Nella rassegna stampa di oggi:
1) Dio non è cattolico, parola di cardinale - Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché - di Sandro Magister
2) A furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani! – di Magdi Cristiano Allam
3) Eluana. Oggi la Cassazione decide - Autore: Morresi, Assuntina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: stranocristiano.it - martedì 11 novembre 2008
4) La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale - Autore: Allam, Magdi Cristiano Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008 - L'Europa, tutti noi, saremo coinvolti in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di un capitalismo alla cinese, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto
5) Esegesi biblica alla scuola dei padri - Dalla sapienza medievale - i quattro sensi delle Scritture - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
6) Nessun attentato può essere compiuto in nome dell'islam - «Fatwa» contro il terrorismo - La svolta dei musulmani in India – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
7) 11/11/2008 14.11.11 – Radio vaticana - Il rabbino Rosen all'incontro ebraico-cattolico di Budapest: costruiamo insieme società fondate su valori esistenziali
8) USA/ La “speranza” riposta in Obama non resti un’ideologia - Lorenzo Albacete - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
9) J'ACCUSE/ Giannino: "O la banca è per la persona oppure la persona finisce schiava della banca" - Oscar Giannino - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
10) ELUANA/ Io, ateo, in lotta per difendere la dignità della vita - Redazione - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
11) UNIVERSITA'/ 2. Decreto Gelmini: rivoluzionarie le novità sul diritto allo studio - Tommaso Agasisti - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
12) KENYA/ L'impronta del fondamentalismo somalo dietro il rapimento di suor Maria Teresa e Caterina? - INT. Luigi Anataloni - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) SIGNORI GIUDICI, PENSATECI - AVREMO LA PRIMA CONDANNA A MORTE REPUBBLICANA? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 novembre 2008
Dio non è cattolico, parola di cardinale - Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché - di Sandro Magister
ROMA, 12 novembre 2008 – L'ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini uscito in Italia, come già qualche mese fa in Germania e ora anche in Spagna, ha subito conquistato l'alta classifica dei più venduti. È intitolato "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede", ed è in forma di intervista, col gesuita tedesco Georg Sporschill.
Le volte in cui Benedetto XVI ha parlato in pubblico del cardinale Martini – famoso biblista e arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 – lo ha sempre elogiato come "un vero maestro della 'lectio divina', che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura".
In questo suo libro, però, il cardinale non appare altrettanto magnanimo, nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi papi, da Paolo VI in poi.
In un precedente servizio, www.chiesa ha già riferito dell'attacco frontale portato da Martini contro l'enciclica "Humanae Vitae".
Ma nel libro c'è di più. C'è una ricorrente accusa alla Chiesa di "involuzione". Mentre all'opposto Martini reclama una Chiesa "coraggiosa" e "aperta", come dicono i titoli di due capitoli del libro.
C'è soprattutto una descrizione di Gesù legata a un'ideale di giustizia molto terreno. La distanza tra questo Gesù e il "Gesù di Nazaret" del libro di Benedetto XVI è impressionante.
Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", nel dare notizia del libro di Martini in occasione del suo lancio alla Fiera del Libro di Francoforte, il 17 ottobre, ha scritto che "molte delle considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere".
Ma non ha aggiunto altro. "Avvenire" non ha sinora recensito il libro e nessuno si aspetta che lo farà in futuro. Silenzio assoluto anche a "L'Osservatore Romano".
In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all'autore del libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere. Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro aggiunga danno a danno.
Ma qual è, più analiticamente, il "rischio della fede" che il cardinale Martini evoca?
Pietro De Marco, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale, lo porta alla luce e lo sottopone a critica nel commento che segue.
Per De Marco il messaggio del cardinale appare "reticente quanto a completezza della confessione di fede". C'è in esso molta frequentazione delle Sacre Scritture, ma gli articoli del Credo "vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli".
Un'evanescenza dei fondamenti della dottrina che ha contrassegnato non solo il percorso di un grande leader di Chiesa come Martini, ma larga parte della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill - di Pietro De Marco
La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l'intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesù.
Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".
Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con l'evocare scene familiari e "semplici usanze". Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L'educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio" (p.20).
Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c'è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto". Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto indeterminato. L'unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell'amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare "in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice. Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli "spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in modo biblico".
Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".
Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull'equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura" intellettuale e morale. Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: "Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio". Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.
Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle "definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica. Tradizione che innerva invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.
Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: "Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae". Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.
Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.
Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell'attuale passaggio di civiltà. Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell'intellettuale. Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".
Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo".
Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c'è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?
È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non clericale".
L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.
Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco: "El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua vita di fede?
Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum", salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.
È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.
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A furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani! – di Magdi Cristiano Allam
Sono sempre più preoccupato per la grave deriva religiosa ed etica presente in seno al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran, tendente a legittimare sempre più l’islam come religione e ad accreditare Maometto come profeta.
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
In un’intervista rilasciata oggi al quotidiano “Avvenire”, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, sostiene di essere “soddisfatto” per i risultati del primo seminario del forum cattolico-musulmano svoltosi in Vaticano dal 4 al 6 novembre 2008, sia “per il clima di grande libertà nell’esprimere i propri punti di vista”, sia “per i contenuti su cui alla fine si è raggiunto un consenso”. Ebbene vi invito a leggere insieme il testo della dichiarazione finale del forum cattolico-musulmano, che potete trovare integralmente all’interno della rubrica “Il Fatto”.
Sono sempre più preoccupato per la grave deriva religiosa ed etica presente in seno al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran, tendente a legittimare sempre più l’islam come religione e ad accreditare Maometto come profeta. Sono sempre più inorridito dalla mistificazione della realtà, all’insegna della paura, di un cristianesimo che afferma di condividere l’amore di Dio e l’amore per il prossimo con l’islam, facendo finta che non sia vero o sminuendo il fatto che la stragrande maggioranza dei musulmani predica e pratica l’eliminazione fisica degli ebrei e di Israele, legittima il terrorismo islamico e palestinese, condanna a morte per apostasia i musulmani che si convertono al cristianesimo, discrimina e sottomette la donna perché essere inferiore. E su queste posizioni si attesta la stragrande maggioranza dei 138 cosiddetti “saggi dell’islam” che hanno promosso il dialogo con il Vaticano.
Da cristiano dico al Papa e alla Chiesa: Fermatevi! Chi crede nella verità di Cristo non può in alcun modo legittimare l’islam e Maometto! Piuttosto aspiriamo al martirio nella fede in Cristo, eleviamoci a testimoni della verità e della libertà, ma non dobbiamo mai e poi mai arrenderci né ai tagliagola né ai taglialingua islamici! Di questo passo, a furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani!
“Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo”, si legge nella conclusione del documento che mette sullo stesso piano il cristianesimo e l’islam come religioni, Gesù Cristo e Maometto come fondatori delle due fedi, spingendosi fino a menzionare il Corano come sigillo della profezia. Il cristianesimo e l’islam vengono raffigurati su un piano di parità in riferimento ai temi cruciali della dignità e della libertà umana, del rispetto della libertà religiosa, della certezza della sacralità della vita, del ripudio della violenza e del terrorismo. Il contesto in cui questo insieme di diritti, valori e regole si esercita viene raffigurato come quello di una società inesorabilmente sempre più multiculturale e multireligiosa, come se fossimo inesorabilmente condannati a rinunciare al primato della nostra civiltà italiana ed europea e della nostra fede cristiana.
Il documento del forum cattolico-musulmano confessa che ci sono “punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni”. E al primo punto, specificando la concezione islamica dell’amore di Dio, si parla del “Santo e amato profeta Maometto” e si indica il Corano come “l’ultimo” dei libri inviati da Dio per guidare e salvare l’umanità. Mi domando: può un cristiano sottoscrivere un concetto simile e addirittura dirsi soddisfatto?
Al punto due, indicando che “la vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona”, si dice che “dovrebbe” essere quindi preservata. Come “dovrebbe”? Perché mai si usa il condizionale? Perché mai non si dice chiaramente che la vita non è affatto preservata nei paesi a maggioranza islamica?
Al punto tre si parla della dignità umana, dei doni della ragione e del libero arbitrio, come si fossero un patrimonio comune di cristiani e musulmani. Ma dove? Ma quando?
Al punto quattro si inaugura una serie di prese di posizioni all’insegna della mistificazione della realtà e dell’islamicamente corretto, in cui cattolici e musulmani vengono messi sullo stesso piano. Ad esempio sostenendo: “Ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli cristiano mentre non lo è affatto nei paesi musulmani. Perché dunque metterli sullo stesso piano? Il medesimo approccio mistificante e ipocrita lo ritroviamo sulla questione cruciale del terrorismo: “Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati ad essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione”. Ebbene non mi risulta affatto che ci siano dei terroristi cattolici che perpetrano attentati terroristici nel nome di Gesù! I soli terroristi che oggi uccidono nel nome di Dio e di Maometto sono i musulmani, perché dunque non dire che si tratta di terrorismo islamico?
Quando nella mattinata dello scorso 29 ottobre mi recai a visitare il cardinale emerito di Bologna Giacomo Biffi nella sua residenza bolognese, cogliendo l’occasione della mia partecipazione – avvenuta nel pomeriggio nella magnifica aula magna della biblioteca dell’università Alma Mater – dell’autobiografia di Carolina Delburgo “Come ladri nella notte” di cui ho scritto la prefazione, mi ha colpito l’intensità del suo sguardo e la passionalità della sua voce nel ricordarmi che quando negli anni Novanta egli sostenne l’opportunità che gli immigrati venissero scelti sulla base della loro compatibilità sul piano della condivisione dei valori e il rispetto delle regole, quindi con una preferenza per gli immigrati di fede e cultura cristiana, si trovò totalmente osteggiato ed isolato: “Nessuno, anche all’interno della Chiesa, mi sostenne. In pochi mi chiamarono privatamente per dirmi che erano d’accordo con me. Ma nessuno di loro l’ha mai fatto pubblicamente”.
Lo stesso è avvenuto anche con la mia “Lettera aperta al Papa”, pubblicata in questo sito il 10 ottobre scorso e che iniziava così:
A Sua Santità il Papa Benedetto XVI,
Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”, ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo, consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo, indifferentismo, multiculturalismo.
Nessun esponente della Chiesa ha risposto a questa Lettera aperta. Ed anche tra le risposte elaborate da parte degli iscritti alla mia Associazione, taluni si sono sentiti in dovere di difendere i musulmani e persino l’islam, ricordando che nel Medioevo ci fu il genio di Averroè e che anche i cristiani hanno commesso delle atrocità in passato. Ricorrendo anche in questo caso alla mistificazione della realtà e decontestualizzando il discorso.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam
(12 Novembre 2008)
Eluana. Oggi la Cassazione decide - Autore: Morresi, Assuntina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: stranocristiano.it - martedì 11 novembre 2008
Aspettando la sentenza
“La Cassazione ci ripensi, perché sarebbe la prima volta in Italia che qualcuno muore, tra l’altro di fame e di sete e con un’agonia di almeno 15 giorni, per effetto di una sentenza”. Con le parole di Eugenia Roccella, aspettiamo per oggi 11 novembre la sentenza della Cassazione su Eluana, una sentenza che sarà definitiva.
In questi giorni ho letto due libri. Il primo “Storia di una morte opportuna - il diario del medico che ha fatto la volontà di Welby”, di Mario Riccio e Gianna Milano, un diario del medico che ha sospeso la ventilazione a Welby. Il secondo “Eluana – la libertà e la vita”, di Beppino Englaro con Elena Nave.
Libri ben curati e costruiti, ricchi di citazioni, sentenze, bibliografia – soprattutto quello di Riccio – ripercorrono le note vicende di Welby ed Eluana, quelle storie che nel giro di pochissimi anni hanno sdoganato presso l’opinione pubblica italiana l’idea che esiste un diritto a morire.
Non sono raccontate come storie tristi, ma quasi come atti di eroismo da parte di chi le vive in prima persona – Mario Riccio e Beppino Englaro, in questo caso: persone qualunque che per imperscrutabili casi della vita si sono trovate a combattere la battaglia del diritto a morire.
Strani tempi, questi nostri, in cui sembra che la maggiore preoccupazione sia quella di morire, e non di vivere. La preoccupazione di non far vivere bambini nati troppo prematuri, oppure disabili gravissimi come Eluana, ma anche meno gravi: quasi che il problema di questi tempi sia amministrare la morte, e non vivere la vita.
A questo proposito vi segnalo l’interessante lettera di Fulvio De Nigris a Gad Lerner, dopo la trasmissione “L’Infedele” dedicata proprio ad Eluana. Il quale Fulvio de Nigris (fondatore dell’Associazione “Amici di Luca”) a un certo punto osserva che Beppino Englaro chiede silenzio su sua figlia, però a parlare è sempre e solo lui, e non vediamo mai in tv tutti quelli – e sono migliaia - che la loro Eluana ce l’hanno in casa, e che chiedono solo di essere aiutati a continuare a viverci insieme. Persone per le quali la sentenza Englaro può avere un impatto devastante, e almeno psicologicamente tanti problemi già li ha fatti (senza parlare della questione giuridica e legale: non sentivamo la mancanza dell’ennesima battaglia parlamentare che ci porterà a una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento).
Ma i solerti giudici italiani non si occupano solo di fine vita: anche la legge 40 è sotto tiro, e fra qualche mese la Corte Costituzionale si pronuncerà sul limite massimo dei tre embrioni da creare e trasferire in utero. Intanto continua un’irresponsabile pubblicità ai test genetici: sul corriere, ne hanno descritto uno all’ultimo grido, che stanerebbe ben 15.000 difetti genetici. Una meraviglia, secondo i media.
La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale - Autore: Allam, Magdi Cristiano Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
L'Europa, tutti noi, saremo coinvolti in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di un capitalismo alla cinese, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto
Cari amici,
la vittoria di Barak Obama è certamente un fatto di portata storica. Lo è indubbiamente per l’aspetto più manifesto: si tratta del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America. Ma io temo che sarà ricordato dalla storia non tanto per il colore della sua pelle, per le sue radici keniote e per il padre musulmano poligamo, ma perché sarà il presidente che accelererà il tracollo dell’America come superpotenza mondiale e, di conseguenza, condurrà alla disfatta dell’insieme della civiltà occidentale.
Ciò coinvolgerà inesorabilmente l’Europa, quindi tutti noi, in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di una forma di capitalismo alla cinese caratterizzato dal materialismo assoluto e dal consumismo sfrenato senza regole etiche e diritti umani, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo e indifferentismo.
Io sono sinceramente felice per la vittoria di un giovane di 47 anni alla guida degli Stati Uniti, a maggior ragione se incarna il riscatto di una minoranza etnica che arrivò in America come schiavi. L’America dimostra di essere una nazione dove il rinnovamento generazionale è una costante e dove il cambiamento è un tratto fisiologico perché si radica nel primato dei valori costituzionali che affermano la parità dei cittadini indipendentemente dall’etnia d’origine, dalla confessione o status sociale.
Ammiro Obama per la lucidità e l’intuito con cui è riuscito a percepire la voglia di cambiamento degli americani. Un cambiamento ricercato a tutti i costi perché si è attribuito all’amministrazione repubblicana di George Bush la causa e la responsabilità di tutti i mali dell’America. Anche se di fatto la guerra in Iraq sta finalmente registrando la disfatta del terrorismo di Al Qaeda dopo aver rovesciato il regime tirannico di Saddam Hussein. Facile e scontato quindi oggi sostenere a viva voce che è in Afghanistan che ci si deve impegnare massimamente per combattere il terrorismo islamico globalizzato. Ed anche se di fatto Bush, sul piano economico, ha osato l’inverosimile operando un massiccio intervento statale con fondi pubblici a sostegno delle banche fallite dopo l’esplosione della bolla speculativa, ponendo fine al mito del libero mercato che si autoregolamenta da sé, facendosi invece scoprire che il mercato necessita di regole etiche. Il fatto che sia stato un repubblicano, un acerrimo assertore dell’inviolabilità del libero mercato, ad assumere un’iniziativa statalista di stampo socialista, e che ciò avviene nella nazione simbolo del capitalismo, dà l’idea della svolta epocale legata alla fine di un mito.
Ammiro Obama per l’intelligenza con cui ha individuato nei giovani il fattore trainante del cambiamento, valorizzando in modo ottimale la loro passione e la loro disponibilità a concedersi totalmente.
Ammiro Obama per la straordinaria capacità di coinvolgere l’insieme della popolazione americana nella più ampia e capillare rete virtuale ed economica che ha consentito di dar vita a un mastodontico e consistente sistema di autofinanziamento con milioni di piccoli contribuenti che ha fruttato, fino alla fine del mese di settembre, oltre 600 milioni di dollari di cui la gran parte inviati da sostenitori che, singolarmente, hanno inviato una somma inferiore ai 50 dollari. Anche se certamente Obama ha potuto godere, in partenza, anche del sostegno di grandi finanziatori che lo hanno messo, in un secondo tempo, nella condizione di rendersi economicamente autonomo.
Gli americani non ne potevano più di George Bush e del suo Partito Repubblicano, a dispetto di tutto e di tutti, ed Obama ha saputo cogliere questo messaggio. Obama è stato inoltre avvantaggiato dal fatto che il ceto medio, indebolito dalla crisi economica, si è riconosciuto nelle sue posizioni assistenzialiste che promettono maggiori servizi pubblici ai cittadini, quindi con una maggiore presenza dello Stato, rispetto alle posizioni liberiste che affidano allo sgravio fiscale la possibilità dei singoli di godere di un miglior tenore di vita, quindi con una minore presenza dello Stato.
Tuttavia ciò che mi preoccupa in Obama è lo spirito sessantottino che ha animato il discorso da lui pronunciato a Berlino, in cui ha elevato la retorica dell’abbattiamo tutti i muri tra tutte le religioni, tutti i paesi, tutti gli uomini, senza porsi delle domande sui contenuti, senza chiedersi perché sono stati eretti questi muri e del pericolo che in essi si annida. Così come mi preoccupano i toni populisti del discorso della vittoria, “l’America è il luogo nel quale tutto è possibile”, “la vera forza della nostra nazione non nasce dalle armi o dalle ricchezze, bensì dalla vitalità dei nostri ideali”.
Ciò che mi preoccupa massimamente di Obama è l’assenza di una chiara visione e strategia per il futuro dell’America e del mondo: “La strada che abbiamo davanti sarà lunga. La salita rapida. Forse non arriveremo al traguardo in un solo anno, forse non basterà un unico mandato”. Obama non indica né una strada né un traguardo. Ci dice solo che sarà lunga, rapida e incerta. E’ più concentrato sulla realtà contingente che si esaurisce nella denuncia di ciò che non va, che sulla realtà strutturale che implica la proposta di ciò che si deve costruire. E’ infatuato dal mito del dialogo, dall’illusione che il dialogo sia la panacea di tutti i mali del mondo e che a furia di dialogare anche con i peggiori tiranni, a partire dal presidente nazi-islamico iraniano Ahmadinejad, qualcosa di buono ne uscirà fuori. Ma dato che i suoi consiglieri, ben più avveduti, lo invitano alla cautela per non mettersi contro i poteri forti in America, Obama passa da un estremo all’altro, minacciando anche di muovere la guerra contro l’Iran e contro il Pakistan.
Ebbene, cari amici, nel nostro rapporto con la realtà e nella nostra voglia di cambiamento della realtà, noi dobbiamo partire dalla considerazione della realtà per quella che è, e purtroppo, la realtà ci rappresenta un’America e un’Europa in declino sul piano economico e sul piano sociale e culturale. Un declino che si tocca con mano nel constatare l’imperversare del capitalismo alla cinese al punto che oggi la Cina comunista è il principale creditore del debito pubblico americano, e nel successo degli estremisti islamici che adottano il terrorismo dei taglia-lingua nel conquistare spazi sempre più ampi di potere in seno all’insieme dell’Occidente. Un declino che si deve proprio al venir meno del primato dei valori e delle regole che sono il fondamento del riscatto della civiltà occidentale che si alimenta del binomio indissolubile di verità e libertà, di fede e ragione, che ha le sue radici profonde nella fede, nella cultura e nella tradizione cristiana che ha saputo raccogliere l’eredità del pensiero greco, romano, laico e liberale.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i Valori e le Regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Esegesi biblica alla scuola dei padri - Dalla sapienza medievale - i quattro sensi delle Scritture - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
Una delle eredità che i medievali raccolsero dai padri della Chiesa è quella del metodo esegetico simbolico, che, al senso storico immediato, aggiunge "un secondo modo di leggere e di intendere il testo" (Yves Congar). E, infatti, "sull'esempio dei padri i medievali saldano in uno stesso comportamento esegetico i procedimenti e le categorie ereditate dalla cultura ellenistica. Presso gli autori pagani, presso Filone, presso Origene, si era costituito un genere letterario per interpretare i testi (Omero, Virgilio, e così via) di là dalla loro lettera, con uno sdoppiamento, in cui il corpo del racconto, del mito, del mistero, era di fatto disgiunto a supposto vantaggio di uno "spirito", divenuto eterogeneo alla lettera. I cristiani (e Filone stesso) mantenevano certamente il dato storico primitivo: essi accettarono tuttavia, specialmente ad Alessandria, i metodi dei loro contemporanei. Attraverso Ambrogio, Agostino, Gregorio, questi metodi penetrarono l'esegesi medievale occidentale. L'allegorismo unisce, così, la trasfigurazione cristiana della storia con una trasposizione morale nella quale i racconti biblici simboleggiano la vita interiore del giusto". Si tratta di una interpretazione della Bibbia "in cui la storia - la littera - è il supporto di una trasposizione continua a realtà soprastoriche di cui gli eventi terreni sono figura" (Marie-Dominique Chenu). Esattamente, quindi, come i padri, i medievali sono portati a cogliere nella Scrittura una "lettera" e uno "spirito", e viene in mente il libro di Henri-Marie de Lubac Histoire et esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène. Sono, infatti, tratte dalle omelie di Origene le espressioni: "Nelle Sante Scritture difendiamo la lettera e lo spirito", la "narrazione della storia", e l'"intelligenza mistica". Ed è il principio che Alano di Lilla nel De planctu naturae enunciava in questi termini: "Nella corteccia esteriore della lettera il suono della lira è inautentico; ma in maggior profondità esso rivela agli ascoltatori il segreto di una intelligenza più penetrante; in tal modo, rimosso il guscio esterno di un'ingannevole apparenza, il lettore trova all'interno, come in segreto, un più dolce nucleo di verità". Per esprimere i diversi livelli, cioè i quattro sensi, della Scrittura, i medievali composero un celebre distico sui quattro sensi della Scrittura: "La lettera insegna quanto è avvenuto, / l'allegoria quello che devi credere, / la morale quello che devi fare / l'anagogia il fine a cui devi tendere". (Littera gesta docet, / quid credas allegoria, / moralis quid agas, / quo tendas anagogia) (Nicola di Lyre, Postilla in Gal., 4, 3; cfr. H. de Lubac, Esegesi medievale, ii, Milano, Jaca Book, 1988, pp. 345-364). Sono in tal modo rilevati il senso letterale o storico, il senso allegorico, quello morale o tropologico e quello anagogico: "Sui quali come fossero ruote, si muove tutta la sacra pagina" (Guiberto di Nogent, Moralia in Genesim. Liber quo ordine sermo fieri debeat, Proemium, in Patrologia Latina 156, 25). Nicola di Lyre commenta così il distico citato: "Secondo il primo significato, che si manifesta attraverso le parole, si coglie il senso letterale o storico; in rapporto poi al secondo significato - che si esprime attraverso i fatti stessi - si percepisce il senso mistico o spirituale, che in generale presenta tre dimensioni; precisamente: se le cose significate attraverso le parole rivelano ciò che nella nuova legge si deve credere, si attinge il senso allegorico; se rivelano quello che si deve sperare nella beatitudine futura, si attinge il senso anagogico, e da qui il verso citato; se poi si fa riferimento a quanto dobbiamo fare, si attinge il senso morale o tropologico" (Patrologia Latina 113, 28). Quanto a Stefano di Langton ricorda: "Il maestro Ugo di san Vittore dice: la sacra pagina è talmente superiore rispetto alle altre discipline che ciò che è da queste significato in teologia ha funzione significante. Le realtà che nelle altre facoltà sono indicate dai nomi e dalle parole, in teologia corrispondono a dei nomi" (da Beryl Smalley, Lo studio della Bibbia, p. 280). D'altra parte, questa viva sensibilità alla stratigrafia scritturistica - che certamente non mancò di essere rischiosa nel suo declinare in un allegorismo arbitrario, evacuante la "realtà" e attentante, alla fine, lo stesso spessore simbolico - si accordava felicemente, oltre che alla Scrittura stessa, a tutto l'orizzonte del medioevo, ossia alla "mentalità" universalmente simbolica, che contrassegnava i diversi settori della sua cultura, tutta impregnata di "segni", dalla teologia, alla filosofia, all'arte. Secondo Marie-Dominique Chenu, al quale dobbiamo gli studi più acuti e suggestivi sull'argomento, non si può "fare la storia delle dottrine cristiane, senza prendere in considerazione le risorse del simbolismo che nella natura, nella storia, nella pratica del culto, le ha continuamente alimentate". Scrive: "Maestri di scuola e mistici, esegeti e naturalisti, religiosi e profani, scrittori e artisti, gli uomini del xii secolo, fra tutti i medievali, hanno in comune, imposta dal loro ambiente e come regolante il loro giudizio in una tavola innata delle categorie e dei valori, la convinzione che ogni realtà naturale o storica ha un significato che trascende il suo contenuto immediato, e che è rivelato al nostro spirito da una certa densità simbolica. Rendere ragione delle cose non vuol dire soltanto offrirne la spiegazione mediante le loro cause interne, ma scoprire questa misteriosa densità", e non attraverso una "dimostrazione" (demonstratio) intesa come prova aristotelica, ma una "ostensione" (monstratio). Senza dubbio non è possibile ripetere semplicemente il metodo simbolico sia dei padri sia dei medievali, non solo per un mutamento di mentalità simbolica - anche se questa è, in ogni caso, una risorsa della realtà e della sua intelligenza e la nostra cultura la va sempre più scoprendo - ma anche e soprattutto per una più acuta sensibilità e possibilità nei confronti del senso "letterale" o "storico" della Scrittura, scientificamente studiata. Non esiste, tuttavia, un'opposizione tra esegesi scientifica ed esegesi simbolica, se questa è intesa come sforzo per ritrovare e leggere compiutamente la Parola di Dio. Questa Parola è in atto all'interno del testo e della storia scritturistica con i suoi avvenimenti, ed è espressa in una pluralità di linguaggi, compreso quello simbolico ossia quello della relazione e connessione non solo tra le parole ma anche tra gli eventi che sono segni o profezia. In tal modo, non ci si sovrappone alla Parola di Dio con gli artifici dell'allegoresi, né ci si dedica a estrarre dalla Scrittura delle tesi o enunciazioni, bensì a ritrovare in essa tutta l'infinita e inesauribile "realtà", che Dio manifesta e comunica, non solo per l'illustrazione della mente, ma altresì per il coinvolgimento dell'esperienza - è il senso "morale", cui faceva riferimento il distico medievale - e per l'adombramento e la rappresentazione escatologica, cioè l'"anagogia", ossia il quarto senso inteso dagli esegeti e teologi medievali, che non cessano di fare scuola.
(©L'Osservatore Romano - 12 novrmbre 2008)
Nessun attentato può essere compiuto in nome dell'islam - «Fatwa» contro il terrorismo - La svolta dei musulmani in India – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
New Delhi, 11. Una condanna netta e inequivocabile degli attentati terroristici, come azioni contrarie all'islam, partita dai mullah della scuola islamica Darul Uloom Deoband - la più antica e autorevole dell'India, nello stato dell'Uttar Pradesh - e ora sottoscritta dalla più grande organizzazione di religiosi musulmani del Paese, la Jamiat-Ulama-i-Hind (Juh): l'approvazione della fatwa contro il terrorismo, al termine della ventinovesima assemblea generale della Juh che si è svolta sabato e domenica scorsi a Hyderabad, capoluogo dell'Andhra Pradesh, rappresenta una svolta, "un evento fondamentale" come hanno affermato gli stessi delegati: stabilisce che il terrorismo non appartiene alla religione islamica e non si possono portare azioni terroristiche in nome dell'islam. Nella risoluzione finale, firmata all'unanimità, si ribadiscono le differenze tra il jihad e il terrorismo: la prima, in quanto autodifesa da un'aggressione e per ristabilire la pace, "è un fenomeno costruttivo e un diritto fondamentale degli esseri umani, mentre il secondo si basa sulla distruzione. È necessario definire jihad e terrorismo nella giusta prospettiva, che li vede come poli opposti. Il terrorismo è il più grande crimine stando al Corano" conclude l'editto. Con il provvedimento, i religiosi musulmani indiani si sono impegnati a trasmettere questa posizione all'interno della comunità dei fedeli e a isolare e ad allontanare dalle proprie comunità gli elementi influenzati dalle ideologie terroristiche. Anche gli insegnanti delle madrasse (i convitti dove si impartiscono insegnamenti di religione e diritto) hanno dato la loro disponibilità a sensibilizzare gli studenti su temi di pace. L'approvazione della fatwa è stata salutata dai partecipanti al meeting come un evento che non può non avere conseguenze per il futuro. I seimila delegati partecipanti si erano riuniti per definire, come ogni anno, le strategie da attuare e per fare il punto sulla situazione dei musulmani nel Paese. L'editto religioso contro il terrorismo era stato già emesso il 31 maggio da quattro muftì (dotti musulmani autorizzati a esprimere responsi in materia giuridica e anche teologica) che avevano definito il terrorismo "non islamico" e "non appartenente alla religione islamica". Pensiero ripreso adesso dalla Juh: "Un atto terroristico è compiuto da individui folli e nessuno deve associarli alla comunità musulmana che crede nella pacifica coesistenza con le altre comunità" ha detto il segretario generale dell'organizzazione, Maulana Mahmood Madani, che è anche senatore. "L'islam - ha concluso il leader musulma- no - è una religione di pace e ai suoi occhi lo spargimento di sangue e gli attentati sono atti e crimini inumani". Come detto, l'iniziativa della fatwa ha preso le mosse a maggio dai mullah della Darul Uloom (la "casa della conoscenza") di Deoband, in Uttar Pradesh. Fondato nel 1866 - si legge nel sito dell'Associazione musulmani italiani (Ami) - il seminario religioso è secondo in importanza solo ad al Azhar, al Cairo. L'editto religioso è stato firmato non solo da Maulana Habibur Rahman, il grande muftì di Deoband, ma anche dai suoi tre delegati. Ma gli studiosi sono andati oltre organizzando, per annunciare la fatwa, una conferenza su "Anti-terrorismo e pace globale" tenutasi il 31 maggio al Ramilla ground di New Dehli. L'incontro ha visto riunite tutte le maggiori organizzazioni musulmane, come la Jamaat-e-Islami Hind e la All India Muslim Personal Law Board. Virtualmente erano rappresentate tutte le sette musulmane indiane, inclusi i wahhabiti, i sufi e i barelli. La conferenza - afferma ancora l'Ami - ha dichiarato che non ci sono connessioni fra jihad e terrorismo. La sola idea di un terrorista che si glori nella violenza e descriva se stesso come un jihadista è stata denunciata come un abominio. I delegati hanno visto nel terrorismo la più grande minaccia che le società musulmane si trovano ad affrontare oggi. Tutti i mullah presenti hanno fatto un giuramento di fedeltà: "Siamo legati a questa fatwa di Darul Uloom Deoband e ci impegnamo a condannare il terrorismo e a diffondere il messaggio di pace globale dell'Islam". Giuramento, messaggio, ripresi e sottoscritti lo scorso fine settimana a Hyderabad: "Nell'islam creare discordia o disordine nella società, interruzioni della pace, sommosse, spargimenti di sangue, saccheggi o razzie e uccidere persone innocenti in qualsiasi posto del mondo, sono tutti considerati crimini disumani. Coloro che usano il Corano o i detti del profeta Maometto per giustificare il terrorismo stanno dando credito a una bugia. Il vero scopo dell'islam - si sottolinea nella fatwa - è quello di cancellare tutti i tipi di terrorismo e di diffondere il messaggio di pace globale". "Nel mondo è stato creato un clima che vuole legare il terrorismo all'islam; dobbiamo unire le nostre forze per rimuovere questa errata concezione" ha detto il maestro indù Sri Ravi Shanker che, come riferisce l'agenzia Misna, era fra i rappresentanti religiosi induisti ospiti all'incontro e che ha deplorato l'uso della violenza anche da parte di gruppi induisti ritenendola ugualmente contraria alla religione indù. L'assemblea generale della Jamiat Ulama-i-Hindi ha infatti sollevato anche il problema delle aggressioni contro minoranze islamiche e cristiane da parte di gruppi radicali induisti ma ha chiesto "al governo e ai media di cessare di mettere in relazione il terrorismo con qualunque religione". Proprio ieri, dall'Italia, è giunta una netta presa di posizione contro queste violenze. L'aula della Camera, per alzata di mano, ha detto sì a tutte le mozioni presentate dalle forze politiche sulle iniziative riguardanti i ripetuti episodi di violenza e di persecuzione nei confronti dei cristiani in India e in altre parti del mondo. I testi approvati, in particolare, impegnano il Governo di Roma "a intervenire direttamente presso le autorità nazionali indiane affinché sia fatta chiarezza, siano individuati i responsabili che invocano pulizie etnico-religiose in India e presi seri provvedimenti nei confronti dei responsabili della polizia e dei governi locali che hanno sottovalutato o peggio ignorato volutamente i fatti sopraesposti". I deputati chiedono che vengano adottate effettive misure di sicurezza nei confronti delle minoranze religiose cattoliche, che sia previsto l'effettivo risarcimento dei danni subiti dalle comunità religiose oggetto di atti vandalici e siano assicurati alla giustizia gli autori degli omicidi e degli attentati. Inoltre la Camera sollecita un'azione, di concerto con i partner europei, affinché venga squarciato il velo di silenzio intorno a questa vicenda e affinché la comunità internazionale, anche attraverso risoluzioni dell'Organizzazione delle nazioni unite, "intervenga repentinamente per evitare che proseguano impunemente le gravi ferite inferte alla libertà religiosa e ai diritti umani in generale in tante parti del mondo". (giovanni zavatta)
(©L'Osservatore Romano - 12 novrmbre 2008)
11/11/2008 14.11.11 – Radio vaticana - Il rabbino Rosen all'incontro ebraico-cattolico di Budapest: costruiamo insieme società fondate su valori esistenziali
"Un incontro fiducioso e amichevole. Ci conosciamo ormai da anni e in questi anni certamente è cresciuta la fiducia. Ora vogliamo andare avanti. Non c’è stata nessuna polemica e controversia”. Il cardinale Walter Kasper, che presiede la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha commentato con queste parole all'agenzia SIR l'andamento dell’incontro del Comitato internazionale per il collegamento ebraico-cattolico in corso a Budapest fino a domani. Un appuntamento che quest'anno ha inteso verificare lo stato dei rapporti tra le due religioni nei Paesi dell'Europa orientale e, in particolare, la loro capacità di intervenire nella società civile. Su questi argomenti si sofferma il rabbino David Rosen, presidente dell'International Jewish Committee for Inter-religious Consultations e tra i partecipanti all'incontro, che sottolinea anche l'importante commemorazione celebrata ieri per il 70.mo della "Notte dei cristalli", ovvero l'inizio del pogrom antisemita in Germania. Ascoltiamolo al microfono di Marta Verste, incaricata del Programma Ungherese della nostra emittente:http://62.77.60.84/audio/ra/00137706.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137706.RM
R. - We can indeed, we can say it’s a historic event for a number of reasons…
Veramente, possiamo dire che si tratta di un evento storico per una serie di ragioni. Intanto, la commemorazione della “Notte dei cristalli” di 70 anni fa. La natura stessa di questa commemorazione, che la Chiesa cattolica e la comunità ebraica fanno insieme, è un evento unico ed è anche dimostrazione della strada che abbiamo fatto per cercare di trasformare la tragedia del passato in una memoria condivisa, per ricordare ed imparare. E’ un evento storico, però, anche perché questa è la prima volta, dalla caduta del comunismo, che ci incontriamo nell’Europa centrale dell’Est. Stiamo cercando strade che ci coinvolgano non soltanto in responsabilità vicendevoli, ma anche in responsabilità condivise nella costruzione di nuove società sane, che non siano più fondate unicamente su fattori di materialismo secolare, ma che abbiano anche una visione e propositi esistenziali.
D. - Qual è la sua esperienza in merito alla collaborazione tra ebrei e cattolici nei Paesi dell’Europa dell’Est?
R. - I think it is very difficult to generalize, because it varies from one Country…
Credo sia molto difficile generalizzare, perché questa collaborazione varia molto da Paese a Paese. La mia sensazione è che, pur rilevando conquiste significative, c’è ancora molta strada da fare. Parte dei motivi per cui c’è ancora tanta strada da fare risiedono nel fatto che ciascuna comunità tende, comprensibilmente, ad occuparsi sostanzialmente delle proprie sfide particolari, che non necessariamente sono quelle delle altre comunità. Per questo, l’argomento delle relazioni ebraico-cattoliche non è sempre prioritario per le singole comunità, come dovrebbe essere.
L'incontro di Budapest sta ponendo attenzione ai giovani per ciò che riguarda la loro formazione al dialogo interreligioso. Lo conferma al microfono di Marta Vertse, padre Norbert Hofmann, segretario dela Commissione Pontificia presente in Ungheria:http://62.77.60.84/audio/ra/00137729.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137729.RM
R. - Una delle nostre intenzioni è stata dall’inizio quella di coinvolgere la giovani generazioni. Qui a Budapest, abbiamo 12 ragazzi di un’età tra i 20 e i 30 anni pronti a dialogare guardando sul futuro. Il consiglio è dunque quello di coinvolgere con maggiore intensità la generazione più giovane. Poi ci sarà, l’anno prossimo, un convegno che includerà i musulmani: sul come organizzarlo ne parleremo domani. Nei Paesi dell’Europa dell’est, ci sono anche delle comunità cristiane e ortodosse, che qualche volta sono in maggioranza. Un'altra prospettiva, allora, riguarda il coinvolgimento dei cristiani ortodossi, quali altri passi fare verso questo dialogo.
USA/ La “speranza” riposta in Obama non resti un’ideologia - Lorenzo Albacete - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Nel 1957, quando con mia madre e mio fratello visitai per la prima volta Washington, DC, venendo da Porto Rico dove ero nato, l’autista del taxi che ci portò dall’aeroporto alla casa degli amici di mia madre, di cui eravamo ospiti, era un nero, come la gran parte degli abitanti della capitale degli Stati Uniti. Durante il tragitto, mentre passavamo davanti alle case della Sedicesima Strada, vidi che molte di esse affittavano camere ai turisti, e gli annunci che si susseguivano riportavano tutti la scritta: “Solo bianchi”.
Ora può sembrare sorprendente, ma allora io non avevo nessuna idea di cosa quei cartelli significassero… così chiesi al guidatore, che mi rispose: «Significano che io non posso stare qui con mia moglie e le mie figlie». Proprio in quel momento arrivammo alla casa dei nostri amici: di fronte alla casa c’era un cartello: “Solo bianchi”.
Qualche anno dopo, i cartelli non c’erano più, ma non c’erano più neppure i proprietari bianchi di quelle case, inclusi gli amici di mia madre. Eppure, da quel giorno, mi è sempre stato ben presente che c’era una casa nella Sedicesima Strada con un cartello invisibile che proibiva ai non bianchi di abitare lì: la Casa Bianca. Ma, improvvisamente, il 4 novembre 2008, il cartello è stato strappato.
Non so se il mio tassista di 51 anni fa è ancora vivo. Non posso immaginare che egli abbia mai pensato di poter vedere il giorno in cui quell’ultimo cartello sarebbe stato rimosso. Fino a tempi molto recenti, non avrei pensato di poterlo vedere neppure io.
Per quelli di noi che sono passati attraverso la lotta per i diritti civili (il mio appartamento era nel mezzo di un’area in cui avvenivano spesso manifestazioni che finivano in violenti scontri con la polizia; durante i disordini del 1968 rimasi sotto coprifuoco notturno; ero al Lincoln Memorial in occasione del discorso di Martin Luther King, ecc.), l’elezione di Barack Obama a presidente contiene un elemento che trascende la politica. L’elezione non è stata il risultato di una conversione e pentimento dal peccato di razzismo, è dovuta principalmente alla crisi economica, ma trascende la politica.
Come mi disse un amico il giorno prima dell’elezione: «Io voterò per McCain data la mia opposizione all’aborto, ma pregherò perché vinca Obama». La vittoria di Barack Obama, come di molti altri nella lotta per i diritti civili, è arrivata avvolta nell’ideologia del progressismo americano.
Non è stata il risultato di un ampliamento della ragione generato dalla fede, ma un risultato dell’ideologia. Per questa ragione, non soddisferà i veri bisogni degli afro-americani. Ma è accaduto. È un fatto.
Ora inizia la vera speranza, la speranza che questo fatto possa essere tirato fuori dall’involucro dell’ideologia. Per questo, occorre che avvenga il cambiamento dalla politica utopica alla politica della Presenza.
J'ACCUSE/ Giannino: "O la banca è per la persona oppure la persona finisce schiava della banca" - Oscar Giannino - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
La fine di un mondo
Dovete sapere che tra l’ottobre del 2006 e la primavera del 2007 mi sono trovato in disaccordo con quasi tutti i miei amici liberisti. E parlo dei miei amici economisti, alcuni dei quali scrivono dall’America su grandi giornali italiani, altri insegnano in America e guardano all’Italia in maniera un po’ più distaccata, ma per capirci molti di loro si riconoscono nelle tesi dei Francesco Giavazzi, degli Alberto Alesina, o di Alessandro Penati - che conosco da anni e di cui ho da anni grandissima stima. Con alcuni di loro c’è stato e c’è da anni da parte mia un continuo scambio di idee, sull’interpretazione dei fenomeni economici. Ebbene, questa crisi economica ci ha divisi.
Nel 2006 venne introdotto su uno dei mercati regolamentati americani l’indice Abx. Esso ha rappresentato l’inizio di un mercato vero su tutti i prodotti derivati della finanza strutturata. È stato proprio quell’indice a rendere per la prima volta evidente, a ottobre 2006, che in quel mercato c’era qualcosa che non andava. E i fatti, purtroppo, hanno verificato questa mia supposizione. Perché questa nella quale ci troviamo non è una crisi da mercato; è una crisi che viene dalla mancanza di una delle condizioni necessarie del mercato – almeno per chi ha l’idea del mercato che abbiamo noi. Il mercato, infatti, funziona per davvero dove c’è la minore asimmetria informativa possibile tra gli operatori. Ma il mercato dei derivati di credito smentiva perfettamente questo principio, già da molti anni.
Dicevo ai miei amici economisti: guardate che su queste operazioni si inizierà a far luce, e la luce porterà il sistema sin qui apparentemente operante e invincibile alla tenebra, perché questo è un mercato in cui la totale asimmetria delle informazioni tra operatori è il drive, il motore e la precondizione stessa che consente alle cinque maggiori banche d’affari americane di fare profitti spaventosi, di realizzare in e agli intermediari che seguivano il loro modello, in poco più di dieci anni qualcosa come utili pari all’intero Pil Usa di un anno.
Ed essi di rimando, mi rispondevano: non è così, perché questa crisi va interpretata unicamente come eccesso di inflazione dei prezzi degli asset immobiliari. Vedrai che ci vorrà il giusto tempo, mi replicavano, valutabile in base alle serie storiche, dopodiché i prezzi scenderanno e tutto finirà lì. Non è stato così. Quel sistema si è dimostrato fallace, drogato dalle migliaia di miliardi di dollari di utili che per troppi anni hanno accecato le intelligenze dei migliori accademici di tutto il mondo.
Dirlo non è consolante, ma questa è una crisi che si vede una sola volta nella vita. Non capita sempre di vedere le cinque maggiori banche di investimento americane sparire nel giro di una settimana. Anzi, capita una sola volta nella vita. Se prendiamo lo Standard & Poor’s 500 il giorno in cui è stato eletto Barack Obama, il termine di paragone del deprezzamento dell’indice dall’inizio del 2008 al 5 novembre ci riporta indietro al 1937, come precedente. Settantuno anni fa. E le crisi che si vedono una sola volta nella vita sono crisi sistemiche, epocali, e da persone intelligenti occorre sforzarsi di capire che cosa vogliono dire.
Un ordine da ricostruire
Innanzitutto, questa che viviamo è la crisi del modello di intermediazione finanziaria che ha fatto andare avanti il mondo negli ultimi 20 anni, un modello basato su un altissimo rapporto tra i mezzi propri – pochi – e le unità di capitale intermediato – elevatissime – e basato inoltre su una bassa congruità patrimoniale. Quel sistema è finito. Insieme a lui è finito anche un paradigma geopolitico della crescita internazionale, che però è andato ben bene avanti per vent’anni e ha consentito agli Stati Uniti di realizzare quasi il 60% in più del proprio Pil, grazie ad un meccanismo per cui la crescita finanziata in debito dei consumi privati americani era sostenuta da chi aveva interesse a incrementare quel mercato, in altissima espansione e a forte capacità di acquisto: non solo la Cina, ma soprattutto la Cina.
Questa duplice crisi ha conseguenze gravi: bisognerà reinventarsi strumenti e indicatori tecnici, definiti e adottati il più possibile in maniera uguale da una parte e dall’altra dell’Oceano; occorrerà reinventarsi la definizione stessa di che cos’è una banca e soprattutto un intermediario finanziario visto che le due cose non coincidono affatto, come invece purtroppo avveniva in questi anni; bisognerà concordare su nuovi criteri per valutare gli attivi patrimoniali; bisognerà intendersi su come ciascuna classe di asset all’attivo possa essere diversamente pesata a seconda dei rischi di controparte; bisognerà mettere ordine nella giungla scomposta dei regolatori americani, sui mercati finanziari, sulle banche e sulle assicurazioni, perché questa crisi è la crisi che nasce dalla loro sconfitta e dalla cecità di una politica, seguita sia dai democratici che dai repubblicani, che ha creduto che la finanziarizzazione crescente potesse meglio accrescersi con l’autoregolazione, e con il merito di credito “comprato” da agenzie di valutazione i cui bilanci dipendono dai denari degli operatori che esse in teoria giudicano. E tutti questi nuovi criteri non investono solo le attività finanziarie. Significa anche, inevitabilmente, che nuovi criteri verranno adottati dalla comunità finanziaria per scontare il capitale circolante delle imprese. Una quantità di nuove convenzioni da ridefinire ci attende per mettere ordine a questa crisi, tale da costituire un compito molto affascinante, e insieme anche molto, molto complicato. Ma non è tutto.
Valutare il rischio: chi è l’imprenditore?
C’è un altro fattore su cui quei modelli di finanza ad alta leva fondavano il proprio presupposto e che è finito anch’esso: era il criterio paradigmatico per valutare e apprezzare il rischio sostenibile. Ed ecco che allora la crisi investe qualcosa che a me sta molto a cuore: la persona.
Perché i criteri con cui si valutava sostenibile il rischio investono la persona? Occorre una precisazione, che riguarda la figura e il ruolo dell’imprenditore nella teoria economica, prima che concretamente nella realtà dei mercati. Vedete, io non credo affatto che nella generalità dei casi l’imprenditore sia quello che ci descrive Schumpeter con una formula molto famosa, cioè colui che opera una “distruzione creatrice”, che rompe una situazione di equilibrio sul mercato o perché ha un’idea nuova, o perché sa trovare un’unità di capitale adeguata da investire in quest’idea, o perché intuisce genialmente nuovi consumi da soddisfare che altri non sapevano leggere né immaginare, e cosi via. La realtà dell’impresa italiana, fatta al 98% di piccole imprese, da persone che devono inventare ogni giorno condizioni pazzesche per sopravvivere e riuscire meglio degli altri, vista la nostra dinamica dei costi e le rigidità dei mercati del lavoro come delle regole, è fatta secondo voi di imprenditori che rompono una situazione di equilibrio? O da persone che sono costrette a resistere e progredire in situazioni di equilibrio precario, che devono fare i conti continuamente con diseconomie logistiche, infrastrutturali, di alti costi energetici e di fisco penalizzante? Va bene il modello schumpeteriano, ma finché si studia. Nella realtà italiana, quella concreta, io credo invece che l’imprenditore – come insegnava uno dei maestri di Chicago, Israel Kirzner – certo fa i conti con mezzi scarsi per realizzare il suo progetto, ma la sua grandezza, cioè che davvero lo “fa” imprenditore rispetto a chi non lo è, sta nel fatto che per farlo deve distinguere l’incertezza – che non è computabile, non è calcolabile, rappresenta qualcosa che in economia occorre prevedere ma che bisogna tentare di lasciare nell’angolo – dal rischio, che invece si misura finanziariamente e su cui da sempre si fa l’attività dello sconto. E lo sconto significa attualizzare a oggi i flussi di reddito e i flussi patrimoniali generati da un bene scarso per un certo fine. È evidente allora che sulla definizione e quantificazione finanziaria di rischio, sulle diverse convenzioni che nel tempo si adottano a tale proposito, è su questo che gira l’intera economia reale.
Ma quando si adotta per decenni un’idea di rischio tollerabile come quella che è stata alla base del modello di intermediazione finanziaria entrato in crisi, questo vuol dire che per vent’anni l’idea di rischio propria dell’economia reale è stata sempre più trascurata, perché non poteva strutturalmente avere multipli paragonabili alle soglie di rischio finanziario invece non solo tollerato, ma teorizzato e introiettato dagli operatori, e asseverato dalle autorità di regolazione come rischio sostenibile. Ecco perché un intero paradigma è tramontato.
Banche e imprese, un’alleanza difficile
L’Italia è un paese la cui dimensione d’impresa, piccolissima e piccola, è quella di cui dovremmo occuparci di più, anziché di pochi grandi nomi e grandi aziende. Dovremmo occuparci di più di quella parte dell’impresa italiana – il 98% – che ha per proprie caratteristiche dimensionali e organizzative la maggiore elasticità temporale nel dare le risposte al variare della domanda internazionale; di quell’impresa che in questi anni, in cui l’Italia ha perso quote in termini quantitativi sul commercio internazionale, ha iniziato a riposizionarsi sulla catena del valore, facendoci scrivere che questo riposizionamento ridava forza alla nostra manifattura. È un’impresa che, per le caratteristiche del sistema finanziario italiano, dipende tantissimo dalle banche.
Ma sono ormai otto settimane che, dopo i primi due provvedimenti del governo, a mio avviso molto giusti, varati per fronteggiare l’emergenza dell’eventuale necessità di ricapitalizzare qualche grande banca italiana che fosse entrata in difficoltà patrimoniale, ci si confronta invece sull’opportunità di agire “alla francese” oppure no, cioè se invece che intervenire per qualche grande banca che presenta qualche rischio patrimoniale, non sia più opportuno alzare la solidità patrimoniale dell’intero sistema. Come il governo ha fatto a Parigi, per tutte le maggiori banche nazionali. Nessuno ha dubbi su questo: la risposta è certamente sì. Pressoché unanime. Eppure, non lo fa e passano le settimane.
Vi invito a riflettere. Trovate scritto sui giornali il vero motivo per cui non lo si fa? No. Perché? Perché siamo diventati tutti responsabili e quindi non vogliamo far preoccupare gli italiani? Temo che la risposta non sia questa. Temo invece che la risposta abbia a che fare con gli effetti che il modello di intermediazione finanziaria del sistema bancario italiano esercita in concreto nel nostro Paese. E la mia opinione, su questo, è un po’ radicale.
Il nostro Paese rappresenta un’anomalia: negli altri paesi esistono intermediari finanziari non bancari. In America le imprese – piccole comprese – non dipendono dalle banche con la stessa intensità con cui dipendono dalle banche nel nostro paese. Le nostre piccole imprese non emettono commercial papers per scontare il proprio capitale circolante, o per finanziare le proprie attività di crescita. Da noi le aziende dipendono dalla banca, per il capitale di rischio come per il capitale di debito.
Allo stesso tempo però noi abbiamo un sistema di impresa che è più sottocapitalizzato degli altri, che ha un maggior rapporto tra debiti e patrimonio netto. Rispetto a questo sistema di imprese più solido, la grande banca italiana, che è più solida dal punto di vista patrimoniale e dice di non aver bisogno di interventi pubblici, ha storicamente – non dico solo oggi, ma storicamente, e oggi è naturalmente peggio - le carte in regola? Secondo me, no. Le banche italiane hanno applicato al rischio delle persone, piccoli imprenditori e imprenditrici, i sistemi di sconto del rischio che andavano per la maggiore in tutto il mondo. Anche da noi le banche facevano molti più utili dalle attività di trading che dal sostegno alle imprese, solo che da noi le banche, ed è stato un bene, non si esponevano a rischi patrimonialmente commisurati a quelli americani o di Deutsche Bank in Europa. Lo so che può sembrare paradossale, ma per molti versi io ribalto sul sistema bancario italiano ciò che viene normalmente dipinto sui giornali come motivo della sua maggior fiducia e solidità.
La realtà storica italiana è che, quando all’inizio degli anni Novanta adottammo il modello della banca universale, superando la netta separazione tra banche commerciali a breve rispetto al credito e medio e lungo termine, separazione che era stata saggiamente introdotta dalla legge bancaria del 1936, le banche italiane non avevano al loro interno – nella loro generalità - expertise e professionalità davvero capaci di saper valutare il credito industriale in maniera adeguata. Adeguata sia all’eventuale bontà delle idee degli imprenditori, sia alla condizione di generale sottocapitalizzazione dell’impresa italiana. Quel gap non è stato colmato, perché non è un gap che si sana in pochi anni. Occorrono due generazioni di banchieri, perché davvero la banca universale acquisti capacità di saper “affiancare” imprese diverse con strategie e disponibilità diverse, e non a parità di garanzie reali richieste per semplice eguale intensità di capitale intermediato.
Faccio alcuni esempi. È da considerare efficiente l’utilizzo che fa dell’altissima propensione al risparmio degli italiani il sistema – ed è l’unico – attraverso il quale passa il circuito “nervoso” finanziario del paese, cioè quello bancario? Dov’è la convenienza, se una percentuale così elevata di italiani investe una parte così consistente del proprio risparmio negli immobili, quando attraverso le banche si dovrebbero e si potrebbero convogliare risorse di medio e lungo termine – classicamente quelle impiegate a pagare un mutuo sono da collocarsi in tale orizzonte temporale - al sistema produttivo? No, non è un utilizzo efficiente: né per le famiglie, che vi impegnano troppa parte del proprio reddito disponibile senza per questo procedere poi alla vendita delle unità mobiliari per incamerarne l’apprezzamento nel tempo, né per il sistema produttivo che grazie a questo sistema non ha mai visto la nascita di soggetti istituzionali attivi nell’azionariato d’impresa. Il sistema bancario italiano nel suo complesso non risponde in Italia alle sane logiche del modello bancario territoriale o cooperativo, che ha mantenuto più solide radici nelle diverse realtà dei distretti produttivi italiani. E quel quarto di mercato bancario o poco più rappresentato appunto dalle banche popolari e cooperative, non ha mezzi patrimoniali e capitali intermediati paragonabili a quelli delle grandi banche che hanno di fatto assai allentato il loro rapporto col territorio.
Banca e finanza al servizio delle persone. E non viceversa
Per questo dal mio modesto punto di vista, politici e banchieri sono coloro dai quali vorrei vedere oggi dimostrazioni assai più concrete. Vorrei che si toccasse con mano, che davvero in Italia ci si riavvicina a criteri di sconto finanziario del rischio di impresa proporzionati davvero alla fine di un mondo, che è bene sia finito perché teorizzava e praticava soglie di rischio “sintetiche”, frutto di tecniche e prodotti che nulla hanno a che fare col rischio d’impresa reale, e con quello delle persone che le creano e che ci lavorano. Altrimenti, la conclusione amara da trarre è quella di un mondo bancario solo a parole più solido di quello di altri Paesi, ma che nella sostanza è impegnato da mesi in una lotta sorda contro la politica che vorrebbe dargli una mano. Vorrei vedere da parte delle banche una resistenza meno opaca all’aiuto che la politica sta cercando di dare, non per mandare a casa i manager, ma per riportare su la solidità patrimoniale dei loro attivi, quella solidità che negli altri Paesi europei sta salendo molto più che in Italia. Vorrei vedere concrete unità di capitale intermediato a favore dell’impresa, rese disponibili e concesse con criteri diversi da quelli che abbiamo sin qui visto, e che sono testimoniati da centinaia se non migliaia di piccole imprese che oggi lamentano la restrizione del credito e dunque la necessità di tagliare o azzerare oggi gli investimenti, molto presto le piante organiche e i dipendenti. Perché nel nostro paese è tabù pubblicare le circolari delle grandi banche, che da mesi restringono il credito per ogni attività di impiego, mentre si legge invece sui giornali che questa restrizione di credito non c’è?
Vorrei una classe dirigente – politici, accademici, banchieri, imprenditori - capace di affrontare questi temi senza paura, senza dover esorcizzare ogni volta il fantasma e l’accusa di mirare a chissà quali golpe nella governance delle banche. Una classe dirigente che, guardando la storia del nostro paese, sappia dire agli imprenditori che ci vogliono nuovi metodi di sconto del rischio per le loro idee, e sappia offrirglieli in concreto.
Nuove possibilità di uscire dalla crisi possono venire, secondo me, soprattutto da qui. D’altra parte ci vuole una classe dirigente in grado di capire che la banca e la finanza non sono attività dominate da tecniche di arida contabilità e invenzione econometrica per far fruttare i soldi secondo multipli infiniti. Banca e finanza si fondano, sempre, su un’idea della persona. O la banca è per la persona, oppure la persona finisce per essere schiava della banca. Io sono per la prima ipotesi.
ELUANA/ Io, ateo, in lotta per difendere la dignità della vita - Redazione - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Si attende in queste ore la sentenza della Cassazione sul caso Eluana Englaro, che dovrebbe mettere la parola fine su una vicenda che ci ha tenuti sospesi per diversi mesi. Un caso estremo, che ha indubbiamente attratto l’attenzione di tutti. Anche troppo, col rischio cioè di dimenticare le tante avventure umane e i drammi simili a quello della famiglia di Eluana, ma dall’esito diverso: la fatica delle tante persone che vivono quotidianamente la lotta per l’affermazione della vita, ad ogni costo.
Fulvio De Nigris è una di queste persone. Non lotta più per la vita di suo figlio, Luca, scomparso a soli 15 anni nel 1998, dopo il calvario di una malattia che l’ha segnato dalla nascita, fino all’aggravarsi della sua condizione, al coma, alla speranza data dal risveglio, e infine alla morte. Ora Fulvio lotta per la vita degli altri: per coloro che hanno la vita “sospesa”, come l’ha avuta il suo Luca per 240 giorni, ma che da quel sonno apparente potrebbero risvegliarsi. E anche per tutti quelli che sono destinati a rimanere in quella condizione per molto tempo, ma che nondimeno meritano attenzione e cura.
La sua esperienza ha al centro un dramma personale, da cui però è nata una grande opera che è un bene per tutti: com’è successo?
La nostra è appunto un’esperienza che nasce innanzitutto dal dolore di una perdita, la morte di Luca, e che da qui si è sviluppata per orientarsi verso gli altri, in particolare per la cura dei soggetti che sono in coma e in stato vegetativo. Il nostro obiettivo è quello di occuparci innanzitutto di coloro che si trovano nella fase post-acuta, quando è possibile fare molto per il risveglio. Questa attività si svolge nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”, che molti conoscono come modello sperimentale e all’avanguardia in questo tipo di cure. Accanto a questo, c’è l’associazione “Amici di Luca”, che si occupa a tutto campo di questi casi.
Dal continuo contatto con queste situazioni, che idea vi siete fatti sul dibattito intorno al caso Englaro?
Ci sono due effetti negativi di questo dibattito. Il primo è che partendo dal caso di Eluana si è diffusa l’errata convinzione che per soggetti come questi non sia possibile fare nulla; e questa è una cosa non vera. Inoltre, l’altra cosa che ci preoccupa, è che, a partire dalla pur rispettabile posizione di Peppino Englaro, si trasmetta all’opinione pubblica una sorta di disaffezione verso la cura e le strutture per l’accoglienza di persone in situazioni croniche. Tutto questo crea grande confusione, e la battaglia – che rispetto ma non condivido – di un solo genitore, rischia di monopolizzare l’attenzione, facendo dimenticare le tante persone che vivono gravi disabilità, verso le quali lo Stato deve garantire la libertà di cura. Noi continuiamo a parlare della libertà di fine vita, ma è la libertà di cura la prima cosa che lo Stato deve garantire. Chi ne parla?
Potremmo dire che concentrandoci tutti sul caso Englaro ci siamo dimenticati delle tante famiglie che continuano a lottare per la vita?
Non solo: ci siamo anche dimenticati del fatto che la situazione al centro di questo dibattito è del tutto atipica all’interno del panorama delle famiglie che vivono un dramma simile. Queste famiglie, soprattutto quando sono le madri ad accudire i figli, vogliono andare avanti fino alla fine, e i genitori vogliono morire prima dei loro figli. La grande maggioranza delle famiglie la pensano diversamente, e agiscono diversamente da quanto accade nel caso ora più discusso: nutrono la speranza di accompagnare, di essere sostenute, di condividere, di creare intorno a questi pazienti un clima umano molto forte, e di avere un ruolo nella società. È questo impegno che va sostenuto, e su cui la società dovrebbe concentrare la propria attenzione.
L’altro aspetto negativo è che il dibattito viene ridotto a uno scontro tra clericali e anticlericali. Lei invece è per la difesa della vita, senza essere un “clericale”…
Sì, in effetti la mia posizione è assolutamente laica; ed è proprio per questo che trovo molto sbagliata questa contrapposizione. Tra l’altro, aggiungo che partecipando a molti dibattiti sul tema mi è capitato di trovare addirittura alcune persone di Chiesa che – con mia grande sorpresa – mettono in dubbio la sacralità della vita. Comunque, al di là delle contrapposizioni, la vera domanda che bisogna porsi è: la dignità della vita è rapportata alla qualità della vita? Secondo me la dignità della vita è una cosa che prescinde dalla qualità, dalle situazioni contingenti. Molte famiglie, pur vivendo in situazioni di grande dolore e disagio, non smettono di riaffermare continuamente questa dignità, faticando per il raggiungimento della salute e del benessere della persona malata. E anche se non si cerca primariamente la guarigione, perché magari è impossibile, ciononostante non si abbandona l’impegno: ciò che è inguaribile, infatti, non è incurabile.
L’impegno dunque è sempre doveroso, e non si giustifica solo nell’imminenza della possibilità del risveglio?
Certo, il problema non è legato solo alla possibilità di risveglio. A volte si dice che se non c’è possibilità di risveglio non vale la pena, ma non è assolutamente così. Rimane comunque il fatto che è assai difficile porre dei limiti assoluti. Dal punto di vista della fede, c’è chi crede nella possibilità del miracolo, e nessuno deve togliere loro questa speranza. Ma anche dal punto di vista scientifico, dobbiamo dire, anche alla luce degli studi più avanzati, che non si può parlare di stato vegetativo “permanente”, bensì “persistente”, che è cosa ben diversa. È una condizione di vita che può cambiare nel tempo, anche positivamente.
Veniamo dunque al caso specifico della sentenza Englaro. Il Vaticano, ancora ieri, ha ribadito che interrompere l’alimentazione sarebbe una «mostruosità»: qual è il suo giudizio?
Parto da un’amara constatazione:qualche anno fa, quando ci fu il caso di Terry Schiavo, tutti avevamo pensato, con un minimo di sollievo, che almeno qui in Italia eravamo lontani dall’ipotesi che si potesse lasciar morire qualcuno di fame e di sete. Convinzione rafforzata quando il Comitato di Bioetica si pronunciò sul fatto che il sondino non è una terapia, ma una cosa dovuta. Ora purtroppo dobbiamo dire il contrario: se tutto sarà confermato, una donna morirà di fame e di sete. Questo è del tutto inaccettabile.
Ritorniamo alla sua esperienza personale: quanto è stato utile, dopo quello che la sua famiglia ha vissuto, impegnarsi nelle opere che nel tempo avete costruito?
A noi è servito molto. Ogni volta che noi vediamo un ragazzo che si risveglia dal coma, il nostro pensiero va a Luca e alla scommessa, da lui e da noi persa, ma che altri possono vincere. Ogni giorno noi facciamo questo, e lo facciamo per non dimenticare; e questo, nella pratica, si traduce nel fare qualcosa per gli altri. Lo dico con molta modestia, senza enfasi: noi tutti dell’associazione perseguiamo questo desiderio di andare avanti nella ricerca, da cui si nutrono molte speranze.
Chiaramente, ogni volta che qualcuno la pensa diversamente da noi, è un po’ una mezza sconfitta: il fatto che Eluana possa morire in questo modo è una sconfitta anche per noi. Ma, ripeto: il caso Eluana, comunque vada a finire, non deve spazzare via tutto l’impegno, anche economico, verso le strutture e i centri di cura per persone che vivono in condizioni simili a quella di Eluana. Altrimenti ci sarebbe un danno grave per tutti.
UNIVERSITA'/ 2. Decreto Gelmini: rivoluzionarie le novità sul diritto allo studio - Tommaso Agasisti - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Il decreto Gelmini per l’Università, approvato dal Consiglio dei Ministri qualche giorno fa, ripone al centro della questione politica (per fortuna) il tema universitario. I punti rilevanti del decreto Gelmini, a mio parere, sono tre:
- Risorse per gli studenti;
- Modifica del sistema di finanziamento delle università (FFO, Fondo di Finanziamento Ordinario);
- Modifica del sistema dei concorsi.
La prima di queste novità è rivoluzionaria, perché si configura non come un intervento “populista” a favore degli studenti, ma come un vero e proprio “intervento di sistema”. I 135 milioni di euro in più per il fondo di finanziamento delle borse di studio consentirà (se le Regioni faranno il loro dovere) di dare la borsa di studio a tutti gli aventi diritto, cioè a tutti gli studenti “meritevoli e privi di mezzi”. Chi conosce la storia di questo fondo sa che è l’incremento di risorse più forte di sempre (per ricordare, l’ultimo incremento significativo su quel fondo avvenne 3 anni orsono ad opera del ministro Moratti, ed era stato di soli 30 milioni). Questo intervento è rivoluzionario perché “ribalta” la logica del finanziamento del sistema universitario, instillando un (seppur ancor debole) incentivo a meccanismi di mercato, nel senso positivo del termine. Oggi, il “mercato” universitario è molto viziato: uno studente capace, meritevole e privo di mezzi, non può scegliere in quale università andare a studiare, poiché molti di coloro che hanno diritto alla borsa di studio, poi non la ricevono per mancanza di mezzi. Ancor più vergognoso è che questa situazione sia “a macchia di leopardo”, cioè mentre in Lombardia, Piemonte, e altre (poche) Regioni tutti gli studenti idonei ricevono la borsa di studio, cosi non è nella maggior parte delle Regioni. In media, più del 20% degli idonei non riceve la borsa di studio per mancanza di fondi; ed in alcune Regioni del Meridione questa percentuale supera il 50%. Ecco perché un intervento che restituisca libertà di scelta a questi studenti deve essere accolto con grande piacere, e probabilmente l’effetto indotto sarà anche quello di vedere la domanda degli studenti meno vincolata da ragioni economiche. Un ulteriore aspetto: chi aveva sollevato il tema dei tagli a questo fondo nelle scorse settimane? Tutti a preoccuparsi che il taglio dei fondi alle università avrebbe impedito di pagare gli stipendi; nessuno preoccupato per le borse di studio degli studenti. Oltre a queste risorse, sono stati stanziati ulteriori 65 milioni di euro per le residenze universitarie: anche questo è positivo per le ragioni di cui sopra, e perché queste risorse saranno utilizzate per finanziarie progetti già selezionati da una commissione qualificata nei mesi scorsi.
Ultime due riflessioni sul fondo delle borse di studio. Primo, le risorse dovranno essere consolidate anche negli anni a venire (e non essere solo una tantum), altrimenti l’intervento sarà inutile. E secondo, dovranno essere rivisti i criteri di merito scolastico e di reddito con cui si diventa idonei alla borsa di studio: oggi i criteri di merito sono troppo blandi, e quelli di redditi troppo stringenti, soprattutto per il Nord Italia dove il reddito medio delle famiglie è più elevato. Inoltre, l’importo delle borse di studio è ancora troppo basso al fine di consentire una reale libertà di scelta; i prossimi cambiamenti nel settore dovrebbero riguardare anche quest’aspetto.
Il secondo intervento del decreto Gelmini è altrettanto positivo. In pratica, si stabilisce che il 7% del fondo nazionale per le università (FFO) vada ripartito in conformità a criteri di valutazione, e non sulla base della quota “storica” ricevuta. Il principio non è nuovo, è in vigore dal 1998; nel 2003, la quota così ripartita era arrivata al 9.5%. Poi, il processo si è bloccato: negli ultimi anni, le risorse usate in questo modo virtuoso sono state meno dello 0,5%. Ora, per la verità, il provvedimento Gelmini non è un intervento premiante, perché il FFO per l’anno prossimo (2009) è rimasto invariato, per il 2010 si prevede una sua riduzione del 10% circa (è questo il motivo della protesta dei giorni scorsi). Nel 2009, quindi, qualche università perderà risorse a favore di altre; nel 2010, tutte perderanno qualcosa, ma qualcuno più e qualcuno meno. Proprio così: si tratta proprio di quei “tagli selettivi” invocati dalla parte migliore, più efficiente del sistema universitario. La norma conferma dunque che le preoccupazioni espresse sulla legge n. 133/2008 sono state comprese dal Governo, che ha deciso che non s’interverrà in eguale misura su tutti. Nel 2009, a qualcuno sarà dato di più, a qualcuno di meno; nel 2010, a qualcuno sarà tagliato di più, a qualcuno di meno (sempre che i tagli complessivi siano confermati). Ora, l’unico problema rimane definire quali sono le regole che guidano questa valutazione, e farlo in tempi brevi. A tal proposito, mi permetto un consiglio. Esiste già un modello di valutazione, proposto dal CNVSU (il Comitato di Valutazione Nazionale), che incorpora anche i risultati del CIVR (il Comitato di Valutazione della Ricerca); tale modello è stato utilizzato negli ultimi anni – sebbene per una quota di risorse insignificante. Per l’anno prossimo, si usi questo modello (per quanto ancora perfettibile), e si lavori per correggerlo laddove necessario per una nuova applicazione nel 2010.
Infine, il tema dei concorsi. In generale, il provvedimento dice tre cose: che il blocco del turnover è mitigato (dal 20% al 50%), che la maggior parte dei nuovi posti (60%) deve essere destinato a giovani ricercatori, e che le nuove commissioni giudicatrici saranno sorteggiate anziché elette. In linea generale, le intenzioni sono buone, ed è positivo che si sia ridotto il blocco delle assunzioni che, sicuramente, è il punto da criticare dell’azione del Governo fino ad ora.
Negli ultimi tempi, anche guardando all’esperienza internazionale, mi sono convinto che l’unica vera riforma della materia sia l’abolizione dei concorsi, e l’esplicitazione del meccanismo già oggi vigente nei fatti: la cooptazione. Qualunque riforma del sistema dei concorsi non può essere in grado di evitare i comportamenti opportunistici di chi vuole fare entrare, nella carriera accademica, amici, parenti, ecc. E, nonostante quello che pensano autorevoli commentatori nel nostro Paese, non è in teoria per nulla scandaloso che parenti lavorino nella stessa università: nel mio periodo di ricerca nell’ottima Lancaster University (UK), ho lavorato con due docenti che erano marito e moglie. Uno più bravo dell’altra: i loro curriculum parlano da soli. Ma i loro curriculum si possono vedere online; e la qualità della loro didattica e della loro ricerca (come quella di tutti i docenti inglesi) è regolarmente monitorata e valutata. Allora, sarebbe forse meglio abbandonare la strada dei concorsi, ed accettare che in una professione altamente qualificata come quella accademica l’unica soluzione è la cooptazione degli altri professionisti: che, però, devono assumersi le responsabilità delle loro azioni, esplicitando quali sono le loro scelte, cioè chi sono le persone (docenti e ricercatori) su cui puntano, che ritengono migliori e che quindi debbono essere assunti nelle università. Rimarranno gli abusi, probabilmente, e ci saranno ancora facoltà che chiamano solo gli amici degli amici e i parenti dei parenti; ma almeno lo vedranno tutti, e non si potrà far finta di non vedere.
Un’ultima nota. Il tentativo di regolare in modo puntiglioso le regole per le assunzioni (e i relativi blocchi) è, lo dice l’esperienza, fallimentare. Se proprio si vuole tentare, però, si usino nel frattempo gli strumenti che già ci sono. Ad esempio, esiste già oggi una legge che impedisce alle università che spendono più del 90% del FFO in stipendi di assumere altro personale: un vero e proprio blocco delle assunzioni. Negli ultimi anni, però, questo blocco non ha impedito alle università “viziose” di continuare a bandire concorsi e assumere docenti. Il Governo, allora, potrebbe evitare di scrivere nuove norme sui concorsi, e applicare quelle già esistenti che, in questo caso, sono coerenti con gli obiettivi dichiarati dal Governo stesso.
KENYA/ L'impronta del fondamentalismo somalo dietro il rapimento di suor Maria Teresa e Caterina? - INT. Luigi Anataloni - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Un vero e proprio assalto in piena notte. Una sessantina di uomini armati irrompe nel convento delle missionarie contemplative di Charles de Foucauld nella località keniota di El-Uach rapendo un gruppo di religiosi e due suore italiane, Maria Teresa Oliviero di 61 anni e Caterina Giraudo, di 67. Padre Luigi Anataloni è missionario da 21 anni in Kenya. Conosce molto bene le dinamiche interne al Paese essendo anche giornalista e direttore del giornale Seed.
Don Luigi, come si stanno vivendo queste ore in Kenya?
Personalmente ho ricevuto molte telefonate da diversi ordini di suore. Ovviamente si vive con partecipazione e unità di preghiera con la comunità dei missionari contemplativi di Charles de Foucauld. Non possiamo fare di più. Per quel che invece riguarda la gente qui a Nairobi occorre dire che la notizia che è apparsa su tutti giornali e di cui han parlato radio e televisioni, ha avuto una vasta reazione. Qualcuno si è chiesto come mai, anche in un Paese relativamente tranquillo come il Kenya, possano accadere tali cose. Ma è un'emozione presto soffocata dalle altre migliaia di problemi che assillano ogni giorno la popolazione. Per cui in queste ore si sta vivendo quanto accade forse con un po' meno di emozionalità rispetto a quanto si sente in Italia.
È da considerare anche il fatto che la zona del rapimento è talmente remota, rispetto alla capitale, che viene quasi avvertito come un episodio avvenuto in terra straniera.
Che caratteristiche presenta il villaggio di El-Uach e la zona del rapimento?
È il punto di confine dove si incontrano Etiopia, Somalia e Kenya. Da Mandera, la città più importante della zona che si trova sulla punta di questo triangolo, occorre spostarsi per ben 230 chilometri più a sud. Lì si raggiunge El-Uach, il posto dove rimane il convento dal quale sono state rapite le due sorelle. Si trova appena a un grado sopra l'Equatore ed è a soli 5 chilometri di distanza dal confine con la Somalia. Siamo nella diocesi di Gari Hills, una zona che è grande come l'intera Italia Settentrionale ma che ha solo 70.000 abitanti. È un'area quasi tutta desertica, con poca acqua corrente. La maggior parte della gente vive di pastorizia e agricoltura e quando non piove per mesi è un disastro.
Sono dunque zone pressoché abbandonate anche dalle istituzioni?
Dal punto di vista politico si tratta di zone dove il governo è presente pochissimo. I villaggi sono pochi e sperduti, le infrastrutture non ci sono. Non è una zona di interesse economico rilevante e, soprattutto, ospita valli e pianure abitate per lo più dai somali. Il governo ha sì delle caserme di polizia, rare scuole e insegnanti, impiegati e ufficiali governativi, ma sono troppo pochi per non essere sparsi in un enorme territorio. I kenioti da queste parti sono praticamente forestieri anche loro come lo siamo noi bianchi. Si tenga presente che, in una zona somala, i Bantu si riconoscono subito. Come i cristiani.
Come sono considerati i cattolici in Kenya?
Sono assolutamente ben considerati in quanto in Kenya i cristiani rappresentano oltre il 60% della popolazione. Di questi il 20% sono cattolici. Poi c'è circa un 10% di musulmani e altri di religione tradizionalista e animista.
Nei luoghi del rapimento però i cristiani sono una piccola minoranza. Basti pensare che nella diocesi di Gari Hills sono soltanto il 10% della popolazione. La maggior parte dei cattolici poi non sono locali ma per lo più commercianti e ufficiali governativi.
Presume che dietro questo rapimento si possa confermare una matrice terroristica?
Si fanno moltissime ipotesi, ma nessuno sa niente di preciso. Non ci sono state rivendicazioni di alcun tipo. Ho immediatamente contattato il responsabile delle suore missionarie dei contemplativi di Charles de Foucauld che mi ha confermato di non aver avuto nessun contatto coi rapitori.
Ma ci sono degli indizi che potrebbero palesare la presenza dei fondamentalisti somali dietro questa operazione.
A quali indizi si riferisce?
In primo luogo occorre considerare i mezzi che sono stati impiegati. Secondo i testimoni oculari si tratta del tipo di Pick-up utilizzato dai somali, ossia con le mitragliatrici incorporate. Poi la modalità di “firmare” con un razzo anticarro è tipica di questi terroristi. L'armamento e i mezzi che hanno usato non sono assolutamente ritrovabili nel Kenya.
L'altro indizio è che la gente locale sta simpatizzando moltissimo con le suore. Sono estremamente dispiaciuti di quello che è successo e, anche se sono per lo più musulmani, stanno manifestando in tutte le maniere la propria solidarietà nei confronti delle religiose.
Questi due indizi farebbero pensare a persone che vengono o da altri Paesi o comunque che sono spalleggiate dalla Somalia. Attualmente quest'ultima è terra di nessuno. Addirittura ci sono voci che parlano di un campo di addestramento di Al Qaeda nei pressi del luogo dove è avvenuto il rapimento.
In quale direzione si stanno muovendo le autorità per risolvere questa terribile situazione?
Le autorità si sono mosse, primo fra tutti il nostro ministero degli esteri e la nostra ambasciata.
Le autorità locali stanno cercando di coinvolgere gli anziani del posto. La presenza del governo c'è, ma come ho detto prima, non è molto efficace. A causa della situazione geografica, la dispersione e la difficoltà di trasporto, ci vorrebbe una potenza logistica per controllare così tante migliaia di chilometri di confine che richiederebbe un costo enorme anche per un paese come l'Italia.
Per questo una realtà davvero efficiente risulta essere quella degli anziani del posto. Un meccanismo secolare che ha creato una capillare rete tribale di informazioni e che ha una forte autorità persino sui terroristi. Il loro sistema va avanti da secoli.
SIGNORI GIUDICI, PENSATECI - AVREMO LA PRIMA CONDANNA A MORTE REPUBBLICANA? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 novembre 2008
Ai Signori Giudici chiediamo solo una cosa: non dateci una condanna a morte. La prima condanna a morte dell’Italia repubblicana. Un genere di condanna che l’Italia ripudia – vantandosene dinanzi al mondo – e che mai nessun motivo di rivalsa, di odio, di giustizialismo ha introdotto sarà invece inaugurata in nome di una malintesa idea di pietà? È quasi sempre in nome del bene che gli uomini compiono qualcosa di oscuramente cattivo. Se la Corte darà il via libera alla volontà del padre di staccare l’alimentazione per Eluana e se egli troverà qualche centro medico disposto a farlo, avrà luogo l’esecuzione e l’inizio della pubblica estenuante agonia.
Ai Signori della Corte chiediamo di considerare tutto questo: a una ragazza inerme, che non può né esprimere né difendere le sue reali, attuali volontà, si cesserà di dare alimento. A una ragazza, avvolta sì in un silenzio misterioso, ma non arida dentro, tanto da affrontare un’estenuante emorragia come le è capitato alcune settimane fa, si vorrebbe ora dare quella morte da cui ella con le sue sole forze si è invece tirata fuori. E questo perché qualcuno - a differenza di altri - non sopporta più questa dura, triste condizione. Il padre in coscienza ha voluto combattere questa strana battaglia perché sua figlia muoia. Non ce la faceva più. È comprensibile. Meno comprensibile l’accanirsi non perché le cure e la pazienza di altri sopportino la pena e le premure, bensì per la sua morte. Per toglierla di torno. Anche se non dà nessun fastidio, e già ci sono le voci di chi, come le suore che l’accudiscono, dice: la teniamo noi. Il problema, ora che i magistrati hanno scelto di occuparsi di questa faccenda, non è più, per così dire una drammatica faccenda privata tra il signor Englaro e sua figlia. È una faccenda di diritto. E il diritto italiano non contempla la condanna a morte. Per nessuno. Neppure per chi compie la strage o lo stupro più efferato. Vogliamo cominciare da una ragazza?
Il dilemma ora è: uno può chiedere e ottenere che un altro muoia? A meno che non si consideri Eluana già morta. Pensate a lei così, Signori della Corte? La medicina, secondo i protocolli internazionali, non classifica Eluana tra i morti. E nemmeno tra coloro che sono tenuti in vita con inutile accanimento. Voi la condannerete a morte? O la considererete come già morta? E siete certi che la sue condizioni siano davvero 'irreversibili', come lo stesso Pg della Cassazione ieri è sembrato chiedervi?
Bisognerà dunque avvisare tutti coloro che hanno parenti e amici in condizioni simili, e non sono pochi. Dire a loro: la Suprema Corte li considera già morti, o condannabili. Il nostro è un appello senza potere e senza alcun velo politico. Abbiamo solo voglia che in Italia non si condanni a morte alcuno. Tanto meno una ragazza inerme. Nel tenerla in vita, secondo le condizioni che il destino ha misteriosamente riservato a lei, non si fa torto a nessuno. Nemmeno a lei, poiché nessuno può comunque arrogarsi il diritto di interpretare ora la volontà di Eluana. Le persone cambiano. La vita, lo sappiamo, ci modella, a volte radicalmente. Ma se si dà il via libera alla esecuzione allora si stabilisce che in Italia, a determinate condizioni, c’è la pena di morte. E che tali condizioni non sono d’esser assassini o stupratori, o terroristi. Ma la condizione è d’esser inerme, 'inutile', insopportabile, e nelle mani degli altri. Io non credo che i Signori della Corte siano favorevoli alla pena di morte. Non lo voglio credere. Magari lasciassero sospesa la vicenda, incalzando piuttosto il Parlamento a fare leggi chiare, a cui tutti attenersi e non variabili da giudice a giudice, da medico a medico. Non si sta 'solamente' discutendo di una ragazza, a cui certo tutti auguriamo un corso sereno del suo oscuro destino, ma di un caso le cui conseguenze varranno per tutti. Il suo povero corpo, la sua persona, che sembrano valere più niente, secondo la visione di chi la vede già come morta, potrebbero essere invece quelli di un’incredibile eroina. L’ultima muta barriera, la estrema insurrezione contro una strana volontà di introdurre nella nostra già feritissima Italia l’uso della condanna a morte.
1) Dio non è cattolico, parola di cardinale - Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché - di Sandro Magister
2) A furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani! – di Magdi Cristiano Allam
3) Eluana. Oggi la Cassazione decide - Autore: Morresi, Assuntina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: stranocristiano.it - martedì 11 novembre 2008
4) La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale - Autore: Allam, Magdi Cristiano Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008 - L'Europa, tutti noi, saremo coinvolti in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di un capitalismo alla cinese, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto
5) Esegesi biblica alla scuola dei padri - Dalla sapienza medievale - i quattro sensi delle Scritture - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
6) Nessun attentato può essere compiuto in nome dell'islam - «Fatwa» contro il terrorismo - La svolta dei musulmani in India – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
7) 11/11/2008 14.11.11 – Radio vaticana - Il rabbino Rosen all'incontro ebraico-cattolico di Budapest: costruiamo insieme società fondate su valori esistenziali
8) USA/ La “speranza” riposta in Obama non resti un’ideologia - Lorenzo Albacete - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
9) J'ACCUSE/ Giannino: "O la banca è per la persona oppure la persona finisce schiava della banca" - Oscar Giannino - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
10) ELUANA/ Io, ateo, in lotta per difendere la dignità della vita - Redazione - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
11) UNIVERSITA'/ 2. Decreto Gelmini: rivoluzionarie le novità sul diritto allo studio - Tommaso Agasisti - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
12) KENYA/ L'impronta del fondamentalismo somalo dietro il rapimento di suor Maria Teresa e Caterina? - INT. Luigi Anataloni - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
13) SIGNORI GIUDICI, PENSATECI - AVREMO LA PRIMA CONDANNA A MORTE REPUBBLICANA? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 novembre 2008
Dio non è cattolico, parola di cardinale - Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché - di Sandro Magister
ROMA, 12 novembre 2008 – L'ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini uscito in Italia, come già qualche mese fa in Germania e ora anche in Spagna, ha subito conquistato l'alta classifica dei più venduti. È intitolato "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede", ed è in forma di intervista, col gesuita tedesco Georg Sporschill.
Le volte in cui Benedetto XVI ha parlato in pubblico del cardinale Martini – famoso biblista e arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 – lo ha sempre elogiato come "un vero maestro della 'lectio divina', che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura".
In questo suo libro, però, il cardinale non appare altrettanto magnanimo, nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi papi, da Paolo VI in poi.
In un precedente servizio, www.chiesa ha già riferito dell'attacco frontale portato da Martini contro l'enciclica "Humanae Vitae".
Ma nel libro c'è di più. C'è una ricorrente accusa alla Chiesa di "involuzione". Mentre all'opposto Martini reclama una Chiesa "coraggiosa" e "aperta", come dicono i titoli di due capitoli del libro.
C'è soprattutto una descrizione di Gesù legata a un'ideale di giustizia molto terreno. La distanza tra questo Gesù e il "Gesù di Nazaret" del libro di Benedetto XVI è impressionante.
Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", nel dare notizia del libro di Martini in occasione del suo lancio alla Fiera del Libro di Francoforte, il 17 ottobre, ha scritto che "molte delle considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere".
Ma non ha aggiunto altro. "Avvenire" non ha sinora recensito il libro e nessuno si aspetta che lo farà in futuro. Silenzio assoluto anche a "L'Osservatore Romano".
In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all'autore del libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere. Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro aggiunga danno a danno.
Ma qual è, più analiticamente, il "rischio della fede" che il cardinale Martini evoca?
Pietro De Marco, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale, lo porta alla luce e lo sottopone a critica nel commento che segue.
Per De Marco il messaggio del cardinale appare "reticente quanto a completezza della confessione di fede". C'è in esso molta frequentazione delle Sacre Scritture, ma gli articoli del Credo "vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli".
Un'evanescenza dei fondamenti della dottrina che ha contrassegnato non solo il percorso di un grande leader di Chiesa come Martini, ma larga parte della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill - di Pietro De Marco
La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l'intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesù.
Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".
Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con l'evocare scene familiari e "semplici usanze". Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L'educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio" (p.20).
Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c'è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto". Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto indeterminato. L'unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell'amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare "in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice. Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli "spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in modo biblico".
Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".
Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull'equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura" intellettuale e morale. Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: "Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio". Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.
Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle "definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica. Tradizione che innerva invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.
Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: "Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae". Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.
Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.
Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell'attuale passaggio di civiltà. Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell'intellettuale. Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".
Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo".
Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c'è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?
È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non clericale".
L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.
Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco: "El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua vita di fede?
Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum", salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.
È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.
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A furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani! – di Magdi Cristiano Allam
Sono sempre più preoccupato per la grave deriva religiosa ed etica presente in seno al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran, tendente a legittimare sempre più l’islam come religione e ad accreditare Maometto come profeta.
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
In un’intervista rilasciata oggi al quotidiano “Avvenire”, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, sostiene di essere “soddisfatto” per i risultati del primo seminario del forum cattolico-musulmano svoltosi in Vaticano dal 4 al 6 novembre 2008, sia “per il clima di grande libertà nell’esprimere i propri punti di vista”, sia “per i contenuti su cui alla fine si è raggiunto un consenso”. Ebbene vi invito a leggere insieme il testo della dichiarazione finale del forum cattolico-musulmano, che potete trovare integralmente all’interno della rubrica “Il Fatto”.
Sono sempre più preoccupato per la grave deriva religiosa ed etica presente in seno al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran, tendente a legittimare sempre più l’islam come religione e ad accreditare Maometto come profeta. Sono sempre più inorridito dalla mistificazione della realtà, all’insegna della paura, di un cristianesimo che afferma di condividere l’amore di Dio e l’amore per il prossimo con l’islam, facendo finta che non sia vero o sminuendo il fatto che la stragrande maggioranza dei musulmani predica e pratica l’eliminazione fisica degli ebrei e di Israele, legittima il terrorismo islamico e palestinese, condanna a morte per apostasia i musulmani che si convertono al cristianesimo, discrimina e sottomette la donna perché essere inferiore. E su queste posizioni si attesta la stragrande maggioranza dei 138 cosiddetti “saggi dell’islam” che hanno promosso il dialogo con il Vaticano.
Da cristiano dico al Papa e alla Chiesa: Fermatevi! Chi crede nella verità di Cristo non può in alcun modo legittimare l’islam e Maometto! Piuttosto aspiriamo al martirio nella fede in Cristo, eleviamoci a testimoni della verità e della libertà, ma non dobbiamo mai e poi mai arrenderci né ai tagliagola né ai taglialingua islamici! Di questo passo, a furia di rincorrere sempre più la benevolenza dei musulmani, la Chiesa finirà per perdere del tutto la fede dei cristiani!
“Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo”, si legge nella conclusione del documento che mette sullo stesso piano il cristianesimo e l’islam come religioni, Gesù Cristo e Maometto come fondatori delle due fedi, spingendosi fino a menzionare il Corano come sigillo della profezia. Il cristianesimo e l’islam vengono raffigurati su un piano di parità in riferimento ai temi cruciali della dignità e della libertà umana, del rispetto della libertà religiosa, della certezza della sacralità della vita, del ripudio della violenza e del terrorismo. Il contesto in cui questo insieme di diritti, valori e regole si esercita viene raffigurato come quello di una società inesorabilmente sempre più multiculturale e multireligiosa, come se fossimo inesorabilmente condannati a rinunciare al primato della nostra civiltà italiana ed europea e della nostra fede cristiana.
Il documento del forum cattolico-musulmano confessa che ci sono “punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni”. E al primo punto, specificando la concezione islamica dell’amore di Dio, si parla del “Santo e amato profeta Maometto” e si indica il Corano come “l’ultimo” dei libri inviati da Dio per guidare e salvare l’umanità. Mi domando: può un cristiano sottoscrivere un concetto simile e addirittura dirsi soddisfatto?
Al punto due, indicando che “la vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona”, si dice che “dovrebbe” essere quindi preservata. Come “dovrebbe”? Perché mai si usa il condizionale? Perché mai non si dice chiaramente che la vita non è affatto preservata nei paesi a maggioranza islamica?
Al punto tre si parla della dignità umana, dei doni della ragione e del libero arbitrio, come si fossero un patrimonio comune di cristiani e musulmani. Ma dove? Ma quando?
Al punto quattro si inaugura una serie di prese di posizioni all’insegna della mistificazione della realtà e dell’islamicamente corretto, in cui cattolici e musulmani vengono messi sullo stesso piano. Ad esempio sostenendo: “Ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli cristiano mentre non lo è affatto nei paesi musulmani. Perché dunque metterli sullo stesso piano? Il medesimo approccio mistificante e ipocrita lo ritroviamo sulla questione cruciale del terrorismo: “Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati ad essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione”. Ebbene non mi risulta affatto che ci siano dei terroristi cattolici che perpetrano attentati terroristici nel nome di Gesù! I soli terroristi che oggi uccidono nel nome di Dio e di Maometto sono i musulmani, perché dunque non dire che si tratta di terrorismo islamico?
Quando nella mattinata dello scorso 29 ottobre mi recai a visitare il cardinale emerito di Bologna Giacomo Biffi nella sua residenza bolognese, cogliendo l’occasione della mia partecipazione – avvenuta nel pomeriggio nella magnifica aula magna della biblioteca dell’università Alma Mater – dell’autobiografia di Carolina Delburgo “Come ladri nella notte” di cui ho scritto la prefazione, mi ha colpito l’intensità del suo sguardo e la passionalità della sua voce nel ricordarmi che quando negli anni Novanta egli sostenne l’opportunità che gli immigrati venissero scelti sulla base della loro compatibilità sul piano della condivisione dei valori e il rispetto delle regole, quindi con una preferenza per gli immigrati di fede e cultura cristiana, si trovò totalmente osteggiato ed isolato: “Nessuno, anche all’interno della Chiesa, mi sostenne. In pochi mi chiamarono privatamente per dirmi che erano d’accordo con me. Ma nessuno di loro l’ha mai fatto pubblicamente”.
Lo stesso è avvenuto anche con la mia “Lettera aperta al Papa”, pubblicata in questo sito il 10 ottobre scorso e che iniziava così:
A Sua Santità il Papa Benedetto XVI,
Mi rivolgo direttamente a Lei, Vicario di Cristo e Capo della Chiesa Cattolica, con deferenza da sincero credente nella fede in Gesù e da strenuo protagonista, testimone e costruttore della Civiltà cristiana, per manifestarLe la mia massima preoccupazione per la grave deriva religiosa ed etica che si è infiltrata e diffusa in seno alla Chiesa. Al punto che mentre al vertice della Chiesa taluni alti prelati e persino dei suoi stretti collaboratori sostengono apertamente e pubblicamente la legittimità dell’islam quale religione e accreditano Maometto come un profeta, alla base della Chiesa altri sacerdoti e parroci trasformano le chiese e le parrocchie in sale da preghiera e da raduno degli integralisti ed estremisti islamici che perseguono lucidamente e indefessamente la strategia di conquista del territorio e delle menti di un Occidente cristiano che, come Lei stesso l’ha definito, “odia se stesso”, ideologicamente ammalato di nichilismo, materialismo, consumismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo, indifferentismo, multiculturalismo.
Nessun esponente della Chiesa ha risposto a questa Lettera aperta. Ed anche tra le risposte elaborate da parte degli iscritti alla mia Associazione, taluni si sono sentiti in dovere di difendere i musulmani e persino l’islam, ricordando che nel Medioevo ci fu il genio di Averroè e che anche i cristiani hanno commesso delle atrocità in passato. Ricorrendo anche in questo caso alla mistificazione della realtà e decontestualizzando il discorso.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i valori e le regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Magdi Cristiano Allam
(12 Novembre 2008)
Eluana. Oggi la Cassazione decide - Autore: Morresi, Assuntina Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: stranocristiano.it - martedì 11 novembre 2008
Aspettando la sentenza
“La Cassazione ci ripensi, perché sarebbe la prima volta in Italia che qualcuno muore, tra l’altro di fame e di sete e con un’agonia di almeno 15 giorni, per effetto di una sentenza”. Con le parole di Eugenia Roccella, aspettiamo per oggi 11 novembre la sentenza della Cassazione su Eluana, una sentenza che sarà definitiva.
In questi giorni ho letto due libri. Il primo “Storia di una morte opportuna - il diario del medico che ha fatto la volontà di Welby”, di Mario Riccio e Gianna Milano, un diario del medico che ha sospeso la ventilazione a Welby. Il secondo “Eluana – la libertà e la vita”, di Beppino Englaro con Elena Nave.
Libri ben curati e costruiti, ricchi di citazioni, sentenze, bibliografia – soprattutto quello di Riccio – ripercorrono le note vicende di Welby ed Eluana, quelle storie che nel giro di pochissimi anni hanno sdoganato presso l’opinione pubblica italiana l’idea che esiste un diritto a morire.
Non sono raccontate come storie tristi, ma quasi come atti di eroismo da parte di chi le vive in prima persona – Mario Riccio e Beppino Englaro, in questo caso: persone qualunque che per imperscrutabili casi della vita si sono trovate a combattere la battaglia del diritto a morire.
Strani tempi, questi nostri, in cui sembra che la maggiore preoccupazione sia quella di morire, e non di vivere. La preoccupazione di non far vivere bambini nati troppo prematuri, oppure disabili gravissimi come Eluana, ma anche meno gravi: quasi che il problema di questi tempi sia amministrare la morte, e non vivere la vita.
A questo proposito vi segnalo l’interessante lettera di Fulvio De Nigris a Gad Lerner, dopo la trasmissione “L’Infedele” dedicata proprio ad Eluana. Il quale Fulvio de Nigris (fondatore dell’Associazione “Amici di Luca”) a un certo punto osserva che Beppino Englaro chiede silenzio su sua figlia, però a parlare è sempre e solo lui, e non vediamo mai in tv tutti quelli – e sono migliaia - che la loro Eluana ce l’hanno in casa, e che chiedono solo di essere aiutati a continuare a viverci insieme. Persone per le quali la sentenza Englaro può avere un impatto devastante, e almeno psicologicamente tanti problemi già li ha fatti (senza parlare della questione giuridica e legale: non sentivamo la mancanza dell’ennesima battaglia parlamentare che ci porterà a una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento).
Ma i solerti giudici italiani non si occupano solo di fine vita: anche la legge 40 è sotto tiro, e fra qualche mese la Corte Costituzionale si pronuncerà sul limite massimo dei tre embrioni da creare e trasferire in utero. Intanto continua un’irresponsabile pubblicità ai test genetici: sul corriere, ne hanno descritto uno all’ultimo grido, che stanerebbe ben 15.000 difetti genetici. Una meraviglia, secondo i media.
La storica vittoria di Obama: temo che sarà ricordato per il tracollo dell'America e la disfatta della civiltà occidentale - Autore: Allam, Magdi Cristiano Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 11 novembre 2008
L'Europa, tutti noi, saremo coinvolti in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di un capitalismo alla cinese, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto
Cari amici,
la vittoria di Barak Obama è certamente un fatto di portata storica. Lo è indubbiamente per l’aspetto più manifesto: si tratta del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti d’America. Ma io temo che sarà ricordato dalla storia non tanto per il colore della sua pelle, per le sue radici keniote e per il padre musulmano poligamo, ma perché sarà il presidente che accelererà il tracollo dell’America come superpotenza mondiale e, di conseguenza, condurrà alla disfatta dell’insieme della civiltà occidentale.
Ciò coinvolgerà inesorabilmente l’Europa, quindi tutti noi, in un processo involutivo di decadenza sia sul piano economico, con il prevalere di una forma di capitalismo alla cinese caratterizzato dal materialismo assoluto e dal consumismo sfrenato senza regole etiche e diritti umani, sia sul piano sociale e culturale, con la diffusione del multiculturalismo infestato dal morbo ideologico del nichilismo, relativismo, islamicamente corretto, buonismo, laicismo, soggettivismo giuridico, autolesionismo e indifferentismo.
Io sono sinceramente felice per la vittoria di un giovane di 47 anni alla guida degli Stati Uniti, a maggior ragione se incarna il riscatto di una minoranza etnica che arrivò in America come schiavi. L’America dimostra di essere una nazione dove il rinnovamento generazionale è una costante e dove il cambiamento è un tratto fisiologico perché si radica nel primato dei valori costituzionali che affermano la parità dei cittadini indipendentemente dall’etnia d’origine, dalla confessione o status sociale.
Ammiro Obama per la lucidità e l’intuito con cui è riuscito a percepire la voglia di cambiamento degli americani. Un cambiamento ricercato a tutti i costi perché si è attribuito all’amministrazione repubblicana di George Bush la causa e la responsabilità di tutti i mali dell’America. Anche se di fatto la guerra in Iraq sta finalmente registrando la disfatta del terrorismo di Al Qaeda dopo aver rovesciato il regime tirannico di Saddam Hussein. Facile e scontato quindi oggi sostenere a viva voce che è in Afghanistan che ci si deve impegnare massimamente per combattere il terrorismo islamico globalizzato. Ed anche se di fatto Bush, sul piano economico, ha osato l’inverosimile operando un massiccio intervento statale con fondi pubblici a sostegno delle banche fallite dopo l’esplosione della bolla speculativa, ponendo fine al mito del libero mercato che si autoregolamenta da sé, facendosi invece scoprire che il mercato necessita di regole etiche. Il fatto che sia stato un repubblicano, un acerrimo assertore dell’inviolabilità del libero mercato, ad assumere un’iniziativa statalista di stampo socialista, e che ciò avviene nella nazione simbolo del capitalismo, dà l’idea della svolta epocale legata alla fine di un mito.
Ammiro Obama per l’intelligenza con cui ha individuato nei giovani il fattore trainante del cambiamento, valorizzando in modo ottimale la loro passione e la loro disponibilità a concedersi totalmente.
Ammiro Obama per la straordinaria capacità di coinvolgere l’insieme della popolazione americana nella più ampia e capillare rete virtuale ed economica che ha consentito di dar vita a un mastodontico e consistente sistema di autofinanziamento con milioni di piccoli contribuenti che ha fruttato, fino alla fine del mese di settembre, oltre 600 milioni di dollari di cui la gran parte inviati da sostenitori che, singolarmente, hanno inviato una somma inferiore ai 50 dollari. Anche se certamente Obama ha potuto godere, in partenza, anche del sostegno di grandi finanziatori che lo hanno messo, in un secondo tempo, nella condizione di rendersi economicamente autonomo.
Gli americani non ne potevano più di George Bush e del suo Partito Repubblicano, a dispetto di tutto e di tutti, ed Obama ha saputo cogliere questo messaggio. Obama è stato inoltre avvantaggiato dal fatto che il ceto medio, indebolito dalla crisi economica, si è riconosciuto nelle sue posizioni assistenzialiste che promettono maggiori servizi pubblici ai cittadini, quindi con una maggiore presenza dello Stato, rispetto alle posizioni liberiste che affidano allo sgravio fiscale la possibilità dei singoli di godere di un miglior tenore di vita, quindi con una minore presenza dello Stato.
Tuttavia ciò che mi preoccupa in Obama è lo spirito sessantottino che ha animato il discorso da lui pronunciato a Berlino, in cui ha elevato la retorica dell’abbattiamo tutti i muri tra tutte le religioni, tutti i paesi, tutti gli uomini, senza porsi delle domande sui contenuti, senza chiedersi perché sono stati eretti questi muri e del pericolo che in essi si annida. Così come mi preoccupano i toni populisti del discorso della vittoria, “l’America è il luogo nel quale tutto è possibile”, “la vera forza della nostra nazione non nasce dalle armi o dalle ricchezze, bensì dalla vitalità dei nostri ideali”.
Ciò che mi preoccupa massimamente di Obama è l’assenza di una chiara visione e strategia per il futuro dell’America e del mondo: “La strada che abbiamo davanti sarà lunga. La salita rapida. Forse non arriveremo al traguardo in un solo anno, forse non basterà un unico mandato”. Obama non indica né una strada né un traguardo. Ci dice solo che sarà lunga, rapida e incerta. E’ più concentrato sulla realtà contingente che si esaurisce nella denuncia di ciò che non va, che sulla realtà strutturale che implica la proposta di ciò che si deve costruire. E’ infatuato dal mito del dialogo, dall’illusione che il dialogo sia la panacea di tutti i mali del mondo e che a furia di dialogare anche con i peggiori tiranni, a partire dal presidente nazi-islamico iraniano Ahmadinejad, qualcosa di buono ne uscirà fuori. Ma dato che i suoi consiglieri, ben più avveduti, lo invitano alla cautela per non mettersi contro i poteri forti in America, Obama passa da un estremo all’altro, minacciando anche di muovere la guerra contro l’Iran e contro il Pakistan.
Ebbene, cari amici, nel nostro rapporto con la realtà e nella nostra voglia di cambiamento della realtà, noi dobbiamo partire dalla considerazione della realtà per quella che è, e purtroppo, la realtà ci rappresenta un’America e un’Europa in declino sul piano economico e sul piano sociale e culturale. Un declino che si tocca con mano nel constatare l’imperversare del capitalismo alla cinese al punto che oggi la Cina comunista è il principale creditore del debito pubblico americano, e nel successo degli estremisti islamici che adottano il terrorismo dei taglia-lingua nel conquistare spazi sempre più ampi di potere in seno all’insieme dell’Occidente. Un declino che si deve proprio al venir meno del primato dei valori e delle regole che sono il fondamento del riscatto della civiltà occidentale che si alimenta del binomio indissolubile di verità e libertà, di fede e ragione, che ha le sue radici profonde nella fede, nella cultura e nella tradizione cristiana che ha saputo raccogliere l’eredità del pensiero greco, romano, laico e liberale.
Cari amici, vi saluto con la convinzione che è giunta l’ora di assumerci la responsabilità storica di agire da protagonisti per affrancarci dall’ideologia suicida del relativismo che affligge l’Occidente e dall’ideologia omicida del nichilismo che arma l’estremismo islamico, per affermare con coraggio e difendere con tutti i mezzi la Civiltà della Fede e Ragione. Andiamo avanti insieme sul cammino della Verità, Vita, Libertà e Pace, per un’Italia, un’Europa e un mondo che considerino centrali i Valori e le Regole, della conoscenza oggettiva, della comunicazione responsabile, della sacralità della vita, della dignità della persona, dei diritti e doveri, della libertà di scelta, del bene comune e dell’interesse generale, promuovendo un Movimento di riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura e della politica. Con i miei migliori auguri di sempre nuovi traguardi, successi ed un mondo di bene.
Esegesi biblica alla scuola dei padri - Dalla sapienza medievale - i quattro sensi delle Scritture - di Inos Biffi – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
Una delle eredità che i medievali raccolsero dai padri della Chiesa è quella del metodo esegetico simbolico, che, al senso storico immediato, aggiunge "un secondo modo di leggere e di intendere il testo" (Yves Congar). E, infatti, "sull'esempio dei padri i medievali saldano in uno stesso comportamento esegetico i procedimenti e le categorie ereditate dalla cultura ellenistica. Presso gli autori pagani, presso Filone, presso Origene, si era costituito un genere letterario per interpretare i testi (Omero, Virgilio, e così via) di là dalla loro lettera, con uno sdoppiamento, in cui il corpo del racconto, del mito, del mistero, era di fatto disgiunto a supposto vantaggio di uno "spirito", divenuto eterogeneo alla lettera. I cristiani (e Filone stesso) mantenevano certamente il dato storico primitivo: essi accettarono tuttavia, specialmente ad Alessandria, i metodi dei loro contemporanei. Attraverso Ambrogio, Agostino, Gregorio, questi metodi penetrarono l'esegesi medievale occidentale. L'allegorismo unisce, così, la trasfigurazione cristiana della storia con una trasposizione morale nella quale i racconti biblici simboleggiano la vita interiore del giusto". Si tratta di una interpretazione della Bibbia "in cui la storia - la littera - è il supporto di una trasposizione continua a realtà soprastoriche di cui gli eventi terreni sono figura" (Marie-Dominique Chenu). Esattamente, quindi, come i padri, i medievali sono portati a cogliere nella Scrittura una "lettera" e uno "spirito", e viene in mente il libro di Henri-Marie de Lubac Histoire et esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène. Sono, infatti, tratte dalle omelie di Origene le espressioni: "Nelle Sante Scritture difendiamo la lettera e lo spirito", la "narrazione della storia", e l'"intelligenza mistica". Ed è il principio che Alano di Lilla nel De planctu naturae enunciava in questi termini: "Nella corteccia esteriore della lettera il suono della lira è inautentico; ma in maggior profondità esso rivela agli ascoltatori il segreto di una intelligenza più penetrante; in tal modo, rimosso il guscio esterno di un'ingannevole apparenza, il lettore trova all'interno, come in segreto, un più dolce nucleo di verità". Per esprimere i diversi livelli, cioè i quattro sensi, della Scrittura, i medievali composero un celebre distico sui quattro sensi della Scrittura: "La lettera insegna quanto è avvenuto, / l'allegoria quello che devi credere, / la morale quello che devi fare / l'anagogia il fine a cui devi tendere". (Littera gesta docet, / quid credas allegoria, / moralis quid agas, / quo tendas anagogia) (Nicola di Lyre, Postilla in Gal., 4, 3; cfr. H. de Lubac, Esegesi medievale, ii, Milano, Jaca Book, 1988, pp. 345-364). Sono in tal modo rilevati il senso letterale o storico, il senso allegorico, quello morale o tropologico e quello anagogico: "Sui quali come fossero ruote, si muove tutta la sacra pagina" (Guiberto di Nogent, Moralia in Genesim. Liber quo ordine sermo fieri debeat, Proemium, in Patrologia Latina 156, 25). Nicola di Lyre commenta così il distico citato: "Secondo il primo significato, che si manifesta attraverso le parole, si coglie il senso letterale o storico; in rapporto poi al secondo significato - che si esprime attraverso i fatti stessi - si percepisce il senso mistico o spirituale, che in generale presenta tre dimensioni; precisamente: se le cose significate attraverso le parole rivelano ciò che nella nuova legge si deve credere, si attinge il senso allegorico; se rivelano quello che si deve sperare nella beatitudine futura, si attinge il senso anagogico, e da qui il verso citato; se poi si fa riferimento a quanto dobbiamo fare, si attinge il senso morale o tropologico" (Patrologia Latina 113, 28). Quanto a Stefano di Langton ricorda: "Il maestro Ugo di san Vittore dice: la sacra pagina è talmente superiore rispetto alle altre discipline che ciò che è da queste significato in teologia ha funzione significante. Le realtà che nelle altre facoltà sono indicate dai nomi e dalle parole, in teologia corrispondono a dei nomi" (da Beryl Smalley, Lo studio della Bibbia, p. 280). D'altra parte, questa viva sensibilità alla stratigrafia scritturistica - che certamente non mancò di essere rischiosa nel suo declinare in un allegorismo arbitrario, evacuante la "realtà" e attentante, alla fine, lo stesso spessore simbolico - si accordava felicemente, oltre che alla Scrittura stessa, a tutto l'orizzonte del medioevo, ossia alla "mentalità" universalmente simbolica, che contrassegnava i diversi settori della sua cultura, tutta impregnata di "segni", dalla teologia, alla filosofia, all'arte. Secondo Marie-Dominique Chenu, al quale dobbiamo gli studi più acuti e suggestivi sull'argomento, non si può "fare la storia delle dottrine cristiane, senza prendere in considerazione le risorse del simbolismo che nella natura, nella storia, nella pratica del culto, le ha continuamente alimentate". Scrive: "Maestri di scuola e mistici, esegeti e naturalisti, religiosi e profani, scrittori e artisti, gli uomini del xii secolo, fra tutti i medievali, hanno in comune, imposta dal loro ambiente e come regolante il loro giudizio in una tavola innata delle categorie e dei valori, la convinzione che ogni realtà naturale o storica ha un significato che trascende il suo contenuto immediato, e che è rivelato al nostro spirito da una certa densità simbolica. Rendere ragione delle cose non vuol dire soltanto offrirne la spiegazione mediante le loro cause interne, ma scoprire questa misteriosa densità", e non attraverso una "dimostrazione" (demonstratio) intesa come prova aristotelica, ma una "ostensione" (monstratio). Senza dubbio non è possibile ripetere semplicemente il metodo simbolico sia dei padri sia dei medievali, non solo per un mutamento di mentalità simbolica - anche se questa è, in ogni caso, una risorsa della realtà e della sua intelligenza e la nostra cultura la va sempre più scoprendo - ma anche e soprattutto per una più acuta sensibilità e possibilità nei confronti del senso "letterale" o "storico" della Scrittura, scientificamente studiata. Non esiste, tuttavia, un'opposizione tra esegesi scientifica ed esegesi simbolica, se questa è intesa come sforzo per ritrovare e leggere compiutamente la Parola di Dio. Questa Parola è in atto all'interno del testo e della storia scritturistica con i suoi avvenimenti, ed è espressa in una pluralità di linguaggi, compreso quello simbolico ossia quello della relazione e connessione non solo tra le parole ma anche tra gli eventi che sono segni o profezia. In tal modo, non ci si sovrappone alla Parola di Dio con gli artifici dell'allegoresi, né ci si dedica a estrarre dalla Scrittura delle tesi o enunciazioni, bensì a ritrovare in essa tutta l'infinita e inesauribile "realtà", che Dio manifesta e comunica, non solo per l'illustrazione della mente, ma altresì per il coinvolgimento dell'esperienza - è il senso "morale", cui faceva riferimento il distico medievale - e per l'adombramento e la rappresentazione escatologica, cioè l'"anagogia", ossia il quarto senso inteso dagli esegeti e teologi medievali, che non cessano di fare scuola.
(©L'Osservatore Romano - 12 novrmbre 2008)
Nessun attentato può essere compiuto in nome dell'islam - «Fatwa» contro il terrorismo - La svolta dei musulmani in India – L’Osservatore Romano, 12 Novembre 2008
New Delhi, 11. Una condanna netta e inequivocabile degli attentati terroristici, come azioni contrarie all'islam, partita dai mullah della scuola islamica Darul Uloom Deoband - la più antica e autorevole dell'India, nello stato dell'Uttar Pradesh - e ora sottoscritta dalla più grande organizzazione di religiosi musulmani del Paese, la Jamiat-Ulama-i-Hind (Juh): l'approvazione della fatwa contro il terrorismo, al termine della ventinovesima assemblea generale della Juh che si è svolta sabato e domenica scorsi a Hyderabad, capoluogo dell'Andhra Pradesh, rappresenta una svolta, "un evento fondamentale" come hanno affermato gli stessi delegati: stabilisce che il terrorismo non appartiene alla religione islamica e non si possono portare azioni terroristiche in nome dell'islam. Nella risoluzione finale, firmata all'unanimità, si ribadiscono le differenze tra il jihad e il terrorismo: la prima, in quanto autodifesa da un'aggressione e per ristabilire la pace, "è un fenomeno costruttivo e un diritto fondamentale degli esseri umani, mentre il secondo si basa sulla distruzione. È necessario definire jihad e terrorismo nella giusta prospettiva, che li vede come poli opposti. Il terrorismo è il più grande crimine stando al Corano" conclude l'editto. Con il provvedimento, i religiosi musulmani indiani si sono impegnati a trasmettere questa posizione all'interno della comunità dei fedeli e a isolare e ad allontanare dalle proprie comunità gli elementi influenzati dalle ideologie terroristiche. Anche gli insegnanti delle madrasse (i convitti dove si impartiscono insegnamenti di religione e diritto) hanno dato la loro disponibilità a sensibilizzare gli studenti su temi di pace. L'approvazione della fatwa è stata salutata dai partecipanti al meeting come un evento che non può non avere conseguenze per il futuro. I seimila delegati partecipanti si erano riuniti per definire, come ogni anno, le strategie da attuare e per fare il punto sulla situazione dei musulmani nel Paese. L'editto religioso contro il terrorismo era stato già emesso il 31 maggio da quattro muftì (dotti musulmani autorizzati a esprimere responsi in materia giuridica e anche teologica) che avevano definito il terrorismo "non islamico" e "non appartenente alla religione islamica". Pensiero ripreso adesso dalla Juh: "Un atto terroristico è compiuto da individui folli e nessuno deve associarli alla comunità musulmana che crede nella pacifica coesistenza con le altre comunità" ha detto il segretario generale dell'organizzazione, Maulana Mahmood Madani, che è anche senatore. "L'islam - ha concluso il leader musulma- no - è una religione di pace e ai suoi occhi lo spargimento di sangue e gli attentati sono atti e crimini inumani". Come detto, l'iniziativa della fatwa ha preso le mosse a maggio dai mullah della Darul Uloom (la "casa della conoscenza") di Deoband, in Uttar Pradesh. Fondato nel 1866 - si legge nel sito dell'Associazione musulmani italiani (Ami) - il seminario religioso è secondo in importanza solo ad al Azhar, al Cairo. L'editto religioso è stato firmato non solo da Maulana Habibur Rahman, il grande muftì di Deoband, ma anche dai suoi tre delegati. Ma gli studiosi sono andati oltre organizzando, per annunciare la fatwa, una conferenza su "Anti-terrorismo e pace globale" tenutasi il 31 maggio al Ramilla ground di New Dehli. L'incontro ha visto riunite tutte le maggiori organizzazioni musulmane, come la Jamaat-e-Islami Hind e la All India Muslim Personal Law Board. Virtualmente erano rappresentate tutte le sette musulmane indiane, inclusi i wahhabiti, i sufi e i barelli. La conferenza - afferma ancora l'Ami - ha dichiarato che non ci sono connessioni fra jihad e terrorismo. La sola idea di un terrorista che si glori nella violenza e descriva se stesso come un jihadista è stata denunciata come un abominio. I delegati hanno visto nel terrorismo la più grande minaccia che le società musulmane si trovano ad affrontare oggi. Tutti i mullah presenti hanno fatto un giuramento di fedeltà: "Siamo legati a questa fatwa di Darul Uloom Deoband e ci impegnamo a condannare il terrorismo e a diffondere il messaggio di pace globale dell'Islam". Giuramento, messaggio, ripresi e sottoscritti lo scorso fine settimana a Hyderabad: "Nell'islam creare discordia o disordine nella società, interruzioni della pace, sommosse, spargimenti di sangue, saccheggi o razzie e uccidere persone innocenti in qualsiasi posto del mondo, sono tutti considerati crimini disumani. Coloro che usano il Corano o i detti del profeta Maometto per giustificare il terrorismo stanno dando credito a una bugia. Il vero scopo dell'islam - si sottolinea nella fatwa - è quello di cancellare tutti i tipi di terrorismo e di diffondere il messaggio di pace globale". "Nel mondo è stato creato un clima che vuole legare il terrorismo all'islam; dobbiamo unire le nostre forze per rimuovere questa errata concezione" ha detto il maestro indù Sri Ravi Shanker che, come riferisce l'agenzia Misna, era fra i rappresentanti religiosi induisti ospiti all'incontro e che ha deplorato l'uso della violenza anche da parte di gruppi induisti ritenendola ugualmente contraria alla religione indù. L'assemblea generale della Jamiat Ulama-i-Hindi ha infatti sollevato anche il problema delle aggressioni contro minoranze islamiche e cristiane da parte di gruppi radicali induisti ma ha chiesto "al governo e ai media di cessare di mettere in relazione il terrorismo con qualunque religione". Proprio ieri, dall'Italia, è giunta una netta presa di posizione contro queste violenze. L'aula della Camera, per alzata di mano, ha detto sì a tutte le mozioni presentate dalle forze politiche sulle iniziative riguardanti i ripetuti episodi di violenza e di persecuzione nei confronti dei cristiani in India e in altre parti del mondo. I testi approvati, in particolare, impegnano il Governo di Roma "a intervenire direttamente presso le autorità nazionali indiane affinché sia fatta chiarezza, siano individuati i responsabili che invocano pulizie etnico-religiose in India e presi seri provvedimenti nei confronti dei responsabili della polizia e dei governi locali che hanno sottovalutato o peggio ignorato volutamente i fatti sopraesposti". I deputati chiedono che vengano adottate effettive misure di sicurezza nei confronti delle minoranze religiose cattoliche, che sia previsto l'effettivo risarcimento dei danni subiti dalle comunità religiose oggetto di atti vandalici e siano assicurati alla giustizia gli autori degli omicidi e degli attentati. Inoltre la Camera sollecita un'azione, di concerto con i partner europei, affinché venga squarciato il velo di silenzio intorno a questa vicenda e affinché la comunità internazionale, anche attraverso risoluzioni dell'Organizzazione delle nazioni unite, "intervenga repentinamente per evitare che proseguano impunemente le gravi ferite inferte alla libertà religiosa e ai diritti umani in generale in tante parti del mondo". (giovanni zavatta)
(©L'Osservatore Romano - 12 novrmbre 2008)
11/11/2008 14.11.11 – Radio vaticana - Il rabbino Rosen all'incontro ebraico-cattolico di Budapest: costruiamo insieme società fondate su valori esistenziali
"Un incontro fiducioso e amichevole. Ci conosciamo ormai da anni e in questi anni certamente è cresciuta la fiducia. Ora vogliamo andare avanti. Non c’è stata nessuna polemica e controversia”. Il cardinale Walter Kasper, che presiede la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha commentato con queste parole all'agenzia SIR l'andamento dell’incontro del Comitato internazionale per il collegamento ebraico-cattolico in corso a Budapest fino a domani. Un appuntamento che quest'anno ha inteso verificare lo stato dei rapporti tra le due religioni nei Paesi dell'Europa orientale e, in particolare, la loro capacità di intervenire nella società civile. Su questi argomenti si sofferma il rabbino David Rosen, presidente dell'International Jewish Committee for Inter-religious Consultations e tra i partecipanti all'incontro, che sottolinea anche l'importante commemorazione celebrata ieri per il 70.mo della "Notte dei cristalli", ovvero l'inizio del pogrom antisemita in Germania. Ascoltiamolo al microfono di Marta Verste, incaricata del Programma Ungherese della nostra emittente:http://62.77.60.84/audio/ra/00137706.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137706.RM
R. - We can indeed, we can say it’s a historic event for a number of reasons…
Veramente, possiamo dire che si tratta di un evento storico per una serie di ragioni. Intanto, la commemorazione della “Notte dei cristalli” di 70 anni fa. La natura stessa di questa commemorazione, che la Chiesa cattolica e la comunità ebraica fanno insieme, è un evento unico ed è anche dimostrazione della strada che abbiamo fatto per cercare di trasformare la tragedia del passato in una memoria condivisa, per ricordare ed imparare. E’ un evento storico, però, anche perché questa è la prima volta, dalla caduta del comunismo, che ci incontriamo nell’Europa centrale dell’Est. Stiamo cercando strade che ci coinvolgano non soltanto in responsabilità vicendevoli, ma anche in responsabilità condivise nella costruzione di nuove società sane, che non siano più fondate unicamente su fattori di materialismo secolare, ma che abbiano anche una visione e propositi esistenziali.
D. - Qual è la sua esperienza in merito alla collaborazione tra ebrei e cattolici nei Paesi dell’Europa dell’Est?
R. - I think it is very difficult to generalize, because it varies from one Country…
Credo sia molto difficile generalizzare, perché questa collaborazione varia molto da Paese a Paese. La mia sensazione è che, pur rilevando conquiste significative, c’è ancora molta strada da fare. Parte dei motivi per cui c’è ancora tanta strada da fare risiedono nel fatto che ciascuna comunità tende, comprensibilmente, ad occuparsi sostanzialmente delle proprie sfide particolari, che non necessariamente sono quelle delle altre comunità. Per questo, l’argomento delle relazioni ebraico-cattoliche non è sempre prioritario per le singole comunità, come dovrebbe essere.
L'incontro di Budapest sta ponendo attenzione ai giovani per ciò che riguarda la loro formazione al dialogo interreligioso. Lo conferma al microfono di Marta Vertse, padre Norbert Hofmann, segretario dela Commissione Pontificia presente in Ungheria:http://62.77.60.84/audio/ra/00137729.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00137729.RM
R. - Una delle nostre intenzioni è stata dall’inizio quella di coinvolgere la giovani generazioni. Qui a Budapest, abbiamo 12 ragazzi di un’età tra i 20 e i 30 anni pronti a dialogare guardando sul futuro. Il consiglio è dunque quello di coinvolgere con maggiore intensità la generazione più giovane. Poi ci sarà, l’anno prossimo, un convegno che includerà i musulmani: sul come organizzarlo ne parleremo domani. Nei Paesi dell’Europa dell’est, ci sono anche delle comunità cristiane e ortodosse, che qualche volta sono in maggioranza. Un'altra prospettiva, allora, riguarda il coinvolgimento dei cristiani ortodossi, quali altri passi fare verso questo dialogo.
USA/ La “speranza” riposta in Obama non resti un’ideologia - Lorenzo Albacete - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Nel 1957, quando con mia madre e mio fratello visitai per la prima volta Washington, DC, venendo da Porto Rico dove ero nato, l’autista del taxi che ci portò dall’aeroporto alla casa degli amici di mia madre, di cui eravamo ospiti, era un nero, come la gran parte degli abitanti della capitale degli Stati Uniti. Durante il tragitto, mentre passavamo davanti alle case della Sedicesima Strada, vidi che molte di esse affittavano camere ai turisti, e gli annunci che si susseguivano riportavano tutti la scritta: “Solo bianchi”.
Ora può sembrare sorprendente, ma allora io non avevo nessuna idea di cosa quei cartelli significassero… così chiesi al guidatore, che mi rispose: «Significano che io non posso stare qui con mia moglie e le mie figlie». Proprio in quel momento arrivammo alla casa dei nostri amici: di fronte alla casa c’era un cartello: “Solo bianchi”.
Qualche anno dopo, i cartelli non c’erano più, ma non c’erano più neppure i proprietari bianchi di quelle case, inclusi gli amici di mia madre. Eppure, da quel giorno, mi è sempre stato ben presente che c’era una casa nella Sedicesima Strada con un cartello invisibile che proibiva ai non bianchi di abitare lì: la Casa Bianca. Ma, improvvisamente, il 4 novembre 2008, il cartello è stato strappato.
Non so se il mio tassista di 51 anni fa è ancora vivo. Non posso immaginare che egli abbia mai pensato di poter vedere il giorno in cui quell’ultimo cartello sarebbe stato rimosso. Fino a tempi molto recenti, non avrei pensato di poterlo vedere neppure io.
Per quelli di noi che sono passati attraverso la lotta per i diritti civili (il mio appartamento era nel mezzo di un’area in cui avvenivano spesso manifestazioni che finivano in violenti scontri con la polizia; durante i disordini del 1968 rimasi sotto coprifuoco notturno; ero al Lincoln Memorial in occasione del discorso di Martin Luther King, ecc.), l’elezione di Barack Obama a presidente contiene un elemento che trascende la politica. L’elezione non è stata il risultato di una conversione e pentimento dal peccato di razzismo, è dovuta principalmente alla crisi economica, ma trascende la politica.
Come mi disse un amico il giorno prima dell’elezione: «Io voterò per McCain data la mia opposizione all’aborto, ma pregherò perché vinca Obama». La vittoria di Barack Obama, come di molti altri nella lotta per i diritti civili, è arrivata avvolta nell’ideologia del progressismo americano.
Non è stata il risultato di un ampliamento della ragione generato dalla fede, ma un risultato dell’ideologia. Per questa ragione, non soddisferà i veri bisogni degli afro-americani. Ma è accaduto. È un fatto.
Ora inizia la vera speranza, la speranza che questo fatto possa essere tirato fuori dall’involucro dell’ideologia. Per questo, occorre che avvenga il cambiamento dalla politica utopica alla politica della Presenza.
J'ACCUSE/ Giannino: "O la banca è per la persona oppure la persona finisce schiava della banca" - Oscar Giannino - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
La fine di un mondo
Dovete sapere che tra l’ottobre del 2006 e la primavera del 2007 mi sono trovato in disaccordo con quasi tutti i miei amici liberisti. E parlo dei miei amici economisti, alcuni dei quali scrivono dall’America su grandi giornali italiani, altri insegnano in America e guardano all’Italia in maniera un po’ più distaccata, ma per capirci molti di loro si riconoscono nelle tesi dei Francesco Giavazzi, degli Alberto Alesina, o di Alessandro Penati - che conosco da anni e di cui ho da anni grandissima stima. Con alcuni di loro c’è stato e c’è da anni da parte mia un continuo scambio di idee, sull’interpretazione dei fenomeni economici. Ebbene, questa crisi economica ci ha divisi.
Nel 2006 venne introdotto su uno dei mercati regolamentati americani l’indice Abx. Esso ha rappresentato l’inizio di un mercato vero su tutti i prodotti derivati della finanza strutturata. È stato proprio quell’indice a rendere per la prima volta evidente, a ottobre 2006, che in quel mercato c’era qualcosa che non andava. E i fatti, purtroppo, hanno verificato questa mia supposizione. Perché questa nella quale ci troviamo non è una crisi da mercato; è una crisi che viene dalla mancanza di una delle condizioni necessarie del mercato – almeno per chi ha l’idea del mercato che abbiamo noi. Il mercato, infatti, funziona per davvero dove c’è la minore asimmetria informativa possibile tra gli operatori. Ma il mercato dei derivati di credito smentiva perfettamente questo principio, già da molti anni.
Dicevo ai miei amici economisti: guardate che su queste operazioni si inizierà a far luce, e la luce porterà il sistema sin qui apparentemente operante e invincibile alla tenebra, perché questo è un mercato in cui la totale asimmetria delle informazioni tra operatori è il drive, il motore e la precondizione stessa che consente alle cinque maggiori banche d’affari americane di fare profitti spaventosi, di realizzare in e agli intermediari che seguivano il loro modello, in poco più di dieci anni qualcosa come utili pari all’intero Pil Usa di un anno.
Ed essi di rimando, mi rispondevano: non è così, perché questa crisi va interpretata unicamente come eccesso di inflazione dei prezzi degli asset immobiliari. Vedrai che ci vorrà il giusto tempo, mi replicavano, valutabile in base alle serie storiche, dopodiché i prezzi scenderanno e tutto finirà lì. Non è stato così. Quel sistema si è dimostrato fallace, drogato dalle migliaia di miliardi di dollari di utili che per troppi anni hanno accecato le intelligenze dei migliori accademici di tutto il mondo.
Dirlo non è consolante, ma questa è una crisi che si vede una sola volta nella vita. Non capita sempre di vedere le cinque maggiori banche di investimento americane sparire nel giro di una settimana. Anzi, capita una sola volta nella vita. Se prendiamo lo Standard & Poor’s 500 il giorno in cui è stato eletto Barack Obama, il termine di paragone del deprezzamento dell’indice dall’inizio del 2008 al 5 novembre ci riporta indietro al 1937, come precedente. Settantuno anni fa. E le crisi che si vedono una sola volta nella vita sono crisi sistemiche, epocali, e da persone intelligenti occorre sforzarsi di capire che cosa vogliono dire.
Un ordine da ricostruire
Innanzitutto, questa che viviamo è la crisi del modello di intermediazione finanziaria che ha fatto andare avanti il mondo negli ultimi 20 anni, un modello basato su un altissimo rapporto tra i mezzi propri – pochi – e le unità di capitale intermediato – elevatissime – e basato inoltre su una bassa congruità patrimoniale. Quel sistema è finito. Insieme a lui è finito anche un paradigma geopolitico della crescita internazionale, che però è andato ben bene avanti per vent’anni e ha consentito agli Stati Uniti di realizzare quasi il 60% in più del proprio Pil, grazie ad un meccanismo per cui la crescita finanziata in debito dei consumi privati americani era sostenuta da chi aveva interesse a incrementare quel mercato, in altissima espansione e a forte capacità di acquisto: non solo la Cina, ma soprattutto la Cina.
Questa duplice crisi ha conseguenze gravi: bisognerà reinventarsi strumenti e indicatori tecnici, definiti e adottati il più possibile in maniera uguale da una parte e dall’altra dell’Oceano; occorrerà reinventarsi la definizione stessa di che cos’è una banca e soprattutto un intermediario finanziario visto che le due cose non coincidono affatto, come invece purtroppo avveniva in questi anni; bisognerà concordare su nuovi criteri per valutare gli attivi patrimoniali; bisognerà intendersi su come ciascuna classe di asset all’attivo possa essere diversamente pesata a seconda dei rischi di controparte; bisognerà mettere ordine nella giungla scomposta dei regolatori americani, sui mercati finanziari, sulle banche e sulle assicurazioni, perché questa crisi è la crisi che nasce dalla loro sconfitta e dalla cecità di una politica, seguita sia dai democratici che dai repubblicani, che ha creduto che la finanziarizzazione crescente potesse meglio accrescersi con l’autoregolazione, e con il merito di credito “comprato” da agenzie di valutazione i cui bilanci dipendono dai denari degli operatori che esse in teoria giudicano. E tutti questi nuovi criteri non investono solo le attività finanziarie. Significa anche, inevitabilmente, che nuovi criteri verranno adottati dalla comunità finanziaria per scontare il capitale circolante delle imprese. Una quantità di nuove convenzioni da ridefinire ci attende per mettere ordine a questa crisi, tale da costituire un compito molto affascinante, e insieme anche molto, molto complicato. Ma non è tutto.
Valutare il rischio: chi è l’imprenditore?
C’è un altro fattore su cui quei modelli di finanza ad alta leva fondavano il proprio presupposto e che è finito anch’esso: era il criterio paradigmatico per valutare e apprezzare il rischio sostenibile. Ed ecco che allora la crisi investe qualcosa che a me sta molto a cuore: la persona.
Perché i criteri con cui si valutava sostenibile il rischio investono la persona? Occorre una precisazione, che riguarda la figura e il ruolo dell’imprenditore nella teoria economica, prima che concretamente nella realtà dei mercati. Vedete, io non credo affatto che nella generalità dei casi l’imprenditore sia quello che ci descrive Schumpeter con una formula molto famosa, cioè colui che opera una “distruzione creatrice”, che rompe una situazione di equilibrio sul mercato o perché ha un’idea nuova, o perché sa trovare un’unità di capitale adeguata da investire in quest’idea, o perché intuisce genialmente nuovi consumi da soddisfare che altri non sapevano leggere né immaginare, e cosi via. La realtà dell’impresa italiana, fatta al 98% di piccole imprese, da persone che devono inventare ogni giorno condizioni pazzesche per sopravvivere e riuscire meglio degli altri, vista la nostra dinamica dei costi e le rigidità dei mercati del lavoro come delle regole, è fatta secondo voi di imprenditori che rompono una situazione di equilibrio? O da persone che sono costrette a resistere e progredire in situazioni di equilibrio precario, che devono fare i conti continuamente con diseconomie logistiche, infrastrutturali, di alti costi energetici e di fisco penalizzante? Va bene il modello schumpeteriano, ma finché si studia. Nella realtà italiana, quella concreta, io credo invece che l’imprenditore – come insegnava uno dei maestri di Chicago, Israel Kirzner – certo fa i conti con mezzi scarsi per realizzare il suo progetto, ma la sua grandezza, cioè che davvero lo “fa” imprenditore rispetto a chi non lo è, sta nel fatto che per farlo deve distinguere l’incertezza – che non è computabile, non è calcolabile, rappresenta qualcosa che in economia occorre prevedere ma che bisogna tentare di lasciare nell’angolo – dal rischio, che invece si misura finanziariamente e su cui da sempre si fa l’attività dello sconto. E lo sconto significa attualizzare a oggi i flussi di reddito e i flussi patrimoniali generati da un bene scarso per un certo fine. È evidente allora che sulla definizione e quantificazione finanziaria di rischio, sulle diverse convenzioni che nel tempo si adottano a tale proposito, è su questo che gira l’intera economia reale.
Ma quando si adotta per decenni un’idea di rischio tollerabile come quella che è stata alla base del modello di intermediazione finanziaria entrato in crisi, questo vuol dire che per vent’anni l’idea di rischio propria dell’economia reale è stata sempre più trascurata, perché non poteva strutturalmente avere multipli paragonabili alle soglie di rischio finanziario invece non solo tollerato, ma teorizzato e introiettato dagli operatori, e asseverato dalle autorità di regolazione come rischio sostenibile. Ecco perché un intero paradigma è tramontato.
Banche e imprese, un’alleanza difficile
L’Italia è un paese la cui dimensione d’impresa, piccolissima e piccola, è quella di cui dovremmo occuparci di più, anziché di pochi grandi nomi e grandi aziende. Dovremmo occuparci di più di quella parte dell’impresa italiana – il 98% – che ha per proprie caratteristiche dimensionali e organizzative la maggiore elasticità temporale nel dare le risposte al variare della domanda internazionale; di quell’impresa che in questi anni, in cui l’Italia ha perso quote in termini quantitativi sul commercio internazionale, ha iniziato a riposizionarsi sulla catena del valore, facendoci scrivere che questo riposizionamento ridava forza alla nostra manifattura. È un’impresa che, per le caratteristiche del sistema finanziario italiano, dipende tantissimo dalle banche.
Ma sono ormai otto settimane che, dopo i primi due provvedimenti del governo, a mio avviso molto giusti, varati per fronteggiare l’emergenza dell’eventuale necessità di ricapitalizzare qualche grande banca italiana che fosse entrata in difficoltà patrimoniale, ci si confronta invece sull’opportunità di agire “alla francese” oppure no, cioè se invece che intervenire per qualche grande banca che presenta qualche rischio patrimoniale, non sia più opportuno alzare la solidità patrimoniale dell’intero sistema. Come il governo ha fatto a Parigi, per tutte le maggiori banche nazionali. Nessuno ha dubbi su questo: la risposta è certamente sì. Pressoché unanime. Eppure, non lo fa e passano le settimane.
Vi invito a riflettere. Trovate scritto sui giornali il vero motivo per cui non lo si fa? No. Perché? Perché siamo diventati tutti responsabili e quindi non vogliamo far preoccupare gli italiani? Temo che la risposta non sia questa. Temo invece che la risposta abbia a che fare con gli effetti che il modello di intermediazione finanziaria del sistema bancario italiano esercita in concreto nel nostro Paese. E la mia opinione, su questo, è un po’ radicale.
Il nostro Paese rappresenta un’anomalia: negli altri paesi esistono intermediari finanziari non bancari. In America le imprese – piccole comprese – non dipendono dalle banche con la stessa intensità con cui dipendono dalle banche nel nostro paese. Le nostre piccole imprese non emettono commercial papers per scontare il proprio capitale circolante, o per finanziare le proprie attività di crescita. Da noi le aziende dipendono dalla banca, per il capitale di rischio come per il capitale di debito.
Allo stesso tempo però noi abbiamo un sistema di impresa che è più sottocapitalizzato degli altri, che ha un maggior rapporto tra debiti e patrimonio netto. Rispetto a questo sistema di imprese più solido, la grande banca italiana, che è più solida dal punto di vista patrimoniale e dice di non aver bisogno di interventi pubblici, ha storicamente – non dico solo oggi, ma storicamente, e oggi è naturalmente peggio - le carte in regola? Secondo me, no. Le banche italiane hanno applicato al rischio delle persone, piccoli imprenditori e imprenditrici, i sistemi di sconto del rischio che andavano per la maggiore in tutto il mondo. Anche da noi le banche facevano molti più utili dalle attività di trading che dal sostegno alle imprese, solo che da noi le banche, ed è stato un bene, non si esponevano a rischi patrimonialmente commisurati a quelli americani o di Deutsche Bank in Europa. Lo so che può sembrare paradossale, ma per molti versi io ribalto sul sistema bancario italiano ciò che viene normalmente dipinto sui giornali come motivo della sua maggior fiducia e solidità.
La realtà storica italiana è che, quando all’inizio degli anni Novanta adottammo il modello della banca universale, superando la netta separazione tra banche commerciali a breve rispetto al credito e medio e lungo termine, separazione che era stata saggiamente introdotta dalla legge bancaria del 1936, le banche italiane non avevano al loro interno – nella loro generalità - expertise e professionalità davvero capaci di saper valutare il credito industriale in maniera adeguata. Adeguata sia all’eventuale bontà delle idee degli imprenditori, sia alla condizione di generale sottocapitalizzazione dell’impresa italiana. Quel gap non è stato colmato, perché non è un gap che si sana in pochi anni. Occorrono due generazioni di banchieri, perché davvero la banca universale acquisti capacità di saper “affiancare” imprese diverse con strategie e disponibilità diverse, e non a parità di garanzie reali richieste per semplice eguale intensità di capitale intermediato.
Faccio alcuni esempi. È da considerare efficiente l’utilizzo che fa dell’altissima propensione al risparmio degli italiani il sistema – ed è l’unico – attraverso il quale passa il circuito “nervoso” finanziario del paese, cioè quello bancario? Dov’è la convenienza, se una percentuale così elevata di italiani investe una parte così consistente del proprio risparmio negli immobili, quando attraverso le banche si dovrebbero e si potrebbero convogliare risorse di medio e lungo termine – classicamente quelle impiegate a pagare un mutuo sono da collocarsi in tale orizzonte temporale - al sistema produttivo? No, non è un utilizzo efficiente: né per le famiglie, che vi impegnano troppa parte del proprio reddito disponibile senza per questo procedere poi alla vendita delle unità mobiliari per incamerarne l’apprezzamento nel tempo, né per il sistema produttivo che grazie a questo sistema non ha mai visto la nascita di soggetti istituzionali attivi nell’azionariato d’impresa. Il sistema bancario italiano nel suo complesso non risponde in Italia alle sane logiche del modello bancario territoriale o cooperativo, che ha mantenuto più solide radici nelle diverse realtà dei distretti produttivi italiani. E quel quarto di mercato bancario o poco più rappresentato appunto dalle banche popolari e cooperative, non ha mezzi patrimoniali e capitali intermediati paragonabili a quelli delle grandi banche che hanno di fatto assai allentato il loro rapporto col territorio.
Banca e finanza al servizio delle persone. E non viceversa
Per questo dal mio modesto punto di vista, politici e banchieri sono coloro dai quali vorrei vedere oggi dimostrazioni assai più concrete. Vorrei che si toccasse con mano, che davvero in Italia ci si riavvicina a criteri di sconto finanziario del rischio di impresa proporzionati davvero alla fine di un mondo, che è bene sia finito perché teorizzava e praticava soglie di rischio “sintetiche”, frutto di tecniche e prodotti che nulla hanno a che fare col rischio d’impresa reale, e con quello delle persone che le creano e che ci lavorano. Altrimenti, la conclusione amara da trarre è quella di un mondo bancario solo a parole più solido di quello di altri Paesi, ma che nella sostanza è impegnato da mesi in una lotta sorda contro la politica che vorrebbe dargli una mano. Vorrei vedere da parte delle banche una resistenza meno opaca all’aiuto che la politica sta cercando di dare, non per mandare a casa i manager, ma per riportare su la solidità patrimoniale dei loro attivi, quella solidità che negli altri Paesi europei sta salendo molto più che in Italia. Vorrei vedere concrete unità di capitale intermediato a favore dell’impresa, rese disponibili e concesse con criteri diversi da quelli che abbiamo sin qui visto, e che sono testimoniati da centinaia se non migliaia di piccole imprese che oggi lamentano la restrizione del credito e dunque la necessità di tagliare o azzerare oggi gli investimenti, molto presto le piante organiche e i dipendenti. Perché nel nostro paese è tabù pubblicare le circolari delle grandi banche, che da mesi restringono il credito per ogni attività di impiego, mentre si legge invece sui giornali che questa restrizione di credito non c’è?
Vorrei una classe dirigente – politici, accademici, banchieri, imprenditori - capace di affrontare questi temi senza paura, senza dover esorcizzare ogni volta il fantasma e l’accusa di mirare a chissà quali golpe nella governance delle banche. Una classe dirigente che, guardando la storia del nostro paese, sappia dire agli imprenditori che ci vogliono nuovi metodi di sconto del rischio per le loro idee, e sappia offrirglieli in concreto.
Nuove possibilità di uscire dalla crisi possono venire, secondo me, soprattutto da qui. D’altra parte ci vuole una classe dirigente in grado di capire che la banca e la finanza non sono attività dominate da tecniche di arida contabilità e invenzione econometrica per far fruttare i soldi secondo multipli infiniti. Banca e finanza si fondano, sempre, su un’idea della persona. O la banca è per la persona, oppure la persona finisce per essere schiava della banca. Io sono per la prima ipotesi.
ELUANA/ Io, ateo, in lotta per difendere la dignità della vita - Redazione - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Si attende in queste ore la sentenza della Cassazione sul caso Eluana Englaro, che dovrebbe mettere la parola fine su una vicenda che ci ha tenuti sospesi per diversi mesi. Un caso estremo, che ha indubbiamente attratto l’attenzione di tutti. Anche troppo, col rischio cioè di dimenticare le tante avventure umane e i drammi simili a quello della famiglia di Eluana, ma dall’esito diverso: la fatica delle tante persone che vivono quotidianamente la lotta per l’affermazione della vita, ad ogni costo.
Fulvio De Nigris è una di queste persone. Non lotta più per la vita di suo figlio, Luca, scomparso a soli 15 anni nel 1998, dopo il calvario di una malattia che l’ha segnato dalla nascita, fino all’aggravarsi della sua condizione, al coma, alla speranza data dal risveglio, e infine alla morte. Ora Fulvio lotta per la vita degli altri: per coloro che hanno la vita “sospesa”, come l’ha avuta il suo Luca per 240 giorni, ma che da quel sonno apparente potrebbero risvegliarsi. E anche per tutti quelli che sono destinati a rimanere in quella condizione per molto tempo, ma che nondimeno meritano attenzione e cura.
La sua esperienza ha al centro un dramma personale, da cui però è nata una grande opera che è un bene per tutti: com’è successo?
La nostra è appunto un’esperienza che nasce innanzitutto dal dolore di una perdita, la morte di Luca, e che da qui si è sviluppata per orientarsi verso gli altri, in particolare per la cura dei soggetti che sono in coma e in stato vegetativo. Il nostro obiettivo è quello di occuparci innanzitutto di coloro che si trovano nella fase post-acuta, quando è possibile fare molto per il risveglio. Questa attività si svolge nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”, che molti conoscono come modello sperimentale e all’avanguardia in questo tipo di cure. Accanto a questo, c’è l’associazione “Amici di Luca”, che si occupa a tutto campo di questi casi.
Dal continuo contatto con queste situazioni, che idea vi siete fatti sul dibattito intorno al caso Englaro?
Ci sono due effetti negativi di questo dibattito. Il primo è che partendo dal caso di Eluana si è diffusa l’errata convinzione che per soggetti come questi non sia possibile fare nulla; e questa è una cosa non vera. Inoltre, l’altra cosa che ci preoccupa, è che, a partire dalla pur rispettabile posizione di Peppino Englaro, si trasmetta all’opinione pubblica una sorta di disaffezione verso la cura e le strutture per l’accoglienza di persone in situazioni croniche. Tutto questo crea grande confusione, e la battaglia – che rispetto ma non condivido – di un solo genitore, rischia di monopolizzare l’attenzione, facendo dimenticare le tante persone che vivono gravi disabilità, verso le quali lo Stato deve garantire la libertà di cura. Noi continuiamo a parlare della libertà di fine vita, ma è la libertà di cura la prima cosa che lo Stato deve garantire. Chi ne parla?
Potremmo dire che concentrandoci tutti sul caso Englaro ci siamo dimenticati delle tante famiglie che continuano a lottare per la vita?
Non solo: ci siamo anche dimenticati del fatto che la situazione al centro di questo dibattito è del tutto atipica all’interno del panorama delle famiglie che vivono un dramma simile. Queste famiglie, soprattutto quando sono le madri ad accudire i figli, vogliono andare avanti fino alla fine, e i genitori vogliono morire prima dei loro figli. La grande maggioranza delle famiglie la pensano diversamente, e agiscono diversamente da quanto accade nel caso ora più discusso: nutrono la speranza di accompagnare, di essere sostenute, di condividere, di creare intorno a questi pazienti un clima umano molto forte, e di avere un ruolo nella società. È questo impegno che va sostenuto, e su cui la società dovrebbe concentrare la propria attenzione.
L’altro aspetto negativo è che il dibattito viene ridotto a uno scontro tra clericali e anticlericali. Lei invece è per la difesa della vita, senza essere un “clericale”…
Sì, in effetti la mia posizione è assolutamente laica; ed è proprio per questo che trovo molto sbagliata questa contrapposizione. Tra l’altro, aggiungo che partecipando a molti dibattiti sul tema mi è capitato di trovare addirittura alcune persone di Chiesa che – con mia grande sorpresa – mettono in dubbio la sacralità della vita. Comunque, al di là delle contrapposizioni, la vera domanda che bisogna porsi è: la dignità della vita è rapportata alla qualità della vita? Secondo me la dignità della vita è una cosa che prescinde dalla qualità, dalle situazioni contingenti. Molte famiglie, pur vivendo in situazioni di grande dolore e disagio, non smettono di riaffermare continuamente questa dignità, faticando per il raggiungimento della salute e del benessere della persona malata. E anche se non si cerca primariamente la guarigione, perché magari è impossibile, ciononostante non si abbandona l’impegno: ciò che è inguaribile, infatti, non è incurabile.
L’impegno dunque è sempre doveroso, e non si giustifica solo nell’imminenza della possibilità del risveglio?
Certo, il problema non è legato solo alla possibilità di risveglio. A volte si dice che se non c’è possibilità di risveglio non vale la pena, ma non è assolutamente così. Rimane comunque il fatto che è assai difficile porre dei limiti assoluti. Dal punto di vista della fede, c’è chi crede nella possibilità del miracolo, e nessuno deve togliere loro questa speranza. Ma anche dal punto di vista scientifico, dobbiamo dire, anche alla luce degli studi più avanzati, che non si può parlare di stato vegetativo “permanente”, bensì “persistente”, che è cosa ben diversa. È una condizione di vita che può cambiare nel tempo, anche positivamente.
Veniamo dunque al caso specifico della sentenza Englaro. Il Vaticano, ancora ieri, ha ribadito che interrompere l’alimentazione sarebbe una «mostruosità»: qual è il suo giudizio?
Parto da un’amara constatazione:qualche anno fa, quando ci fu il caso di Terry Schiavo, tutti avevamo pensato, con un minimo di sollievo, che almeno qui in Italia eravamo lontani dall’ipotesi che si potesse lasciar morire qualcuno di fame e di sete. Convinzione rafforzata quando il Comitato di Bioetica si pronunciò sul fatto che il sondino non è una terapia, ma una cosa dovuta. Ora purtroppo dobbiamo dire il contrario: se tutto sarà confermato, una donna morirà di fame e di sete. Questo è del tutto inaccettabile.
Ritorniamo alla sua esperienza personale: quanto è stato utile, dopo quello che la sua famiglia ha vissuto, impegnarsi nelle opere che nel tempo avete costruito?
A noi è servito molto. Ogni volta che noi vediamo un ragazzo che si risveglia dal coma, il nostro pensiero va a Luca e alla scommessa, da lui e da noi persa, ma che altri possono vincere. Ogni giorno noi facciamo questo, e lo facciamo per non dimenticare; e questo, nella pratica, si traduce nel fare qualcosa per gli altri. Lo dico con molta modestia, senza enfasi: noi tutti dell’associazione perseguiamo questo desiderio di andare avanti nella ricerca, da cui si nutrono molte speranze.
Chiaramente, ogni volta che qualcuno la pensa diversamente da noi, è un po’ una mezza sconfitta: il fatto che Eluana possa morire in questo modo è una sconfitta anche per noi. Ma, ripeto: il caso Eluana, comunque vada a finire, non deve spazzare via tutto l’impegno, anche economico, verso le strutture e i centri di cura per persone che vivono in condizioni simili a quella di Eluana. Altrimenti ci sarebbe un danno grave per tutti.
UNIVERSITA'/ 2. Decreto Gelmini: rivoluzionarie le novità sul diritto allo studio - Tommaso Agasisti - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Il decreto Gelmini per l’Università, approvato dal Consiglio dei Ministri qualche giorno fa, ripone al centro della questione politica (per fortuna) il tema universitario. I punti rilevanti del decreto Gelmini, a mio parere, sono tre:
- Risorse per gli studenti;
- Modifica del sistema di finanziamento delle università (FFO, Fondo di Finanziamento Ordinario);
- Modifica del sistema dei concorsi.
La prima di queste novità è rivoluzionaria, perché si configura non come un intervento “populista” a favore degli studenti, ma come un vero e proprio “intervento di sistema”. I 135 milioni di euro in più per il fondo di finanziamento delle borse di studio consentirà (se le Regioni faranno il loro dovere) di dare la borsa di studio a tutti gli aventi diritto, cioè a tutti gli studenti “meritevoli e privi di mezzi”. Chi conosce la storia di questo fondo sa che è l’incremento di risorse più forte di sempre (per ricordare, l’ultimo incremento significativo su quel fondo avvenne 3 anni orsono ad opera del ministro Moratti, ed era stato di soli 30 milioni). Questo intervento è rivoluzionario perché “ribalta” la logica del finanziamento del sistema universitario, instillando un (seppur ancor debole) incentivo a meccanismi di mercato, nel senso positivo del termine. Oggi, il “mercato” universitario è molto viziato: uno studente capace, meritevole e privo di mezzi, non può scegliere in quale università andare a studiare, poiché molti di coloro che hanno diritto alla borsa di studio, poi non la ricevono per mancanza di mezzi. Ancor più vergognoso è che questa situazione sia “a macchia di leopardo”, cioè mentre in Lombardia, Piemonte, e altre (poche) Regioni tutti gli studenti idonei ricevono la borsa di studio, cosi non è nella maggior parte delle Regioni. In media, più del 20% degli idonei non riceve la borsa di studio per mancanza di fondi; ed in alcune Regioni del Meridione questa percentuale supera il 50%. Ecco perché un intervento che restituisca libertà di scelta a questi studenti deve essere accolto con grande piacere, e probabilmente l’effetto indotto sarà anche quello di vedere la domanda degli studenti meno vincolata da ragioni economiche. Un ulteriore aspetto: chi aveva sollevato il tema dei tagli a questo fondo nelle scorse settimane? Tutti a preoccuparsi che il taglio dei fondi alle università avrebbe impedito di pagare gli stipendi; nessuno preoccupato per le borse di studio degli studenti. Oltre a queste risorse, sono stati stanziati ulteriori 65 milioni di euro per le residenze universitarie: anche questo è positivo per le ragioni di cui sopra, e perché queste risorse saranno utilizzate per finanziarie progetti già selezionati da una commissione qualificata nei mesi scorsi.
Ultime due riflessioni sul fondo delle borse di studio. Primo, le risorse dovranno essere consolidate anche negli anni a venire (e non essere solo una tantum), altrimenti l’intervento sarà inutile. E secondo, dovranno essere rivisti i criteri di merito scolastico e di reddito con cui si diventa idonei alla borsa di studio: oggi i criteri di merito sono troppo blandi, e quelli di redditi troppo stringenti, soprattutto per il Nord Italia dove il reddito medio delle famiglie è più elevato. Inoltre, l’importo delle borse di studio è ancora troppo basso al fine di consentire una reale libertà di scelta; i prossimi cambiamenti nel settore dovrebbero riguardare anche quest’aspetto.
Il secondo intervento del decreto Gelmini è altrettanto positivo. In pratica, si stabilisce che il 7% del fondo nazionale per le università (FFO) vada ripartito in conformità a criteri di valutazione, e non sulla base della quota “storica” ricevuta. Il principio non è nuovo, è in vigore dal 1998; nel 2003, la quota così ripartita era arrivata al 9.5%. Poi, il processo si è bloccato: negli ultimi anni, le risorse usate in questo modo virtuoso sono state meno dello 0,5%. Ora, per la verità, il provvedimento Gelmini non è un intervento premiante, perché il FFO per l’anno prossimo (2009) è rimasto invariato, per il 2010 si prevede una sua riduzione del 10% circa (è questo il motivo della protesta dei giorni scorsi). Nel 2009, quindi, qualche università perderà risorse a favore di altre; nel 2010, tutte perderanno qualcosa, ma qualcuno più e qualcuno meno. Proprio così: si tratta proprio di quei “tagli selettivi” invocati dalla parte migliore, più efficiente del sistema universitario. La norma conferma dunque che le preoccupazioni espresse sulla legge n. 133/2008 sono state comprese dal Governo, che ha deciso che non s’interverrà in eguale misura su tutti. Nel 2009, a qualcuno sarà dato di più, a qualcuno di meno; nel 2010, a qualcuno sarà tagliato di più, a qualcuno di meno (sempre che i tagli complessivi siano confermati). Ora, l’unico problema rimane definire quali sono le regole che guidano questa valutazione, e farlo in tempi brevi. A tal proposito, mi permetto un consiglio. Esiste già un modello di valutazione, proposto dal CNVSU (il Comitato di Valutazione Nazionale), che incorpora anche i risultati del CIVR (il Comitato di Valutazione della Ricerca); tale modello è stato utilizzato negli ultimi anni – sebbene per una quota di risorse insignificante. Per l’anno prossimo, si usi questo modello (per quanto ancora perfettibile), e si lavori per correggerlo laddove necessario per una nuova applicazione nel 2010.
Infine, il tema dei concorsi. In generale, il provvedimento dice tre cose: che il blocco del turnover è mitigato (dal 20% al 50%), che la maggior parte dei nuovi posti (60%) deve essere destinato a giovani ricercatori, e che le nuove commissioni giudicatrici saranno sorteggiate anziché elette. In linea generale, le intenzioni sono buone, ed è positivo che si sia ridotto il blocco delle assunzioni che, sicuramente, è il punto da criticare dell’azione del Governo fino ad ora.
Negli ultimi tempi, anche guardando all’esperienza internazionale, mi sono convinto che l’unica vera riforma della materia sia l’abolizione dei concorsi, e l’esplicitazione del meccanismo già oggi vigente nei fatti: la cooptazione. Qualunque riforma del sistema dei concorsi non può essere in grado di evitare i comportamenti opportunistici di chi vuole fare entrare, nella carriera accademica, amici, parenti, ecc. E, nonostante quello che pensano autorevoli commentatori nel nostro Paese, non è in teoria per nulla scandaloso che parenti lavorino nella stessa università: nel mio periodo di ricerca nell’ottima Lancaster University (UK), ho lavorato con due docenti che erano marito e moglie. Uno più bravo dell’altra: i loro curriculum parlano da soli. Ma i loro curriculum si possono vedere online; e la qualità della loro didattica e della loro ricerca (come quella di tutti i docenti inglesi) è regolarmente monitorata e valutata. Allora, sarebbe forse meglio abbandonare la strada dei concorsi, ed accettare che in una professione altamente qualificata come quella accademica l’unica soluzione è la cooptazione degli altri professionisti: che, però, devono assumersi le responsabilità delle loro azioni, esplicitando quali sono le loro scelte, cioè chi sono le persone (docenti e ricercatori) su cui puntano, che ritengono migliori e che quindi debbono essere assunti nelle università. Rimarranno gli abusi, probabilmente, e ci saranno ancora facoltà che chiamano solo gli amici degli amici e i parenti dei parenti; ma almeno lo vedranno tutti, e non si potrà far finta di non vedere.
Un’ultima nota. Il tentativo di regolare in modo puntiglioso le regole per le assunzioni (e i relativi blocchi) è, lo dice l’esperienza, fallimentare. Se proprio si vuole tentare, però, si usino nel frattempo gli strumenti che già ci sono. Ad esempio, esiste già oggi una legge che impedisce alle università che spendono più del 90% del FFO in stipendi di assumere altro personale: un vero e proprio blocco delle assunzioni. Negli ultimi anni, però, questo blocco non ha impedito alle università “viziose” di continuare a bandire concorsi e assumere docenti. Il Governo, allora, potrebbe evitare di scrivere nuove norme sui concorsi, e applicare quelle già esistenti che, in questo caso, sono coerenti con gli obiettivi dichiarati dal Governo stesso.
KENYA/ L'impronta del fondamentalismo somalo dietro il rapimento di suor Maria Teresa e Caterina? - INT. Luigi Anataloni - mercoledì 12 novembre 2008 – Il Sussidiario.net
Un vero e proprio assalto in piena notte. Una sessantina di uomini armati irrompe nel convento delle missionarie contemplative di Charles de Foucauld nella località keniota di El-Uach rapendo un gruppo di religiosi e due suore italiane, Maria Teresa Oliviero di 61 anni e Caterina Giraudo, di 67. Padre Luigi Anataloni è missionario da 21 anni in Kenya. Conosce molto bene le dinamiche interne al Paese essendo anche giornalista e direttore del giornale Seed.
Don Luigi, come si stanno vivendo queste ore in Kenya?
Personalmente ho ricevuto molte telefonate da diversi ordini di suore. Ovviamente si vive con partecipazione e unità di preghiera con la comunità dei missionari contemplativi di Charles de Foucauld. Non possiamo fare di più. Per quel che invece riguarda la gente qui a Nairobi occorre dire che la notizia che è apparsa su tutti giornali e di cui han parlato radio e televisioni, ha avuto una vasta reazione. Qualcuno si è chiesto come mai, anche in un Paese relativamente tranquillo come il Kenya, possano accadere tali cose. Ma è un'emozione presto soffocata dalle altre migliaia di problemi che assillano ogni giorno la popolazione. Per cui in queste ore si sta vivendo quanto accade forse con un po' meno di emozionalità rispetto a quanto si sente in Italia.
È da considerare anche il fatto che la zona del rapimento è talmente remota, rispetto alla capitale, che viene quasi avvertito come un episodio avvenuto in terra straniera.
Che caratteristiche presenta il villaggio di El-Uach e la zona del rapimento?
È il punto di confine dove si incontrano Etiopia, Somalia e Kenya. Da Mandera, la città più importante della zona che si trova sulla punta di questo triangolo, occorre spostarsi per ben 230 chilometri più a sud. Lì si raggiunge El-Uach, il posto dove rimane il convento dal quale sono state rapite le due sorelle. Si trova appena a un grado sopra l'Equatore ed è a soli 5 chilometri di distanza dal confine con la Somalia. Siamo nella diocesi di Gari Hills, una zona che è grande come l'intera Italia Settentrionale ma che ha solo 70.000 abitanti. È un'area quasi tutta desertica, con poca acqua corrente. La maggior parte della gente vive di pastorizia e agricoltura e quando non piove per mesi è un disastro.
Sono dunque zone pressoché abbandonate anche dalle istituzioni?
Dal punto di vista politico si tratta di zone dove il governo è presente pochissimo. I villaggi sono pochi e sperduti, le infrastrutture non ci sono. Non è una zona di interesse economico rilevante e, soprattutto, ospita valli e pianure abitate per lo più dai somali. Il governo ha sì delle caserme di polizia, rare scuole e insegnanti, impiegati e ufficiali governativi, ma sono troppo pochi per non essere sparsi in un enorme territorio. I kenioti da queste parti sono praticamente forestieri anche loro come lo siamo noi bianchi. Si tenga presente che, in una zona somala, i Bantu si riconoscono subito. Come i cristiani.
Come sono considerati i cattolici in Kenya?
Sono assolutamente ben considerati in quanto in Kenya i cristiani rappresentano oltre il 60% della popolazione. Di questi il 20% sono cattolici. Poi c'è circa un 10% di musulmani e altri di religione tradizionalista e animista.
Nei luoghi del rapimento però i cristiani sono una piccola minoranza. Basti pensare che nella diocesi di Gari Hills sono soltanto il 10% della popolazione. La maggior parte dei cattolici poi non sono locali ma per lo più commercianti e ufficiali governativi.
Presume che dietro questo rapimento si possa confermare una matrice terroristica?
Si fanno moltissime ipotesi, ma nessuno sa niente di preciso. Non ci sono state rivendicazioni di alcun tipo. Ho immediatamente contattato il responsabile delle suore missionarie dei contemplativi di Charles de Foucauld che mi ha confermato di non aver avuto nessun contatto coi rapitori.
Ma ci sono degli indizi che potrebbero palesare la presenza dei fondamentalisti somali dietro questa operazione.
A quali indizi si riferisce?
In primo luogo occorre considerare i mezzi che sono stati impiegati. Secondo i testimoni oculari si tratta del tipo di Pick-up utilizzato dai somali, ossia con le mitragliatrici incorporate. Poi la modalità di “firmare” con un razzo anticarro è tipica di questi terroristi. L'armamento e i mezzi che hanno usato non sono assolutamente ritrovabili nel Kenya.
L'altro indizio è che la gente locale sta simpatizzando moltissimo con le suore. Sono estremamente dispiaciuti di quello che è successo e, anche se sono per lo più musulmani, stanno manifestando in tutte le maniere la propria solidarietà nei confronti delle religiose.
Questi due indizi farebbero pensare a persone che vengono o da altri Paesi o comunque che sono spalleggiate dalla Somalia. Attualmente quest'ultima è terra di nessuno. Addirittura ci sono voci che parlano di un campo di addestramento di Al Qaeda nei pressi del luogo dove è avvenuto il rapimento.
In quale direzione si stanno muovendo le autorità per risolvere questa terribile situazione?
Le autorità si sono mosse, primo fra tutti il nostro ministero degli esteri e la nostra ambasciata.
Le autorità locali stanno cercando di coinvolgere gli anziani del posto. La presenza del governo c'è, ma come ho detto prima, non è molto efficace. A causa della situazione geografica, la dispersione e la difficoltà di trasporto, ci vorrebbe una potenza logistica per controllare così tante migliaia di chilometri di confine che richiederebbe un costo enorme anche per un paese come l'Italia.
Per questo una realtà davvero efficiente risulta essere quella degli anziani del posto. Un meccanismo secolare che ha creato una capillare rete tribale di informazioni e che ha una forte autorità persino sui terroristi. Il loro sistema va avanti da secoli.
SIGNORI GIUDICI, PENSATECI - AVREMO LA PRIMA CONDANNA A MORTE REPUBBLICANA? - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 novembre 2008
Ai Signori Giudici chiediamo solo una cosa: non dateci una condanna a morte. La prima condanna a morte dell’Italia repubblicana. Un genere di condanna che l’Italia ripudia – vantandosene dinanzi al mondo – e che mai nessun motivo di rivalsa, di odio, di giustizialismo ha introdotto sarà invece inaugurata in nome di una malintesa idea di pietà? È quasi sempre in nome del bene che gli uomini compiono qualcosa di oscuramente cattivo. Se la Corte darà il via libera alla volontà del padre di staccare l’alimentazione per Eluana e se egli troverà qualche centro medico disposto a farlo, avrà luogo l’esecuzione e l’inizio della pubblica estenuante agonia.
Ai Signori della Corte chiediamo di considerare tutto questo: a una ragazza inerme, che non può né esprimere né difendere le sue reali, attuali volontà, si cesserà di dare alimento. A una ragazza, avvolta sì in un silenzio misterioso, ma non arida dentro, tanto da affrontare un’estenuante emorragia come le è capitato alcune settimane fa, si vorrebbe ora dare quella morte da cui ella con le sue sole forze si è invece tirata fuori. E questo perché qualcuno - a differenza di altri - non sopporta più questa dura, triste condizione. Il padre in coscienza ha voluto combattere questa strana battaglia perché sua figlia muoia. Non ce la faceva più. È comprensibile. Meno comprensibile l’accanirsi non perché le cure e la pazienza di altri sopportino la pena e le premure, bensì per la sua morte. Per toglierla di torno. Anche se non dà nessun fastidio, e già ci sono le voci di chi, come le suore che l’accudiscono, dice: la teniamo noi. Il problema, ora che i magistrati hanno scelto di occuparsi di questa faccenda, non è più, per così dire una drammatica faccenda privata tra il signor Englaro e sua figlia. È una faccenda di diritto. E il diritto italiano non contempla la condanna a morte. Per nessuno. Neppure per chi compie la strage o lo stupro più efferato. Vogliamo cominciare da una ragazza?
Il dilemma ora è: uno può chiedere e ottenere che un altro muoia? A meno che non si consideri Eluana già morta. Pensate a lei così, Signori della Corte? La medicina, secondo i protocolli internazionali, non classifica Eluana tra i morti. E nemmeno tra coloro che sono tenuti in vita con inutile accanimento. Voi la condannerete a morte? O la considererete come già morta? E siete certi che la sue condizioni siano davvero 'irreversibili', come lo stesso Pg della Cassazione ieri è sembrato chiedervi?
Bisognerà dunque avvisare tutti coloro che hanno parenti e amici in condizioni simili, e non sono pochi. Dire a loro: la Suprema Corte li considera già morti, o condannabili. Il nostro è un appello senza potere e senza alcun velo politico. Abbiamo solo voglia che in Italia non si condanni a morte alcuno. Tanto meno una ragazza inerme. Nel tenerla in vita, secondo le condizioni che il destino ha misteriosamente riservato a lei, non si fa torto a nessuno. Nemmeno a lei, poiché nessuno può comunque arrogarsi il diritto di interpretare ora la volontà di Eluana. Le persone cambiano. La vita, lo sappiamo, ci modella, a volte radicalmente. Ma se si dà il via libera alla esecuzione allora si stabilisce che in Italia, a determinate condizioni, c’è la pena di morte. E che tali condizioni non sono d’esser assassini o stupratori, o terroristi. Ma la condizione è d’esser inerme, 'inutile', insopportabile, e nelle mani degli altri. Io non credo che i Signori della Corte siano favorevoli alla pena di morte. Non lo voglio credere. Magari lasciassero sospesa la vicenda, incalzando piuttosto il Parlamento a fare leggi chiare, a cui tutti attenersi e non variabili da giudice a giudice, da medico a medico. Non si sta 'solamente' discutendo di una ragazza, a cui certo tutti auguriamo un corso sereno del suo oscuro destino, ma di un caso le cui conseguenze varranno per tutti. Il suo povero corpo, la sua persona, che sembrano valere più niente, secondo la visione di chi la vede già come morta, potrebbero essere invece quelli di un’incredibile eroina. L’ultima muta barriera, la estrema insurrezione contro una strana volontà di introdurre nella nostra già feritissima Italia l’uso della condanna a morte.