Nella rassegna stampa di oggi:
1) ISTRUZIONE/ Bertagna: i tagli alle scuole paritarie sono l’ennesimo tradimento della Costituzione - INT. Giuseppe Bertagna - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) CRISI/ Campiglio: per uscirne servono aiuti alle famiglie, a partire dal quoziente fiscale. Impariamo dalla Francia... - INT. Luigi Campiglio - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) ELUANA/ Guizzetti: altro che morti, i pazienti in stato neurovegetativo vegliano, dormono e possono interagire - INT. Giovan Battista Guizzetti - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
4) Le ragioni della crisi nella "profezia" di Ratzinger - Roberto Fontolan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
5) USA/ Dai Vescovi americani un richiamo a Obama: liberalizzando l’aborto si distrugge il bene comune - José Luis Restan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
6) SCUOLA/ La fatica dell’apprendimento: un evento dinamico, a partire dalle conoscenze e dagli interessi dell’alunno - Associazione Diesse - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
7) In Vaticano c'è un giornale che fa rumore. Per qualcuno anche troppo - È "L'Osservatore Romano". Che due volte negli ultimi mesi ha suscitato le reazioni avverse di parte della gerarchia e del mondo cattolico, sui trapianti d'organo e l'eutanasia. Ma anche su altri temi i suoi commenti fanno discutere, dentro e fuori la Chiesa. Ad esempio su Pio XII e gli ebrei - di Sandro Magister
8) Noi cattolici senza casa - Anche in Europa, a un’ora di aereo da Roma, c’è un paese dove i cristiani subiscono lo sfratto della maggioranza islamica. L’allarme di Puljic, arcivescovo di Sarajevo. - di Lorenzo Fazzini
9) Il vero nemico della salute è la perdita della speranza - Bellieni risponde a chi usa le malattie per cancellare la persona, di Antonio Gaspari
10) La tragedia di Pogliano Milanese - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 20 novembre 2008
Pogliano Milanese: soffoca l'anziana madre inferma e poi si consegna ai carabinieri
11) La testimonianza di un missionario saveriano - Digiuno e solidarietà - con le popolazioni del Congo – L’Osservatore Romano, 20 Novembre 2008
12) 20/11/2008 12.46.00 – Radio vaticana – I monasteri indicano al mondo l'essenziale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore: così il Papa alla Congregazione per la vita consacrata
13) RADICALE METAMORFOSI DELLA NOSTRA CIVILTÀ - Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili - MARINA CORRADI – Avvenire, 20 novembre 2008
14) Stato vegetativo, quando la diagnosi è sorpassata - di Viviana Daloiso – Avvenire, 20 novembre 2008
ISTRUZIONE/ Bertagna: i tagli alle scuole paritarie sono l’ennesimo tradimento della Costituzione - INT. Giuseppe Bertagna - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Professor Bertagna, la vicenda dei tagli alle scuole paritarie, non solo per l’anno prossimo ma addirittura per l’anno in corso, spinge a una prima considerazione politica: perché un governo di centrodestra, che parla di parità nel suo programma, attua una politica di questo genere?
Io non sono un politico, e non posso giudicare la complessità degli eventi e la complicatezza amministrativa che sottende a queste vicende. Ma una cosa la posso dire chiaramente: questo è l’esito necessario di un’erronea impostazione del problema. Non se ne uscirà mai se si continuerà a limitare il discorso al solo problema dei fondi, previsti, non aumentati o tagliati che siano. Altrimenti ogni anno arriva la Finanziaria e si litiga su questo punto. È tutto parte di un’impostazione sbagliata che ha radici lontane. Certo che non si può che condannare quanto lei diceva; ma tutto ciò non è altro che uno degli effetti della camicia di Nesso che il Paese ha indossato nel momento in cui ha tradito in modo esplicito quelli che sono gli aspetti essenziali di tutta questa tematica.
Quali sono le radici lontane di cui lei parla, e che ci hanno portato a questa situazione?
La prima ragione è di natura storica. Nel nostro Paese la scuola è stata costruita, fin dall’unità d’Italia, in modo dichiarato, esplicito e senza alcuna dissimulazione come apparato ideologico dello Stato, un modo cioè per disciplinare le menti dei selvaggi affinché diventassero dei civilizzati, secondo l’idea di civiltà che la legge aveva stabilito. In questa maniera si è costruita una storia in cui la scuola non è mai stata autonoma, ma è stata considerata un ufficio periferico a disposizione dei governi e dello Stato, per realizzare i suoi disegni. Disegni magari anche buoni, e che non intendo giudicare: ma di fatto la scuola è stata considerato uno strumento, e mai un’occasione di servizio per fini educativi che valorizzassero le persone. Dopo di che è intervenuta la Costituzione, che avrebbe dovuto cambiare le cose, ma che è stata tradita.
In che senso è stata tradita la Costituzione? Il discorso del tradimento costituzionale è di solito usato da chi si oppone al finanziamento alle scuole non statali…
Bisogna chiarire bene, e rendersi conto che c’è un tradimento generale del modo di impostare il sistema di istruzione e di formazione, così com’era previsto dalla Costituzione del ’48, e confermato nel 2001. La Costituzione era molto esplicita in proposito: rifiutava la concezione della scuola come apparato ideologico dello Stato, sia perché si veniva dall’esperienza tragica del fascismo, sia perché i cattolici per la prima volta erano giunti al governo del Paese, ed erano depositari di una tradizione e di una concezione della scuola che era agli antipodi dell’impianto strumentalistico da cui si proveniva. Se si guarda l’articolo 33 della Costituzione, coniugato con l’articolo 5, si ricava la nettissima disposizione per cui il nostro sistema di istruzione avrebbe dovuto ben distinguere tre funzioni: la funzione della Repubblica, dello Stato e delle scuole. Per Repubblica si intendeva il Parlamento che sintetizzava in sé tutte le componenti. Non solo Regioni, Province e Comuni, ma anche tutte le formazioni sociali di cui parla la prima parte della Costituzione: famiglia, imprese, cooperative, sindacati, Chiese. Alla Repubblica competeva di dettare le norme generali sull’istruzione e di fare in modo che in tutto il Paese ci si ispirasse ai principi della Costituzione.
Quale avrebbe dovuto essere invece la funzione dello Stato?
Lo Stato doveva semplicemente fare due cose: da un lato istituire le scuole, avendo l’obbligo di far sì che non fossero penalizzate le famiglie che risiedevano in zone geografiche dove non c’era un’espressione sociale capace di dare vita a scuole non statali; dall’altro doveva fare in modo che si instaurasse un sistema positivamente competitivo, in cui ci fosse spazio per il sistema dello Stato e parallelamente per le scuole non statali. Nella Costituzione la cosa più importante non è il «senza oneri per lo Stato», che pure ha una sua ragione, ma è il comma 4 dello stesso articolo, relativo alla equipollenza di trattamento per gli studenti che frequentano le scuole statali e per quelli che frequentano le scuole non statali. La questione della parità non si gioca a livello di assegnazione di privilegi, ma del riconoscimento che i cittadini della Repubblica hanno il diritto di essere trattati allo stesso modo, giuridicamente ma anche economicamente, sia che frequentino le scuole istituite dallo Stato, sia che frequentino le scuole non istituite dallo Stato. E queste ultime devono essere valorizzate in quanto promosse dalle formazioni sociali di cui alla prima parte della Costituzione. E a questa funzione dello Stato si ricollegava infine la funzione del controllo.
In cosa consiste?
Attraverso gli esami, che siano essi di Stato o invece esami di ammissione, lo Stato deve controllare la qualità degli apprendimenti degli studenti, e deve contemporaneamente controllare che le scuole che chiedono la parità rispettino le norme generali dell’istruzione stabilite dalla Repubblica, e non tradiscano i principi costituzionali. Lo Stato invece ha abbandonato questa funzione di controllo: è rigidissimo sulle procedure, ma non attua alcun controllo della qualità dell’apprendimento.
Chiarite le funzioni di Repubblica e Stato, qual è il ruolo delle scuole previsto dalla Costituzione?
Alle scuole, sempre secondo l’impostazione originaria della Costituzione, competeva la massima autonomia. Date le norme generali sull’istruzione e dato il controllo che lo Stato doveva attuare affinché tali norme fossero rispettate, non era previsto che di mezzo ci fosse un ministero che dettava, chiosava, ammoniva anno dopo anno, interveniva a chiarire, a correggere, a cambiare, con una continua profusione di norme e circolari. In mezzo c’era solo l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Io mi domando perché nel nostro Paese questa nettissima soluzione di continuità che la Costituzione del ’48 doveva e voleva creare rispetto alla concezione precedente non sia stata per nulla rispettata. Si è proceduto con l’impostazione precedente, creando i problemi che abbiamo.
Che cosa concretamente può permetterci adesso di uscire da questa situazione?
Dobbiamo renderci conto di quanto quella impostazione che la Costituzione prevedeva sarebbe più vantaggiosa. E qui si inserisce il terzo elemento che manca nel nostro sistema: la conoscenza scientifica ed empirica. Noi non abbiamo numeri e ricerche, né investimenti in ricerca in questo campo. Non abbiamo ricerche che ci aiutino a chiarire e a capire quanto un sistema convenga e quanto sia più efficiente rispetto ad un altro: dobbiamo ricorrere a dati generali. Abbiamo i dati Ocse, ma non abbiamo ricerche empiriche come quelle che vengono fatte in America. Noi non abbiamo un know-how che ci dimostri se funzioni meglio l’impianto della costituzione formale o quello della costituzione materiale. Non avendo questo ci riduciamo a impostare il dibattito sull’ideologia, e mai sull’aspetto scientifico: dove questo aspetto c’è, invece, viene dimostrato il contrario di quello che si sostiene in Italia. Basti vedere quello che ha fatto la Svezia, che ha abbandonato totalmente l’impostazione statalista per favorire la libera scelta.
Sembrerebbe esserci un caso in Italia in cui la parità viene garantita: è il caso della Regione Lombardia, con la cosiddetta “dote scuola”.
Certo, e questo può aprire un varco importantissimo. Se una regione come la Lombardia, che effettivamente è molto avanti su questo aspetto, continuasse a pigiare su un sistema paritario favorendo la scelta degli studenti e favorendo anche il controllo per dimostrare che i risultati siano acquisiti, potremmo ottenere dei risultati importanti anche a livello nazionale. Se cioè empiricamente, con i numeri, si riuscisse a dimostrare anche sul nostro territorio quello che nelle ricerche all’estero già emerge, e cioè che si spende di meno e si impara di più in un sistema basato sulla libera scelta, allora potremmo sperare che di fronte a tali argomentazioni empiriche possano finalmente cadere le ragioni ideologiche.
CRISI/ Campiglio: per uscirne servono aiuti alle famiglie, a partire dal quoziente fiscale. Impariamo dalla Francia... - INT. Luigi Campiglio - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tremonti ha tenuto ieri la prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico in Università Cattolica e ha richiamato un pensiero dell’allora card. Ratzinger, formulato nel saggio “Church and economy” del 1986, dicendo che l'attuale crisi fa avverare «la profezia secondo cui l'economia che vede il declino della disciplina avrebbe portato le stesse leggi del mercato al collasso e all'implosione». Ma la vera anomalia del nostro paese, fa notare Luigi Campiglio, è la perdurante mancanza di una politica per la famiglia. «Il governo – pur tra altri buoni e condivisibili provvedimenti – si è dimenticato della famiglia. Spiace dirlo, ma è come se tutti i governi, rispetto alla famiglia, fossero “grigi”»
Professor Campiglio, «un’economia che ha perso il contatto con la realtà e con la sua originaria dimensione etica»: lo ha detto ierii il ministro Tremonti, richiamando anche il pensiero dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, quando scrisse sulle cause meta economiche di una possibile crisi del mercato. Che ne pensa?
È un’analisi che condivido. L’esempio più lampante è quello della denuncia, da parte degli stessi operatori sul campo, dell’eccesso di self-interest tramutatosi in avidità esasperata. Più in generale non si dà crescita economica continua e stabile senza un qualche sistema forte di valori morali che dia ancoraggio solido alle decisioni economiche. Attraversiamo una crisi di fiducia, andiamo ripetendo, ma la fiducia è precisamente un fattore morale.
Non da oggi Tremonti sta puntando il dito contro la piattaforma finanziaria, frutto esasperato della globalizzazione, sulla quale si è innestata la deriva della “tecnofinanza”.
È un fatto: gli strumenti di gestione e diffusione del rischio sono implosi e anziché portare ad una diversificazione del rischio, nel modo che tutti quanti insegniamo, ha prodotto effetti moltiplicativi giganteschi. Abbiamo assistito alla parabola di una finanza sofisticata partita da premesse tradizionali ma che ha finito per trasformarsi in “mostri”, per usare un’immagine cara a Tremonti.
Veniamo alla situazione italiana. In un suo articolo apparso su ilsussidiario.net il 20 ottobre aveva detto che compito dello Stato nella presente situazione era produrre certezze. A che punto siamo?
L’unica nostra certezza in questo momento è che nessuna banca fallirà. Il che non è poco, è quantomeno la certezza che non ci sarà il disastro. Ma è una certezza “negativa”, della quale manca un risvolto positivo, costruttivo di fiducia nel lungo termine.
L’aiuto alle imprese, realizzato con il rafforzamento patrimoniale delle banche, non incide sul deficit, ma con le famiglie la situazione è più complicata. Qual è la sua opinione?
Il governo – pur tra altri buoni e condivisibili provvedimenti – si è dimenticato della famiglia. Spiace dirlo, ma è come se tutti i governi, rispetto alla famiglia, fossero “grigi”. Non vorrei che apparisse una mia fissazione, ma impostare una politica di sostegno alla famiglia come soggetto centrale dell’economia in Italia sembra quasi proibito. C’è di mezzo una questione di valori, ma se uno non crede a questi valori esiste sempre e comunque l’efficacia di una politica fiscale dedicata. E una politica fiscale è sempre misurabile.
A cosa si riferisce in particolare?
C’è un solo paese che finora non è stato investito dalla recessione al pari degli altri paesi europei ed è la Francia. Come si spiega? È un paese più robusto e dinamico di Italia e Germania, ha una capacità di risposta agli choc senz’altro minore degli Stati Uniti ma certamente maggiore dell’Italia. Ma soprattutto fa una politica molto più centrata sulla famiglia. La famiglia non è un soggetto ornamentale, ma l’unità decisionale economica fondamentale, il fattore che può spingere realmente la crescita.
Perché?
Non si esce dalla crisi senza equità. Per introdurre equità occorre coniugare il merito con il bisogno. Una politica centrata sulla famiglia garantisce equità, perché la famiglia è il luogo che più di ogni altro distribuisce sulla base del bisogno e non del merito. Il merito è centrale nel mercato, ma le risorse all’interno della famiglia vengono distribuite in base al merito? Per fortuna no. La Francia, con la sua politica molto più centrata sulla famiglia, risulta molto più attenta, aperta e disponibile verso i bisogni.
Cosa bisogna fare?
Non smetto di dire che introdurre il quoziente familiare sarebbe decisivo sul piano economico ed equo sul piano sociale. Vede, i tempi di crisi sono anche opportunità di cambiamento, che bisognerebbe saper sfruttare.
Il nostro debito pubblico non consente spazi di manovra…
Ma rientra nelle regole scritte dell’Europa che i vincoli legati al disavanzo pubblico possono, d’accordo con il consenso del parlamento Ue, essere resi più elastici. La certezza che questa crisi duri poco tempo non è suffragata dai fatti. Anche il Giappone prima o poi uscirà dalla crisi, ma vi è dentro da quindici anni. Noi da quindici anni abbiamo un problema di crescita lenta o di diminuzione della produttività. Immaginiamo che cosa può voler dire la crisi economica per un paese che da dieci è in fase di ristagno.
Qual è il fondamento di una politica di lungo periodo capace di traghettarci fuori dalla crisi?
Qualche tempo fa ad un convegno di imprenditori chiesi per quale motivo l’iPod, che ha cambiato la vita dei giovani in tutto il mondo per le sue caratteristiche di innovazione, originalità e bellezza, non è stato qualcosa che ha rilanciato la nostra industria. Ecco, l’iPod è un esempio di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto. Non saremmo certamente riusciti a creare l’Ibm, forse nemmeno la Apple, ma l’iPod era alla nostra portata, se pensiamo che il brevetto viene dalla Germania… Occorrono la capacità di vedere lontano e quella di “inciampare, cadere e rialzarsi”. Se sono capace di rialzarmi, anche se cado non sono costretto a chiedere aiuto allo Stato.
Sono poche le novità uscite dal G20, eccetto forse l’appuntamento per il prossimo vertice. Anche istituzioni finanziarie come Fmi e Banca Mondiale appaiono appannate nei compiti e nella governance. Andrebbe cambiato qualcosa?
Andrebbe cambiato tutto: non sono più adeguate. Sono istituzioni figlie della loro epoca che è quella del 1945 e che oggi si muovono in un contesto completamente mutato. Il G20 è stato in buona sostanza un prender tempo, e rispetto a che cosa? Al fatto che il nuovo governo americano non è ancora insediato. Al di là della retorica della globalizzazione, viviamo in un mondo che ha bisogno di una leadership mondiale che sul piano economico può essere solo quella degli Usa.
Questa crisi economica non rimette in discussione proprio la leadership Usa?
Ma potenza leader non vuol dire potenza egemone. Oggi può avvenire, come sta avvenendo, che gli Usa siano in recessione, che la Cina sia in “crisi” ma solo perché cresce del 7% anziché del 12%, che gli equilibri mondiali sono ormai completamente cambiati e che non si può pensare di riservare un posticino nell’angolo alla Cina quando ormai è una potenza mondiale. Ci sono molti tipi di leadership: di tipo autoritario per esempio, e questo è accaduto in passato, anche da parte degli Stati Uniti, ma ci sono anche leadership basate sull’autorevolezza e questa è figlia della legittimazione. Agli Usa spetta oggi questo tipo di leadership, figlia di una legittimazione mondiale, che va conquistata sul campo dando peso e rappresentanza a chi oggi ne è sprovvisto.
ELUANA/ Guizzetti: altro che morti, i pazienti in stato neurovegetativo vegliano, dormono e possono interagire - INT. Giovan Battista Guizzetti - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Una commissione di medici interpellata ministero del welfare ha dichiarato inaccettabile il fatto di aver definito “irreversibile” la situazione di Eluana. Dal punto di vista clinico cosa si intende per stato vegetativo?
Lo stato vegetativo è uno stadio di gravissima compromissione neurologica che può conseguire il coma. È uno stato vitale che si è diffuso grazie alla comparsa, in campo medico, delle rianimazioni, delle terapie intensive e dei mezzi di sostegno alle funzioni vitali. Quando non esistevano le attuali strumentazioni il paziente era destinato a morire oppure a risvegliarsi. Il coma di per sé può invece durare al massimo per un periodo che va dalle quattro alle sei settimane. Non esiste un coma che dura per anni. Con l’introduzione dei mezzi di sostegno alle funzioni vitali si è aperta, come dicevo, una terza possibilità: lo stato vegetativo. In tale stato il paziente apre gli occhi, di giorno è sveglio, di notte dorme, ma non presenta segni che indichino uno stato di coscienza, intendendo per “coscienza” la consapevolezza di sé e dell’ambiente nel quale è inserito nonché la capacità di instaurare relazioni con le persone circostanti.
Lo stato vegetativo non sempre si manifesta negli stessi modi, ma comunque sia sono rarissimi i casi in cui non sia reperibile qualche forma, sebbene molto primordiale, di relazione ambientale. Spesso sono i parenti che la riscontrano: magari un sorriso o uno sguardo che segue all’udire una voce familiare. Sono piccoli segni che chi è attento riesce a cogliere ed è davvero difficile che non se ne riscontrino del tutto.
Da ciò si spiegano le ragioni per cui la commissione ha rilasciato queste dichiarazioni
Non conosco bene la situazione di Eluana e le suore che la curano, ma rifacendomi a quello che ho letto in questi mesi, la suora che la sta accudendo ha affermato che Eluana ha sviluppato una certa capacità di comunicare con lei.
Una cosa, in proposito, mi ha molto stupito: periodicamente noi facciamo test per verificare il livello di coscienza dei pazienti in reparto. La verifica viene fatta da me o dall’infermiera che se ne prende cura la quale instaura per forza una relazione quotidiana col malato: le risposte sono diverse. A un comando semplice, come per esempio «stringi la mano» non c’è risposta se a ordinarlo sono io. Quando invece lo stimolo proviene dall’infermiera che tutti i giorni assiste il malato quest'ultimo manifesta una risposta. Questo dimostra che esiste una relazione affettiva e umana che sta alla base di una consapevolezza e di una coscienza in questo tipo di infermi.
Nel mio reparto ci sono 24 malati con diagnosi di stato vegetativo, in realtà quelli con cui non riusciamo a stabilire nessun tipo di relazione sono 2 o 3.
Il coma invece che cos'è e in quali aspetti si differenzia dallo stato vegetativo?
Il coma è uno stato di non responsività totale. Il soggetto ha gli occhi chiusi e in qualche caso le funzioni vitali non sono autonome. Di qui ha necessità della ventilazione artificiale, o di dover eseguire una tracheostomia per far respirare il paziente.
La cosa più importante che differenzia lo stato neurovegetativo dal coma è l’apertura degli occhi: nel primo caso il paziente ha gli occhi parti, nel secondo no.
Dal coma o si muore o si va in stato neurovegetativo o si recupera la coscienza, anche senza deficit;
nel coma comunque non c’è alcun tipo di veglia. Per rafforzare questa idea dell’irreversibilità, va detto che l’espressione “stato neurovegetativo permanente” non è più utilizzata da nessuno, non ha valore diagnostico, ha un valore prognostico, sulla probabilità di recupero di coscienza del paziente. Certo che più a lungo dura lo stato neurovegetativo, meno sono le possibilità di recupero del soggetto, le quali, tuttavia, non si azzerano mai.
A suo avviso questa confusione che esiste, a livello divulgativo, tra coma e stato neurovegetativo può aver favorito tra l’opinione pubblica l'idea che lo stato di Eluana sia più vicino alla morte che alla vita?
Probabilmente la confusione c’è anche per questo motivo. Addirittura c’è chi, parlando di pazienti di questo tipo, avvicinava la morte corticale alla morte encefalica sostenendo che queste persone di fatto sono decedute. Lo scorso anno, il dottor Owen, un medico ricercatore di Cambridge, ha dimostrato che la risonanza magnetica fatta a pazienti in stato neurovegetativo si attiva con adeguati stimoli esattamente come quella di un soggetto sano. Si attivano le stesse aree corticali. E quindi non esiste la morte corticale, ma solo compromissione dell’area corticale.
Che tipo di assistenza c’è in Italia per i pazienti in stato neurovegetativo?
In Italia siamo parecchio indietro. Direi che la situazione è piuttosto disastrosa. Moltissimi sono i parenti di persone in stato neurovegetativo che sono ridotte alla disperazione. Non esiste praticamente un'assistenza adeguata.
Nel 2005 sono stato chiamato a Roma dall’ex Ministro Storace, che ha creato una commissione formata da neurologi, anestesisti e riabilitatori. Venne redatto un documento presentato alla stampa (ma non alla conferenza Stato -Regioni) da adottare come “linea guida” per tutto il territorio nazionale, ma praticamente nulla è cambiato.
L’unica regione dove qualcosa è stato fatto per questo tipo di pazienti è la Lombardia. Fino a un anno fa chi doveva gestire pazienti in stato neurovegetativo doveva pagare l’assistenza e il ricovero. Ricevo telefonate da tutta Italia da parte di persone disposte a venire a vivere a Bergamo, dove lavoro, piuttosto che non avere assistenza per i propri parenti.
Le ragioni della crisi nella "profezia" di Ratzinger - Roberto Fontolan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Inaugurando l’anno accademico all’Università Cattolica di Milano, il ministro Giulio Tremonti è tornato su un tema di “filosofia economica” che gli è assai caro. Era già stato l’oggetto del suo libro, andato a ruba prima dell’estate, e da qualche settimana è diventato il suo cavallo di battaglia. La crisi della finanza è la crisi del mercatismo, è la crisi del capitalismo avvitato su se stesso, di un sistema finanziario che si credeva autofondato e autolegittimato, fino al punto di diventare una vera e propria ideologia. Nel discorso il ministro si è riferito ad un testo del 1986 dell’allora cardinale Ratzinger, che aveva “profetizzato” il collasso delle leggi del mercato e la sua stessa (del mercato) implosione. Citazione sorprendente e acuta, perché se c’è un’ancora di salvataggio cui aggrapparsi è il pensiero, è la tradizione, è la sapienza millenaria della Chiesa, in questi anni interpretata e espressa in modo sublime dal cardinale divenuto Papa. Inoltre è interessante rilevare il curioso rimando agli anni ’80. Sono gli anni in cui il “finanziarismo” diventa sistema culturale. Tutti imparano a conoscere l’indirizzo di Wall Street –in Italia più modestamente la “Milano da bere”: qui si creano e distruggono le fortune, qui si impara il gioco più duro del mondo, qui il denaro si separa dal lavoro, dalla produzione di beni, per autoriprodursi: ogni mattina, il suono della campana alla borsa di New York mette in funzione l’inesauribile cornucopia, espone alla adorazione degli uomini la pietra filosofale che rende ricchi, soprattutto alcuni. (Domenica scorsa, parlando all’Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini ha parlato dei finanzieri “alchimisti”).
Che quel nuovo mirabolante mondo nascondesse qualcosa di malato lo indovinavano brillanti scrittori come Tom Wolfe (rileggere il grande Falò delle vanità) e i cosiddetti “minimalisti” (Leavitt, McInerney, Ellis) e idolatrati registi come Oliver Stone (nessuno può dimenticare il Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas). L’immaginazione percepiva il vizio, ma pur denunciandolo o mettendolo alla berlina di fatto contribuiva a trasformarlo in virtù. Un altro film, molto più tardo, A un chilometro da Wall Street, esprime bene l’insieme di smarrimento e tentazione che hanno segnato una generazione di uomini occidentali. Un sistema di valori, una epica cantata da film e libri, e anche un sistema educativo: le migliori università e i migliori tirocinii formativi dovevano sfornare i nuovi re. Giovani capaci di spremersi per giorni e notti (“i mercati non dormono mai”), ossessivamente programmati per “uccidere”, come i marines di Full Metal Jacket. Fino a trentacinque anni, missioni durissime, dedizione integrale, obbedienza pronta; poi te la godi, imbocchi la strada della leadership da esercitare sui nuovi giovani in arrivo… e soldi, sempre e tanti. Non è stato questo il sogno di migliaia e migliaia di laureandi in economia delle università di ogni parte dell’Occidente?
Ma c’è un altro elemento che suscita interesse nella citazione ratzingeriana fatta dal ministro. Ed è la denuncia di ciò che (da profani beninteso) si potrebbe definire “principio di separazione”. La finanza si separa dall’economia, e pretendendo di autofondarsi si perde. Così come si perde l’istruzione, separandosi dall’educazione; o la legge, privata del suo fondamento che è la giustizia; la politica se si distacca dal criterio del bene comune. E via di questo passo, nella sfera pubblica e in quella privata (amore e sesso, paternità e autorità, etc.). Il tema dei prossimi anni sarà come tenere unito ciò che si è voluto separare.
USA/ Dai Vescovi americani un richiamo a Obama: liberalizzando l’aborto si distrugge il bene comune - José Luis Restan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Il Cardinale Francis George è la figura più brillante dell’Episcopato statunitense, un teologo nel quale è facile riconoscere gli accenti e le preoccupazioni di Papa Ratzinger. Ora è anche presidente della Conferenza Episcopale, e, come se non bastasse, è l’Arcivescovo di Chicago, la città da cui è partita la stella di Barack Obama.
La provvidenza ha voluto che pronunciasse il suo discorso inaugurale all’assemblea dei Vescovi nordamericani a Baltimora, appena una settimana dopo le elezioni presidenziali: un intervento per nulla formalista, che merita profonda attenzione.
George non ha perso l’occasione per valorizzare il significato storico della vittoria di Obama: «Un Paese che un tempo aveva adottato la schiavitù razziale nella sua Costituzione ha eletto ora un afroamericano come Presidente, e per questo credo che tutti dobbiamo esultare».
Subito dopo, il Cardinale di Chicago parte da questa novità per denunciare una situazione che colpisce storicamente i cattolici negli Stati Uniti. Esprime felicità perché la coscienza sociale è avanzata fino al punto che nessuno ha chiesto a Obama di rinunciare alla sua origine razziale per essere presidente, al contrario di quanto avvenne quando Kennedy arrivò alla Casa Bianca e dovette garantire che la sua condizione di cattolico non avrebbe influito sulla visione delle cose.
Per il Cardinale, al giorno d’oggi i cattolici non sono arrivati a essere riconosciuti come veri “partner” per l’esperienza americana, a meno che non siano disposti a mettere da parte alcuni aspetti della dottrina cattolica riguardanti la morale e la politica. È un’affermazione seria, che rivela i limiti della laicità positiva americana e che pongono un grande interrogativo sul futuro.
Un altro passaggio del discorso anticonformista di George si riferisce al lavoro per il bene comune sul quale i politici, le Chiese e le comunità religiose e gli attori sociali dovranno trovare un terreno comune. Il Cardinale sostiene che la giustizia razziale e la giustizia economica sono pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, e pertanto elogia il fatto che entrambi gli aspetti sembrano occupare la nuova agenda presidenziale, ma avverte con forza che «il bene comune non può essere adeguatamente incarnato in nessuna società nella quale chi sta per nascere può essere legalmente ucciso».
Il richiamo è risuonato chiaro nel momento in cui i collaboratori di Obama lasciano intravvedere l’intenzione della nuova Amministrazione democratica di procedere a un’ampia liberalizzazione dell’aborto.
Inoltre, il Cardinale non ha paura di stabilire un paragone tra il danno che avrebbe avuto per la convivenza civile il mantenimento delle legge razziali (che avrebbero impedito l’elezione di Obama) e la ferita che oggi infligge l’aborto. Perciò richiama una decisione del Tribunale Supremo di 150 anni fa, secondo la quale gli afroamericani erano proprietà di altre persone, e sentenzia che oggi come allora «non si può trovare un terreno comune distruggendo il bene comune».
Ci sarà chi troverà troppo “acido” questo valoroso intervento, nella melassa generale che circonda il prossimo cambio nella Casa Bianca. In ogni caso il Cardinale George ha servito con rettitudine il suo paese e, cosa più importante, ha fatto sì che la voce della Chiesa abbia avuto peso e rilevanza in un dibattito troppo vuoto e teatrale come quello dell’ultima settimana.
SCUOLA/ La fatica dell’apprendimento: un evento dinamico, a partire dalle conoscenze e dagli interessi dell’alunno - Associazione Diesse - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
A che cosa fa riferimento l’insegnante quando trasmette conoscenze ai suoi alunni tentando, talvolta disperatamente, di farle diventare nelle loro menti competenze essenziali? Fa riferimento, di solito, ad un patrimonio più o meno ampio di saperi che gli derivano dagli studi che ha compiuto.
Gli studi e gli approfondimenti disciplinari sono ovviamente necessari, ma da soli non bastano nell’esercizio dell’aiutare ad apprendere. L’apprendimento nella persona umana, infatti, è un evento dinamico e non statico, cioè si accompagna al desiderio di apprendere e all’interesse per ciò che viene appreso. Perciò apprende l’alunno che viene messo in movimento verso la realtà dall’insegnante che a sua volta è dentro questo movimento di apprendimento-comprensione. Conseguentemente, per aiutare ad apprendere occorre essere immersi – stiamo parlando dell’insegnante – in un’esperienza di scuola in atto.
Ecco il valore del nesso tra apprendimento e sussidiarietà: aiuta l’altro, l’alunno, ad apprendere il docente che a sua volta guarda ad un contesto di esperienze sorte gratuitamente e liberamente in seno alla società e magari vi partecipa in qualche modo.
Inoltre, secondo passaggio, aiuta l’alunno ad apprendere il docente che nella sua scuola mette in atto la sussidiarietà cominciando a concepirsi non come una monade isolata, ma come un professionista capace di promuovere cultura insieme ai propri alunni e insieme ai propri colleghi.
Il particolare della materia assume senso solo in uno sguardo totale perché la realtà è la totalità.
Il “troppo” che spesso viene chiesto alla scuola, il “troppo” che si fa nel tempo scolastico abbassa il livello dell’apprendimento perché occorre ridurre all’essenziale per aumentare la presa sulla realtà.
I latini chiamavano la scuola ludus, gioco, cioè il momento in cui il ragazzo può ancora permettersi di esercitarsi alla realtà, si prepara alla responsabilità. La scuola è un luogo disciplinato di convivenza.
La sussidiarietà, che dalla società si trasferisce nell’educazione e diventa la prospettiva piena
dalla quale concepire l’apprendimento, fa ancora parte del nostro futuro.
In questa rubrica vorremmo mostrare che il futuro in parte è già cominciato.
In Vaticano c'è un giornale che fa rumore. Per qualcuno anche troppo - È "L'Osservatore Romano". Che due volte negli ultimi mesi ha suscitato le reazioni avverse di parte della gerarchia e del mondo cattolico, sui trapianti d'organo e l'eutanasia. Ma anche su altri temi i suoi commenti fanno discutere, dentro e fuori la Chiesa. Ad esempio su Pio XII e gli ebrei - di Sandro Magister
ROMA, 19 novembre 2008 – Un "giornale di idee": questo doveva essere "L'Osservatore Romano" quando tredici mesi fa il professor Giovanni Maria Vian ne ha preso il comando.
Un "giornale di idee" come l'aveva descritto già molti anni prima Giovanni Battista Montini, all'epoca arcivescovo di Milano, poi papa col nome di Paolo VI. Cioè un giornale che "non vuole soltanto dare notizie; vuole creare pensieri. Non gli basta riferire i fatti come avvengono: vuole commentarli per indicare come avrebbero dovuto avvenire, o non avvenire. Non tiene soltanto colloquio con i suoi lettori; lo tiene col mondo: commenta, discute, polemizza".
Oggi si può constatare che la promessa è stata mantenuta. "L'Osservatore Romano" fa da bollettino ufficiale soltanto per pochissime cose: quelle inquadrate ogni giorno nella rubrica "Nostre informazioni", con le udienze del papa e le nomine, che diventano esecutive una volta lì pubblicate. Ma per il resto è giornale di documenti, di notizie, di commenti e anche di polemiche, sotto l'autonoma responsabilità di chi vi scrive e di chi lo dirige. Col mondo intero come orizzonte e su questioni che non hanno confine.
Una di queste è ad esempio la morte. Che oggi convenzionalmente non si identifica più con l'arresto del cuore, ma con la cessazione totale delle funzioni del cervello. Questa convenzione, introdotta dal cosiddetto rapporto di Harvard del 1968, ha formidabili effetti pratici, perché consente i trapianti d'organo a cuore battente. Ma, appunto, di una convenzione si tratta. Discutibile e discussa. Lo scorso 2 settembre "L'Osservatore Romano" pubblicò in prima pagina un commento – a firma di Lucetta Scaraffia – che di fatto riaprì la disputa su che cosa attesti la fine della vita e quindi sulla liceità dei trapianti da cadavere come oggi praticati.
L'articolo suscitò un terremoto. Anzitutto dentro la Chiesa. La linea prevalente in Vaticano era ed è di consenso alla pratica dei trapianti d'organo previo accertamento della morte cerebrale. Un coro di proteste si levò nella curia contro "L'Osservatore Romano". Era anche in vista, in Vaticano, un convegno sui trapianti d'organo, e furono fatte pressioni perché il papa, in quell'occasione, chiudesse la disputa confermando come valido il criterio della morte cerebrale.
Ma Benedetto XVI, quando lo scorso 7 novembre ricevette i convegnisti, si pronunciò diversamente. Non parlò di morte cerebrale. Disse che "la scienza, in questi anni, ha compiuto ulteriori progressi nell'accertare la morte del paziente". E ammonì che "dove la certezza ancora non fosse raggiunta deve prevalere il principio di precauzione".
Il papa diede così ragione a "L'Osservatore Romano" e a quegli studiosi della Pontificia Accademia delle Scienze che in un precedente convegno in Vaticano, il 3-4 febbraio 2005, si erano pronunciati a maggioranza contro il criterio della morte cerebrale. A riprova, comunque, di quanto le autorità vaticane siano divise sulla questione, basti dire che il cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, il vescovo Marcélo Sánchez Sorondo – tenacissimo sostenitore della morte cerebrale come concetto valido di definizione della morte –, dispose che gli atti di quel convegno del 2005 non fossero pubblicati. E oggi che la disputa si è riaperta, è corso a mettere in cima ai testi on line dell'Accademia, nel sito web del Vaticano, solo le tesi di quelli che la pensano come lui.
In ogni caso, questa controversia riaperta da "L'Osservatore Romano" non è affatto solo interna alla Chiesa. Ne ha ampiamente discusso "The Economist" del 4 ottobre nell'articolo di apertura della sezione "Science and technology". Vi è tornato sopra "Le Monde" del 2-3 novembre con un'analisi del suo direttore della sezione scientifica Jean-Yves Nau. In Italia ne ha parlato il professor Marco Ventura in una nota sul "Corriere della Sera" del 3 novembre.
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Ma questa sulla morte cerebrale è solo una delle tante dispute "di idee" accese ultimamente da "L'Osservatore Romano".
Un'altra, recentissima, riguarda la definizione di salute come "stato di completo benessere psichico, fisico e sociale", fissata nel 1946 dal Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. In un commento pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 19 novembre, il professor Carlo Bellieni ha messo in luce le pericolose conseguenze derivate da questa definizione: in particolare quella "medicalizzazione del desiderio" che arriva fino a ritenere la vita stessa una patologia cui mettere fine quando si vuole, anche da parte di persone non affette da malattie mortali.
Pochi giorni prima, su "L'osservatore Romano" del 15 novembre, ha creato scintille un articolo di Lucetta Scaraffia sul caso di Eluana Englaro, una giovane in stato vegetativo come lo fu l'americana Terri Schiavo, e come questa condannata a morire di fame e di sete, per una sentenza della magistratura italiana che ne ha autorizzato l'eutanasia. Scaraffia ha rimproverato i cattolici di essere stati poco "convincenti" nel creare consenso a difesa della vita di Eluana, per debolezza di argomentazione e di comunicazione pubblica. E con questo rimprovero ha irritato non poco il giornale capofila della battaglia a favore di Eluana, "Avvenire", di proprietà della conferenza episcopale italiana.
Sul versante della storia, "L'Osservatore Romano" ha portato elementi nuovi su una materia di discussione più che mai incandescente, quella riguardante Pio XII, il nazismo e gli ebrei. Soprattutto ha fatto colpo, il 9 ottobre, un'ampia intervista col direttore del più diffuso giornale laico italiano, Paolo Mieli, di famiglia ebrea, nella quale questi smantella la "leggenda nera" su Pio XII, da lui anzi definito "il papa più importante del Novecento".
Va aggiunto che tra i suoi commentatori ricorrenti "L'Osservatore Romano" ha due ebrei: il matematico Giorgio Israel e la storica Anna Foa. È a quest'ultima che ha affidato, sulla prima pagina del 10 novembre, il ricordo della "notte dei cristalli", il pogrom antiebraico che settant'anni fa diede inizio in Germania alla persecuzione che si concluse con la Shoah.
Per ora manca, tra i columnist del giornale del papa, un musulmano. Ma tra pochissimo ci sarà. Il suo nome è Khaled Fouad Allam, nato in Algeria e cittadino italiano, professore all'Università di Trieste, autore di libri di notevole profondità sulla cultura islamica e sul rapporto tra islam e Occidente cristiano.
Ultimo di questa breve rassegna, ma non d'importanza, è l'apporto all'analisi dell'economia mondiale dato su "L'Osservatore Romano" da un economista e banchiere cattolico di alto livello e dai giudizi molto originali, Ettore Gotti Tedeschi, presidente in Italia del Banco Santander Central Hispano. In una delle sue note, lo scorso 18 ottobre, così concludeva:
"Essendo tempo di premi Nobel, abbiamo la tentazione di proporre l'istituzione di una nuova categoria: un Nobel per l'antieconomia, da conferire a chi causa maggiori danni all'economia mondiale. E oggi di candidati ce ne sono parecchi".
Noi cattolici senza casa - Anche in Europa, a un’ora di aereo da Roma, c’è un paese dove i cristiani subiscono lo sfratto della maggioranza islamica. L’allarme di Puljic, arcivescovo di Sarajevo. - di Lorenzo Fazzini
Bosnia Herzegovina, terra d’Europa a rischio “islam integralista”. L’ultimo caso è quello di un processo giudiziario contro ex mujaheddin islamici combattenti nella guerra degli anni Novanta, oggi “felicemente” integrati nell’apparato statale bosniaco: tale procedimento penale è stato insabbiato dalle autorità di Sarajevo. Secondo alcuni osservatori, quelli che un tempo, in nome del jihad, combattevano contro i cristiani serbi e croati oggi operano sottotraccia per imporre con la violenza la supremazia coranica nel cuore dei Balcani.
«Nel mio paese non esistono diritti umani uguali per tutti, i cattolici sono di-scriminati sia dai serbi che dai musulmani. E la comunità internazionale (leggi Onu, ndr) non fa niente, anzi: i militari, su comando dei politici, irrompono nelle nostre scuole dove si insegna la tolleranza tra le diverse religioni». La denuncia è di quelle autorevoli, viene da Vinko Puljic, arcivescovo cattolico di Sarajevo dal gennaio 1991, pochi mesi prima dello scoppio del sanguinoso conflitto. Quando a 49 anni ricevette la sua nomina a cardinale nel 1994, segno di affetto di Giovanni Paolo II per la città assediata dai cecchini, Pu-ljic diventò il porporato più giovane di tutto il collegio cardinalizio. Nei giorni scorsi l’arcivescovo di Sarajevo è stato ospite del Centro Papa Luciani di Belluno. Tempi lo ha intervistato sulla situazione “dimenticata” dei cattolici in Bosnia.
Eminenza, recentemente il vescovo di Banja Luka, monsignor Franjo Komarica, ha denunciato che solo il 2 per cento dei cattolici di Bosnia esuli per la guerra sono potuti ritornare alle loro case. Qual è la situazione dei cattolici nel vostro paese?
Grazie per la domanda. Dopo gli accordi di Dayton, la Bosnia è stata divisa in due zone, una repubblica in cui è tutto in mano ai serbi, e un’altra interetnica, dove ci sono Sarajevo e Banja Luka. Nella prima repubblica, su 220 mila cattolici presenti prima dei combattimenti, oggi ve ne sono solo 12 mila. Perché? Il governo serbo non dà sicurezza a chi vuole tornare. Ci sono gravi problemi dal punto di vista burocratico e delle infrastrutture: mancano le case per chi vuole rientrare. Di tutti i programmi di aiuto di carattere internazionale stabiliti per questa zona, nessuno è andato a vantaggio dei cattolici, ma solo dei serbi (ortodossi, ndr) che sono al governo. Ho denunciato questo fatto anche a livello internazionale, ad esempio al governo austriaco. Il ministro degli Esteri di Vienna mi ha detto che sbaglio e che loro hanno dato 7 milioni di euro per chi vuole tornare. Ma ho replicato: grazie, ma mi si dimostri che con quei soldi è stata costruita una sola, anche una sola casa per i cattolici! Io, come tutti i vescovi di Bosnia, grido che mancano i diritti fondamentali uguali per tutti.
E sul versante musulmano?
In ogni città dove i musulmani sono la maggioranza (Sarajevo, Tuzla, Srebenica, dove gli islamici sono l’85 per cento della popolazione), i diritti non sono uguali per tutti. I musulmani possono costruire ovunque le moschee che vogliono, ne hanno fatte più di settanta dalla fine della guerra. Noi cattolici è da nove anni che chiediamo di costruire una chiesa. Qui c’è anche una responsabilità della comunità internazionale, che non vuole fare pressioni perché si arrivi a una vera situazione di uguaglianza. Le faccio un esempio. In un comune vicino a Sarajevo, Ilija, dove prima della guerra c’era una grande comunità cattolica, abbiamo presentato le carte per ricostruire le case, ma non ci sono stati concessi i permessi. Persino a livello di investimenti industriali si assiste a discriminazioni contro i cattolici: vengono dati subito i permessi di costruire ai musulmani, non ai nostri.
E lei come si spiega questa situazione di discriminazione?
Durante il conflitto la Chiesa cattolica è stata l’unica organizzazione stabile. Mentre tutto era distrutto, i miei preti si sono dimostrati coraggiosi e pronti a dare aiuto a chiunque. La Chiesa cattolica va avanti da sola senza appoggiarsi a questo o quel potere, e questo non è gradito alla comunità internazionale e al governo di Sarajevo. Noi siamo liberi perché durante i bombardamenti aiutavamo tutti quelli che erano nel bisogno, per lo più musulmani, con cibo e medicine. Le nostre scuole oggi sono aperte a cattolici, ortodossi, musulmani e atei, perché vogliamo educare i giovani alla tolleranza. Ma la politica locale e la comunità internazionale non vogliono questo processo. Anche i militari internazionali (i caschi blu, ndr) sono entrati nelle nostre scuole per dire che quello che facciamo non va bene. Certo, non sono i militari che vogliono questo, io ho ottimi rapporti con i comandanti e i carabinieri, ma loro obbediscono ai politici che hanno il potere.
Come valuta il recente primo incontro del Forum cattolico-islamico in Vaticano? A capo della delegazione musulmana vi era proprio il gran muftì di Bosnia, lo sceicco Mustafa Ceriç.
Il risultato non è grande, ma è molto importante lavorare per il dialogo perché non c’è alternativa. Bisogna sempre creare un clima che assicuri la stabilità per il futuro. Anche noi a Sarajevo, periodicamente, otto-nove volte all’anno, facciamo delle riunioni come capi religiosi ebrei, ortodossi, cattolici e musulmani su alcuni temi. Ma i problemi devono essere risolti dalla politica: io lavoro per creare uno Stato bosniaco in cui i cattolici siano liberi.
Sulla base della sua esperienza di pastore in un paese a maggioranza islamica, cosa manca ai risultati del Forum?
Bisogna chiedere ai musulmani il concetto di reciprocità. Gli islamici in Europa trovano il rispetto dei loro diritti, quindi è necessario garantire gli stessi diritti ai cristiani nei paesi musulmani. Come vivono i cristiani in Turchia, in Iraq, in Iran, in Pakistan e anche in Bosnia? Quando giungono in Europa, i musulmani costruiscono le loro moschee, a Colonia, Roma, Vienna… Quando è stata costruita l’ultima chiesa in Turchia? Il governo di Istanbul vuole entrare nell’Unione Europea, ma quando ha permesso l’ultima costruzione di un edificio cristiano? Inoltre bisogna rispettare la libertà di coscienza. Quando un musulmano riceve il cristianesimo, tutti, a cominciare dalla famiglia e dalla società, diventano suoi nemici.
Come vive oggi la Chiesa in Bosnia?
Continuiamo il nostro lavoro pastorale con i preti, le scuole, la Caritas, seppur tra tante croci, ma questa è la nostra vita. Sono molto grato ai nostri sacerdoti, religiosi e religiose, davvero coraggiosi: grazie a Dio abbiamo ancora vocazioni e famiglie molto religiose. Ma i cattolici d’Europa devono essere più vicini ai cattolici bosniaci: tra Sarajevo e Roma vi è poi solo un’ora di aereo! Devono impegnarsi, perché in Bosnia i diritti umani non sono uguali per tutti.
COINCIDENZE
Grazie YouTube, Grazie Onu
Negli stessi giorni in cui un poeta giordano viene trascinato in giudizio ad Amman per versi d’amore che oltragge-rebbero il Corano (vai all'articolo), YouTube premia la regina di Giordania per i suoi video «contro i pregiudizi sul mondo arabo». Stupendo. E non è straordinario che mentre si denuncia una presunta islamofobia in Europa, l’islam politico espella i cattolici dall’europea Sarajevo?
http://www.tempi.it/esteri/003956-noi-cattolici-senza-casa
Il vero nemico della salute è la perdita della speranza - Bellieni risponde a chi usa le malattie per cancellare la persona, di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 20 novembre 2008 (ZENIT.org).- Che cos’è la salute? Perché un disabile o una persona affetta da malattie permanenti si comporta meglio di chi non ha nessuna malattia? Come si deve comportare il medico di fronte alla malattia?
A queste e altre domande ha cercato di rispondere, in questa intervista a ZENIT, il professor Carlo Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
In un editoriale pubblicato da “L’Osservatore Romano” il 19 novembre, Bellieni aveva scritto che la definizione di salute promulgata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 - “la salute è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale” - finì col nascere zoppa e insoddisfacente.
“Come ben si capisce – aveva spiegato – la definizione rischia di scivolare nella pura utopia, dato che nessuno può vantare un simile livello di benessere, o di far diventare malattia ogni stato di non completo benessere, e questo porta ad una serie di conseguenze che ancor oggi paghiamo”.
Tra le conseguenze di questo modo di vedere, Bellieni aveva citato la creazione di un mercato delle malattie, “la corsa ad una vera e propria creazione di ‘nuove malattie’ per vendere nuovi farmaci”, la medicalizzazione del desiderio – per cui “se tutto può diventare malattia, il medico può essere chiamato a soddisfare richieste che non solo non condivide, ma che sa che possono nuocere alla salute” – e lo scoraggiamento di tanti malati ad ottenere una reale salute, dato che questa sarebbe solo un “pieno benessere”.
Quale può essere un approccio positivo e costruttivo alla parola “salute”?
Bellieni: Per rispondere proviamo a pensare a quando sentiamo di non godere di buona salute, di non essere sani. Forse risponderemo che ci sentiamo non sani quando abbiamo una malattia; ma tutti sappiamo che certe malattie possono essere presenti e noi non accorgercene, o che ci sono noti personaggi che pur con gravi handicap sono formidabili tenori o jazzisti, o sportivi di fama. Dunque, dovremo cercare un’altra via per definire la salute.
Forse quella più semplice è capire che ci sentiamo “non sani” quando vorremmo fare una cosa che riesce agli altri nostri “pari” (per età o per sesso, ad esempio) e non ci riesce; oppure quando non riusciamo più a fare una cosa che di solito ci riusciva facile. Insomma: la parola salute è legata a filo doppio con la parola desiderio. La salute è la possibilità che i nostri desideri si realizzino.
Tutti i desideri?
Bellieni: Ovviamente non i desideri fuori dell’ordinario come per esempio andare sulla luna (a meno che non siamo astronauti), o di correre i 100 metri in 10 secondi netti (a meno che non siamo in lotta per una medaglia olimpica); ma i desideri quotidiani, quelli ordinari di giustizia, di bellezza, di pace, e quelli personali, di fare le cose che amiamo fare. Ovviamente i desideri di un bambino sono ben diversi da quelli di un adulto, e quelli di un giovane ben diversi da quelli di un vecchio, quelli di un malato grave diversi da chi non ha quella malattia; ma la sostanza non varia: la salute è la realizzazione dei desideri “propri” dell’età o dello stato, “adeguati” al singolo individuo. Altrimenti si cadrebbe in quella che è stata definita “medicina dei desideri”, ma che sarebbe più giusto chiamare “medicina delle pretese”.
E per un malato?
Bellieni: Il malato, come ogni altra persona, ha i suoi desideri. Il problema nasce se la sua patologia – talora non risolvibile - non lascia vedere altro al di fuori di essa. Questo è la mancanza di salute reale: la perdita del desiderio, offuscato dalla patologia. Per questo tutto deve essere fatto per sconfiggere la malattia: perché il desiderio della persona non venga offuscato. Chi può negare che gli atleti disabili, per esempio quelli che abbiamo visto alle Paralimpiadi, compiano dei gesti atletici stupendi, segno paradossalmente di ottima salute perché segno di un desiderio sano? O che certi artisti famosissimi pur nella loro disabilità compongano o cantino in modo invidiabile ai “sani”?
Ma certe malattie sono gravissime.
Bellieni: E’ vero, ed è anche vero che tante persone con malattie gravissime offrono esempi di speranza e serenità. Come è possibile questo? Forse solo pensando che anche la peggiore malattia può non essere l’ultima parola su di sé. Questo non significa sottovalutare la cura (che siamo ancor più tenuti a offrire), ma valorizzare la persona.
Dunque la malattia può non essere un ostacolo assoluto alla salute.
Bellieni: Pensare che lo sia sarebbe togliere speranza a tanti malati. In fondo il contrario di “salute” non è la malattia, ma la disperazione, la perdita del desiderio. La malattia è un ostacolo alla salute nella misura in cui blocca la strada della realizzazione dei desideri, e per questo va sconfitta con tutte le armi della medicina e della volontà. Ma il vero nemico della salute è la perdita del desiderio, la perdita della speranza, la disperazione.
E’ questo il vero nemico di cui le malattie non sono che delle avanguardie. E per questo la parola d’ordine è “mai abbandonare” il malato, sia dal punto di vista umano per valorizzarne tutte le capacità, sia dal punto di vista medico (finché la medicina ha una possibilità di essere utile): la medicina deve progredire e la società deve fare ogni sforzo per rendere questo progresso accessibile a tutti e ancor più spedito.
La tragedia di Pogliano Milanese - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 20 novembre 2008
Pogliano Milanese: soffoca l'anziana madre inferma e poi si consegna ai carabinieri
Quando una persona è colpita da ictus e non è più in grado di provvedere a sé stessa, quando la sua vita diventa bisognosa di attenzione continua perché anche lavarsi, mangiare, o prendersi cura della propria igiene, diventa un problema insormontabile senza l’ausilio di una persona accanto, che si fa?
Cosa si deve fare in una società che si dice civile e che quindi dovrebbe inorridire al pensiero di mettere queste persone fuori dalle mura della città e abbandonarle al loro destino, come si faceva molti secoli orsono?
A Pogliano Milanese, Mariangela, 57 anni, si è presa cura della madre di 83 anni affetta da ictus, poi anche il fratello sessantenne si è ammalato, non poteva più camminare e lei ha dovuto lasciare il suo lavoro e stravolgere la sua vita per accudire i suoi familiari.
Sia chiaro, non è l’unica in queste condizioni e sono certa che lo Stato le versava anche l’assegno di accompagnamento, una cifra mensile che si aggira attorno ai 600 euro e poi ci sarà stata anche la pensione di vecchiaia, lo Stato avrà pensato “ho già dato”.
Sul sito del comune di Pogliano, nella guida ai servizi ci sono tutte le indicazioni per ottenere questi benefici, e numerosi altri servizi per gli anziani, compreso un corso su come non farsi truffare, ma Mariangela aveva bisogno d’altro, di sostegno, di compagnia, di qualcuno che la sostituisse qualche giorno alla settimana per poter riprendersi almeno in parte un po’ delle sue abitudini, della sua vita.
Quella vita che per lei era diventata troppo faticosa, una fatica che le è sembrata insopportabile, senza futuro.
La solitudine e forse la rabbia per questa fatica che portava da sola, hanno fatto in modo che mettesse in atto un piano diabolico.
Uccidere la madre e convincere il fratello a suicidarsi con lei.
Così appena la madre si addormenta la soffoca con un sacchetto di plastica, il fratello nell’altra stanza non se ne rende nemmeno conto, ma poi non ne vuole sapere di porre fine alla sua vita e allora Mariangela, esce, torna a casa sua, mette uno sgabello sotto alla finestra decisa a farla finita, a buttarsi nel vuoto.
Ma le manca il coraggio, prevale la vita, perché la morte non è mai la soluzione.
Anche se attorno a noi tutto concorre a farci pensare che sia la soluzione alle difficoltà del vivere, ad una vita che come spesso si dice oggi ha: "una qualità insufficiente”, anche Mariangela la pensava così, ma un attimo dopo ha cambiato idea, ha chiamato i carabinieri si è consegnata loro.
Non va lasciata sola Mariangela, non andava lasciata sola nemmeno prima, dobbiamo imparare da questa tragedia che spesso i sostegni economici che pure ci vogliono, non bastano.
Perché non è la pensione, l’assegno di accompagnamento che possono risolvere tutti i disagi, ci vuole una rete di servizi e di rapporti umani che renda la quotidianità di queste famiglie e di queste persone più serena, si fa molto, anche con il volontariato, ma non basta.
Quello che va ripristinato è la cultura dell’aiuto, della condivisione, della com-passione, intesa come patire insieme.
Ma come sarà possibile questo, se ci abituiamo a vedere nell’handicappato, nella persona non più autosufficiente, qualcuno costretto a vivere una vita non degna?
Come potremo condividere la vita e la fatica con tutte le Mariangele che oltretutto, dedicandosi ai propri cari infermi, sgravano lo Stato da una grande fetta di spesa pubblica per un’assistenza ospedaliera che viene evitata, come potremo trovare la modalità di condividere la vita, di alleggerire la loro quotidianità se in fondo, magari senza ammetterlo nemmeno a noi stessi, pensiamo che quelle persone così 'sofferenti' sarebbe stato meglio, per il loro meglio, che il dio della morte se le fosse prese evitando il disturbo, la fatica e il costo che comportano?
La testimonianza di un missionario saveriano - Digiuno e solidarietà - con le popolazioni del Congo – L’Osservatore Romano, 20 Novembre 2008
Kinshasa, 19. "Viviamo la nostra solidarietà con il popolo congolese accompagnando l'impegno per la pace con il digiuno, portando nel nostro corpo un po' della loro fame e condividendo un po' del nostro cibo. Abbiamo iniziato il 29 ottobre, nella memoria del vescovo martire di Bukavu monsignor Muzihirwa. Il cerchio degli aderenti si sta allargando, persone singole e gruppi, oltre trecento adesioni. Il digiuno a catena ci permette di mantenere un cuore vigile e di continuare le normali attività della giornata". È la testimonianza di don Silvio Turazzi, da molti anni missionario saveriano tra le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo. Perché il digiuno? "Il digiuno - spiega il missionario - ridà all'oralità quella disciplina che la fa passare dal consumo al ringraziamento e dalla voracità alla comunione. Chi prova a digiunare scopre quanto potente sia in lui l'istinto alla collera, al cattivo umore, all'egoismo, può ritirarsi spaventato di fronte ai lati oscuri e ignorati del proprio essere, ma può anche accettare di farvi fronte e di porsi domande essenziali: "Chi sono io? Quali sono i miei desideri? Cosa mi tocca in profondità? Cosa mi lascia insoddisfatto? E cosa invece, mi dà pace?"".
Davanti a situazioni di conflittualità come la guerra, che stanno vivendo le popolazioni del Nord Kivu, le cui conseguenze sono sempre più gravi, "mi sento particolarmente coinvolto. C'è una responsabilità collettiva su quanto avviene. Il cellulare, il computer - sottolinea don Silvio - funzionano anche con il coltan, un minerale che importiamo da quelle terre. La tecnologia avanzata di oggi, a nostro servizio, ha bisogno di cassiterite, di niobio, rame, oltre il petrolio, l'oro, i diamanti. Il controllo di quelle ricchezze è il vero motivo della guerra. Ho bisogno di purificare il cuore, di togliere i pesi che mi impediscono o rallentano l'incontro con gli altri, che vorrei riconoscere prima delle cose. Debbo avere le mani libere per stringere la mano dell'altro. Mi sembra una condizione necessaria, un passo essenziale per avvicinarmi alla verità che mi permette di riconoscere l'altro nella sua dignità fondamentale di uomo-donna e la comune appartenenza alla famiglia umana. La soppressione dell'altro, dei tanti che avviene in questi giorni con uccisioni e massacri, spostamenti forzati - aggiunge il missionario - è negazione della "verità" sull'uomo. Ciascuna di quelle persone ha un nome, una sola esistenza qui sulla terra".
Don Silvio sa che la guerra porta ferite inguaribili e provoca odio. "Questo è un atteggiamento che con l'aiuto di Dio e la saggezza dei giusti, vorremmo insieme superare per deporre le armi e disarmare i cuori. È saggezza che prepara la pace. Questo non calpesta le esigenze della giustizia: non possiamo mettere sullo stesso piano assassini e vittime. Quando guardiamo le persone, nessuno ci può essere indifferente, nessuna può essere guardata con odio. Vorrei restare a fianco della popolazione congolese con i missionari/e - conclude - che preferisco chiamare migranti del vangelo, in comunione di vita. Il digiuno mi aiuta a restare vigile e disponibile. Mi aiuta a riscoprire con serenità la croce come apertura di sé agli altri, come forza pulita di amore, come passo che prepara l'incontro".
(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2008)
20/11/2008 12.46.00 – Radio vaticana – I monasteri indicano al mondo l'essenziale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore: così il Papa alla Congregazione per la vita consacrata
I monasteri sono oasi spirituali che indicano al mondo ciò che è essenziale: “cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore”. E’ quanto ha affermato stamani il Papa ricevendo i partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che quest’anno celebra i suoi cento anni di attività. Il servizio di Sergio Centofanti.http://62.77.60.84/audio/ra/00138945.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00138945.RM
La plenaria del dicastero ha affrontato quest’anno un tema “particolarmente caro” al Papa: il monachesimo. Il Pontefice ha evidenziato l’importanza della vita monastica nella storia, sottolineando quale sia il suo scopo:
“cercare Dio e cercarlo attraverso Gesù Cristo che lo ha rivelato (cfr Gv 1,18), cercarlo fissando lo sguardo sulle realtà invisibili che sono eterne (cfr 2 Cor 4,18), nell’attesa della manifestazione gloriosa del Salvatore (cfr Tt 2,13)”.
I monasteri diventano così oasi spirituali che indicano all’umanità il primato assoluto di Dio nell’adorazione continua della “misteriosa ma reale presenza divina nel mondo” e nella comunione fraterna vissuta secondo “il comandamento nuovo dell’amore e del servizio reciproco, preparando così la finale manifestazione dei figli di Dio”:
“Quando i monaci vivono il Vangelo in modo radicale, quando coloro che sono dediti alla vita integralmente contemplativa coltivano in profondità l’unione sponsale con Cristo … il monachesimo può costituire per tutte le forme di vita religiosa e di consacrazione una memoria di ciò che è essenziale e ha il primato in ogni vita battesimale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore”.
“La via additata da Dio per questa ricerca e per questo amore – ha proseguito il Papa - è la sua stessa Parola, che nei libri delle Sacre Scritture si offre” con abbondanza alla riflessione degli uomini. E’ a partire dall’ascolto orante di questa Parola che nei monasteri si eleva silenziosamente una preghiera che diventa testimonianza per quanti vengono accolti come fossero Cristo stesso in questi luoghi di pace ma che è per il bene di tutta l’umanità:
“Invochiamo Maria, la Madre del Signore, la ‘donna dell’ascolto’, che nulla antepose all’amore del Figlio di Dio da lei nato, perché aiuti le comunità di vita consacrata e specialmente quelle monastiche ed essere fedeli alla loro vocazione e missione. Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell’unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell’Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione”.
Sul discorso rivolto dal Papa ai partecipanti alla plenaria ascoltiamo, al microfono di Amedeo Lomonaco, il commento del ministro generale dei Frati Minori, padre José Rodriguez Carballo:
R. – Vorrei soltanto sottolineare che nelle parole del Santo Padre appare sempre un grande amore per la vita consacrata e per la vita monastica. Il Santo Padre, oltre a quello che dice, trasmette questo amore e questa fiducia nella presenza e nella testimonianza della vita consacrata e questo per noi consacrati è molto importante e di questo veramente ringraziamo il Santo Padre.
D. – Cosa vuol dire, oggi, essere monaci in un tempo così complesso come il nostro?
R. – Il Santo Padre, proprio nel discorso di oggi, ha centrato la vocazione monastica nel cercare Dio, e questo penso sia la grande vocazione ed il segno, direi profetico, della vita monastica nel mondo di oggi. In un tempo in cui sembra che Dio ormai non esista, o almeno in un tempo in cui tanti si comportano come se Dio non esistesse, il monaco ci ricorda non soltanto l’esistenza di Dio, ma ci ricorda che Dio deve essere al centro della vita e che Dio fa sì che una persona possa realizzarsi pienamente.
RADICALE METAMORFOSI DELLA NOSTRA CIVILTÀ - Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili - MARINA CORRADI – Avvenire, 20 novembre 2008
Secondo molti – lo senti dire alla radio e in tv, e ripetere nei bar – la pietà 'vera' sarebbe recidere quella vita incosciente in un letto d’ospedale.
Sospendere acqua e nutrimento a Eluana Englaro è giudicato, da un gran numero di persone in buona fede, misericordioso. Che cosa sia la pietà, cioè il volere il bene di un altro più debole, pare oggi dunque l’oggetto di una metamorfosi profonda della modernità. Da almeno trent’anni si allarga tra noi un pensiero non esplicito, e però evidente nel momento delle scelte sulla vita o sulla morte. Se una donna è incinta, è prassi fare tutti gli esami per accertare se il bambino è normale; e se qualcosa sembra non andare, la prima possibilità che di fatto quasi naturalmente si valuta è l’aborto. Molti Paesi in questi stessi anni si sono dati leggi che stabiliscono un 'diritto' del malato a morire, benché le tecniche per la palliazione del dolore siano incomparabilmente più progredite che nei tempi in cui di eutanasia non si parlava. Addirittura in un recente caso di cronaca italiana l’avere fatto proseguire la gravidanza di una donna in stato di morte cerebrale fu condannato da chi accusava i medici di avere usato quella madre come una incubatrice (della bambina nata così 'scorrettamente' , e tuttavia viva e sana, suo padre ringraziò poi quei dottori). Sia che si tratti di fine della vita, e ancora più del suo principio, sembra che nella cultura oggi dominante si possa leggere una 'prima opzione' per il non vivere – un istintivo favore per il nulla. Come se alla vita si guardasse con diffidenza.
Come disposti ad accettarla solo dopo un minuzioso inventario. Se tutto è al suo posto, allora si può arrischiarsi a fare nascere un figlio. (L’esame diventa però sempre più pignolo e occhiuto. L’indagine pre embrionale consente di individuare gli embrioni portatori di alcune malattie che si sviluppano solo nella maturità: ma già questo induce a scartare figli in un lontano futuro forse malati). La vita al suo presentarsi si accetta con beneficio di inventario; e alla sua fine ci si premura di poter praticare il 'diritto di morte' (in genere finché si è sani, perché da malati spesso si ragiona diversamente). E quand’anche una come la Englaro, pure in stato vegetativo, vive senza alcuna 'spina' artificiale, si pretende di farla morire, e questa viene chiamato pietà.
Segni diversi di un identico sguardo sulla vita; di uno sfavore, quasi di un radicale sospetto verso la bontà, e il senso, di ciò che nella tradizione cristiana è 'dono'. Dono? Questa stessa espressione è intaccata, in decenni di battaglia per il 'diritto' a nascere sani, e a decidere quando una vita non ha più 'dignità'. Come soldati arruolati in una guerra di cui non riconoscono più la grandezza e il senso, in quarant’anni gli occidentali hanno legalizzato e quasi eretto a sacro tabù l’aborto, lavorano per la selezione dei nascituri sani e premono per l’eutanasia. Perché vivere si può, solo nelle migliori delle condizioni possibili. Solo così stare al mondo ci sembra accettabile, e non una condanna peggiore del non essere. Così come la prima ipotesi alimentata nei genitori davanti a un dubbio sulla salute del nascituro è cancellarlo, anche la sentenza Englaro appare a molti ragionevole. La chiamano pietà, e in fondo si potrebbe dire che, dentro a una forma mentis nichilista, sono sinceri. Se la vita non è più né mistero né dono, né attesa di niente, assurda è la sofferenza.
Se non c’è alcun disegno oltre questa nostra materia, sopprimerci per il nostro bene, quando siamo 'guasti', è logico. La nuova pietà che fa morire di fame una donna incosciente è radicata al fondo in un’ampia, inconsapevole opzione per il nulla.
Stato vegetativo, quando la diagnosi è sorpassata - di Viviana Daloiso – Avvenire, 20 novembre 2008
«Nello studio dei pazienti come Eluana noi medici ci siamo seduti per troppo tempo». Ora un approccio nuovo svela scenari sorprendenti La denuncia di Steven Lureys, il neurologo dell’Università di Liegi che sta rivoluzionando la medicina
1I risultati che si stanno conseguendo in alcuni centri di ricerca europei «dimostrano che si possono compiere passi avanti»
2Alla luce di queste novità, andrebbero riviste molte diagnosi
La scienza non entra nelle questioni etiche. Non conosce giusto o sbagliato, bene o male. La scienza studia i fatti, e trae conclusioni oggettive. Suona più o meno così il ritornello ripetuto, anche nel nostro Paese, quando una qualche scoperta scientifica sconvolge i riferimenti dati per acquisiti aprendo la porta a discutibili pratiche come la manipolazione genetica, la clonazione, la distruzione di embrioni. Sono i progressi della scienza – si dice –, chi bada all’etica non scocci.
Eppure oggi, mentre la vita di Eluana attende di essere interrotta, di scienza si parla singolarmente assai poco. Si discute solo di giustizia, di diritti, di libertà. La scienza no, stavolta è lei a non dover scocciare. Curioso capovolgimento della realtà, visto che i passi avanti compiuti nello studio degli stati vegetativi offrirebbero ben più di uno spunto di riflessione nella vicenda Englaro.
Basterebbe, ad esempio, interessarsi di quel che sta studiando il professor Steven Laureys, giovane neurologo di fama mondiale dell’Università di Liegi, in Belgio, che insieme ad Adrian Owen – il ricercatore britannico i cui studi sono stati citati nel ricorso della Procura generale di Milano alla Cassazione – ha rivoluzionato le teorie sui pazienti nelle condizioni di Eluana, dimostrandone la conservazione di una forma di coscienza.
Professor Laureys, definiamo innanzitutto i termini della questione.
Che cosa si intende per stato vegetativo?
«La coscienza ha due componenti principali: la veglia e la consapevolezza (di sé e degli altri). Lo stato vegetativo è caratterizzato dalla presenza della prima senza la seconda».
Quindi, scientificamente parlando, è scorretto dire che questi pazienti non sono coscienti?
«La coscienza è un concetto sfaccettato.
Nel caso dei pazienti in stato vegetativo non manca la coscienza, ma l’associazione tra le sue componenti. Purtroppo spesso si verificano due fraintendimenti in questo senso: i familiari o i medici non specializzati credono che se il paziente muove gli occhi o emette dei suoni – come in alcuni casi accade – sia completamente cosciente, o, all’opposto, che se non si muove e non emette alcun suono sia del tutto privo di coscienza».
Vuol dire che anche un paziente del tutto immobile, e che non mostra alcun tipo di reazione agli stimoli esterni, può conservare un livello di coscienza superiore rispetto a uno che invece si muove ed emette suoni?
«Esatto. D’altronde queste convinzioni errate vanno ricondotte alla scarsissima conoscenza degli stati vegetativi e degli strumenti con cui oggi, finalmente, possiamo fare diagnosi più obiettive sui pazienti in queste condizioni».
Può spiegarci a che strumenti si riferisce?
«Alla risonanza magnetica funzionale, per esempio, che tramite immagini ci permette di evidenziare la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello o del midollo spinale; alla tomografia a emissione di positroni, una tecnica che produce immagini tridimensionali o mappe dei processi funzionali all’interno del cervello; e ancora all’elettrostimolazione ad alta intensità, tramite cui cerchiamo di registrare sensazioni di dolore nei pazienti. Si tratta di tecniche che la medicina impiega ormai in diversi campi, ma che fino a poco tempo fa non erano state utilizzate per indagare il livello di coscienza coi pazienti in stato vegetativo, in coma, o in sindrome locked-in».
I pazienti in stato vegetativo come 'rispondono' a questi test?
«Va detto che in tutti questi pazienti c’è una risposta cerebrale agli stimoli provenienti dall’esterno. Infatti si assiste – lo ripeto, in tutti i casi – a un’attivazione delle cortecce sensoriali 'primarie'. La differenza di caso in caso, invece, dipende da quanto queste aree di attivazione risultano disconnesse da quelle 'superiori', come le aree associative, indispensabili per la consapevolezza di sé e dell’ambiente esterno. Abbiamo casi in cui questa 'separazione' è definitiva, altri in cui è solo parziale, altri – sorprendenti – in cui le aree mostrano di interagire parzialmente tra loro».
È il caso della famosa partita di tennis mentale giocata da alcuni pazienti in stato vegetativo, seguiti a Cambridge da Adrian Owen?
«Sì. In quei casi, in seguito a determinati stimoli, alcuni pazienti dimostravano l’attivazione delle stesse aree cerebrali dei soggetti sani. Un grande risultato, e non per le sue implicazioni etiche, o perché tramite quel successo si fosse arrivati a una cura per questi pazienti».
E perché allora?
«Perché dagli anni Settanta in poi, cioè da quando si è cominciato a inquadrare clinicamente la condizione dello stato vegetativo, la scienza si è sempre affidata ai libri. Voglio dire che ci siamo seduti.
Questi risultati invece dimostrano che c’è ancora molto da fare, che si possono compiere passi avanti, che c’è la speranza di approfondire la nostra conoscenza di questo campo. Abbiamo gli strumenti per farlo, oggi».
E le sensazioni? Questi pazienti soffrono?
«Se ad attivarsi in seguito agli stimoli elettrici è solo l’area corticale, cioè quella 'primaria', probabilmente no. Ma proprio in questo momento ci stiamo concentrando su come possibili interazioni tra quest’area e quelle superiori determinino una sensazione di dolore».
Eluana Englaro, la ragazza italiana in stato vegetativo da 16 anni e per la quale è stato autorizzato il distacco del sondino che la alimenta, non è mai stata sottoposta a questi test.
Crede sia possibile, oggi, decretare l’irreversibilità di uno stato vegetativo senza avvalersi di queste nuove tecniche?
«Dal mio punto di vista – che è rigorosamente scientifico, non voglio esprimere un giudizio etico su questa vicenda – credo sia un errore che un medico non specializzato faccia una diagnosi definitiva su uno di questi pazienti».
Quanti pazienti in stato vegetativo ha visitato in questi anni?
«Più di 300. Alcuni provenivano anche dall’Italia».
Perché le famiglie si rivolgono al centro universitario in cui opera?
«Il più delle volte cercano una risposta».
Cosa risponde loro?
«Che qui non devono cercare un miracolo, o un risveglio, ma una diagnosi. E che la diagnosi non è una prova, ma un buon inizio».
Cosa pensa dell’idea che, non essendo coscienti, questi pazienti debbano essere lasciati morire?
«Nuovamente, mi limito a un giudizio scientifico. Credo sia importante essere sicuri della diagnosi che facciamo su questi pazienti. Credo che prima di ogni decisione, qualunque essa sia, dobbiamo avere la certezza di un fatto, di una condizione. Credo che oggi ci siano gli strumenti per farlo. E che si possa migliorare».
1) ISTRUZIONE/ Bertagna: i tagli alle scuole paritarie sono l’ennesimo tradimento della Costituzione - INT. Giuseppe Bertagna - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) CRISI/ Campiglio: per uscirne servono aiuti alle famiglie, a partire dal quoziente fiscale. Impariamo dalla Francia... - INT. Luigi Campiglio - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) ELUANA/ Guizzetti: altro che morti, i pazienti in stato neurovegetativo vegliano, dormono e possono interagire - INT. Giovan Battista Guizzetti - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
4) Le ragioni della crisi nella "profezia" di Ratzinger - Roberto Fontolan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
5) USA/ Dai Vescovi americani un richiamo a Obama: liberalizzando l’aborto si distrugge il bene comune - José Luis Restan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
6) SCUOLA/ La fatica dell’apprendimento: un evento dinamico, a partire dalle conoscenze e dagli interessi dell’alunno - Associazione Diesse - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
7) In Vaticano c'è un giornale che fa rumore. Per qualcuno anche troppo - È "L'Osservatore Romano". Che due volte negli ultimi mesi ha suscitato le reazioni avverse di parte della gerarchia e del mondo cattolico, sui trapianti d'organo e l'eutanasia. Ma anche su altri temi i suoi commenti fanno discutere, dentro e fuori la Chiesa. Ad esempio su Pio XII e gli ebrei - di Sandro Magister
8) Noi cattolici senza casa - Anche in Europa, a un’ora di aereo da Roma, c’è un paese dove i cristiani subiscono lo sfratto della maggioranza islamica. L’allarme di Puljic, arcivescovo di Sarajevo. - di Lorenzo Fazzini
9) Il vero nemico della salute è la perdita della speranza - Bellieni risponde a chi usa le malattie per cancellare la persona, di Antonio Gaspari
10) La tragedia di Pogliano Milanese - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 20 novembre 2008
Pogliano Milanese: soffoca l'anziana madre inferma e poi si consegna ai carabinieri
11) La testimonianza di un missionario saveriano - Digiuno e solidarietà - con le popolazioni del Congo – L’Osservatore Romano, 20 Novembre 2008
12) 20/11/2008 12.46.00 – Radio vaticana – I monasteri indicano al mondo l'essenziale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore: così il Papa alla Congregazione per la vita consacrata
13) RADICALE METAMORFOSI DELLA NOSTRA CIVILTÀ - Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili - MARINA CORRADI – Avvenire, 20 novembre 2008
14) Stato vegetativo, quando la diagnosi è sorpassata - di Viviana Daloiso – Avvenire, 20 novembre 2008
ISTRUZIONE/ Bertagna: i tagli alle scuole paritarie sono l’ennesimo tradimento della Costituzione - INT. Giuseppe Bertagna - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Professor Bertagna, la vicenda dei tagli alle scuole paritarie, non solo per l’anno prossimo ma addirittura per l’anno in corso, spinge a una prima considerazione politica: perché un governo di centrodestra, che parla di parità nel suo programma, attua una politica di questo genere?
Io non sono un politico, e non posso giudicare la complessità degli eventi e la complicatezza amministrativa che sottende a queste vicende. Ma una cosa la posso dire chiaramente: questo è l’esito necessario di un’erronea impostazione del problema. Non se ne uscirà mai se si continuerà a limitare il discorso al solo problema dei fondi, previsti, non aumentati o tagliati che siano. Altrimenti ogni anno arriva la Finanziaria e si litiga su questo punto. È tutto parte di un’impostazione sbagliata che ha radici lontane. Certo che non si può che condannare quanto lei diceva; ma tutto ciò non è altro che uno degli effetti della camicia di Nesso che il Paese ha indossato nel momento in cui ha tradito in modo esplicito quelli che sono gli aspetti essenziali di tutta questa tematica.
Quali sono le radici lontane di cui lei parla, e che ci hanno portato a questa situazione?
La prima ragione è di natura storica. Nel nostro Paese la scuola è stata costruita, fin dall’unità d’Italia, in modo dichiarato, esplicito e senza alcuna dissimulazione come apparato ideologico dello Stato, un modo cioè per disciplinare le menti dei selvaggi affinché diventassero dei civilizzati, secondo l’idea di civiltà che la legge aveva stabilito. In questa maniera si è costruita una storia in cui la scuola non è mai stata autonoma, ma è stata considerata un ufficio periferico a disposizione dei governi e dello Stato, per realizzare i suoi disegni. Disegni magari anche buoni, e che non intendo giudicare: ma di fatto la scuola è stata considerato uno strumento, e mai un’occasione di servizio per fini educativi che valorizzassero le persone. Dopo di che è intervenuta la Costituzione, che avrebbe dovuto cambiare le cose, ma che è stata tradita.
In che senso è stata tradita la Costituzione? Il discorso del tradimento costituzionale è di solito usato da chi si oppone al finanziamento alle scuole non statali…
Bisogna chiarire bene, e rendersi conto che c’è un tradimento generale del modo di impostare il sistema di istruzione e di formazione, così com’era previsto dalla Costituzione del ’48, e confermato nel 2001. La Costituzione era molto esplicita in proposito: rifiutava la concezione della scuola come apparato ideologico dello Stato, sia perché si veniva dall’esperienza tragica del fascismo, sia perché i cattolici per la prima volta erano giunti al governo del Paese, ed erano depositari di una tradizione e di una concezione della scuola che era agli antipodi dell’impianto strumentalistico da cui si proveniva. Se si guarda l’articolo 33 della Costituzione, coniugato con l’articolo 5, si ricava la nettissima disposizione per cui il nostro sistema di istruzione avrebbe dovuto ben distinguere tre funzioni: la funzione della Repubblica, dello Stato e delle scuole. Per Repubblica si intendeva il Parlamento che sintetizzava in sé tutte le componenti. Non solo Regioni, Province e Comuni, ma anche tutte le formazioni sociali di cui parla la prima parte della Costituzione: famiglia, imprese, cooperative, sindacati, Chiese. Alla Repubblica competeva di dettare le norme generali sull’istruzione e di fare in modo che in tutto il Paese ci si ispirasse ai principi della Costituzione.
Quale avrebbe dovuto essere invece la funzione dello Stato?
Lo Stato doveva semplicemente fare due cose: da un lato istituire le scuole, avendo l’obbligo di far sì che non fossero penalizzate le famiglie che risiedevano in zone geografiche dove non c’era un’espressione sociale capace di dare vita a scuole non statali; dall’altro doveva fare in modo che si instaurasse un sistema positivamente competitivo, in cui ci fosse spazio per il sistema dello Stato e parallelamente per le scuole non statali. Nella Costituzione la cosa più importante non è il «senza oneri per lo Stato», che pure ha una sua ragione, ma è il comma 4 dello stesso articolo, relativo alla equipollenza di trattamento per gli studenti che frequentano le scuole statali e per quelli che frequentano le scuole non statali. La questione della parità non si gioca a livello di assegnazione di privilegi, ma del riconoscimento che i cittadini della Repubblica hanno il diritto di essere trattati allo stesso modo, giuridicamente ma anche economicamente, sia che frequentino le scuole istituite dallo Stato, sia che frequentino le scuole non istituite dallo Stato. E queste ultime devono essere valorizzate in quanto promosse dalle formazioni sociali di cui alla prima parte della Costituzione. E a questa funzione dello Stato si ricollegava infine la funzione del controllo.
In cosa consiste?
Attraverso gli esami, che siano essi di Stato o invece esami di ammissione, lo Stato deve controllare la qualità degli apprendimenti degli studenti, e deve contemporaneamente controllare che le scuole che chiedono la parità rispettino le norme generali dell’istruzione stabilite dalla Repubblica, e non tradiscano i principi costituzionali. Lo Stato invece ha abbandonato questa funzione di controllo: è rigidissimo sulle procedure, ma non attua alcun controllo della qualità dell’apprendimento.
Chiarite le funzioni di Repubblica e Stato, qual è il ruolo delle scuole previsto dalla Costituzione?
Alle scuole, sempre secondo l’impostazione originaria della Costituzione, competeva la massima autonomia. Date le norme generali sull’istruzione e dato il controllo che lo Stato doveva attuare affinché tali norme fossero rispettate, non era previsto che di mezzo ci fosse un ministero che dettava, chiosava, ammoniva anno dopo anno, interveniva a chiarire, a correggere, a cambiare, con una continua profusione di norme e circolari. In mezzo c’era solo l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Io mi domando perché nel nostro Paese questa nettissima soluzione di continuità che la Costituzione del ’48 doveva e voleva creare rispetto alla concezione precedente non sia stata per nulla rispettata. Si è proceduto con l’impostazione precedente, creando i problemi che abbiamo.
Che cosa concretamente può permetterci adesso di uscire da questa situazione?
Dobbiamo renderci conto di quanto quella impostazione che la Costituzione prevedeva sarebbe più vantaggiosa. E qui si inserisce il terzo elemento che manca nel nostro sistema: la conoscenza scientifica ed empirica. Noi non abbiamo numeri e ricerche, né investimenti in ricerca in questo campo. Non abbiamo ricerche che ci aiutino a chiarire e a capire quanto un sistema convenga e quanto sia più efficiente rispetto ad un altro: dobbiamo ricorrere a dati generali. Abbiamo i dati Ocse, ma non abbiamo ricerche empiriche come quelle che vengono fatte in America. Noi non abbiamo un know-how che ci dimostri se funzioni meglio l’impianto della costituzione formale o quello della costituzione materiale. Non avendo questo ci riduciamo a impostare il dibattito sull’ideologia, e mai sull’aspetto scientifico: dove questo aspetto c’è, invece, viene dimostrato il contrario di quello che si sostiene in Italia. Basti vedere quello che ha fatto la Svezia, che ha abbandonato totalmente l’impostazione statalista per favorire la libera scelta.
Sembrerebbe esserci un caso in Italia in cui la parità viene garantita: è il caso della Regione Lombardia, con la cosiddetta “dote scuola”.
Certo, e questo può aprire un varco importantissimo. Se una regione come la Lombardia, che effettivamente è molto avanti su questo aspetto, continuasse a pigiare su un sistema paritario favorendo la scelta degli studenti e favorendo anche il controllo per dimostrare che i risultati siano acquisiti, potremmo ottenere dei risultati importanti anche a livello nazionale. Se cioè empiricamente, con i numeri, si riuscisse a dimostrare anche sul nostro territorio quello che nelle ricerche all’estero già emerge, e cioè che si spende di meno e si impara di più in un sistema basato sulla libera scelta, allora potremmo sperare che di fronte a tali argomentazioni empiriche possano finalmente cadere le ragioni ideologiche.
CRISI/ Campiglio: per uscirne servono aiuti alle famiglie, a partire dal quoziente fiscale. Impariamo dalla Francia... - INT. Luigi Campiglio - giovedì 20 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Tremonti ha tenuto ieri la prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico in Università Cattolica e ha richiamato un pensiero dell’allora card. Ratzinger, formulato nel saggio “Church and economy” del 1986, dicendo che l'attuale crisi fa avverare «la profezia secondo cui l'economia che vede il declino della disciplina avrebbe portato le stesse leggi del mercato al collasso e all'implosione». Ma la vera anomalia del nostro paese, fa notare Luigi Campiglio, è la perdurante mancanza di una politica per la famiglia. «Il governo – pur tra altri buoni e condivisibili provvedimenti – si è dimenticato della famiglia. Spiace dirlo, ma è come se tutti i governi, rispetto alla famiglia, fossero “grigi”»
Professor Campiglio, «un’economia che ha perso il contatto con la realtà e con la sua originaria dimensione etica»: lo ha detto ierii il ministro Tremonti, richiamando anche il pensiero dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, quando scrisse sulle cause meta economiche di una possibile crisi del mercato. Che ne pensa?
È un’analisi che condivido. L’esempio più lampante è quello della denuncia, da parte degli stessi operatori sul campo, dell’eccesso di self-interest tramutatosi in avidità esasperata. Più in generale non si dà crescita economica continua e stabile senza un qualche sistema forte di valori morali che dia ancoraggio solido alle decisioni economiche. Attraversiamo una crisi di fiducia, andiamo ripetendo, ma la fiducia è precisamente un fattore morale.
Non da oggi Tremonti sta puntando il dito contro la piattaforma finanziaria, frutto esasperato della globalizzazione, sulla quale si è innestata la deriva della “tecnofinanza”.
È un fatto: gli strumenti di gestione e diffusione del rischio sono implosi e anziché portare ad una diversificazione del rischio, nel modo che tutti quanti insegniamo, ha prodotto effetti moltiplicativi giganteschi. Abbiamo assistito alla parabola di una finanza sofisticata partita da premesse tradizionali ma che ha finito per trasformarsi in “mostri”, per usare un’immagine cara a Tremonti.
Veniamo alla situazione italiana. In un suo articolo apparso su ilsussidiario.net il 20 ottobre aveva detto che compito dello Stato nella presente situazione era produrre certezze. A che punto siamo?
L’unica nostra certezza in questo momento è che nessuna banca fallirà. Il che non è poco, è quantomeno la certezza che non ci sarà il disastro. Ma è una certezza “negativa”, della quale manca un risvolto positivo, costruttivo di fiducia nel lungo termine.
L’aiuto alle imprese, realizzato con il rafforzamento patrimoniale delle banche, non incide sul deficit, ma con le famiglie la situazione è più complicata. Qual è la sua opinione?
Il governo – pur tra altri buoni e condivisibili provvedimenti – si è dimenticato della famiglia. Spiace dirlo, ma è come se tutti i governi, rispetto alla famiglia, fossero “grigi”. Non vorrei che apparisse una mia fissazione, ma impostare una politica di sostegno alla famiglia come soggetto centrale dell’economia in Italia sembra quasi proibito. C’è di mezzo una questione di valori, ma se uno non crede a questi valori esiste sempre e comunque l’efficacia di una politica fiscale dedicata. E una politica fiscale è sempre misurabile.
A cosa si riferisce in particolare?
C’è un solo paese che finora non è stato investito dalla recessione al pari degli altri paesi europei ed è la Francia. Come si spiega? È un paese più robusto e dinamico di Italia e Germania, ha una capacità di risposta agli choc senz’altro minore degli Stati Uniti ma certamente maggiore dell’Italia. Ma soprattutto fa una politica molto più centrata sulla famiglia. La famiglia non è un soggetto ornamentale, ma l’unità decisionale economica fondamentale, il fattore che può spingere realmente la crescita.
Perché?
Non si esce dalla crisi senza equità. Per introdurre equità occorre coniugare il merito con il bisogno. Una politica centrata sulla famiglia garantisce equità, perché la famiglia è il luogo che più di ogni altro distribuisce sulla base del bisogno e non del merito. Il merito è centrale nel mercato, ma le risorse all’interno della famiglia vengono distribuite in base al merito? Per fortuna no. La Francia, con la sua politica molto più centrata sulla famiglia, risulta molto più attenta, aperta e disponibile verso i bisogni.
Cosa bisogna fare?
Non smetto di dire che introdurre il quoziente familiare sarebbe decisivo sul piano economico ed equo sul piano sociale. Vede, i tempi di crisi sono anche opportunità di cambiamento, che bisognerebbe saper sfruttare.
Il nostro debito pubblico non consente spazi di manovra…
Ma rientra nelle regole scritte dell’Europa che i vincoli legati al disavanzo pubblico possono, d’accordo con il consenso del parlamento Ue, essere resi più elastici. La certezza che questa crisi duri poco tempo non è suffragata dai fatti. Anche il Giappone prima o poi uscirà dalla crisi, ma vi è dentro da quindici anni. Noi da quindici anni abbiamo un problema di crescita lenta o di diminuzione della produttività. Immaginiamo che cosa può voler dire la crisi economica per un paese che da dieci è in fase di ristagno.
Qual è il fondamento di una politica di lungo periodo capace di traghettarci fuori dalla crisi?
Qualche tempo fa ad un convegno di imprenditori chiesi per quale motivo l’iPod, che ha cambiato la vita dei giovani in tutto il mondo per le sue caratteristiche di innovazione, originalità e bellezza, non è stato qualcosa che ha rilanciato la nostra industria. Ecco, l’iPod è un esempio di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto. Non saremmo certamente riusciti a creare l’Ibm, forse nemmeno la Apple, ma l’iPod era alla nostra portata, se pensiamo che il brevetto viene dalla Germania… Occorrono la capacità di vedere lontano e quella di “inciampare, cadere e rialzarsi”. Se sono capace di rialzarmi, anche se cado non sono costretto a chiedere aiuto allo Stato.
Sono poche le novità uscite dal G20, eccetto forse l’appuntamento per il prossimo vertice. Anche istituzioni finanziarie come Fmi e Banca Mondiale appaiono appannate nei compiti e nella governance. Andrebbe cambiato qualcosa?
Andrebbe cambiato tutto: non sono più adeguate. Sono istituzioni figlie della loro epoca che è quella del 1945 e che oggi si muovono in un contesto completamente mutato. Il G20 è stato in buona sostanza un prender tempo, e rispetto a che cosa? Al fatto che il nuovo governo americano non è ancora insediato. Al di là della retorica della globalizzazione, viviamo in un mondo che ha bisogno di una leadership mondiale che sul piano economico può essere solo quella degli Usa.
Questa crisi economica non rimette in discussione proprio la leadership Usa?
Ma potenza leader non vuol dire potenza egemone. Oggi può avvenire, come sta avvenendo, che gli Usa siano in recessione, che la Cina sia in “crisi” ma solo perché cresce del 7% anziché del 12%, che gli equilibri mondiali sono ormai completamente cambiati e che non si può pensare di riservare un posticino nell’angolo alla Cina quando ormai è una potenza mondiale. Ci sono molti tipi di leadership: di tipo autoritario per esempio, e questo è accaduto in passato, anche da parte degli Stati Uniti, ma ci sono anche leadership basate sull’autorevolezza e questa è figlia della legittimazione. Agli Usa spetta oggi questo tipo di leadership, figlia di una legittimazione mondiale, che va conquistata sul campo dando peso e rappresentanza a chi oggi ne è sprovvisto.
ELUANA/ Guizzetti: altro che morti, i pazienti in stato neurovegetativo vegliano, dormono e possono interagire - INT. Giovan Battista Guizzetti - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Una commissione di medici interpellata ministero del welfare ha dichiarato inaccettabile il fatto di aver definito “irreversibile” la situazione di Eluana. Dal punto di vista clinico cosa si intende per stato vegetativo?
Lo stato vegetativo è uno stadio di gravissima compromissione neurologica che può conseguire il coma. È uno stato vitale che si è diffuso grazie alla comparsa, in campo medico, delle rianimazioni, delle terapie intensive e dei mezzi di sostegno alle funzioni vitali. Quando non esistevano le attuali strumentazioni il paziente era destinato a morire oppure a risvegliarsi. Il coma di per sé può invece durare al massimo per un periodo che va dalle quattro alle sei settimane. Non esiste un coma che dura per anni. Con l’introduzione dei mezzi di sostegno alle funzioni vitali si è aperta, come dicevo, una terza possibilità: lo stato vegetativo. In tale stato il paziente apre gli occhi, di giorno è sveglio, di notte dorme, ma non presenta segni che indichino uno stato di coscienza, intendendo per “coscienza” la consapevolezza di sé e dell’ambiente nel quale è inserito nonché la capacità di instaurare relazioni con le persone circostanti.
Lo stato vegetativo non sempre si manifesta negli stessi modi, ma comunque sia sono rarissimi i casi in cui non sia reperibile qualche forma, sebbene molto primordiale, di relazione ambientale. Spesso sono i parenti che la riscontrano: magari un sorriso o uno sguardo che segue all’udire una voce familiare. Sono piccoli segni che chi è attento riesce a cogliere ed è davvero difficile che non se ne riscontrino del tutto.
Da ciò si spiegano le ragioni per cui la commissione ha rilasciato queste dichiarazioni
Non conosco bene la situazione di Eluana e le suore che la curano, ma rifacendomi a quello che ho letto in questi mesi, la suora che la sta accudendo ha affermato che Eluana ha sviluppato una certa capacità di comunicare con lei.
Una cosa, in proposito, mi ha molto stupito: periodicamente noi facciamo test per verificare il livello di coscienza dei pazienti in reparto. La verifica viene fatta da me o dall’infermiera che se ne prende cura la quale instaura per forza una relazione quotidiana col malato: le risposte sono diverse. A un comando semplice, come per esempio «stringi la mano» non c’è risposta se a ordinarlo sono io. Quando invece lo stimolo proviene dall’infermiera che tutti i giorni assiste il malato quest'ultimo manifesta una risposta. Questo dimostra che esiste una relazione affettiva e umana che sta alla base di una consapevolezza e di una coscienza in questo tipo di infermi.
Nel mio reparto ci sono 24 malati con diagnosi di stato vegetativo, in realtà quelli con cui non riusciamo a stabilire nessun tipo di relazione sono 2 o 3.
Il coma invece che cos'è e in quali aspetti si differenzia dallo stato vegetativo?
Il coma è uno stato di non responsività totale. Il soggetto ha gli occhi chiusi e in qualche caso le funzioni vitali non sono autonome. Di qui ha necessità della ventilazione artificiale, o di dover eseguire una tracheostomia per far respirare il paziente.
La cosa più importante che differenzia lo stato neurovegetativo dal coma è l’apertura degli occhi: nel primo caso il paziente ha gli occhi parti, nel secondo no.
Dal coma o si muore o si va in stato neurovegetativo o si recupera la coscienza, anche senza deficit;
nel coma comunque non c’è alcun tipo di veglia. Per rafforzare questa idea dell’irreversibilità, va detto che l’espressione “stato neurovegetativo permanente” non è più utilizzata da nessuno, non ha valore diagnostico, ha un valore prognostico, sulla probabilità di recupero di coscienza del paziente. Certo che più a lungo dura lo stato neurovegetativo, meno sono le possibilità di recupero del soggetto, le quali, tuttavia, non si azzerano mai.
A suo avviso questa confusione che esiste, a livello divulgativo, tra coma e stato neurovegetativo può aver favorito tra l’opinione pubblica l'idea che lo stato di Eluana sia più vicino alla morte che alla vita?
Probabilmente la confusione c’è anche per questo motivo. Addirittura c’è chi, parlando di pazienti di questo tipo, avvicinava la morte corticale alla morte encefalica sostenendo che queste persone di fatto sono decedute. Lo scorso anno, il dottor Owen, un medico ricercatore di Cambridge, ha dimostrato che la risonanza magnetica fatta a pazienti in stato neurovegetativo si attiva con adeguati stimoli esattamente come quella di un soggetto sano. Si attivano le stesse aree corticali. E quindi non esiste la morte corticale, ma solo compromissione dell’area corticale.
Che tipo di assistenza c’è in Italia per i pazienti in stato neurovegetativo?
In Italia siamo parecchio indietro. Direi che la situazione è piuttosto disastrosa. Moltissimi sono i parenti di persone in stato neurovegetativo che sono ridotte alla disperazione. Non esiste praticamente un'assistenza adeguata.
Nel 2005 sono stato chiamato a Roma dall’ex Ministro Storace, che ha creato una commissione formata da neurologi, anestesisti e riabilitatori. Venne redatto un documento presentato alla stampa (ma non alla conferenza Stato -Regioni) da adottare come “linea guida” per tutto il territorio nazionale, ma praticamente nulla è cambiato.
L’unica regione dove qualcosa è stato fatto per questo tipo di pazienti è la Lombardia. Fino a un anno fa chi doveva gestire pazienti in stato neurovegetativo doveva pagare l’assistenza e il ricovero. Ricevo telefonate da tutta Italia da parte di persone disposte a venire a vivere a Bergamo, dove lavoro, piuttosto che non avere assistenza per i propri parenti.
Le ragioni della crisi nella "profezia" di Ratzinger - Roberto Fontolan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Inaugurando l’anno accademico all’Università Cattolica di Milano, il ministro Giulio Tremonti è tornato su un tema di “filosofia economica” che gli è assai caro. Era già stato l’oggetto del suo libro, andato a ruba prima dell’estate, e da qualche settimana è diventato il suo cavallo di battaglia. La crisi della finanza è la crisi del mercatismo, è la crisi del capitalismo avvitato su se stesso, di un sistema finanziario che si credeva autofondato e autolegittimato, fino al punto di diventare una vera e propria ideologia. Nel discorso il ministro si è riferito ad un testo del 1986 dell’allora cardinale Ratzinger, che aveva “profetizzato” il collasso delle leggi del mercato e la sua stessa (del mercato) implosione. Citazione sorprendente e acuta, perché se c’è un’ancora di salvataggio cui aggrapparsi è il pensiero, è la tradizione, è la sapienza millenaria della Chiesa, in questi anni interpretata e espressa in modo sublime dal cardinale divenuto Papa. Inoltre è interessante rilevare il curioso rimando agli anni ’80. Sono gli anni in cui il “finanziarismo” diventa sistema culturale. Tutti imparano a conoscere l’indirizzo di Wall Street –in Italia più modestamente la “Milano da bere”: qui si creano e distruggono le fortune, qui si impara il gioco più duro del mondo, qui il denaro si separa dal lavoro, dalla produzione di beni, per autoriprodursi: ogni mattina, il suono della campana alla borsa di New York mette in funzione l’inesauribile cornucopia, espone alla adorazione degli uomini la pietra filosofale che rende ricchi, soprattutto alcuni. (Domenica scorsa, parlando all’Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere Giorgio Vittadini ha parlato dei finanzieri “alchimisti”).
Che quel nuovo mirabolante mondo nascondesse qualcosa di malato lo indovinavano brillanti scrittori come Tom Wolfe (rileggere il grande Falò delle vanità) e i cosiddetti “minimalisti” (Leavitt, McInerney, Ellis) e idolatrati registi come Oliver Stone (nessuno può dimenticare il Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas). L’immaginazione percepiva il vizio, ma pur denunciandolo o mettendolo alla berlina di fatto contribuiva a trasformarlo in virtù. Un altro film, molto più tardo, A un chilometro da Wall Street, esprime bene l’insieme di smarrimento e tentazione che hanno segnato una generazione di uomini occidentali. Un sistema di valori, una epica cantata da film e libri, e anche un sistema educativo: le migliori università e i migliori tirocinii formativi dovevano sfornare i nuovi re. Giovani capaci di spremersi per giorni e notti (“i mercati non dormono mai”), ossessivamente programmati per “uccidere”, come i marines di Full Metal Jacket. Fino a trentacinque anni, missioni durissime, dedizione integrale, obbedienza pronta; poi te la godi, imbocchi la strada della leadership da esercitare sui nuovi giovani in arrivo… e soldi, sempre e tanti. Non è stato questo il sogno di migliaia e migliaia di laureandi in economia delle università di ogni parte dell’Occidente?
Ma c’è un altro elemento che suscita interesse nella citazione ratzingeriana fatta dal ministro. Ed è la denuncia di ciò che (da profani beninteso) si potrebbe definire “principio di separazione”. La finanza si separa dall’economia, e pretendendo di autofondarsi si perde. Così come si perde l’istruzione, separandosi dall’educazione; o la legge, privata del suo fondamento che è la giustizia; la politica se si distacca dal criterio del bene comune. E via di questo passo, nella sfera pubblica e in quella privata (amore e sesso, paternità e autorità, etc.). Il tema dei prossimi anni sarà come tenere unito ciò che si è voluto separare.
USA/ Dai Vescovi americani un richiamo a Obama: liberalizzando l’aborto si distrugge il bene comune - José Luis Restan - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Il Cardinale Francis George è la figura più brillante dell’Episcopato statunitense, un teologo nel quale è facile riconoscere gli accenti e le preoccupazioni di Papa Ratzinger. Ora è anche presidente della Conferenza Episcopale, e, come se non bastasse, è l’Arcivescovo di Chicago, la città da cui è partita la stella di Barack Obama.
La provvidenza ha voluto che pronunciasse il suo discorso inaugurale all’assemblea dei Vescovi nordamericani a Baltimora, appena una settimana dopo le elezioni presidenziali: un intervento per nulla formalista, che merita profonda attenzione.
George non ha perso l’occasione per valorizzare il significato storico della vittoria di Obama: «Un Paese che un tempo aveva adottato la schiavitù razziale nella sua Costituzione ha eletto ora un afroamericano come Presidente, e per questo credo che tutti dobbiamo esultare».
Subito dopo, il Cardinale di Chicago parte da questa novità per denunciare una situazione che colpisce storicamente i cattolici negli Stati Uniti. Esprime felicità perché la coscienza sociale è avanzata fino al punto che nessuno ha chiesto a Obama di rinunciare alla sua origine razziale per essere presidente, al contrario di quanto avvenne quando Kennedy arrivò alla Casa Bianca e dovette garantire che la sua condizione di cattolico non avrebbe influito sulla visione delle cose.
Per il Cardinale, al giorno d’oggi i cattolici non sono arrivati a essere riconosciuti come veri “partner” per l’esperienza americana, a meno che non siano disposti a mettere da parte alcuni aspetti della dottrina cattolica riguardanti la morale e la politica. È un’affermazione seria, che rivela i limiti della laicità positiva americana e che pongono un grande interrogativo sul futuro.
Un altro passaggio del discorso anticonformista di George si riferisce al lavoro per il bene comune sul quale i politici, le Chiese e le comunità religiose e gli attori sociali dovranno trovare un terreno comune. Il Cardinale sostiene che la giustizia razziale e la giustizia economica sono pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, e pertanto elogia il fatto che entrambi gli aspetti sembrano occupare la nuova agenda presidenziale, ma avverte con forza che «il bene comune non può essere adeguatamente incarnato in nessuna società nella quale chi sta per nascere può essere legalmente ucciso».
Il richiamo è risuonato chiaro nel momento in cui i collaboratori di Obama lasciano intravvedere l’intenzione della nuova Amministrazione democratica di procedere a un’ampia liberalizzazione dell’aborto.
Inoltre, il Cardinale non ha paura di stabilire un paragone tra il danno che avrebbe avuto per la convivenza civile il mantenimento delle legge razziali (che avrebbero impedito l’elezione di Obama) e la ferita che oggi infligge l’aborto. Perciò richiama una decisione del Tribunale Supremo di 150 anni fa, secondo la quale gli afroamericani erano proprietà di altre persone, e sentenzia che oggi come allora «non si può trovare un terreno comune distruggendo il bene comune».
Ci sarà chi troverà troppo “acido” questo valoroso intervento, nella melassa generale che circonda il prossimo cambio nella Casa Bianca. In ogni caso il Cardinale George ha servito con rettitudine il suo paese e, cosa più importante, ha fatto sì che la voce della Chiesa abbia avuto peso e rilevanza in un dibattito troppo vuoto e teatrale come quello dell’ultima settimana.
SCUOLA/ La fatica dell’apprendimento: un evento dinamico, a partire dalle conoscenze e dagli interessi dell’alunno - Associazione Diesse - giovedì 20 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
A che cosa fa riferimento l’insegnante quando trasmette conoscenze ai suoi alunni tentando, talvolta disperatamente, di farle diventare nelle loro menti competenze essenziali? Fa riferimento, di solito, ad un patrimonio più o meno ampio di saperi che gli derivano dagli studi che ha compiuto.
Gli studi e gli approfondimenti disciplinari sono ovviamente necessari, ma da soli non bastano nell’esercizio dell’aiutare ad apprendere. L’apprendimento nella persona umana, infatti, è un evento dinamico e non statico, cioè si accompagna al desiderio di apprendere e all’interesse per ciò che viene appreso. Perciò apprende l’alunno che viene messo in movimento verso la realtà dall’insegnante che a sua volta è dentro questo movimento di apprendimento-comprensione. Conseguentemente, per aiutare ad apprendere occorre essere immersi – stiamo parlando dell’insegnante – in un’esperienza di scuola in atto.
Ecco il valore del nesso tra apprendimento e sussidiarietà: aiuta l’altro, l’alunno, ad apprendere il docente che a sua volta guarda ad un contesto di esperienze sorte gratuitamente e liberamente in seno alla società e magari vi partecipa in qualche modo.
Inoltre, secondo passaggio, aiuta l’alunno ad apprendere il docente che nella sua scuola mette in atto la sussidiarietà cominciando a concepirsi non come una monade isolata, ma come un professionista capace di promuovere cultura insieme ai propri alunni e insieme ai propri colleghi.
Il particolare della materia assume senso solo in uno sguardo totale perché la realtà è la totalità.
Il “troppo” che spesso viene chiesto alla scuola, il “troppo” che si fa nel tempo scolastico abbassa il livello dell’apprendimento perché occorre ridurre all’essenziale per aumentare la presa sulla realtà.
I latini chiamavano la scuola ludus, gioco, cioè il momento in cui il ragazzo può ancora permettersi di esercitarsi alla realtà, si prepara alla responsabilità. La scuola è un luogo disciplinato di convivenza.
La sussidiarietà, che dalla società si trasferisce nell’educazione e diventa la prospettiva piena
dalla quale concepire l’apprendimento, fa ancora parte del nostro futuro.
In questa rubrica vorremmo mostrare che il futuro in parte è già cominciato.
In Vaticano c'è un giornale che fa rumore. Per qualcuno anche troppo - È "L'Osservatore Romano". Che due volte negli ultimi mesi ha suscitato le reazioni avverse di parte della gerarchia e del mondo cattolico, sui trapianti d'organo e l'eutanasia. Ma anche su altri temi i suoi commenti fanno discutere, dentro e fuori la Chiesa. Ad esempio su Pio XII e gli ebrei - di Sandro Magister
ROMA, 19 novembre 2008 – Un "giornale di idee": questo doveva essere "L'Osservatore Romano" quando tredici mesi fa il professor Giovanni Maria Vian ne ha preso il comando.
Un "giornale di idee" come l'aveva descritto già molti anni prima Giovanni Battista Montini, all'epoca arcivescovo di Milano, poi papa col nome di Paolo VI. Cioè un giornale che "non vuole soltanto dare notizie; vuole creare pensieri. Non gli basta riferire i fatti come avvengono: vuole commentarli per indicare come avrebbero dovuto avvenire, o non avvenire. Non tiene soltanto colloquio con i suoi lettori; lo tiene col mondo: commenta, discute, polemizza".
Oggi si può constatare che la promessa è stata mantenuta. "L'Osservatore Romano" fa da bollettino ufficiale soltanto per pochissime cose: quelle inquadrate ogni giorno nella rubrica "Nostre informazioni", con le udienze del papa e le nomine, che diventano esecutive una volta lì pubblicate. Ma per il resto è giornale di documenti, di notizie, di commenti e anche di polemiche, sotto l'autonoma responsabilità di chi vi scrive e di chi lo dirige. Col mondo intero come orizzonte e su questioni che non hanno confine.
Una di queste è ad esempio la morte. Che oggi convenzionalmente non si identifica più con l'arresto del cuore, ma con la cessazione totale delle funzioni del cervello. Questa convenzione, introdotta dal cosiddetto rapporto di Harvard del 1968, ha formidabili effetti pratici, perché consente i trapianti d'organo a cuore battente. Ma, appunto, di una convenzione si tratta. Discutibile e discussa. Lo scorso 2 settembre "L'Osservatore Romano" pubblicò in prima pagina un commento – a firma di Lucetta Scaraffia – che di fatto riaprì la disputa su che cosa attesti la fine della vita e quindi sulla liceità dei trapianti da cadavere come oggi praticati.
L'articolo suscitò un terremoto. Anzitutto dentro la Chiesa. La linea prevalente in Vaticano era ed è di consenso alla pratica dei trapianti d'organo previo accertamento della morte cerebrale. Un coro di proteste si levò nella curia contro "L'Osservatore Romano". Era anche in vista, in Vaticano, un convegno sui trapianti d'organo, e furono fatte pressioni perché il papa, in quell'occasione, chiudesse la disputa confermando come valido il criterio della morte cerebrale.
Ma Benedetto XVI, quando lo scorso 7 novembre ricevette i convegnisti, si pronunciò diversamente. Non parlò di morte cerebrale. Disse che "la scienza, in questi anni, ha compiuto ulteriori progressi nell'accertare la morte del paziente". E ammonì che "dove la certezza ancora non fosse raggiunta deve prevalere il principio di precauzione".
Il papa diede così ragione a "L'Osservatore Romano" e a quegli studiosi della Pontificia Accademia delle Scienze che in un precedente convegno in Vaticano, il 3-4 febbraio 2005, si erano pronunciati a maggioranza contro il criterio della morte cerebrale. A riprova, comunque, di quanto le autorità vaticane siano divise sulla questione, basti dire che il cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, il vescovo Marcélo Sánchez Sorondo – tenacissimo sostenitore della morte cerebrale come concetto valido di definizione della morte –, dispose che gli atti di quel convegno del 2005 non fossero pubblicati. E oggi che la disputa si è riaperta, è corso a mettere in cima ai testi on line dell'Accademia, nel sito web del Vaticano, solo le tesi di quelli che la pensano come lui.
In ogni caso, questa controversia riaperta da "L'Osservatore Romano" non è affatto solo interna alla Chiesa. Ne ha ampiamente discusso "The Economist" del 4 ottobre nell'articolo di apertura della sezione "Science and technology". Vi è tornato sopra "Le Monde" del 2-3 novembre con un'analisi del suo direttore della sezione scientifica Jean-Yves Nau. In Italia ne ha parlato il professor Marco Ventura in una nota sul "Corriere della Sera" del 3 novembre.
* * *
Ma questa sulla morte cerebrale è solo una delle tante dispute "di idee" accese ultimamente da "L'Osservatore Romano".
Un'altra, recentissima, riguarda la definizione di salute come "stato di completo benessere psichico, fisico e sociale", fissata nel 1946 dal Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. In un commento pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 19 novembre, il professor Carlo Bellieni ha messo in luce le pericolose conseguenze derivate da questa definizione: in particolare quella "medicalizzazione del desiderio" che arriva fino a ritenere la vita stessa una patologia cui mettere fine quando si vuole, anche da parte di persone non affette da malattie mortali.
Pochi giorni prima, su "L'osservatore Romano" del 15 novembre, ha creato scintille un articolo di Lucetta Scaraffia sul caso di Eluana Englaro, una giovane in stato vegetativo come lo fu l'americana Terri Schiavo, e come questa condannata a morire di fame e di sete, per una sentenza della magistratura italiana che ne ha autorizzato l'eutanasia. Scaraffia ha rimproverato i cattolici di essere stati poco "convincenti" nel creare consenso a difesa della vita di Eluana, per debolezza di argomentazione e di comunicazione pubblica. E con questo rimprovero ha irritato non poco il giornale capofila della battaglia a favore di Eluana, "Avvenire", di proprietà della conferenza episcopale italiana.
Sul versante della storia, "L'Osservatore Romano" ha portato elementi nuovi su una materia di discussione più che mai incandescente, quella riguardante Pio XII, il nazismo e gli ebrei. Soprattutto ha fatto colpo, il 9 ottobre, un'ampia intervista col direttore del più diffuso giornale laico italiano, Paolo Mieli, di famiglia ebrea, nella quale questi smantella la "leggenda nera" su Pio XII, da lui anzi definito "il papa più importante del Novecento".
Va aggiunto che tra i suoi commentatori ricorrenti "L'Osservatore Romano" ha due ebrei: il matematico Giorgio Israel e la storica Anna Foa. È a quest'ultima che ha affidato, sulla prima pagina del 10 novembre, il ricordo della "notte dei cristalli", il pogrom antiebraico che settant'anni fa diede inizio in Germania alla persecuzione che si concluse con la Shoah.
Per ora manca, tra i columnist del giornale del papa, un musulmano. Ma tra pochissimo ci sarà. Il suo nome è Khaled Fouad Allam, nato in Algeria e cittadino italiano, professore all'Università di Trieste, autore di libri di notevole profondità sulla cultura islamica e sul rapporto tra islam e Occidente cristiano.
Ultimo di questa breve rassegna, ma non d'importanza, è l'apporto all'analisi dell'economia mondiale dato su "L'Osservatore Romano" da un economista e banchiere cattolico di alto livello e dai giudizi molto originali, Ettore Gotti Tedeschi, presidente in Italia del Banco Santander Central Hispano. In una delle sue note, lo scorso 18 ottobre, così concludeva:
"Essendo tempo di premi Nobel, abbiamo la tentazione di proporre l'istituzione di una nuova categoria: un Nobel per l'antieconomia, da conferire a chi causa maggiori danni all'economia mondiale. E oggi di candidati ce ne sono parecchi".
Noi cattolici senza casa - Anche in Europa, a un’ora di aereo da Roma, c’è un paese dove i cristiani subiscono lo sfratto della maggioranza islamica. L’allarme di Puljic, arcivescovo di Sarajevo. - di Lorenzo Fazzini
Bosnia Herzegovina, terra d’Europa a rischio “islam integralista”. L’ultimo caso è quello di un processo giudiziario contro ex mujaheddin islamici combattenti nella guerra degli anni Novanta, oggi “felicemente” integrati nell’apparato statale bosniaco: tale procedimento penale è stato insabbiato dalle autorità di Sarajevo. Secondo alcuni osservatori, quelli che un tempo, in nome del jihad, combattevano contro i cristiani serbi e croati oggi operano sottotraccia per imporre con la violenza la supremazia coranica nel cuore dei Balcani.
«Nel mio paese non esistono diritti umani uguali per tutti, i cattolici sono di-scriminati sia dai serbi che dai musulmani. E la comunità internazionale (leggi Onu, ndr) non fa niente, anzi: i militari, su comando dei politici, irrompono nelle nostre scuole dove si insegna la tolleranza tra le diverse religioni». La denuncia è di quelle autorevoli, viene da Vinko Puljic, arcivescovo cattolico di Sarajevo dal gennaio 1991, pochi mesi prima dello scoppio del sanguinoso conflitto. Quando a 49 anni ricevette la sua nomina a cardinale nel 1994, segno di affetto di Giovanni Paolo II per la città assediata dai cecchini, Pu-ljic diventò il porporato più giovane di tutto il collegio cardinalizio. Nei giorni scorsi l’arcivescovo di Sarajevo è stato ospite del Centro Papa Luciani di Belluno. Tempi lo ha intervistato sulla situazione “dimenticata” dei cattolici in Bosnia.
Eminenza, recentemente il vescovo di Banja Luka, monsignor Franjo Komarica, ha denunciato che solo il 2 per cento dei cattolici di Bosnia esuli per la guerra sono potuti ritornare alle loro case. Qual è la situazione dei cattolici nel vostro paese?
Grazie per la domanda. Dopo gli accordi di Dayton, la Bosnia è stata divisa in due zone, una repubblica in cui è tutto in mano ai serbi, e un’altra interetnica, dove ci sono Sarajevo e Banja Luka. Nella prima repubblica, su 220 mila cattolici presenti prima dei combattimenti, oggi ve ne sono solo 12 mila. Perché? Il governo serbo non dà sicurezza a chi vuole tornare. Ci sono gravi problemi dal punto di vista burocratico e delle infrastrutture: mancano le case per chi vuole rientrare. Di tutti i programmi di aiuto di carattere internazionale stabiliti per questa zona, nessuno è andato a vantaggio dei cattolici, ma solo dei serbi (ortodossi, ndr) che sono al governo. Ho denunciato questo fatto anche a livello internazionale, ad esempio al governo austriaco. Il ministro degli Esteri di Vienna mi ha detto che sbaglio e che loro hanno dato 7 milioni di euro per chi vuole tornare. Ma ho replicato: grazie, ma mi si dimostri che con quei soldi è stata costruita una sola, anche una sola casa per i cattolici! Io, come tutti i vescovi di Bosnia, grido che mancano i diritti fondamentali uguali per tutti.
E sul versante musulmano?
In ogni città dove i musulmani sono la maggioranza (Sarajevo, Tuzla, Srebenica, dove gli islamici sono l’85 per cento della popolazione), i diritti non sono uguali per tutti. I musulmani possono costruire ovunque le moschee che vogliono, ne hanno fatte più di settanta dalla fine della guerra. Noi cattolici è da nove anni che chiediamo di costruire una chiesa. Qui c’è anche una responsabilità della comunità internazionale, che non vuole fare pressioni perché si arrivi a una vera situazione di uguaglianza. Le faccio un esempio. In un comune vicino a Sarajevo, Ilija, dove prima della guerra c’era una grande comunità cattolica, abbiamo presentato le carte per ricostruire le case, ma non ci sono stati concessi i permessi. Persino a livello di investimenti industriali si assiste a discriminazioni contro i cattolici: vengono dati subito i permessi di costruire ai musulmani, non ai nostri.
E lei come si spiega questa situazione di discriminazione?
Durante il conflitto la Chiesa cattolica è stata l’unica organizzazione stabile. Mentre tutto era distrutto, i miei preti si sono dimostrati coraggiosi e pronti a dare aiuto a chiunque. La Chiesa cattolica va avanti da sola senza appoggiarsi a questo o quel potere, e questo non è gradito alla comunità internazionale e al governo di Sarajevo. Noi siamo liberi perché durante i bombardamenti aiutavamo tutti quelli che erano nel bisogno, per lo più musulmani, con cibo e medicine. Le nostre scuole oggi sono aperte a cattolici, ortodossi, musulmani e atei, perché vogliamo educare i giovani alla tolleranza. Ma la politica locale e la comunità internazionale non vogliono questo processo. Anche i militari internazionali (i caschi blu, ndr) sono entrati nelle nostre scuole per dire che quello che facciamo non va bene. Certo, non sono i militari che vogliono questo, io ho ottimi rapporti con i comandanti e i carabinieri, ma loro obbediscono ai politici che hanno il potere.
Come valuta il recente primo incontro del Forum cattolico-islamico in Vaticano? A capo della delegazione musulmana vi era proprio il gran muftì di Bosnia, lo sceicco Mustafa Ceriç.
Il risultato non è grande, ma è molto importante lavorare per il dialogo perché non c’è alternativa. Bisogna sempre creare un clima che assicuri la stabilità per il futuro. Anche noi a Sarajevo, periodicamente, otto-nove volte all’anno, facciamo delle riunioni come capi religiosi ebrei, ortodossi, cattolici e musulmani su alcuni temi. Ma i problemi devono essere risolti dalla politica: io lavoro per creare uno Stato bosniaco in cui i cattolici siano liberi.
Sulla base della sua esperienza di pastore in un paese a maggioranza islamica, cosa manca ai risultati del Forum?
Bisogna chiedere ai musulmani il concetto di reciprocità. Gli islamici in Europa trovano il rispetto dei loro diritti, quindi è necessario garantire gli stessi diritti ai cristiani nei paesi musulmani. Come vivono i cristiani in Turchia, in Iraq, in Iran, in Pakistan e anche in Bosnia? Quando giungono in Europa, i musulmani costruiscono le loro moschee, a Colonia, Roma, Vienna… Quando è stata costruita l’ultima chiesa in Turchia? Il governo di Istanbul vuole entrare nell’Unione Europea, ma quando ha permesso l’ultima costruzione di un edificio cristiano? Inoltre bisogna rispettare la libertà di coscienza. Quando un musulmano riceve il cristianesimo, tutti, a cominciare dalla famiglia e dalla società, diventano suoi nemici.
Come vive oggi la Chiesa in Bosnia?
Continuiamo il nostro lavoro pastorale con i preti, le scuole, la Caritas, seppur tra tante croci, ma questa è la nostra vita. Sono molto grato ai nostri sacerdoti, religiosi e religiose, davvero coraggiosi: grazie a Dio abbiamo ancora vocazioni e famiglie molto religiose. Ma i cattolici d’Europa devono essere più vicini ai cattolici bosniaci: tra Sarajevo e Roma vi è poi solo un’ora di aereo! Devono impegnarsi, perché in Bosnia i diritti umani non sono uguali per tutti.
COINCIDENZE
Grazie YouTube, Grazie Onu
Negli stessi giorni in cui un poeta giordano viene trascinato in giudizio ad Amman per versi d’amore che oltragge-rebbero il Corano (vai all'articolo), YouTube premia la regina di Giordania per i suoi video «contro i pregiudizi sul mondo arabo». Stupendo. E non è straordinario che mentre si denuncia una presunta islamofobia in Europa, l’islam politico espella i cattolici dall’europea Sarajevo?
http://www.tempi.it/esteri/003956-noi-cattolici-senza-casa
Il vero nemico della salute è la perdita della speranza - Bellieni risponde a chi usa le malattie per cancellare la persona, di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 20 novembre 2008 (ZENIT.org).- Che cos’è la salute? Perché un disabile o una persona affetta da malattie permanenti si comporta meglio di chi non ha nessuna malattia? Come si deve comportare il medico di fronte alla malattia?
A queste e altre domande ha cercato di rispondere, in questa intervista a ZENIT, il professor Carlo Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
In un editoriale pubblicato da “L’Osservatore Romano” il 19 novembre, Bellieni aveva scritto che la definizione di salute promulgata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 - “la salute è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale” - finì col nascere zoppa e insoddisfacente.
“Come ben si capisce – aveva spiegato – la definizione rischia di scivolare nella pura utopia, dato che nessuno può vantare un simile livello di benessere, o di far diventare malattia ogni stato di non completo benessere, e questo porta ad una serie di conseguenze che ancor oggi paghiamo”.
Tra le conseguenze di questo modo di vedere, Bellieni aveva citato la creazione di un mercato delle malattie, “la corsa ad una vera e propria creazione di ‘nuove malattie’ per vendere nuovi farmaci”, la medicalizzazione del desiderio – per cui “se tutto può diventare malattia, il medico può essere chiamato a soddisfare richieste che non solo non condivide, ma che sa che possono nuocere alla salute” – e lo scoraggiamento di tanti malati ad ottenere una reale salute, dato che questa sarebbe solo un “pieno benessere”.
Quale può essere un approccio positivo e costruttivo alla parola “salute”?
Bellieni: Per rispondere proviamo a pensare a quando sentiamo di non godere di buona salute, di non essere sani. Forse risponderemo che ci sentiamo non sani quando abbiamo una malattia; ma tutti sappiamo che certe malattie possono essere presenti e noi non accorgercene, o che ci sono noti personaggi che pur con gravi handicap sono formidabili tenori o jazzisti, o sportivi di fama. Dunque, dovremo cercare un’altra via per definire la salute.
Forse quella più semplice è capire che ci sentiamo “non sani” quando vorremmo fare una cosa che riesce agli altri nostri “pari” (per età o per sesso, ad esempio) e non ci riesce; oppure quando non riusciamo più a fare una cosa che di solito ci riusciva facile. Insomma: la parola salute è legata a filo doppio con la parola desiderio. La salute è la possibilità che i nostri desideri si realizzino.
Tutti i desideri?
Bellieni: Ovviamente non i desideri fuori dell’ordinario come per esempio andare sulla luna (a meno che non siamo astronauti), o di correre i 100 metri in 10 secondi netti (a meno che non siamo in lotta per una medaglia olimpica); ma i desideri quotidiani, quelli ordinari di giustizia, di bellezza, di pace, e quelli personali, di fare le cose che amiamo fare. Ovviamente i desideri di un bambino sono ben diversi da quelli di un adulto, e quelli di un giovane ben diversi da quelli di un vecchio, quelli di un malato grave diversi da chi non ha quella malattia; ma la sostanza non varia: la salute è la realizzazione dei desideri “propri” dell’età o dello stato, “adeguati” al singolo individuo. Altrimenti si cadrebbe in quella che è stata definita “medicina dei desideri”, ma che sarebbe più giusto chiamare “medicina delle pretese”.
E per un malato?
Bellieni: Il malato, come ogni altra persona, ha i suoi desideri. Il problema nasce se la sua patologia – talora non risolvibile - non lascia vedere altro al di fuori di essa. Questo è la mancanza di salute reale: la perdita del desiderio, offuscato dalla patologia. Per questo tutto deve essere fatto per sconfiggere la malattia: perché il desiderio della persona non venga offuscato. Chi può negare che gli atleti disabili, per esempio quelli che abbiamo visto alle Paralimpiadi, compiano dei gesti atletici stupendi, segno paradossalmente di ottima salute perché segno di un desiderio sano? O che certi artisti famosissimi pur nella loro disabilità compongano o cantino in modo invidiabile ai “sani”?
Ma certe malattie sono gravissime.
Bellieni: E’ vero, ed è anche vero che tante persone con malattie gravissime offrono esempi di speranza e serenità. Come è possibile questo? Forse solo pensando che anche la peggiore malattia può non essere l’ultima parola su di sé. Questo non significa sottovalutare la cura (che siamo ancor più tenuti a offrire), ma valorizzare la persona.
Dunque la malattia può non essere un ostacolo assoluto alla salute.
Bellieni: Pensare che lo sia sarebbe togliere speranza a tanti malati. In fondo il contrario di “salute” non è la malattia, ma la disperazione, la perdita del desiderio. La malattia è un ostacolo alla salute nella misura in cui blocca la strada della realizzazione dei desideri, e per questo va sconfitta con tutte le armi della medicina e della volontà. Ma il vero nemico della salute è la perdita del desiderio, la perdita della speranza, la disperazione.
E’ questo il vero nemico di cui le malattie non sono che delle avanguardie. E per questo la parola d’ordine è “mai abbandonare” il malato, sia dal punto di vista umano per valorizzarne tutte le capacità, sia dal punto di vista medico (finché la medicina ha una possibilità di essere utile): la medicina deve progredire e la società deve fare ogni sforzo per rendere questo progresso accessibile a tutti e ancor più spedito.
La tragedia di Pogliano Milanese - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 20 novembre 2008
Pogliano Milanese: soffoca l'anziana madre inferma e poi si consegna ai carabinieri
Quando una persona è colpita da ictus e non è più in grado di provvedere a sé stessa, quando la sua vita diventa bisognosa di attenzione continua perché anche lavarsi, mangiare, o prendersi cura della propria igiene, diventa un problema insormontabile senza l’ausilio di una persona accanto, che si fa?
Cosa si deve fare in una società che si dice civile e che quindi dovrebbe inorridire al pensiero di mettere queste persone fuori dalle mura della città e abbandonarle al loro destino, come si faceva molti secoli orsono?
A Pogliano Milanese, Mariangela, 57 anni, si è presa cura della madre di 83 anni affetta da ictus, poi anche il fratello sessantenne si è ammalato, non poteva più camminare e lei ha dovuto lasciare il suo lavoro e stravolgere la sua vita per accudire i suoi familiari.
Sia chiaro, non è l’unica in queste condizioni e sono certa che lo Stato le versava anche l’assegno di accompagnamento, una cifra mensile che si aggira attorno ai 600 euro e poi ci sarà stata anche la pensione di vecchiaia, lo Stato avrà pensato “ho già dato”.
Sul sito del comune di Pogliano, nella guida ai servizi ci sono tutte le indicazioni per ottenere questi benefici, e numerosi altri servizi per gli anziani, compreso un corso su come non farsi truffare, ma Mariangela aveva bisogno d’altro, di sostegno, di compagnia, di qualcuno che la sostituisse qualche giorno alla settimana per poter riprendersi almeno in parte un po’ delle sue abitudini, della sua vita.
Quella vita che per lei era diventata troppo faticosa, una fatica che le è sembrata insopportabile, senza futuro.
La solitudine e forse la rabbia per questa fatica che portava da sola, hanno fatto in modo che mettesse in atto un piano diabolico.
Uccidere la madre e convincere il fratello a suicidarsi con lei.
Così appena la madre si addormenta la soffoca con un sacchetto di plastica, il fratello nell’altra stanza non se ne rende nemmeno conto, ma poi non ne vuole sapere di porre fine alla sua vita e allora Mariangela, esce, torna a casa sua, mette uno sgabello sotto alla finestra decisa a farla finita, a buttarsi nel vuoto.
Ma le manca il coraggio, prevale la vita, perché la morte non è mai la soluzione.
Anche se attorno a noi tutto concorre a farci pensare che sia la soluzione alle difficoltà del vivere, ad una vita che come spesso si dice oggi ha: "una qualità insufficiente”, anche Mariangela la pensava così, ma un attimo dopo ha cambiato idea, ha chiamato i carabinieri si è consegnata loro.
Non va lasciata sola Mariangela, non andava lasciata sola nemmeno prima, dobbiamo imparare da questa tragedia che spesso i sostegni economici che pure ci vogliono, non bastano.
Perché non è la pensione, l’assegno di accompagnamento che possono risolvere tutti i disagi, ci vuole una rete di servizi e di rapporti umani che renda la quotidianità di queste famiglie e di queste persone più serena, si fa molto, anche con il volontariato, ma non basta.
Quello che va ripristinato è la cultura dell’aiuto, della condivisione, della com-passione, intesa come patire insieme.
Ma come sarà possibile questo, se ci abituiamo a vedere nell’handicappato, nella persona non più autosufficiente, qualcuno costretto a vivere una vita non degna?
Come potremo condividere la vita e la fatica con tutte le Mariangele che oltretutto, dedicandosi ai propri cari infermi, sgravano lo Stato da una grande fetta di spesa pubblica per un’assistenza ospedaliera che viene evitata, come potremo trovare la modalità di condividere la vita, di alleggerire la loro quotidianità se in fondo, magari senza ammetterlo nemmeno a noi stessi, pensiamo che quelle persone così 'sofferenti' sarebbe stato meglio, per il loro meglio, che il dio della morte se le fosse prese evitando il disturbo, la fatica e il costo che comportano?
La testimonianza di un missionario saveriano - Digiuno e solidarietà - con le popolazioni del Congo – L’Osservatore Romano, 20 Novembre 2008
Kinshasa, 19. "Viviamo la nostra solidarietà con il popolo congolese accompagnando l'impegno per la pace con il digiuno, portando nel nostro corpo un po' della loro fame e condividendo un po' del nostro cibo. Abbiamo iniziato il 29 ottobre, nella memoria del vescovo martire di Bukavu monsignor Muzihirwa. Il cerchio degli aderenti si sta allargando, persone singole e gruppi, oltre trecento adesioni. Il digiuno a catena ci permette di mantenere un cuore vigile e di continuare le normali attività della giornata". È la testimonianza di don Silvio Turazzi, da molti anni missionario saveriano tra le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo. Perché il digiuno? "Il digiuno - spiega il missionario - ridà all'oralità quella disciplina che la fa passare dal consumo al ringraziamento e dalla voracità alla comunione. Chi prova a digiunare scopre quanto potente sia in lui l'istinto alla collera, al cattivo umore, all'egoismo, può ritirarsi spaventato di fronte ai lati oscuri e ignorati del proprio essere, ma può anche accettare di farvi fronte e di porsi domande essenziali: "Chi sono io? Quali sono i miei desideri? Cosa mi tocca in profondità? Cosa mi lascia insoddisfatto? E cosa invece, mi dà pace?"".
Davanti a situazioni di conflittualità come la guerra, che stanno vivendo le popolazioni del Nord Kivu, le cui conseguenze sono sempre più gravi, "mi sento particolarmente coinvolto. C'è una responsabilità collettiva su quanto avviene. Il cellulare, il computer - sottolinea don Silvio - funzionano anche con il coltan, un minerale che importiamo da quelle terre. La tecnologia avanzata di oggi, a nostro servizio, ha bisogno di cassiterite, di niobio, rame, oltre il petrolio, l'oro, i diamanti. Il controllo di quelle ricchezze è il vero motivo della guerra. Ho bisogno di purificare il cuore, di togliere i pesi che mi impediscono o rallentano l'incontro con gli altri, che vorrei riconoscere prima delle cose. Debbo avere le mani libere per stringere la mano dell'altro. Mi sembra una condizione necessaria, un passo essenziale per avvicinarmi alla verità che mi permette di riconoscere l'altro nella sua dignità fondamentale di uomo-donna e la comune appartenenza alla famiglia umana. La soppressione dell'altro, dei tanti che avviene in questi giorni con uccisioni e massacri, spostamenti forzati - aggiunge il missionario - è negazione della "verità" sull'uomo. Ciascuna di quelle persone ha un nome, una sola esistenza qui sulla terra".
Don Silvio sa che la guerra porta ferite inguaribili e provoca odio. "Questo è un atteggiamento che con l'aiuto di Dio e la saggezza dei giusti, vorremmo insieme superare per deporre le armi e disarmare i cuori. È saggezza che prepara la pace. Questo non calpesta le esigenze della giustizia: non possiamo mettere sullo stesso piano assassini e vittime. Quando guardiamo le persone, nessuno ci può essere indifferente, nessuna può essere guardata con odio. Vorrei restare a fianco della popolazione congolese con i missionari/e - conclude - che preferisco chiamare migranti del vangelo, in comunione di vita. Il digiuno mi aiuta a restare vigile e disponibile. Mi aiuta a riscoprire con serenità la croce come apertura di sé agli altri, come forza pulita di amore, come passo che prepara l'incontro".
(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2008)
20/11/2008 12.46.00 – Radio vaticana – I monasteri indicano al mondo l'essenziale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore: così il Papa alla Congregazione per la vita consacrata
I monasteri sono oasi spirituali che indicano al mondo ciò che è essenziale: “cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore”. E’ quanto ha affermato stamani il Papa ricevendo i partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che quest’anno celebra i suoi cento anni di attività. Il servizio di Sergio Centofanti.http://62.77.60.84/audio/ra/00138945.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00138945.RM
La plenaria del dicastero ha affrontato quest’anno un tema “particolarmente caro” al Papa: il monachesimo. Il Pontefice ha evidenziato l’importanza della vita monastica nella storia, sottolineando quale sia il suo scopo:
“cercare Dio e cercarlo attraverso Gesù Cristo che lo ha rivelato (cfr Gv 1,18), cercarlo fissando lo sguardo sulle realtà invisibili che sono eterne (cfr 2 Cor 4,18), nell’attesa della manifestazione gloriosa del Salvatore (cfr Tt 2,13)”.
I monasteri diventano così oasi spirituali che indicano all’umanità il primato assoluto di Dio nell’adorazione continua della “misteriosa ma reale presenza divina nel mondo” e nella comunione fraterna vissuta secondo “il comandamento nuovo dell’amore e del servizio reciproco, preparando così la finale manifestazione dei figli di Dio”:
“Quando i monaci vivono il Vangelo in modo radicale, quando coloro che sono dediti alla vita integralmente contemplativa coltivano in profondità l’unione sponsale con Cristo … il monachesimo può costituire per tutte le forme di vita religiosa e di consacrazione una memoria di ciò che è essenziale e ha il primato in ogni vita battesimale: cercare Cristo e nulla anteporre al suo amore”.
“La via additata da Dio per questa ricerca e per questo amore – ha proseguito il Papa - è la sua stessa Parola, che nei libri delle Sacre Scritture si offre” con abbondanza alla riflessione degli uomini. E’ a partire dall’ascolto orante di questa Parola che nei monasteri si eleva silenziosamente una preghiera che diventa testimonianza per quanti vengono accolti come fossero Cristo stesso in questi luoghi di pace ma che è per il bene di tutta l’umanità:
“Invochiamo Maria, la Madre del Signore, la ‘donna dell’ascolto’, che nulla antepose all’amore del Figlio di Dio da lei nato, perché aiuti le comunità di vita consacrata e specialmente quelle monastiche ed essere fedeli alla loro vocazione e missione. Possano i monasteri essere sempre più oasi di vita ascetica, dove si avverte il fascino dell’unione sponsale con Cristo e dove la scelta dell’Assoluto di Dio è avvolta da un costante clima di silenzio e di contemplazione”.
Sul discorso rivolto dal Papa ai partecipanti alla plenaria ascoltiamo, al microfono di Amedeo Lomonaco, il commento del ministro generale dei Frati Minori, padre José Rodriguez Carballo:
R. – Vorrei soltanto sottolineare che nelle parole del Santo Padre appare sempre un grande amore per la vita consacrata e per la vita monastica. Il Santo Padre, oltre a quello che dice, trasmette questo amore e questa fiducia nella presenza e nella testimonianza della vita consacrata e questo per noi consacrati è molto importante e di questo veramente ringraziamo il Santo Padre.
D. – Cosa vuol dire, oggi, essere monaci in un tempo così complesso come il nostro?
R. – Il Santo Padre, proprio nel discorso di oggi, ha centrato la vocazione monastica nel cercare Dio, e questo penso sia la grande vocazione ed il segno, direi profetico, della vita monastica nel mondo di oggi. In un tempo in cui sembra che Dio ormai non esista, o almeno in un tempo in cui tanti si comportano come se Dio non esistesse, il monaco ci ricorda non soltanto l’esistenza di Dio, ma ci ricorda che Dio deve essere al centro della vita e che Dio fa sì che una persona possa realizzarsi pienamente.
RADICALE METAMORFOSI DELLA NOSTRA CIVILTÀ - Quello sfavore per la vita che ci rende irriconoscibili - MARINA CORRADI – Avvenire, 20 novembre 2008
Secondo molti – lo senti dire alla radio e in tv, e ripetere nei bar – la pietà 'vera' sarebbe recidere quella vita incosciente in un letto d’ospedale.
Sospendere acqua e nutrimento a Eluana Englaro è giudicato, da un gran numero di persone in buona fede, misericordioso. Che cosa sia la pietà, cioè il volere il bene di un altro più debole, pare oggi dunque l’oggetto di una metamorfosi profonda della modernità. Da almeno trent’anni si allarga tra noi un pensiero non esplicito, e però evidente nel momento delle scelte sulla vita o sulla morte. Se una donna è incinta, è prassi fare tutti gli esami per accertare se il bambino è normale; e se qualcosa sembra non andare, la prima possibilità che di fatto quasi naturalmente si valuta è l’aborto. Molti Paesi in questi stessi anni si sono dati leggi che stabiliscono un 'diritto' del malato a morire, benché le tecniche per la palliazione del dolore siano incomparabilmente più progredite che nei tempi in cui di eutanasia non si parlava. Addirittura in un recente caso di cronaca italiana l’avere fatto proseguire la gravidanza di una donna in stato di morte cerebrale fu condannato da chi accusava i medici di avere usato quella madre come una incubatrice (della bambina nata così 'scorrettamente' , e tuttavia viva e sana, suo padre ringraziò poi quei dottori). Sia che si tratti di fine della vita, e ancora più del suo principio, sembra che nella cultura oggi dominante si possa leggere una 'prima opzione' per il non vivere – un istintivo favore per il nulla. Come se alla vita si guardasse con diffidenza.
Come disposti ad accettarla solo dopo un minuzioso inventario. Se tutto è al suo posto, allora si può arrischiarsi a fare nascere un figlio. (L’esame diventa però sempre più pignolo e occhiuto. L’indagine pre embrionale consente di individuare gli embrioni portatori di alcune malattie che si sviluppano solo nella maturità: ma già questo induce a scartare figli in un lontano futuro forse malati). La vita al suo presentarsi si accetta con beneficio di inventario; e alla sua fine ci si premura di poter praticare il 'diritto di morte' (in genere finché si è sani, perché da malati spesso si ragiona diversamente). E quand’anche una come la Englaro, pure in stato vegetativo, vive senza alcuna 'spina' artificiale, si pretende di farla morire, e questa viene chiamato pietà.
Segni diversi di un identico sguardo sulla vita; di uno sfavore, quasi di un radicale sospetto verso la bontà, e il senso, di ciò che nella tradizione cristiana è 'dono'. Dono? Questa stessa espressione è intaccata, in decenni di battaglia per il 'diritto' a nascere sani, e a decidere quando una vita non ha più 'dignità'. Come soldati arruolati in una guerra di cui non riconoscono più la grandezza e il senso, in quarant’anni gli occidentali hanno legalizzato e quasi eretto a sacro tabù l’aborto, lavorano per la selezione dei nascituri sani e premono per l’eutanasia. Perché vivere si può, solo nelle migliori delle condizioni possibili. Solo così stare al mondo ci sembra accettabile, e non una condanna peggiore del non essere. Così come la prima ipotesi alimentata nei genitori davanti a un dubbio sulla salute del nascituro è cancellarlo, anche la sentenza Englaro appare a molti ragionevole. La chiamano pietà, e in fondo si potrebbe dire che, dentro a una forma mentis nichilista, sono sinceri. Se la vita non è più né mistero né dono, né attesa di niente, assurda è la sofferenza.
Se non c’è alcun disegno oltre questa nostra materia, sopprimerci per il nostro bene, quando siamo 'guasti', è logico. La nuova pietà che fa morire di fame una donna incosciente è radicata al fondo in un’ampia, inconsapevole opzione per il nulla.
Stato vegetativo, quando la diagnosi è sorpassata - di Viviana Daloiso – Avvenire, 20 novembre 2008
«Nello studio dei pazienti come Eluana noi medici ci siamo seduti per troppo tempo». Ora un approccio nuovo svela scenari sorprendenti La denuncia di Steven Lureys, il neurologo dell’Università di Liegi che sta rivoluzionando la medicina
1I risultati che si stanno conseguendo in alcuni centri di ricerca europei «dimostrano che si possono compiere passi avanti»
2Alla luce di queste novità, andrebbero riviste molte diagnosi
La scienza non entra nelle questioni etiche. Non conosce giusto o sbagliato, bene o male. La scienza studia i fatti, e trae conclusioni oggettive. Suona più o meno così il ritornello ripetuto, anche nel nostro Paese, quando una qualche scoperta scientifica sconvolge i riferimenti dati per acquisiti aprendo la porta a discutibili pratiche come la manipolazione genetica, la clonazione, la distruzione di embrioni. Sono i progressi della scienza – si dice –, chi bada all’etica non scocci.
Eppure oggi, mentre la vita di Eluana attende di essere interrotta, di scienza si parla singolarmente assai poco. Si discute solo di giustizia, di diritti, di libertà. La scienza no, stavolta è lei a non dover scocciare. Curioso capovolgimento della realtà, visto che i passi avanti compiuti nello studio degli stati vegetativi offrirebbero ben più di uno spunto di riflessione nella vicenda Englaro.
Basterebbe, ad esempio, interessarsi di quel che sta studiando il professor Steven Laureys, giovane neurologo di fama mondiale dell’Università di Liegi, in Belgio, che insieme ad Adrian Owen – il ricercatore britannico i cui studi sono stati citati nel ricorso della Procura generale di Milano alla Cassazione – ha rivoluzionato le teorie sui pazienti nelle condizioni di Eluana, dimostrandone la conservazione di una forma di coscienza.
Professor Laureys, definiamo innanzitutto i termini della questione.
Che cosa si intende per stato vegetativo?
«La coscienza ha due componenti principali: la veglia e la consapevolezza (di sé e degli altri). Lo stato vegetativo è caratterizzato dalla presenza della prima senza la seconda».
Quindi, scientificamente parlando, è scorretto dire che questi pazienti non sono coscienti?
«La coscienza è un concetto sfaccettato.
Nel caso dei pazienti in stato vegetativo non manca la coscienza, ma l’associazione tra le sue componenti. Purtroppo spesso si verificano due fraintendimenti in questo senso: i familiari o i medici non specializzati credono che se il paziente muove gli occhi o emette dei suoni – come in alcuni casi accade – sia completamente cosciente, o, all’opposto, che se non si muove e non emette alcun suono sia del tutto privo di coscienza».
Vuol dire che anche un paziente del tutto immobile, e che non mostra alcun tipo di reazione agli stimoli esterni, può conservare un livello di coscienza superiore rispetto a uno che invece si muove ed emette suoni?
«Esatto. D’altronde queste convinzioni errate vanno ricondotte alla scarsissima conoscenza degli stati vegetativi e degli strumenti con cui oggi, finalmente, possiamo fare diagnosi più obiettive sui pazienti in queste condizioni».
Può spiegarci a che strumenti si riferisce?
«Alla risonanza magnetica funzionale, per esempio, che tramite immagini ci permette di evidenziare la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale del cervello o del midollo spinale; alla tomografia a emissione di positroni, una tecnica che produce immagini tridimensionali o mappe dei processi funzionali all’interno del cervello; e ancora all’elettrostimolazione ad alta intensità, tramite cui cerchiamo di registrare sensazioni di dolore nei pazienti. Si tratta di tecniche che la medicina impiega ormai in diversi campi, ma che fino a poco tempo fa non erano state utilizzate per indagare il livello di coscienza coi pazienti in stato vegetativo, in coma, o in sindrome locked-in».
I pazienti in stato vegetativo come 'rispondono' a questi test?
«Va detto che in tutti questi pazienti c’è una risposta cerebrale agli stimoli provenienti dall’esterno. Infatti si assiste – lo ripeto, in tutti i casi – a un’attivazione delle cortecce sensoriali 'primarie'. La differenza di caso in caso, invece, dipende da quanto queste aree di attivazione risultano disconnesse da quelle 'superiori', come le aree associative, indispensabili per la consapevolezza di sé e dell’ambiente esterno. Abbiamo casi in cui questa 'separazione' è definitiva, altri in cui è solo parziale, altri – sorprendenti – in cui le aree mostrano di interagire parzialmente tra loro».
È il caso della famosa partita di tennis mentale giocata da alcuni pazienti in stato vegetativo, seguiti a Cambridge da Adrian Owen?
«Sì. In quei casi, in seguito a determinati stimoli, alcuni pazienti dimostravano l’attivazione delle stesse aree cerebrali dei soggetti sani. Un grande risultato, e non per le sue implicazioni etiche, o perché tramite quel successo si fosse arrivati a una cura per questi pazienti».
E perché allora?
«Perché dagli anni Settanta in poi, cioè da quando si è cominciato a inquadrare clinicamente la condizione dello stato vegetativo, la scienza si è sempre affidata ai libri. Voglio dire che ci siamo seduti.
Questi risultati invece dimostrano che c’è ancora molto da fare, che si possono compiere passi avanti, che c’è la speranza di approfondire la nostra conoscenza di questo campo. Abbiamo gli strumenti per farlo, oggi».
E le sensazioni? Questi pazienti soffrono?
«Se ad attivarsi in seguito agli stimoli elettrici è solo l’area corticale, cioè quella 'primaria', probabilmente no. Ma proprio in questo momento ci stiamo concentrando su come possibili interazioni tra quest’area e quelle superiori determinino una sensazione di dolore».
Eluana Englaro, la ragazza italiana in stato vegetativo da 16 anni e per la quale è stato autorizzato il distacco del sondino che la alimenta, non è mai stata sottoposta a questi test.
Crede sia possibile, oggi, decretare l’irreversibilità di uno stato vegetativo senza avvalersi di queste nuove tecniche?
«Dal mio punto di vista – che è rigorosamente scientifico, non voglio esprimere un giudizio etico su questa vicenda – credo sia un errore che un medico non specializzato faccia una diagnosi definitiva su uno di questi pazienti».
Quanti pazienti in stato vegetativo ha visitato in questi anni?
«Più di 300. Alcuni provenivano anche dall’Italia».
Perché le famiglie si rivolgono al centro universitario in cui opera?
«Il più delle volte cercano una risposta».
Cosa risponde loro?
«Che qui non devono cercare un miracolo, o un risveglio, ma una diagnosi. E che la diagnosi non è una prova, ma un buon inizio».
Cosa pensa dell’idea che, non essendo coscienti, questi pazienti debbano essere lasciati morire?
«Nuovamente, mi limito a un giudizio scientifico. Credo sia importante essere sicuri della diagnosi che facciamo su questi pazienti. Credo che prima di ogni decisione, qualunque essa sia, dobbiamo avere la certezza di un fatto, di una condizione. Credo che oggi ci siano gli strumenti per farlo. E che si possa migliorare».