ad alta voce: mai l’angoscia e la paura dovrebbero trovarsi in anime di buona volontà, perché, infine, il vangelo non è forse una buona novella anche per i coniugi, ed un messaggio che, se pur esigente, non è meno profondamente liberatore? Prendere coscienza del fatto che non si è ancora conquistata la propria libertà interiore, che si è ancora sottoposti all’impulso delle proprie tendenze, scoprirsi quasi incapaci di rispettare, sul momento, la legge morale in un campo così fondamentale, suscita naturalmente una reazione di sconforto. Ma è il momento decisivo in cui il cristiano, nel suo sgomento, invece di abbandonarsi alla rivolta sterile e distruttiva, accede nell’umiltà alla scoperta sconvolgente dell’uomo davanti a Dio, di un peccatore davanti all’amore di Cristo salvatore. A partire da questa presa di coscienza radicale ha inizio tutto il progresso, la tensione della vita morale, poiché la coppia si trova in tal modo “evangelizzata” nel profondo, gli sposi scoprono “con timore e tremore” (Fil 2,12), ma con una gioia piena di meraviglia, che nel loro matrimonio, come nell’unione di Cristo e della Chiesa, si realizza il mistero pasquale di morte e di risurrezione”. C’è già l’intuizione della legge della gradualità argomentata nel Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980: saper capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandoli ad accogliere come tensione, come un tentare e ritentare con fiducia e speranza senza scoraggiarsi mai anche quando immediatamente non si riesce, quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza è un miracolo della presenza e del rapporto con Dio, non opera dell’uomo e quindi va invocata senza sosta nella preghiera. Segno della moralità cristiana allora non è la riuscita, ma l’atteggiamento del cuore che cerca di essere fedele a come è stato fatto all’origine: si chiama povertà di spirito. La moralità in tutti i campi, soprattutto nell’ethos della sessualità, è una tensione, come quella di un bambino che impara a camminare e cade dieci volte nei dieci metri che deve percorrere, ma tende a sua madre, si rialza e tende: è la legge della gradualità.
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“Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me”
Obama: il presidente abortista che farà male ai neri d’America - Autore: Tardiff, Mark Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=13703&geo=5&size=A - martedì 11 novembre 2008
La gioia per il primo capo di stato nero non deve far dimenticare che Obama è fautore di leggi sull’aborto molto permissive e contrario ai diritti del non-nato. L’aborto sta riducendo le comunità nere americane. Il programma della Planned Parenthood, per il controllo della popolazione, è sempre stato quello di usare leader neri per aiutare i neri all’auto-distruzione. Mark Tardiff, americano, appartiene al Pontificio Istituto Missioni Estere ed è stato missionario in Giappone.
Caro direttore,
come confratello di p. Gheddo, e originario degli Stati Uniti, vorrei rispondere al suo recente articolo (Cfr. P. Gheddo: Sono contento della vittoria di Barack Obama).
Posso capire la gioia di p. Gheddo per l’elezione di un afro-americano a presidente, data la vergognosa storia di razzismo che ha contraddistinto gli Stati Uniti in passato. Ho ancora un nitido ricordo del dolore che provavo, da patriota americano, durante gli anni di liceo, nel conoscere le storie di schiavitù e razzismo. Il fondo è stato toccato con il caso Dred Scott vs Sanford, 60 U.S. 393 (1856)[1]. È già un male che la schiavitù sia tollerata. In quel caso, tuttavia, la Corte Suprema degli Stati Uniti, la massima autorità giuridica del Paese, ha sancito che la schiavitù era giustificata dalla Costituzione, ed era per questo una parte fondamentale dell’ordinamento della nazione. La Corte ha citato le parole della Dichiarazione di Indipendenza degli Usa [il documento che segna la nascita della nazione, ratificato a Filadelfia il 4 luglio del 1776] che recita: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”; poi ha stabilito che queste parole non si potevano applicare ai neri, i quali erano considerati come una mera proprietà.
Tragicamente, allo stesso modo, la posizione di Barack Obama sull’aborto contraddice la portata storica della sua elezione. Nei casi Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973),e in quello vicino Doe v. Bolton, 410 U.S. 179 (1973)[2], la Corte suprema ha dichiarato che fare l’aborto lungo tutti i nove mesi di gravidanza, fino al momento della nascita, era legale. La Corte ha stabilito che ogni restrizione doveva tener conto di eccezioni a causa della salute e poiché le eccezioni dovevano includere aspetti psicologici e emotivi, le tensioni di una donna in gravidanza nell’aver da partorire un figlio sono una ragione sufficienti per un aborto a qualunque stadio. La Corte ha dichiarato che “la legge non ha mai riconosciuto i non nati come persone in senso pieno”, escludendoli così dalla comunità di persone che gode del diritto inalienabile alla vita, proprio allo stesso modo in cui il tribunale Dred Scott ha escluso i neri dall’inalienabile diritto alla libertà.
Il neo-eletto presidente Obama è da tempo impegnato con forza non solo a preservare, ma anche estendere l’attuale regime in tema di aborto che domina negli Stati Uniti. Quando era senatore dell’Illinois, egli si è opposto a misure che avrebbero reso obbligatorie cure mediche per bambini sopravvissuti all’aborto e riusciti a nascere vivi. Il suo ragionamento era che una legge simile avrebbe potuto mettere in questione la mancanza di diritti dei non nati. La sua netta posizione nel considerare il non nato come una “non persona legale” è tragicamente ironica, per il fatto che egli appartiene ad una razza che in passato è stata trattata allo stesso modo dei non nati.
A rendere piena la tragedia – come pure una triste ironia – è che gli Afro-americani sono fra i più colpiti dall’aborto. I neri sono il 12% della popolazione americana, ma il 35% di tutti gli aborti sono eseguiti su donne nere. Gli Afro-americani sono l’unica minoranza che negli Usa sta diminuendo di numero. Planned Parenthood, la più grande organizzazione abortista degli Usa ha il 78% delle loro cliniche nei quartieri delle minoranze. Ciò corrisponde al pensiero di una delle sue fondatrici, Margaret Sanger, una entusiasta eugenista, che ha scritto: “le persone di colore sono come dell’erbaccia umana, che va sterminata”.
È comprensibile che gli Afro-americani abbiano votato in massa per Obama, sfruttando l’occasione di affermare il loro ruolo nella società americana. Ma tragicamente, troppo pochi fra loro hanno capito questo: il candidato che essi pensano darà loro valore politico, è anche un forte sostenitore del Planned Parenthood e delle sue politiche abortiste che, se continuano come adesso, ridurrà all’insignificanza il voto nero entro il 2038. Anche questo è all’interno della strategia di Margaret Sanger. Lei ha capito che se i bianchi tentavano di “eliminare l’erbaccia umana”, la cosa avrebbe destato sospetto. Per questo ha dedicato molto tempo a reclutare leader neri, che possono convincere la propria gente a cooperare nell’auto- distruzione.
È più che tragico il fatto che il primo Afro-americano, eletto presidente degli Stati Uniti d’America, è un uomo che avrebbe ricevuto l’applauso di Margaret Sanger, piuttosto che l’applauso di Martin Luther King.
Sinceramente,
P. Mark Tardiff
[1] Il riferimento è alla causa fra lo schiavo Dred Scott e i suoi padroni, i Sanford, nello stato del Missouri. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha sancito che i discendenti degli africani importati in America e i loro eredi – siano essi sottoposti a regime di schiavitù o meno – non potranno mai essere considerati cittadini americani. Al contempo la Corte ha sancito che il Congresso non ha il potere di abolire la schiavitù nei singoli Stati della Federazione.
La Notte dei cristalli punto di non ritorno verso la Shoah - Fu l'inizio della fine - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 11 novembre 2008
La notte che segnò per gli ebrei tedeschi la fine dell'illusione di una possibile convivenza con il nazismo, nonostante tutte le umiliazioni già subite e le limitazioni imposte, fu quella tra il 9 e il 10 novembre 1938. Fu allora che si scatenò una furiosa ondata di violenza che, tra devastazioni, aggressioni e intimidazioni anche mortali, sarebbe tristemente passata alla storia come Kristallnacht, la "Notte dei cristalli": l'inizio della fine. Nel giro di poche ore in tutta la Germania vennero incendiate e distrutte oltre un migliaio di sinagoghe. Laddove si correva il rischio di dar fuoco a edifici anche non ebraici vicini, gli aggressori fecero a pezzi i locali con asce e martelli. In centinaia di quartieri ebraici le squadracce della Sturmabteilung, le famigerate SA, in uniforme o in abiti civili, saccheggiarono anche decine di migliaia di negozi, uffici e abitazioni. Alla fine delle violenze si contarono 91 morti. Sotto la supervisione di Reinhard Heydrich, vicecomandante della Gestapo e delle SS, più di trentamila uomini tra i sedici e i sessant'anni - un quarto dei maschi ebrei residenti - furono arrestati e avviati ai campi di concentramento di Dachau, Sachsenhausen e Buchenwald. Oltre un migliaio vi morirono nei mesi seguenti per le violenze subite. Quanto accadde non fu un'azione improvvisa e spontanea, ma un attacco coordinato e globale. Ebbe luogo sull'intero territorio nazionale, fu condotto da uomini che ostentavano l'uniforme della milizia del partito nazista, programmato con cura e realizzato con metodica precisione. Che per realizzarsi trovò un casuale ma allettante pretesto. Il 18 ottobre del 1938, poche settimane dopo l'accordo quadripartito di Monaco, su ordine di Hitler vennero espulsi più di dodicimila ebrei polacchi. Quattromila furono accolti dalla Polonia, ma gli altri furono trattenuti a lungo alla frontiera in condizioni pietose. Da uno di quei posti di confine un'anziana coppia inviò una cartolina al figlio che si trovava a Parigi per chiedere un po' di denaro. Ricevuto il messaggio, Herschel Grynszpan, indignato e furioso, si recò armato all'ambasciata tedesca chiedendo di essere ricevuto dall'ambasciatore. Quando, giunto nell'ufficio di un giovane diplomatico, Ernst vom Rath, questi gli chiese la ragione della visita, Grynszpan estrasse la pistola e sparò cinque colpi. L'uomo rimase gravemente ferito. Era il 7 novembre. La notizia giunse in Germania e scatenò le prime reazioni restrittive del Governo e immediate, anche se limitate, ondate di violenza antiebraica, con le quali - su indicazione del Führer - la polizia non doveva interferire. Ma quando la sera del 9 si apprese della morte di vom Rath, i leader nazisti colsero al volo l'occasione per togliere ogni freno e scatenare, su ordine del ministro della propaganda, Joseph Goebbels, la gigantesca rappresaglia, facendo intervenire le camicie brune. Di tutto ciò dà conto con dovizia di particolari lo storico britannico Martin Gilbert in un volume pubblicato nel 2006 e ora tradotto in Italia (9 novembre 1938. La Notte dei cristalli, Milano, Corbaccio, 2008, pagine 310, euro 19,60), ricostruendo non soltanto quanto accadde in quei terribili giorni di settant'anni fa, ma anche come vi si arrivò e cosa accadde immediatamente dopo. Lo studioso si sofferma sulla politica ebraica del Terzo Reich nei cinque anni precedenti attraverso le parole dei superstiti e dei loro congiunti, nonché dei tedeschi e degli stranieri, diplomatici in particolare, che cercarono di aiutare le vittime del pogrom. Per Gilbert, la Notte dei cristalli fu una sorta di crinale a metà strada fra gli anni della preparazione, durante i quali la persecuzione fu soprattutto amministrativa grazie a leggi discriminatorie, e quelli dell'esecuzione, nel corso dei quali il disegno della "soluzione finale" venne gradualmente realizzato. Ma fu anche "un'indicazione di ciò che accade quando una società soccombe ai suoi istinti più bassi".
Ricostruendo la storia, Gilbert sottolinea come i fatti della notte tra il 9 e 10 novembre 1938 avvennero sotto gli occhi del mondo. In Germania, dove solo poche settimane prima era stato siglato il trattato di Monaco - che secondo il primo ministro britannico Neville Chamberlain avrebbe dovuto inaugurare "la pace per la nostra epoca" - c'erano i corrispondenti dei principali giornali e agenzie di stampa internazionali.
Le violenze ebbero quindi vasta eco e suscitarono indignazione e proteste in tutti i Paesi democratici, ponendo fine - scrive Gilbert - "a qualsiasi tipo di attrattiva per il nazismo fra la gente comune e i rispettivi governi". Mentre il fumo delle sinagoghe incendiate anneriva ancora il cielo delle città e Goebbels attribuiva pubblicamente gli eventi ai "sani istinti" della popolazione tedesca, il "Times" in un articolo dell'11 novembre intitolato A black day for Germany scriveva: "Nessun propagandista estero determinato a screditare la Germania davanti al resto del mondo potrà mai superare il racconto di incendi e percosse, di assalti condotti con perfidia su gente indifesa e innocente, che ieri ha funestato quel Paese". Di fatto l'eco negativa degli eventi sulla stampa mondiale fu molto più forte e vasta di quanto il ministero della propaganda si attendesse. Tanto che Hitler si raccomandò che in futuro si agisse con maggiore discrezione. Anche la Santa Sede, l'11 novembre, si unì alle proteste dei leader britannico e francese. Quella stessa notte - scrive lo storico - "i nazisti organizzarono manifestazioni di massa sia contro gli ebrei sia contro i cattolici. Il Gauleiter nazista della Baviera, Adolf Wagner, mise in guardia un pubblico di cinquemila persone: "Ogni discorso del Papa a Roma è un incitamento agli ebrei di tutto il mondo a mobilitarsi contro la Germania". L'arcivescovo cattolico di Monaco, il cardinale Michael von Faulhaber, aveva fornito un camion al rabbino della comunità per salvare gli oggetti sacri della sinagoga Ohel Yaakov prima che venisse abbattuta durante la Notte dei cristalli. A seguito delle invettive del Gauleiter, una folla attaccò il palazzo vescovile, rompendo tutte le finestre del primo e del secondo piano". Successivamente, il 21 novembre - annota ancora lo storico - rivolgendosi ai fedeli "Pio xi sfidò l'affermazione nazista di superiorità razziale ariana, insistendo sull'esistenza di un'unica razza umana. (...) Sulla scia della decisa presa di posizione di Pio xi, c'erano state aperte condanne della Notte dei cristalli da parte di parecchi eminenti uomini di Chiesa cattolici, fra cui il cardinale Schuster di Milano, il cardinale belga Van Roey e il cardinale Verdier di Parigi". Ma anche tra i sacerdoti non mancarono prese di posizione forti e coraggiose. Nella stessa Berlino il prevosto della cattedrale di Sankt Hedwig, Bernhard Lichtenberg, terminava la celebrazione serale, ogni giorno, con una preghiera "per gli ebrei e i poveri prigionieri dei campi di concentramento".
Dopo la Notte dei cristalli molti Paesi aprirono le loro frontiere agli ebrei che volevano lasciare la Germania e l'Austria, iniziativa che i nazisti, all'inizio, non ostacolarono, anzi Heydrich fece del suo meglio per accelerare le partenze: l'obiettivo era incoraggiare l'esodo di massa dell'ebraismo tedesco. Così nei dieci mesi che intercorsero tra la Kristallnacht e lo scoppio della guerra poterono lasciare la Germania 120.000 ebrei (poco meno di quanti lo avevano fatto nei cinque anni precedenti) e altri 140.000 l'Austria.
Quanto accadde il 9 e 10 novembre di settant'anni fa - conclude Gilbert - lasciò un segno profondo: "Insegnò a coloro che costituirono la fonte del pregiudizio che un intero popolo può essere demonizzato; che un'intera nazione può essere rivolta in maniera totale e immorale contro una sua parte rispettabile, tenacemente lavoratrice, creativa, fedele e integra. (...) Insegnò, a posteriori, una lezione storica: ciò che comincia come qualcosa di circoscritto in termini di distruzione e di tempo, si può rapidamente trasformare in una strage mostruosa; che il male mostra delle sfumature, ma è anche un processo graduale, e può evolversi facilmente in un male più grande". Ma insegnò inoltre che anche in quei tempi bui c'era spazio per il bene. Un bene fatto da poche persone, ma generose, coraggiose e dall'animo grande. "Grazie a loro, nel mezzo del crollo di qualsiasi morale, la morale sopravvisse. Fra le rovine della civiltà, la civiltà rinacque. Ma le perdite rimangono insostituibili".
(©L'Osservatore Romano - 10-11 novembre 2008)
Ricordo di Giuseppe Fanin, sindacalista cristiano, martire - Autore: Pelizzari, Daniele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 10 novembre 2008 - Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna. - «Noi chiamammo poco tempo fa l'Emilia "Messico d'Italia", ma ciò è ingiusto perché piuttosto si deve dire che il Messico è l'Emilia d'America. Cose terribili succedono a Castelfranco Emilia e gente ci manda lettere piene di terrore elencando assassinii. Quarantadue persone sono già state soppresse misteriosamente per cause di politica o di vendetta, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, in piena pianura. E la gente sa, ma non parla perché ha paura». - Era la Primavera del 1946 e così scriveva Guareschi ma non in un suo romanzo, stava riportando quello che avveniva sotto gli occhi di tutti in quelle zone, dove un anno dopo il 25 aprile il sangue scorreva ancora, anzi più copiosamente di prima.
Non si trattò soltanto di omicidi causati da vendette personali ma da una vera e propria strategia attuata da minoranze del Partito Comunista, che intesero la Resistenza come fase iniziale di un piano che avrebbe portato alla rivoluzione, necessaria per instaurare in Italia un regime di tipo socialista.
Tutte queste vittime, ora sappiamo che furono migliaia, non erano soltanto imprenditori, agrari e benestanti ma soprattutto padri e madri di famiglie contadine, giovani, sacerdoti: persone pacifiche che per i rivoluzionari sarebbero diventati dei potenziali oppositori alla conquista del potere.
Ricorre in questi giorni il 60° anniversario dell’uccisione di un giovane sindacalista: Giuseppe Fanin di San Giovanni in Persiceto in provincia di Bologna, cittadina confinante con la provincia di Modena e quella di Ferrara.
Era un giovane di 24 anni, terzo di dieci figli, da poco laureatosi in agraria, che la sera del 4 novembre 1948 dopo aver accompagnato a casa la fidanzata, a sua volta rincasava in bicicletta: venne aggredito a colpi di spranga e morì senza riprendere conoscenza all’ospedale.
Contrariamente a quanto succedeva per tutti gli omicidi simili il colpevole poco dopo si costituì: era il segretario di una locale sezione del Pci, lui era il mandante dell’omicidio ed indicò i nomi degli esecutori.
Ma perché fu ucciso uno come Fanin ?
Era un ragazzo generosissimo, stimato da tutti, legato al popolo contadino dal quale proveniva e che desiderava difendere con la sua attività di sindacalista, era anche molto religioso:
era impegnato nelle Acli e il sindacato lo viveva totalmente come apostolato e servizio per il prossimo.
“Servi sciocchi degli agrari “: così erano bollati da certi sindacalisti comunisti i sindacalisti cristiani e additati come nemici del popolo in quanto servi dei possidenti agrari e dei fascisti: per questo Fanin era già stato minacciato e picchiato, ma quando intimidazioni e botte come nel suo caso non bastavano non restava che uccidere.
Il giovane martire non è mai stato dimenticato e soprattutto quest’anno a San Giovanni in Persiceto, la Chiesa di Bologna in collaborazione con Azione cattolica, Acli, Cisl, Coldiretti, Confcooperative e Movimento cristiano lavoratori ha organizzato una nutrita serie di incontri per ricordarne la figura.
L’arcivescovo di Bologna, card.Caffarra, ha ricordato che: ”...se a noi sono stati risparmiati anni di disumana devastazione della dignità dell’uomo, come non avvenne in altri paesi dell’Europa dell’Est, ciò fu dovuto, secondo una visione di fede, anche al sacrificio di queste vittime innocenti. Non siamone eredi immemori.”
Da qualche anno è stato avviato il processo di canonizzazione per Giuseppe Fanin: per questo il fratello Carlo su “Avvenire” ci tiene a precisare: “In precedenza, il ricordo di quel fatto aveva un significato prevalentemente politico; ora ne ha uno prevalentemente ecclesiale, di fede: Giuseppe non può più essere definito un personaggio di parte, ma è un esempio per tutti”.
Il suo sacrificio non dimenticato ha un valore importante per ognuno di noi cristiani, come ha richiamato l’arcivescovo Caffarra : “…non lasciarsi vincere dall’insidia di separare l’esperienza della fede dall’esperienza umana; di separare ciò che si celebra alla domenica da ciò che si vive il lunedì.”
Sul sito “www.il mascellaro.it” si trova una interessante documentazione sul servo di Dio Giuseppe Fanin e sugli avvenimenti accaduti in Emilia Romagna dopo la Liberazione.
10/11/2008 15.28.51 – Radio vaticana - Conferenza internazionale in Vaticano sulla pastorale nella cura dei bambini malati: intervista con il cardinale Lozano Barragán
Domani mattina sarà presentata, nella Sala Stampa della Santa Sede, la XXIII Conferenza Internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, sul tema: “La pastorale nella cura dei bambini malati”, che si svolgerà in Vaticano dal 13 al 15 novembre prossimi. Obiettivo della Conferenza è quello di disegnare un futuro di speranza per tanti piccoli, vittime della malattia nei primi anni di vita. In particolare si affronterà la questione della mortalità infantile: ancora oggi, ogni anno 4 milioni di neonati muoiono a meno di 26 giorni di vita. Ma era già stato affrontato altre volte questo tema? Ascoltiamo il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, al microfono di Romilda Ferrauto:http://62.77.60.84/audio/ra/00137541.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137541.RM
R. – In una maniera così precisa, non era mai stato affrontato; era stato affrontato genericamente, fra altri temi, per esempio quello dell’AIDS, quello della depressione, per esempio anche quello del nesso tra malattia ed economia … Tutto questo è stato affrontato nelle Conferenze internazionali precedenti. Siccome ogni anno se ne svolge una, certamente ci sono sempre state attinenze a questo tema. Però, in maniera concreta, soltanto in questa occasione abbiamo trattato questo argomento, perché questo argomento è stato scelto dal Santo Padre: lui personalmente, ci ha chiesto di trattare specificamente il tema della pastorale nella cura dei bambini malati. Abbiamo infatti alcuni milioni di bambini malati: due milioni e mezzo sono i bambini malati di AIDS trasmesso dai genitori, e poi ci sono tante altre malattie. Non parliamo di come curare i malati: questo spetta ai medici; bensì di come fare la cura pastorale, come evangelizzare il bambino malato. Questo è un problema urgente.
D. – Parteciperanno specialisti del mondo intero, grandi specialisti. Quali sono stati i criteri per lascelta dei partecipanti e dei temi dei loro interventi? C’è qualche priorità per il dicastero?
R. – E’ la realtà, il pensiero e l’azione: sono tre spazi che dobbiamo coprire intensamente. Qual è la realtà dei bambini malati e la pastorale che si svolge con loro? Che cosa ci dice la Parola di Dio su questo argomento? E che cosa dobbiamo fare? Nel senso che non è direttamente il Dicastero ad agire: infatti, noi siamo una specie di “braccio lungo” del Santo Padre per quanto riguarda l’orientamento, il coordinamento e la promozione della evangelizzazione. E’ quindi necessario che ci siano specialisti nella realtà, nel pensiero e nell’azione. Noi mettiamo a disposizione quanto di meglio si trovi, nel momento attuale, su questi argomenti.
D. – C’è qualche aspetto particolare di questo tema sul quale desiderate esprimervi specialmente? C’è qualcosa che vi tocca in particolare, che vorreste far passare come messaggio?
R. – Quello che mi sta a cuore è l’evangelizzazione, cioè non soltanto l’assistenza: vogliamo capire come fare concretamente una sorta di cura della felicità e della salute che poi sboccia nella salvezza eterna. Cioè, come lasciare che i bambini si avvicinino al Signore Gesù e non impedirglielo. Glielo si può impedire, per esempio, attraverso la psicologia: la psicologia ci aiuta tanto a comprendere l’età evolutiva, a comprendere il bambino, sì. Però, a volte, nei presupposti della psicologia, ci si allontana da Cristo. E allora: “Lasciate che i bambini vengano a me!”. Questo è quello che maggiormente mi interessa.
D. – Si sa che la Chiesa – le strutture della Chiesa – sono in prima linea nell’assistenza ai malati, che siano bambini o adulti. Ma a volte si ha la sensazione che non tutta l’opinione pubblica sia cosciente di quanto l’azione della Chiesa sia capillare, anche in alcune malattie come l’AIDS. Lei pensa che forse sarebbe necessario che fosse meglio conosciuta l’azione della Chiesa?
R. – Sì, è necessario che sia meglio conosciuta; però, io ho l’esperienza di alcuni Paesi, dove si avversa la Chiesa, nel senso che non si vuole riconoscere e nemmeno si vuole che l’opinione pubblica conosca quello che sta facendo la Chiesa. Faccio un esempio: l’AIDS. Noi abbiamo nel mondo il 27 per cento di tutti i centri per la cura dei malati, contro il 44 per cento dei centri tenuti dai governi e poi, ad una distanza considerevole, ci sono altre organizzazioni, come le ONG con l’11 per cento, e altre denominazioni religiose con l’8 per cento. I cattolici, quindi, gestiscono il 27 per cento di questi centri per la cura dell'AIDS, ma questo lo si vuole sempre nascondere. Io faccio del mio meglio perché ciò sia reso noto: abbiamo anche pubblicato degli opuscoli con questi dati … Ma queste entità non lo vogliono conoscere. Dicono soltanto, per quanto riguarda l’AIDS, che la Chiesa è co-responsabile dell’AIDS perché si oppone all’uso del profilattico. Il motivo è sempre lo stesso: ci sono entità a cui per varie ragioni, forse anche per interesse, non conviene che si sappia quanto la Chiesa stia facendo contro l'AIDS. La Chiesa è il partner principale di tutti i governi del mondo: bisogna pensare che, soltanto per quanto riguarda l'AIDS, la Chiesa nel mondo ha circa 114 mila centri di assistenza sanitaria.
Libertà di scelta educativa per le famiglie: un impegno da cui il governo non può retrocedere - Redazione - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Ieri mattina in Aula il sottosegretario Vegas, parlando a nome del Governo, ha rassicurato circa i fondi destinati alle scuole paritarie, per i quali i provvedimenti in discussione prevedono un taglio delle risorse di oltre il 20%.
Nei giorni scorsi numerosi abbiamo segnalato la cosa al Governo manifestando la nostra preoccupazione a riguardo. Anzitutto per il fatto che l’attenzione per l’educazione è il primo e fondamentale atto di un Governo che vuole favorire lo sviluppo e la crescita di un paese. L’educazione, come hanno inequivocabilmente espresso la stragrande maggioranza degli intervistati del rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà (“Sussidiarietà ed Educazione”) è la prima emergenza.
Non vi è quindi alcuna ragione per colpire questo settore, anche e soprattutto in situazioni di emergenza o di crisi. Il primo fattore dello sviluppo è infatti il fattore educativo.
In secondo luogo, non meno importante per chi si trova a prendere decisioni sulla “cosa pubblica”, un taglio di fondi alle scuole paritarie rappresenta solamente un risparmio apparente per le casse dello Stato. Infatti, come è noto, ogni studente che frequenta la scuola statale “costa” di più, considerevolmente di più, rispetto ad uno studente di una scuola paritaria. Dati alla mano, per un bambino iscritto alla scuola dell’infanzia, lo Stato, se questo è iscritto ad una scuola non statale, contribuisce con 584 euro l’anno. Se il bambino frequenta una scuola statale il costo arriva a 6.116 euro l’anno.
Ciò significa che è ragionevole prevedere che una minore o più onerosa offerta formativa nella scuola non statale comporti una migrazione di studenti verso la scuola statale. Questa migrazione, seppur limitata, avrebbe un impatto consistente sul bilancio dello Stato.
Ulteriore elemento: una decurtazione dei finanziamenti alla scuola paritaria avrebbe una ricaduta immediata sulle tasche delle famiglie che, per mantenere il percorso educativo che liberamente hanno scelto per il proprio figlio, si vedrebbero costrette ad un maggiore esborso annuale o addirittura la impossibilità di iscrivere i propri figli alla scuola paritaria.
La linea politica che il Governo ha deciso di adottare, sin dalla presentazione del Programma Elettorale, è quella di una reale libertà di scelta per le famiglie, di un reale sostegno alla famiglia ed alla libertà educativa. Libertà di fare scuole e di scegliere per i propri figli la proposta educativa più convincente.
Ora, come ha in più occasioni manifestato il Presidente del Consiglio, il Governo è estremamente consapevole dell’importanza delle scuole paritarie e della effettiva libertà di scelta delle famiglie.
Riteniamo quindi che l’impegno assunto in aula rappresenti una risposta concreta, ancorché un primo passo, verso una reale e piena autonomia scolastica, libertà di scelta e sostegno alle famiglie.
Maurizio Lupi
Gabriele Toccafondi
Renato Farina
Raffaello Vignali
EDUCAZIONE/ Socci: la scuola, ultima ridotta dell'ideologia. Ma gli studenti chiedono veri maestri - INT. Antonio Socci - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Universitari in tumulto, professori che fanno lezioni in piazza, ministri che ritirano improvvisamente decisioni che sembravano irrevocabili. Una confusione che non solo riguarda la politica italiana e le politiche scolastiche, ma che riflette anche uno stato culturale in declino. Antonio Socci spiega cosa sta succedendo all'educazione italiana, e non solo, nell'ottica di un vasto processo storico e sociale.
Alcuni anni fa Don Luigi Giussani, commentando la terribile strage di Nassirya di cui a breve ricorrerà l'anniversario, sorprese chi lo intervistava riportando il punto sull'educazione con la frase: «se ci fosse un'educazione del popolo tutti starebbero meglio». Sembra un'intuizione mirabilmente profetica soprattutto ripensando agli ultimi avvenimenti legati anche, purtroppo, a forme di violenza. Come, a suo avviso, questo messaggio ha speranza di essere recepito?
Personalmente mi piacerebbe che venisse recepito subito e universalmente, ma sarebbe troppo bello per essere vero.
Come insegna la storia cristiana del primo millennio, nelle tenebre, nell'inciviltà e nella barbarie che dilagava sul continente rinacque tutto da piccoli gruppi di persone che iniziarono su di sé una sorta di disciplina educativa.
A quel tempo rifarsi a una disciplina significava pressoché sottomettersi solamente all'obbedienza nei confronti della Chiesa cristiana. E fu una pratica che segnò l'Occidente e la sua cultura nei secoli a venire.
A partire da questo punto fermo, che concepiva il conoscere sempre mediante l'esperienza religiosa, è emerso, come sovrappiù, il frutto di scienza e conoscenza che ha generato un'intera civiltà, la nostra. I monaci, i primi cristiani nel medioevo, hanno letteralmente reinsegnato tutto lo scibile di allora a un continente che ormai si trovava nelle tenebre: dall'agricoltura alla tecnologia, tutto passava attraverso un ordine culturale che procedeva dalla Chiesa. La frase fu pronunciata da Don Giussani, sì in occasione di Nassirya, ma soprattutto in un quadro più ampio, quello attuale, con la consapevolezza che il compito cui chiamava tutti ci impiegherà due o trecento anni per tradursi in una cultura diffusa fra la gente.
Perché, sebbene in alcuni punti la voglia di riforme risulti condivisibile, ci si trova sempre di fronte ad atteggiamenti di inciviltà e di totale assenza di democrazia da parte di coloro che protestano?
Non c'è un'unica risposta ai loro atteggiamenti e sarebbe un'opera lunga elencare dove essi sbaglino. Ma hanno anche delle validissime ragioni nella protesta, salvo il fatto che poi, immediatamente, le loro ragioni sono strumentalizzate politicamente e ideologicamente.
Questo si vede anche dal fatto che alcune iniziative prese dal governo in merito a scuola e università sono passate in cavalleria, non sono state realizzate. Sicuramente dietro le loro mosse c'è dunque un'organizzazione politica. Ma non mancano giuste esigenze di riforma. I giovani si sono accorti della totale inefficienza della classe docente nel rispondere alla loro domanda di conoscenza. Io sono propenso a ritenere che al fondo di tutto ci sia un'inconsapevole sete e fame di padri e di maestri.
È un problema che riguarda soltanto la scuola?
No. Questo è il vero problema della cultura attuale. Purtroppo gli studenti sono privati dei veri maestri non solo nelle scuole, ma da ogni parte, nell'arte, nei teatri, nei musei, nei film, in famiglia. Dappertutto questa paternità e questo saper introdurre i ragazzi alla conoscenza ragionevole della realtà rappresenta un'impresa in cui gli adulti stessi dovrebbero essere aiutati.
Non trova, a questo proposito, riprovevole il fatto che molti rappresentanti della classe docente sfruttino l'ondata dei tumulti per garantire la propria posizione a scuola o in università? Si tratta di “cattivi maestri”?
Sono casi diversi sul piano pratico se si parla di università o di scuola. Nella prima la collaborazione fra decenti e studenti è molto più forte, mentre nella seconda i protagonisti sono per lo più maestri. Molto più simile è la situazione sul piano umano, dove paghiamo lo scotto degli ultimi trenta/quarant'anni di ideologia. Nell'ambito educativo questo prezzo è ancora il più alto. Paradossalmente la scuola è l'ultima ridotta dell'ideologia. Ma attenzione, dicendo questo non voglio indicare per forza, o soltanto, l'ideologia marxista, che pure era la più in voga negli anni in cui si originò questa classe di cattivi maestri. Dal punto di vista della mia esperienza di cristiano mi sono accorto che, come recentemente Ernesto Galli della Loggia ha scritto in un suo bell'editoriale sul Corriere della Sera, è incredibile come tanti “ismi”, per origine anche avversi e contrari fra di loro, si siano trovati d'accordo nel combattere la Chiesa e i cristiani. Questo in un continente che, ripeto, è nato culturalmente su maestri cristiani.
Ciò è connesso all'attuale situazione?
Certamente. Perché significa che c'è quindi stato un odio nei confronti della precedente generazione di maestri che è sfociato in un libertarismo svincolato da qualsivoglia figura autoritaria. Non c'è stata una persecuzione armata, ma persiste un'acrimonia e un odio ideologico che in pratica unisce gli eredi della cultura laicista, borghese, volterriana a quella marxista.
Però bisogna anche cogliere dei segni positivi quali, come è stato in Italia, il sorgere negli ultimi anni di un diverso mondo laico, di un diverso pensiero, il quale pur oscillando, non ordisce questo progetto distruttivo nei confronti del cristianesimo e della cultura precedente.
Non è però molto diffuso nel mondo accademico
No infatti, questo è un vero problema. E, se si vuole buttarla in politica, questa dovrebbe essere una vera e propria battaglia del centrodestra che, analogamente al pensiero cristiano, è anch'esso dal punto di vista culturale particolarmente minoritario nelle istituzioni educative. Non che ci debba essere una scuola di centrodestra e una di centrosinistra, però, dal punto di vista culturale se si vuole una cultura liberale, moderata e non laicista è necessario che si ripensi un sistema di diffusione di cultura e di valori assai più efficace di quello attualmente esistente che rappresenta solo una parte del sentire nazionale. Purtroppo, e stranamente, il centrodestra fatica ancora a capirne l'urgenza.
Un'ultima domanda che si rifà anche alla sua personale esperienza di genitore: come possono al giorno d'oggi un padre o una madre offrire un'autentica educazione ai propri figli?
Imparando ad essere figli. Si può imparare a essere padri soltanto continuando a essere figli e poi si impara ad essere anche migliori figli nei confronti dei propri genitori. Da questo punto di vista una realtà educativa efficace risulta davvero cruciale. Perché educare significa anche entrare in rapporto con gli altri per costruire. Penso soprattutto ai giovani che si avvicinano a mettere su famiglia. Al giorno d'oggi aleggia su tutti un'inquietudine tremenda. Si accorgono tutti che non esiste una scuola dove si insegna ad essere padri e madri. Ma pochi si accorgono del ruolo di un'educazione che offra reali punti di riferimento per aiutare a diventarlo. E gli errori dei padri e delle madri li pagano i figli sulla loro pelle. Questo è ancora più rischioso degli errori commessi dai professori.
ECOCARBURANTI/ C'è una pianta che cresce senz'acqua che può scaldare case e far andare auto. Perchè non la usiamo? - Alberto Contri - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
L’amara profezia che ritroviamo nei Cori della Rocca di Eliot (“L’uomo ha abbandonato tutti gli dei tranne la lussuria, il denaro e il potere”) potrebbe essere resa ancora più drammatica, se ci aggiungiamo il fatto che nel suo operare economico l’uomo sembra aver perso anche il senno. Altri ben più esperti di me in materia stanno autorevolmente commentando su IlSussidiario.net la crisi epocale provocata dallo sciagurato rapporto tra finanza ed economia, così come si è delineato negli ultimi 25 anni.
Vorrei invece attirare l’attenzione su un’altra delle follie che l’homo oeconomicus si è messo a perseguire con una tenacia degna di miglior causa. Preoccupato dai problemi sull’effetto serra causati dagli idrocarburi, ma ancora più preoccupato della loro crescente scarsità, si è dedicato con molto impegno a estrarre carburante dai vegetali, una volta che se ne è scoperta la possibilità.
Così si è cominciato a produrre bio-carburanti da barbabietole, canna da zucchero, cereali, soia, mais, legno, eccetera. Senza riflettere sul fatto che, ad un'attenta riflessione, nell’applicazione di questa conversione, gli svantaggi sembrano superare di gran lunga i vantaggi.
Innanzitutto va detto che ancora non è certo che i bio-carburanti siano meno inquinanti di quelli tradizionali, mentre è certo che la loro produzione sta aumentando la fame nel mondo a causa della riduzione di terreni coltivati a scopo alimentare. Poiché la grande richiesta ha fatto lievitare i prezzi, è del tutto evidente che proprietari e conduttori di aziende agricole preferiscano destinare le proprie coltivazioni all’impiego più redditizio, come si sta rivelando quello dei bio-carburanti..
Crescendo di conseguenza il prezzo dei cereali, è aumentato inevitabilmente quello di prodotti derivati come pane, pasta, e anche dei foraggi, con evidenti riflessi sul prezzo della carne. Se si sommano gli effetti di questo meccanismo redditizio per pochi e dannoso per molti (ma che novità…) con gli effetti della recessione, sembra davvero lecito affermare che l’homo oeconomicus abbia perso sul serio il senno.
E non basta: si è riflettuto seriamente su cosa significhi effettivamente “rinnovabile”? Lo è una risorsa sempre più scarsa come l’acqua, ad esempio? Dai mutamenti climatici in corso non pare proprio: e allora come la mettiamo con il fatto che per produrre un litro di biodiesel servono 4000 litri di acqua per l’irrigazione e la trasformazione chimica? Come la mettiamo con il fatto che, secondo alcuni ricercatori, se si volesse produrre le quantità adeguate ad alimentare i motori diesel di tutta Italia (è solo un esempio) occorrerebbe utilizzare – sottraendoli alla produzione agricola alimentare - quasi tutti i terreni coltivabili? Sul portale della BBC c’è un articolo nel quale alcuni esperti dell’Onu parlano dei bio-carburanti come di un “crimine contro l’umanità”. Alcuni autori della rivista Natural Resources Research, già nel 2005 affermavano che “la produzione di biodiesel e bioetanolo consuma di gran lunga più energia di quanta se ne possa ricavare, non tenendo inoltre conto né dei danni ambientali né delle tasse”.
Eppure l’idea sembrava buona. Semplicemente, invece che ricercare la strada più ovvia, forse occorreva continuare a ricercare. E soprattutto a non ignorare ciò che sta sotto il nostro naso.
Alludo alla Jatropha, pianta sconosciuta ai più.
Che cos’è la Jatropha? È una pianta selvatica con alcune caratteristiche assai particolari: a) produce dei baccelli i cui semi (inutilizzabili per usi alimentari in quanto addirittura velenosi) risultano eccellenti per la produzione di bio-carburante. B) cresce senza alcun bisogno di irrigazione, bastandole l’umidità notturna. C) cresce anche in terreni pietrosi, aridi e secchi e quindi inutilizzabili per l’agricoltura. D) lascia scarti di lavorazione che costituiscono un ottimo integratore per i mangimi animali.
Per portare a regime una coltivazione di jatropha occorrono circa due anni, senza bisogno di cure troppo sofisticate, ed è lo stesso tempo richiesto da una piantagione di olio di palma, tanto per fare un esempio. Naturalmente anche questo tipo di agricoltura richiede superfici sufficientemente ampie per potere giungere ad un buon rapporto investimento/produzione…ma non dimentichiamo che i terreni richiesti non sono quelli irrigui – e quindi pregiati – necessari per la palma, il cocco, i cerali e la soia, bensì quelli che non interessano a nessuno. In Ghana, ad esempio, si potrebbero usare quelle che stanno diventando ex-miniere per via dello scadere delle concessioni e soprattutto per l’esaurimento dei filoni di minerali pregiati. Poiché si calcola che molto presto, a causa di ciò, circa 50.000 minatori di questo paese verranno privati del lavoro, è facile intuire come la loro conversione in coltivatori di jatropha da far crescere in terreni che non valgono più nulla, potrebbe risolvere almeno una delle tante catastrofi umanitarie che affliggono il mondo. Oltre che impedire la trasformazione dei nuovi disperati in altrettanti immigrati clandestini pronti ad arrivare in Italia, visto che le periferie delle città ghanesi già scoppiano per l’alto numero di senza lavoro privi di prospettive. Analoga conversione potrebbe avvenire in Burkina Faso, Mozambico, Togo e Costa d’Avorio, tanto per citare paesi nei quali la jatropha attecchisce da sola…
Sembra la classica opzione win-win, come dicono gli anglosassoni. Perché avendo a disposizione una pianta che non può servire ad altro, che non sottrae risorse scarse come l’acqua o terra buona, e quindi non provoca scarsità di produzione agricola per l’alimentazione, sarebbe un delitto non approfittarne.
Questo mi pare un campo (in questo caso metaforico) nel quale associazioni umanitarie ma anche il nostro Governo, tramite istituzioni come la Cooperazione allo Sviluppo, potrebbe fornire know-how dedicato e poco costoso, ottenendo anche lo scopo di eliminare alla radice il motivo che spinge sempre nuove masse di disperati a iniziare il periglioso, inutile, dannoso viaggio verso le nostre coste.
UNIVERSITA'/ Dal Governo il primo passo per una vera riforma - Alfredo Marra - martedì 11 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
«Difficilmente criticabile». Così si è espresso il Ministro Gelmini riguardo al decreto legge appena varato dal Consiglio dei ministri. «Difficilmente criticabile». Vero, ma solo se si tratta di un primo passo.
Il testo del provvedimento (pubblicato da IlSole24ore in versione non ancora definitiva) presenta in effetti a prima vista più luci che ombre. Le luci concernono le modifiche al turn over, il diritto allo studio, la destinazione di una parte dei finanziamenti in base ai risultati della valutazione. Le ombre riguardano le modifiche dei meccanismi di formazione e la composizione delle commissioni dei concorsi già banditi e il divieto, imposto agli atenei con i conti dissestati, di assumere nuovo personale docente. Vediamo più in dettaglio.
1. Le rigidità del turn over fissate dalla L. 133 vengono ammorbidite, consentendo alle università di assumere unità di personale nel limite del 50% della spesa cessata nell’anno precedente. Viene dunque cancellato il limite relativo alle “teste”. In parole povere, se prima si poteva assumere una persona ogni cinque pensionamenti ora il vincolo riguarda solo la spesa ed è meno stringente. Ad esempio, a fronte del pensionamento di un ordinario (il cui costo lordo poniamo sia circa 165.000 euro all’anno) si potranno usare 82.500 euro per assunzione di nuovo personale (per esempio 2 ricercatori).
2. Positivo è anche lo stanziamento di risorse per il diritto allo studio. Il Ministro ha dichiarato di voler così accogliere le osservazioni del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari che, con una mozione di pochi giorni fa, aveva denunciato la gravità e irrazionalità dei tagli previsti nelle tabelle della finanziaria.
3. Molto importante, sebbene per ora solo parziale, l’allocazione di una quota di FFO in base ai risultati della valutazione (ma aspettiamo il decreto ministeriale prima di cantare vittoria). Si tratterebbe finalmente dell’introduzione di un criterio di differenziazione in base al merito.
4. Insoddisfacente è invece la decisione di modificare i meccanismi di composizione delle commissioni dei concorsi già banditi. Questa operazione appare più di facciata che di sostanza: non assicura necessariamente maggiori garanzie di imparzialità e rischia di dar luogo a una raffica di ricorsi giurisdizionali.
5. Al di là della prima impressione, altrettanto di facciata sembra essere il divieto di reclutamento di nuovi docenti per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% di FFO (queste università sono anche escluse dalla ripartizione dei fondi stanziati dalla finanziaria 2007 per il reclutamento straordinario dei ricercatori). La disposizione non convince in quanto: a) una norma che limita la possibilità di assumere nuovo personale per gli atenei che hanno spese di personale superiori al 90% esiste dal 1997 (art. 51 comma 4 L. 449/97), ma ciò non è stato sufficiente ad assicurare un equilibrato sviluppo degli organici; b) come in passato non sono previsti meccanismi che ne garantiscano l’applicazione (attraverso eventualmente irrogazione di sanzioni); c) riguarda solo il personale docente (e non quello tecnico amministrativo). Sarebbe stato più efficace prevedere specifici accordi finanziari di programma con gli atenei che si trovano in situazioni economiche di dissesto.
Considerato tutto quanto sopra sinteticamente descritto il decreto legge è da valutarsi nel complesso positivo. Ma, intendiamoci, con questo provvedimento il Governo ha parzialmente rimediato alle misure cieche contenute nella manovra d’estate. Come ha detto lo stesso Ministro Gelmini, non si tratta di una riforma dell’università. Il vero banco di prova, dove il Governo è chiamato a dimostrare il suo spessore culturale e politico, si gioca nel prossimo (sottolineo prossimo) futuro. Ben vengano allora le linee guida, ma si tenga presente che non è concepibile nessuna riforma seria dell’Università senza affrontare due questioni fondamentali e connesse cui tutto il resto è subordinato.
1. In primo luogo occorre ripensare alla radice i meccanismi del finanziamento statale alle università in modo da assicurare una dinamica certa dell’andamento del FFO e da garantire una seria ed efficace programmazione economica in cui siano chiari gli incentivi (in base al merito) e le responsabilità. È evidente che si tratta di un problema complesso, ma non ce la si può cavare continuando a mettere pezze nuove su un vestito vecchio. Perpetuare una politica sull’università “a singhiozzo” non fa altro che aggravare la situazione rinviando sine die la soluzione di problemi che non sono contingenti, ma strutturali.
2. L’altro aspetto decisivo riguarda i modelli organizzativi (l’autonomia) degli atenei. La questione comprende il (ma non si esaurisce nel) problema della governance poiché non si tratta appena di ristabilire il riparto di funzioni e di poteri tra rettore, senato accademico e consiglio di amministrazione. «Mi riferisco alla necessità di spezzare l’attuale carattere di uniformità disciplinare, scientifica e organizzativa dell’università italiana e di promuovere un sistema di autonomie cautamente competitive negli atenei, stimolando anche in università l’imprenditorialità individuale e collettiva e assicurando al sistema universitario adeguati livelli di produttività». Così scriveva un autorevole professore di diritto amministrativo, Umberto Pototschnig nel 1988. Parole che oggi, a distanza di vent’anni, sono più vere che mai e sottintendono la necessità di capovolgere il rapporto tra Ministero e Università: al primo tocca di operare le grandi scelte della politica universitaria e di risponderne poi in Parlamento; alle seconde spetta la responsabilità di tutto il resto (in questo senso il problema dei modelli organizzativi adombra altri problemi ben noti: valore legale del titolo di studio, autonomia didattica, competizione e comparazione tra atenei, stato giuridico dei docenti, ecc.). Il punto non è opporre privato a pubblico, ma autonomia a centralismo. Tutto questo, infatti, riguarda la forma organizzativa delle università. Queste ultime devono (per dimensioni, contesto territoriale, specificità formative) potersi articolare in modo diverso, realizzando quella promessa di autonomia sempre ritardata da un centralismo antico che affonda le sue radici nella legge Casati del 1859 e di cui non riusciamo a liberarci.
La nostra storia ci ha spesso mostrato come interventi legislativi tampone siano poi rimasti in vigore per anni. Bisogna a tutti i costi evitare che – dopo questo decreto legge – ci si fermi. Occorre che da oggi in poi il tavolo istituito dal Ministro con CRUI, CUN e CNSU lavori giorno e notte, perché questa è l’unica azione proporzionata alla serietà della questione universitaria. Senza una chiara strategia di rilancio che affronti il problema dell’impegno finanziario dello Stato e dei modelli organizzativi degli atenei, questo sarà l’ennesimo tra i tanti (troppi) provvedimenti estemporanei che hanno riguardato (e spesso funestato) l’università italiana negli ultimi venti anni. Troppo facile sarebbe accontentarsi di puntellare un sistema ormai vecchio e, in una logica gattopardesca, fingere di cambiare tutto per non cambiare niente. Governo e rettori sono chiamati alle loro responsabilità.
IL CORAGGIO DELL’AMORE - MADRI, NON VOLEVANO ABBANDONARE I FIGLI BISOGNOSI - MARINA CORRADI – Avvenire, 11 novembre 2008
Un commando di uomini armati che piomba come uno stormo di rapaci, nella notte, su un villaggio al confine tra Kenya e Somalia. Spari, razzie, grida, stridore di pneumatici d’auto che partono a tutto gas. La notte di fuoco a El Wak è confusa, nelle testimonianze dei pochi che terrorizzati da dietro le finestre hanno visto. Di certo c’è che all’alba in quell’agglomerato polveroso di case di frontiera mancano due italiane. Rapite da banditaglia alla famelica ricerca di un riscatto, o nella logica di terra da nessuno che quest’angolo tra la Somalia e il Kenya è diventato, e che non vuole occhi stranieri a testimoni?
Caterina Giraudo, da Boves, e Maria Teresa Olivero, da Centallo, hanno 67 e 59 anni. Dai dati anagrafici potresti immaginare due signore con i capelli grigi, nella quiete sonnolenta della campagna cuneese. Invece sono suore dell’Ordine contemplativo missionario Charles de Foucauld, da ben 25 anni in Africa. Non se ne sono andate da laggiù per la guerra, né per la guerriglia tribale che si allarga incontenibile nel momento in cui ogni ordine sociale è cancellato e i profughi vagano abbandonati. Due donne anziane in un universo senza tetto né legge, a duecento chilometri dalla prima città, a un mondo dall’Occidente. In mezzo a una popolazione islamica che tuttavia le amava: perché si prendevano cura dei figli malati, tubercolotici, o epilettici – quella malattia che ancora in molte culture africane è temuta come la oscura maledizione di un dio. Le suore sono dunque rimaste laggiù, quando molti degli occidentali hanno ragionevolmente dovuto andarsene. Possiamo immaginare che non se la siano sentite di abbandonare la loro gente, i loro malati, proprio in un momento in cui la situazione sembra così disperata. Si abbandonano, forse, i figli?
Il restare tenacemente in quel cantone d’Africa tanto lontano da ogni memoria di civiltà e di diritto si spiega solo così: non si abbandonano i figli, e tanto meno nell’ora peggiore. Solo una logica di maternità dà ragione del testardo non partire di queste donne, come di moltissime altre nel Terzo mondo, pure nell’epicentro della violenza cieca - quando un minimo buon senso imporrebbe il ritorno. Maternità e paternità come imperativo di un rimanere, che ai più sembra inconsulto.
Per farsi capire da 'noi', a volte i missionari ti fanno un esempio: «Ma se ne andrebbe da una città in guerra – chiedono –, se i suoi figli avessero bisogno di lei?». E normalmente l’interlocutore risponde di no; e però quei disperati, quei morti di fame, tenderebbe umanamente a obiettare, «non sono vostri figli ». Non secondo la carne, certo – l’unica paternità e maternità che la maggior parte degli uomini comprende. Ma testimoniano, le migliaia di missionari che vanno, e rimangono, in terre abbandonate e feroci, di un’altra maternità e paternità, possente e radicale come e più che quella del sangue.
E dunque Caterina Giraudo da Boves, Cuneo, e Maria Teresa Olivero da Centallo, sono cadute nelle mani di guerriglieri, o banditi. Si può sperare, si deve sperare di salvarle, in un passaparola popolare che di bocca in bocca raggiunga i sequestratori: non toccatele, curano i nostri figli, sono nostre amiche. A volte i missionari devono molto a questa umile gratitudine di sconosciuti.
Ma intanto, mentre si prega che un destino misericordioso riporti a casa le due suore, il pensiero si sofferma ancora, con stupore, su quei loro oltre sessant’anni. L’età in cui 'noi' andiamo in pensione, ci curiamo gli acciacchi e non ci spingiamo, nei viaggi, oltre la riviera adriatica. E queste donne invece, e tante come loro, ancora nel cuore della battaglia. Non madri, eppure più madri di molte. A El Wak e nelle altre buie terre di nessuno il mistero più grande non è il rapimento: ma donne e uomini, che vogliono restare.
INDEGNA GAZZARRA DI RELIGIOSI AL SANTO SEPOLCRO - Scazzottarsi alla Sua presenza Una pena che rompe il cuore - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 11 novembre 2008
L o scandalo, sì. Ma ancor di più la pena. Ora che abbiamo visto, e le immagini della gazzarra davanti al Santo Sepolcro hanno fatto il giro del mondo ci resta il taglio dello scandalo, e di più, l’amaro della pena. Perché è scandaloso litigare proprio lì, e arrivare addirittura alle mani. È per così dire doppiamente scandaloso. Perché c’è la contesa invece dell’unità, e perché l’istinto e la scelta della contesa non rispettano nemmeno il luogo del più alto sacrificio di Gesù. Lo scandalo è forte, come di una scena indecente. Della più grave indecenza. E cosa importa sapere se qualcuno aveva ragione. Che ragione è quella che porta ad accapigliarsi davanti al luogo dove Gesù ha patito la morte? Dei cristiani hanno dato questo scandalo, e i media hanno tolto ogni riparo possibile. Hanno rilanciato la notizia e le immagini. Non poteva essere altrimenti. Si è trattato di un fatto così grave. Chi conosce quei luoghi santi – e non solo quelli cari alla cristianità – sa che possono crearsi certe situazioni di tensione, di scomodità, di confusione. Ma il motivo per cui ci si reca in quei luoghi suggerisce il supplemento di pazienza necessaria. E dove anche verrebbe da reagire sopra le righe, il rispetto e la coscienza del gesto che si sta compiendo frenano, correggono. Ma oltre allo scandalo resta la pena. Di vedere la cosa peggiore per un cristiano: Gesù ridotto a monumento. Sì, di questo si è trattato. Perché se si arriva a litigare davanti al Suo Sepolcro, è perché si considera quel posto come uno dei tanti monumenti. Importante, sì, ma un monumento. E non segno della Sua Presenza viva. È come se invece che trovarsi di fronte a un Cristo vivo si fossero trovati dinanzi a un Cristo morto.
A un museo cristiano. A un Cristo pietrificato. E allora si poteva litigare.
Come se Lui non ci fosse. Invece, come sa chi ama qualcosa, qualcuno di vivo, quando ti ci trovi di fronte, tutta l’energia dell’attenzione è tesa a quella presenza. E si dimentica ogni altra scoria. Addirittura quel che sembrava importante trova la giusta dimensione. Lo sanno i bambini, quando si trovano di fronte alla madre. O l’innamorato alla sua donna. Invece per quei litiganti si trattava in quei momenti solo di un monumento. Di uno spazio da occupare. Non il segno di Gesù vivo. E così hanno prevalso le ragioni, o meglio le non ragioni della discordia. Che prevale nei cristiani quando pensano di sapere cosa è Cristo. Invece che domandarlo. La discordia che prevale quando trasformano Cristo in un monumento da possedere, in un discorso da ripetere, in una morale di cui vantarsi. Invece che il corpo di Dio che accetta di morire come un delinquente, per amore. E il corpo Risorto. Vivo. La pena di vedere Gesù ridotto a monumento. Per chi lo ama, questa è la maggiore pena di quelle immagini. La pena profonda. Più ancora dello scandalo bruciante. Perché gli uomini, noi tutti, provochiamo mille scandali e chiediamo che Dio ne abbia pietà. Ma quel trattare i segni della Sua morte e della Sua Resurrezione, della sua Vita come fossero monumenti, mette una pena infinita. Una pena che rompe il cuore. Che fa pensare a quante volte – in tanti templi, riti, raduni – si compiono gesti in modo meccanico, banale, smemorati della Sua Presenza. Per nulla commossi dalla Sua Presenza. Quel gesto scandaloso, e la pena che ci procura, ci spinga a considerare quante volte si compiono gesti cristiani fatti male.
Insomma, gesti, riti, o raduni che si nominano cristiani e che sono fatti male, trasandati, ignari di Lui. L’indegna gazzarra di fronte al Suo sepolcro ci ha ferito. Come il segno della necessità continua della nostra conversione. Allo scandalo e alla pena, infatti, sarebbe ancor peggio si accompagnasse l’insopportabile moralismo di chi pensa di non esser capace di arrivare a tanto. O la inutile, capziosa ricerca delle motivazioni dell’uno o dell’altro. La ferita di questo scandalo e la nascosta ferocissima pena che ci provoca lavorino dentro di noi, fino a poter esclamare di fronte alla Presenza viva di Gesù, come sa fare ogni peccatore e ogni santo: Tu lo sai che Ti amo.