Nella rassegna stampa di oggi:
1) COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
4) 28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
5) 28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
6) Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
7) Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
8) INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) «Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
11) IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
12) Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008
COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Giunta ormai alla dodicesima edizione, la Giornata Nazionale della Colletta alimentare è diventata ormai un appuntamento fisso per molti italiani. Non solo per le migliaia di volontari che ogni anno permettono la realizzazione di questo grande gesto di carità, ma anche per tutti coloro che, facendo la spesa come tutti gli altri giorni, decidono per una volta di comprare qualcosa in più, facendo così la spesa anche per chi non se la può permettere.
Un gesto semplicissimo, dunque, che in questa sua immediatezza è capace però, come nota Antonio Socci, di «comunicare il cuore» di chi ha dato origine alla grande realtà del Banco alimentare.
Socci, la Colletta alimentare è una cosa un po’ diversa rispetto alla normale beneficenza: è un gesto concreto che coinvolge personalmente chi lo fa. Possiamo dire che, in questo rendere tutti partecipi e protagonisti, è anche un gesto con un valore educativo?
C’è in effetti un valore educativo per la persona singola, nonché un valore culturale per la società, per tutta la comunità umana in cui viviamo. Per la singola persona si tratta di un fatto, un’opera che mette in sintonia con il cuore di chi l’ha pensata. Parlo innanzitutto per me: anch’io andrò sabato a fare la colletta, e a sistemare i pacchi insieme ad altre persone, e quando faccio questo penso sempre a come è nato il Banco alimentare, cercando di immedesimarmi con il cuore di don Giussani. Penso al suo sguardo, e mi immagino la sua espressione, il suo sentimento, il modo con cui sapeva empaticamente sentire il bisogno degli altri. Questo è il cuore della grande carità cristiana: una cosa molto grande, molto bella, un fatto che spalanca. E credo che sia una cosa tutta da vivere; direi anzi che, vissuta con questo cuore, la Colletta è in grado di far vivere la vita intera in un altro modo.
Lei accennava al fatto che in questo gesto c’è un valore per la società intera. Un rilievo importante, in un momento in cui la gente vive con paura gli effetti dell’attuale crisi economica.
Per spiegare questo mi rifaccio a un libro estremamente interessante, che ho letto di recente, intitolato “Benedetta economia - San Benedetto e san Francesco nella storia economica europea”: un libro straordinario che permette di capire l’importanza del cristianesimo nello sviluppo dell’Europa, non solo attraverso il monachesimo – cosa già nota – ma anche attraverso il movimento francescano. Una prospettiva che contiene molti insegnamenti anche per l’oggi. In particolare, fra le attualissime conclusioni cui gli autori arrivano, c’è l’indicazione dei due elementi che hanno dato maggiore dinamismo allo sviluppo dell’economia europea: il primo fattore è la gratuità, per cui attraverso il movimento francescano è nato il mercato moderno, nella sua accezione migliore; il secondo è il carisma, vale a dire il fatto che ciò che è nato da grandi personalità come Benedetto o Francesco ha creato un dinamismo e un’intelligenza della realtà comprensiva di tutti i bisogni. Questa è una lettura veramente interessante, molto utile adesso, soprattutto in prossimità di grandi gesti di carità come la Colletta alimentare e poi le Tende di Natale, organizzate da Avsi.
In che senso tale giudizio aiuta a capire il valore di questi gesti di carità?
È un giudizio culturale che ci permette di capire che il cuore cristiano in ogni epoca si esprime con questo sguardo di carità che anche noi viviamo in questi gesti, in cui è evidente sia la gratuità, sia il carisma che li ha generati; ma al tempo stesso manifesta un’intelligenza delle cose e un’intelligenza della realtà che è stato storicamente assai fecondo.
Questo sembra richiamare a quanto dice Benedetto XVI nella “Deus caritas est”: «non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore». La carità è più della giustizia?
La giustizia mette in campo il ruolo dello Stato, che ha una funzione equitativa; mentre la carità dice qualcosa in più, perché parla alla persona. È dunque un elemento più umano e più ragionevole. La società non è una massa amorfa che viene plasmata dallo Stato: quando è così è una società non libera. La società è libera se fatta da uomini liberi, che si muovono con responsabilità e con intelligenza. In questo senso la carità è una dimensione della persona e non può essere una dimensione dello Stato, il quale si occupa della giustizia. La carità è un cuore, e quello che conta è che in una società ci siano persone, volti, carismi che fanno vedere questo cuore in atto, e per cui contagiano.
E come dice il Papa è una cosa di cui ci sarà sempre bisogno.
Sì, altrimenti c’è il grosso rischio che segnalava Eliot: esiste una società buona se gli uomini non sono buoni? È questo il punto: non può essere lo Stato a fare la società buona. Ciò che fa buoni gli uomini non è certo una legge o un sistema, nemmeno il più perfetto.
Lei diceva che questo è un bene che contagia. Lo si vede ogni anno dalla gente che viene coinvolta e che si commuove di fronte al gesto di gratuità della Colletta; si sono commossi anche vari politici alla presentazione fatta quest’anno alla Camera…
Questo non mi sorprende, anche perché troppo spesso in modo manicheo pensiamo ai politici come se fossero i “cattivi”, mentre in realtà sono persone normali. Comunque, la spiegazione di un tale “contagio” di stupore e commozione sta nel fatto che evidentemente una cosa così corrisponde profondamente al cuore di ognuno. L’iniziativa in sé genera corrispondenza, ma è soprattutto il cuore che c’è dentro all’iniziativa che dà questa corrispondenza e quindi questa commozione. Se tutti fossimo educati a un cuore del genere, parafrasando una ben nota frase di don Giussani, staremmo tutti meglio. La Colletta è un gesto umano e ragionevole perché è un gesto da cui traspare quel cuore, quell’intelligenza, quella carità. Questo commuove, e contagia.
COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Una società che non combatte e risolve il problema della povertà è una società dove la fiducia cala, una società che cresce meno, una società che diventa più violenta». A dirlo è Corrado Passera, Ceo di Intesa-San Paolo, uno dei più grandi gruppi bancari europei. «L`impegno per combattere la povertà - continua - è giusto in sé. Ma è anche indispensabile se si vuole tenere insieme la società e non rischiare derive pericolose: non è certo il nostro caso, ma la storia dimostra che quando una parte della società entra in uno stato di stress insopportabile, ne soffre la democrazia, e la tenuta delle istituzioni diventa a rischio».
Sabato prossimo, 29 novembre, c’è la giornata nazionale della Colletta alimentare, la raccolta di alimenti che si svolge in tutta Italia organizzata dal Banco Alimentare. In piena crisi economica, quando verrebbe da pensare che tutti vogliano tenersi stretto quello che hanno, la carità non si ferma e il Banco lavora per venire incontro a chi ha bisogno. «Quella del Banco Alimentare è una formula straordinaria per efficacia. Aiuta concretamente milioni di persone, contribuendo a risolvere la necessità primaria del cibo. Lo fa in maniera continuativa e non estemporanea con una macchina organizzativa molto efficiente e poco costosa. In più coinvolge nel dono milioni di persone, che è un fatto fondamentale. Lo stesso risultato economico raggiunto con un unico assegno avrebbe immensamente meno forza di quello che scatena il Banco Alimentare, grazie alla larghissima partecipazione che sa sviluppare».
Ma non si può parlare di povertà senza scomodare le politiche di welfare. Alle quali la crisi economica manderà, prima o poi, il “conto” dello stato di sofferenza sociale che si verrà a creare nel Paese. «Viviamo comunque - dice Passera - in un continente e in un paese che assicura un livello di welfare che il resto del mondo si sogna. Quando qualcuno disdegna il welfare come conquista della nostra società occorre ricordarlo e non dimenticarsi che il resto del mondo guarda all`Europa, e per certi aspetti all`Italia, con grande invidia. Detto questo, l`attuale welfare, nella sua sostenibilità soprattutto nel campo della sanità, dell`assistenza, della previdenza, sia per l`effetto dell`invecchiamento (che è un`alta conquista dell`umanità) e della natalità, sia per l`effetto dell`immigrazione, è purtroppo a rischio e deve ristrutturarsi per sopravvivere e per continuare a garantire il suo ruolo».
Occorrono quindi altre soluzioni e l’incapacità dello Stato di far fronte al costo sociale della povertà è sempre più evidente. «È chiaro che il “pubblico” - prosegue Passera - non sarà in grado di assicurare da solo il livello di servizi di cui una società in grande trasformazione come la nostra avrà bisogno nei prossimi anni. Questo lascia spazio al ruolo che il non-profit, l`impresa sociale, il volontariato potranno svolgere nel nostro Paese. Con le nostre banche e le fondazioni nostre azioniste, nel rispetto di un`antica tradizione, abbiamo sempre sostenuto la nascita e lo sviluppo di progetti nel terzo settore».
Resta aperto il problema di una politica del credito. Di fronte alla povertà c’è chi non ha mai smesso di invocare un salario minimo per tutti, o forme più calibrate di garanzia come il micro credito. «Dobbiamo ulteriormente facilitare l`accesso al credito a tutti quei settori, come l`impresa sociale, che lo meritano ma che hanno avuto difficoltà in passato a trovare ascolto. Nel Sud del mondo il micro-credito consiste in prestiti di pochi dollari, da noi il micro-credito prende forme diverse. Micro-credito è, per esempio, il “prestito d`onore” agli studenti, micro-credito è finanziare i cassintegrati fino a quando l`Inps interviene con il sussidio, oppure finanziare le famiglie meno abbienti per assumere una badante».
Tra un intervento come questo e il “minimo salariale”, la posizione di Passera è molto elastica. «C`è spazio per tutto - dice -, sia per un terzo settore più forte, sia per ammortizzatori sociali di cui l`Italia oggi manca. Oggi soffriamo di rigidità antistoriche e di una tutela inadeguata contro la disoccupazione, quando dovremmo invece puntare su maggiore flessibilità e adeguati ammortizzatori sociali. Dobbiamo evitare però gli errori fatti in altri paesi, dove un “eccesso” di ammortizzatore sociale disincentiva l`uscita dalla disoccupazione stessa».
Affrontando un tema caldo come quello della povertà, non si può non parlare, come sempre accade nel nostro Paese, di contraddizioni geografiche, crescita, redistribuzione della ricchezza. «Su molti interventi c`è grande consenso, il fatto è che poi non facciamo ciò che diciamo. Un caso emblematico - prosegue Passera - è quello delle infrastrutture e dei decenni necessari a realizzarle. I nostri meccanismi decisionali in tutti i settori delle istituzioni e della Pubblica amministrazione si bloccano con troppa facilità e il costo per il Paese è enorme. Quanto alla redistribuzione della ricchezza, è un tema squisitamente politico. Invece dobbiamo sentirci tutti responsabili di accelerare la crescita economica sostenibile. Se non c`è crescita economica non ci sono risorse da redistribuire, e da troppi anni non cresciamo abbastanza».
Di fronte a chi ha bisogno don Luigi Giussani parlava di semplice atto di carità cristiana. Viene da chiedersi se non sia proprio questo uno dei fattori di coesione, anche sociale, di cui le nostre società vivono più oggi la mancanza. «La carità - conclude Passera - ha un particolare significato per un cristiano e magari per un laico ne ha un altro. Ma il dono e il donarsi è uno dei grandi motori della società. Oggi si tende da parte di troppi a ridurre la società alla sua componente economica, considerando i cittadini solo dei consumatori e in generale le persone solo come portatrici di interessi particolari. In realtà la società si tiene insieme e si evolve grazie a valori che trascendono ciò che è conveniente e ciò che è contingente, grazie proprio a questo darsi senza misura, comunque senza calcolo».
Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
MADRID, giovedì, 27 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Arcivescovo di Siviglia, Carlos Amigo Vallejo, ha affermato questo martedì che eliminare dalle scuole pubbliche il crocifisso, “che è un segno così radicato della nostra cultura, non favorisce assolutamente la convivenza tra le persone”.
Anche l'Arcivescovado di Valladolid ha difeso questa posizione di fronte a una sentenza giudiziaria che obbliga a ritirare i crocifissi da una scuola pubblica della città.
Le dichiarazioni ai media del Cardinale Amigo Vallejo, in un intervallo della XCII Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), in svolgimento a Madrid, arrivano dopo una sentenza del Giudice per i Contenziosi Amministrativi numero 2 di Valladolid, che ordina di ritirare i crocifissi dalla scuola pubblica Macías Picavea della capitale della Castilla-León.
La sentenza afferma che la presenza di simboli religiosi nella scuola mina i diritti fondamentali di uguaglianza, libertà religiosa e aconfessionalità dello Stato raccolti nella Costituzione.
Il Cardinale Amigo si è detto in disaccordo con questa decisione, visto che “la convivenza si costruisce con il rispetto per le persone, non solo sbarazzandosi della ricchezza culturale di un Paese”.
“La cosa importante è che si insegni a questi bambini di Valladolid a rispettare i simboli religiosi di ogni religione”, ha affermato. “Mi sembra positivo che si ascolti” la società, “ma tutti, non solo un settore e a volte minoritario”.
“Abbiamo avuto dei problemi con la questione dei simboli”, ha ricordato. “Ricordiamoci del velo islamico, che ha anche portato a delle leggi in Francia”.
Fernando Pastor, dell'Associazione Culturale Scuola Laica e promotore del reclamo, ha insistito sul ritiro dei crocifissi “perché si applichi la legge e si rispettino i diritti di tutti i cittadini”, e ha riconosciuto che quando si è rivolto ai giudici tre anni fa non ha pensato alle conseguenze che avrebbe potuto avere una decisione favorevole.
La polemica si produce in un momento in cui in Spagna si verificano casi aneddotici di dichiarazioni di apostasia, depositati nei Vescovadi chiedendo che il proprio nome venga cancellato dal registro battesimale, il tutto di fronte alle telecamere e ai microfoni. Alcuni Vescovi hanno rifiutato, perché il battesimo è un fatto storico. Quello che hanno detto di poter fare è aggiungere una nota al margine dell'iscrizione nel libro battesimale, con la dichiarazione di apostasia dell'interessato.
In questi giorni, inoltre, in Spagna si sta verificando un altro fatto insolito: si creano associazioni di atei militanti con una dichiarata intenzione di sradicare tutto ciò che richiama la religione nella nostra società.
Non si tratta di non credere o di agnosticismo, ma di una militanza aggressiva contro i simboli religiosi negli spazi pubblici, una specie di uscita dalla tomba di tutti gli intolleranti che hanno favorito la persecuzione religiosa della II Repubblica spagnola negli anni Trenta del XX secolo.
La Giunta della Castilla y León ha espresso la sua disponibilità a ricorrere contro la sentenza: “Non posso condividere una parte delle argomentazioni della sentenza, secondo la quale la presenza di un simbolo religioso, come il crocifisso, è oggi in Spagna un elemento di aggressione, un elemento di indebolimento di diritti e libertà”, ha dichiarato il presidente Juan Vicente Herrera.
L'Arcivescovado di Valladolid ha chiesto il ricorso perché, in caso contrario, si potrebbe incorrere in un “evidente pregiudizio” per la cittadinanza, secondo il suo portavoce, Jorge Guerra, che ha affermato che la decisione parte da un concetto molto semplice e ridotto: “Il crocifisso, secondo altre decisioni dei tribunali, è qualcosa di più, perché rappresenta la dignità e la tolleranza delle persone”, e la presenza della croce in spazi pubblici “non obbliga le persone a manifestare alcun tipo di credo”.
Da parte sua, la Confederazione delle Federazioni di Associazioni di Genitori di Alunni e di Famiglia dell'Andalusia (CONFAPA) ha reso pubblica questo mercoledì una nota, firmata dal suo presidente Juan Mª del Pino Mata, in cui si dice che “di fronte alla situazione che si sta creando in altre regioni della Spagna riguardo alla presenza di simboli religiosi nelle scuole pubbliche” e “rispettando profondamente l'opinione degli organi giudiziari, non riusciamo a capire quale apporto negativo abbia la presenza di Gesù nella scuola”.
“Difenderemo – aggiunge – l'idea che il ritiro dei crocifissi dipenda dalle decisioni maggioritarie prese dalle associazioni di genitori di ogni centro, e il fatto che senza questo requisito non siano imposte nell'ambito scolastico le valutazioni di minoranze senza peso specifico nella nostra società a maggioranza cristiana”.
La nota conclude sottolineando che “sulla questione stanno intervenendo associazioni molto politicizzate, che non apportano alla vita scolastica nulla per il suo miglioramento e che anziché preoccuparsi della vera qualità dell'insegnamento per tutti portano solo atteggiamenti di radicalità ed esasperazione”.
In questo tempo liturgico che precede l'Avvento, come accade ogni anno, inizieranno a emergere dichiarazioni dei genitori degli alunni nelle scuole pubbliche chiedendo che non si realizzi nulla che abbia a che vedere con il Natale: né presepi, né rappresentazioni, nulla che possa anche lontanamente ricordare che alla fine dell'anno si celebra la nascita di Gesù.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – I leader della protesta anti-governo in Thailandia promettono una occupazione a oltranza dei due aeroporti di Bangkok e ribadiscono di voler “combattere fino alla morte” se la polizia procederà allo sgombero. Il primo ministro Somchai Wongsawat fa un passo indietro e abbassa i toni dello scontro, affermando di voler cercare una mediazione con i manifestanti, basandosi sul principio della “non-violenza”.
Dal 26 novembre migliaia di oppositori hanno bloccato l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi, mentre ieri è stata la volta dello scalo di Don Mueang, usato soprattutto per i voli interni. Il premier aveva dichiarato lo stato di emergenza, accusando i rivoltosi di tenere in ostaggio la nazione.
Un portavoce del governo ha aggiunto che la polizia aveva ricevuto istruzioni per procedere “il prima possibile” allo sgombero, utilizzando però “metodi pacifici”. L’esecutivo ha chiesto alle forze dell’ordine di aprire un tavolo di trattative con i manifestanti; in caso di rifiuto gli agenti avrebbero l’autorizzazione a procedere, mettendo in pratica “tutto il necessario per riaprire gli aeroporti, basandosi sul principio della non-violenza”.
Al contrario, i membri dell’Alleanza popolare per la democrazia (Pad) ribadiscono la linea dura, confermano di essere pronti a “difendersi con ogni mezzo” e di voler restare negli aeroporti "fino alle dimissioni di Somchai”. Al momento sembra regnare una calma apparente; fonti interne affermano che vi sono alcuni funzionari dell’esecutivo impegnati in trattative con i leader della protesta.
Il governo riferisce inoltre che l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi rimarrà chiuso almeno fino al 29 novembre; per favorire il rientro di una parte dei turisti ancora bloccati in Thailandia, l’esecutivo ha predisposto alcuni voli in partenza da una base militare nei pressi della capitale.
Somchai ha deciso di restare “a tempo indefinito” a Chiang Mai, nel nord del Paese, a causa delle “tensioni” fra l’esecutivo e le forze armate. E proprio a Chiang Mai sarebbe in agenda un consiglio dei ministri straordinario per far fronte alla crisi.
Il 27 novembre Anupong Paojinda, comandante dell’esercito thailandese, aveva invitato il premier a rassegnare le dimissioni e allo scioglimento del parlamento. Il capo dell’esercito, molto influente nel Paese, ha però negato l’ipotesi di un colpo di Stato dei militari e ricorda che il governo mantiene ancora la “piena autorità” sul Paese.
28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
Hanoi (AsiaNews) – Si fanno sempre più evidenti i connotati politici del processo che le autorità di Hanoi stanno organizzando contro i cattolici che hanno preso parte alle manifestazioni dei parrocchiani di Thai Ha, che chiedevano la restituzione del terreno della parrocchia, requisito dallo Stato. Non contenti di impedire a due degli imputati di vedere il loro avvocato, le autorità di Hanoi stanno infatti organizzando il processo in modo che sia anche estremamente difficile assistervi.
In primo luogo la data. Da tempo si sa che il 5 dicembre – giorno di inizio del procedimento giudiziario – ci sarà la cerimonia di consacrazione del nuovo vescovo ausiliare della capitale, mons. Chu Van Minh. Il che vuol dire che i sacerdoti saranna impegnati in cattedrale. Per consuetudine poi, i fedeli laici, e soprattutto quelli più impegnati, partecipano in gran numero a tali cerimonie e quindi anche loro saranno occupati e, come i preti, non andrnno in tribunale.
Non basta. La legge vietnamita prevede che i processi siano pubblici, a meno che non mettano a repentaglio la dignità del querelante. E non è questo il caso. Ma l’avvocato degli accusati, Le Tran Luat, ha fatto sapere, come riferisce Eglises d’Asie, che gli imputati sono stati avvertit, a voce, che per assistere a questo processo occorre presentare una domanda scritta. Il che, nota l’avvocato, è in palese contraddizione con il principio del processo pubblico e riflette l’intenzione di limitare il numero dei presenti. L’obbigo della richiesta scritta, inoltre, permette di sapere chi vuole esserci e ha sapore chiaramente intimidatorio.
Non basta ancora. E’ stato annunciato che il procedimento non si svolgerà al tribunale di Hanoi, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato popolare (il municipio), in via Hoàng Cau, all’interno del distretto di Dong Da. E il 15 novembre un delegato del Comitato del popolo andò al convento dei Redentoristi, che hanno la cura della parrocchia di Thai Ha, dicendo di volere un incontro urgente. Una manovra chiaramente diversiva, mentre "centinaia di persone si riunivano per attaccare la cappella".
Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
George Orwell parlava di neo-lingua, cioè del tentativo del potere, nemico dell’uomo, di dare alle parole più vere e più sacre della vita un significato contrario a quello che il cuore dell’uomo ha sempre loro attribuito.
«Condannati a vivere, libertà di morire, pietà per la morte, cinismo di fronte alla strenua difesa della vita»: i mezzi di comunicazione sono ormai stracolmi di simili affermazioni contraddittorie.
Del resto è storia vecchia: più di 4000 anni fa a Babele si architettava la stessa cosa. Ciò nonostante, ogni volta, l’uomo è miope di fronte a certe devianze. Anche per questo la Chiesa, all’inizio di ogni anno liturgico, durante il periodo di avvento, pone ad esempio della vita dei cristiani Giovanni il Battista, il più grande fra i profeti.
Sì, profeta, nel senso greco di pro-fétes, di colui che indica presente ciò che è già nascostamente in atto nella storia. Il Battista ha additato ai suoi contemporanei Colui che veramente compie l’eugenetica dell’umanità. Colui che rende veramente buona ogni nascita, perché certa di un compimento di bene.
Ogni tempo ha i suoi profeti. Abbiamo recentemente visto un documentario sulla vita di uno che fu, davvero, un Battista per la sua generazione. Un vescovo-profeta tanto grande quanto sconosciuto ai più: Clemens August von Galen.
Di fronte all’avvento del Führer, egli fu tra i primi a riconoscerlo come verführer (cioè come seduttore, anticristo. (Nel 1933 in una trasmissione radiofonica Dietrich Bonhoeffer definisce Hitler non un führer (conduttore) ma un verfüher (seduttore). La trasmissione viene subito interrotta).
Prima che un’operazione dispotica di potere dalla connotazione politica, quella di Hitler fu un’operazione culturale tesa a modificare le coscienze.
La eugenetica di stampo hitleriano fece leva sulla conservazione della razza tedesca riconosciuta come ariana, e ideò pertanto un programma di valorizzazione della stessa (decretata come la sola degna dell’appellativo umano). Iniziò così lo sterminio dell’uomo disabile, o diversamente abile, o impotente in qualunque delle sue funzioni. Un’operazione che sollevò l’indignazione della Chiesa e che trovò, appunto, nel vescovo von Galen una delle voci più chiare e autorevoli. Il dramma della shoa, prima che essere un dramma antisemita fu un dramma antiumano. In questo contesto la Chiesa scatenò l’odio di Hitler, proprio per aver saputo smascherare in tempo reale la vera natura del progetto nazista.
Ora, come allora, la funzione profetica della Chiesa infastidisce. Nella predicazione hitleriana risuonavano parole a noi oggi tristemente familiari che, mentre pretendono di stare dalla parte dell’uomo, ne propugnano invece la autodistruzione. Se a quel tempo le idee hitleriane provenivano da un potere dichiaratamente dispotico, oggi queste stesse idee vengono sbandierate come segno di una più grande e più emancipata civiltà.
Dopo una fallace unità europea si vuole ora diffondere una neo-lingua che detti le coordinate valoriali della futura civiltà: un esperanto che odora di morte e di volontà di potere sull’uomo e sul suo mistero.
Le torri di Babele non sono passate di moda. Non interessa più raggiungere il Cielo ma testimoniare che il Cielo ormai è vuoto, occupato com’è dalle grossolane voci di un etere che sparge la sua nuova grammatica: strumentalizzare la morte e la vita, l’uomo e la donna per ridurre tutto a oggetto di consumo.
Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
Pubblichiamo questo articolo tratto dal Corriere della Sera del 26.11.08 dei nostri amici ebrei Guido Guastalla e Giorgio Israel
Molti ebrei italiani, impegnati da tempo nel dialogo con i fratelli cristiani, e cattolici in particolare, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dalla Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimono il loro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura del dialogo ebraico-cristiano e si impegnano a proseguirlo nelle forme e nei modi che riterranno più opportuni, sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, per’altro limitato, circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud ci insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono molto più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e costituiscono la corretta interpretazione di ciò che viene affermato. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate affermazioni ufficiali soprattutto del Papa nella lotta all’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pure legittima, successiva alla reintroduzione nella preghiera in latino delle affermazioni oggetto di controversia.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto attuale di una gravissima crisi planetaria che ha implicazioni morali ed etiche di grande rilevanza e di altrettanto minacciosi pericoli da parte del fondamentalismo e terrorismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o comunque di attenuarli e delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
A cominciare dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno iniziato, in condizioni ben più difficili ed ardue di quelle attuali, a proporre il problema del rapporto e del dialogo fra ebrei e cristiani nell’intento di superare millenni di incomprensioni, persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Scriveva il grande rabbino livornese, kabbalista e filosofo, Elia Benamozegh in Israele e l’umanità : «Allora, la conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli (Ml. 3,24), vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Come l’unità dei due popoli già sussiste nelle mani di Dio, in modo misterioso, noi crediamo che, se lasceremo crescere la loro capacità di ascolto e di amore, i figli di Israele e i figli della Chiesa, potranno giungere dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza tutti gli uomini di buona volontà debbono riconoscere.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura un forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica, obbiettivo questo che è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6) e «…Cessate di operare il male. Imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova» (Isaia, 1, 11-17)”.
Oltretutto ebraismo e cristianesimo hanno un terreno comune che li lega in modo assolutamente speciale, e che proprio per questo ha reso ancor più dolorose le vicende dei secoli passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Vogliamo ricordare un testo dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, pubblicato nella primavera del 2001 come prefazione a “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”. Vi si diceva: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, in questa vigna del Signore come disse il Papa durante il funerale di Giovanni Paolo II, vogliamo percorrere insieme la strada del dialogo e della redenzione e stare amabilmente insieme, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!… Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).
Guido Guastalla
Assessore alla cultura Comunità ebraica Livorno
Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”
INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Ricordava un saggio pubblicato dalla rivista Oasis che nell’atlante mondiale del terrorismo l’India ha conquistato il suo posto di rilievo ormai da parecchio tempo. Sono passati sessanta anni dall’uccisione del padre della patria, il Mahtama Gandhi, per mano di estremisti hindu, 24 da quella di Indira Gandhi ad opera dei sikh e 17 da quella di Rajiv Gandhi causata dai guerriglieri tamil. Nella più grande democrazia del mondo c’è una certa propensione ad ammazzarne i leader. Ma non si tratta solo di omicidi eccellenti, perché in questo non ci sarebbero differenze abissali dagli Stati Uniti degli anni Sessanta o dall’Italia e Germania degli anni di piombo. Le stragi accompagnano l’India moderna, che pure ottenne l’indipendenza grazie alla spettacolare campagna non violenta del Mahatma contro la dominazione inglese. Ma come è accaduto troppo frequentemente (si pensi alla Palestina o a Cipro) i britannici lasciarono dietro le spalle le braci ardenti di incendi che sarebbero ben presto divampati. E così la separazione del Pakistan, concepito come la patria dei musulmani, fu accompagnata da una terrificante violenza i cui echi non si sono mai spenti. E le periodiche insurrezioni delle caste, i conflitti etnico-nazionalisti (nel Punjab dei sikh, nel Tamil Nadu, nell’Assam), la guerra a bassa ma continua intensità con il Pakistan per il Kashmir (ne ha scritto recentemente Arundhati Roy, autrice del magnifico romanzo Il dio delle piccole cose, dedicato al dramma degli intoccabili), gli scontri politici sollevati dalle svariate formazioni comuniste. Il casus belli della recente ondata delle persecuzioni anticristiane dell’Orissa è stato l’assassinio di un leader hindu rivendicato da un gruppo maoista -meccanismi che ricordano i pogrom antiebraici nella Russia di fine Ottocento.
Massacri e attentati più familiari alla nostra immagine di terrorismo (autobombe, agguati, esplosioni nei mercati e nelle stazioni, assalti) sono relativamente più recenti. Dal 1992 fino all’altro ieri vengono enumerati oltre milleduecento civili morti in attentati di ogni genere.
I fatti di Mumbai allungano la catena, ma insieme mostrano qualcosa di diverso (o almeno lo mostrano in modo clamoroso). C’è la mano o l’idea di Al Qaeda, c’è la caccia ad americani e britannici, c’è un gruppo che dichiara il legame con il jihad, la guerra “santa” del musulmano, la cui interpretazione non è affatto univoca. Emerge cioè la natura del terrorismo globalizzato, quello che non ha una radice locale, etnica o nazionalistica, ma che di queste radici può nutrirsi; quello che non ha una origine politica, ma su di essa può prosperare: è Alien, il mostro che il cinema ha immaginato vicino a noi, dentro di noi, e che la realtà ci ha fatto conoscere “grazie” all’11 settembre. Non è circoscrivibile a una ragione ideologica o a una zona geografica, perché supera ogni tipo di barriera. Pensateci. Dall’Afghanistan in Algeria, da Israele al Libano, Somalia, Irak e Indonesia, e poi Madrid, Londra, Mosca. Un serpente nero che corre veloce sulla mappa del mondo. Lo squadrone dei terroristi veniva dal Pakistan, giurano le autorità indiane. E’ lì uno dei buchi neri del pianeta, una delle tane di Alien (come aveva presentito Bernard Henri Levy nello sconvolgente libro inchiesta Chi ha ucciso Daniel Pearl?).
STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il fondatore del PCI si sarebbe convertito in punto di morte. È quanto ha affermato mons. Luigi de Magistris propenitenziere emerito del Vaticano nonché conterraneo del pensatore alerese. Oltre al grande scalpore della notizia, restano molti dubbi. Ma una cosa è certa, Antonio Gramsci da un certo punto della sua vita in poi cambiò radicalmente alcune sue convinzioni politiche e morali. Giancarlo Lehner, storico e giornalista, studioso del comunismo e biografo di Gramsci esprime la propria opinione
È possibile che la prima educazione di stampo cattolico ricevuta da Antonio Gramsci abbia influito nel suo pensiero?
Di primo acchito direi che in questa vicenda la questione dell'educazione ricevuta si pone nettamente in secondo piano. Gramsci frequentò un asilo di suore, ma penso che la cosa non abbia avuto alcun peso nella sua riflessione interiore. Premettendo che quando si parla di “conversione” di Gramsci occorre necessariamente calcare il terreno delle ipotesi, poiché non esistono, o ancora non sono stati ritrovati, documenti scritti, andrei piuttosto a vedere quelli che sono stati i dolori di Antonio Gramsci. Induttivamente infatti si può affermare che le sofferenze subite sia dal carcere fascista sia dalla consapevolezza fortissima del tradimento dei suoi compagni di partito portò Gramsci a rivedere molte delle sue precedenti posizioni.
Quali furono i compagni dai quali si sentì tradito?
In particolar modo fu tradito da Togliatti. Questo è lui stesso ad affermarlo nelle sue lettere. Credo che non ci sia sofferenza più grave che scoprire, o comunque supporre, di essere traditi dai propri amici perché il fatto che gli avversari possano volere il tuo male rientra nella logica, mentre tutte le tue certezze si affidano ai tuoi compagni e se questi vengono meno allora crollano molte convinzioni. Si evince dalle lettere di Gramsci e dall'impianto dei suoi pensieri negli ultimi scritti che egli si allontana via via dal fondamento stesso del comunismo. Fondamento che in un primo momento anch'egli individuava nella lotta, la lotta di classe, l'intolleranza nei confronti dell'avversario politico. Gramsci si avvicinò, e anche questo è comprovato, ai grandi valori cristiani fino a mutare completamente il proprio modo di intendere i rapporti umani.
Può spiegarci in che cosa mutò questo atteggiamento?
Faccio un esempio. Un avversario forte di Antonio Gramsci sul piano politico e delle idee fu senza dubbio Amedeo Bordiga, fondatore del PcdI, il Partito Comunista d'Italia. Fu un personaggio dogmatico e di grande coerenza e fra Bordiga e Gramsci ci fu un asperrimo conflitto ideologico. Ciononostante Gramsci conservò per tutta la vita un rapporto di affettuosa amicizia, di stima e benevolenza nei confronti di Bordiga.
Questa che sembra una banalità è invece un fatto fondamentale perché si parla di un periodo storico in cui l'ideologia comunista sovietica favoriva l'eliminazione fisica dell'avversario senza mezzi termini, quand'anche questi fosse un compagno di partito. Se qualcuno osava uscire dall'ortodossia del comunismo veniva considerato un vero e proprio traditore. Gramsci invece, pur nel dissenso, conservò un rapporto esemplare verso coloro che erano ideologicamente lontani da lui.
Altri significativi cambiamenti di rotta?
C'è un recupero fortissimo del valore della famiglia, tant'è che va a ritirarsi in Sardegna, appena esce di prigione e ne ha l'occasione, invitando i propri cari a seguirlo. A quel punto Gramsci non era nient'altro che un comunista talmente deluso dallo stalinismo che una volta libero non poteva nemmeno pensare di andare in URSS ad unirsi con moglie e figli a Mosca, ma piuttosto di portare i propri cari a vivere nell'Italia fascista. Forse non ce ne rendiamo abbastanza conto, ma è un fatto epocale quello che vede il fondatore del PCI preferire il regime di Mussolini a quello di Stalin.
Tutto quanto lei afferma è davvero sorprendente e, soprattutto, sconosciuto ai più. Ma è tuttavia bastante per confortare la tesi della conversione?
No, non è sufficiente per poter affermare che Gramsci si convertì al cattolicesimo. Infatti ho parlato soltanto del fatto che da un certo punto in poi egli sceglie di seguire dei valori differenti i quali sono in modo generico “cristiani”. Io non dispongo di prove scientifiche per avvalorare quello che ha detto il cardinale De Magistris. Però diciamo pure che non mi meraviglierei, nel caso fosse dimostrata la sua conversione. Ma sia chiaro un concetto: non mi fido molto delle conversioni in punto di morte, non in senso morale, ma storico. Da un punto di vista scientifico una conversione in punto di morte non è quasi mai documentabile. Il fatto che Carducci, anticlericale e autore dell'Inno a Satana si sia convertito poco prima di morire, non cambia l'accezione del suo contributo alla letteratura. Quello che voglio precisare è che in Gramsci, certamente, al di là della conversione c'è un discorso di riavvicinamento a certi valori che sicuramente non sono comunisti.
In quali scritti si trova preponderantemente questo riavvicinamento?
Nelle lettere e in alcuni ragionamenti contenuti nei suoi quaderni. Con un'avvertenza: sia le lettere sia ancor più i quaderni sono scritti spesso in forma criptica. Nel mio libro La famiglia Gramsci in Russia parlo di “lessico dell'acquario”. Gramsci infatti è come un pesce che nuota nell'acquario che è il carcere fascista ed è consapevole che tutto quello che scrive sarà spiato sia dal fascismo che dai comunisti perché le lettere erano indirizzate a Mosca.
Esistono altri testimoni della conversione di Gramsci?
Sì, nel '77 un altro monsignore parlò di un racconto delle suore della clinica Quisisana a Roma. La notizia in effetti non è del tutto nuova. Se poniamo che sia vera dobbiamo porre anche il fatto che probabilissimamente le prove scientifiche siano state “sbianchettate” perché certamente il PC degli anni '50 non poteva tollerare una cosa simile. L'unica speranza è che magari in futuro la Chiesa fornisca una documentazione scientificamente attendibile o quanto meno dei seri indizi.
C'è anche qualche compagno di partito che ha mai accennato a qualche ripensamento di Gramsci in chiave religiosa?
No! Figuriamoci, il fatto più drammatico della vicenda Gramsci è che il PC ci ha descritto un uomo che non è mai esistito. Lo ha sempre presentato come un fervente stalinista mentre il merito più grande di quest'uomo è stato che, trent'anni prima della denuncia dei crimini staliniani fatta da Krusciev pose a Togliatti, nell'ottobre del 1926, il problema dei “metodi” di Stalin. Il che è, secondo me, straordinario.
Questa sua “profezia” in un certo senso l'ha pagata in modo durissimo: non lo doveva dire, lo ha detto e l'ha pagata. Il partito lo ha massacrato diffamandolo, lo ha presentato per anni come un fautore di Stalin. Si aggiunga poi che il PCI ha letteralmente rubato i diritti d'autore alla famiglia Gramsci. Anche questo è ampiamente documentato nel mio libro. Il Partito Comunista italiano È riuscito, sebbene questi fossero alla fame, a rubar loro i diritti fino al 1996.
Qualora si accertasse l'effettiva conversione di Antonio Gramsci, ciò comporterebbe anche un diverso approccio nello studio delle sue opere?
Direi certamente di sì, ovviamente avrebbe conseguenze. Ma devo dire che già chiunque si accinga a scrivere oggi un su Antonio Gramsci deve rendersi conto che certe bugie e falsificazioni non reggono più.
«Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
« S taccare la spina? La spina si può staccare a un elettrodomestico, non a una vita». Amedea Parma va dritta al cuore della questione, senza troppi giri di parole. Potrebbe fare altrimenti una madre che da 8 anni accudisce il figlio in stato vegetativo? «Sono molto turbata per il caso di Eluana – ammette la signora Parma, 60 anni tra poche settimane, riminese – non voglio giudicare nessuno ma allo stesso tempo non posso tacere: don Oreste Benzi mi inciterebbe a far conoscere la mia esperienza. Se mi permetto di prendere la parola è perché anche io vivo le stesse sofferenze del padre di Eluana». Duemila, anno del Giubileo. È il giorno della festa del papà: Davide ha 27 anni, all’ora di cena il suo posto a tavola è vuoto. Alle 20 suonano alla porta ma invece del ragazzo spuntano le divise dei carabinieri. «Davide è in ospedale, nel reparto rianimazione, le sue condizioni sono gravi, molto gravi». La causa è un’overdose. Ad attendere Amedea e il marito, in ospedale, c’è la diagnosi dei medici, che suona come una sentenza senza appello. Davide è in pericolo di vita e anche se riuscisse a sopravvivere per lui non ci sarebbe più stato niente da fare: lo attendeva lo stato vegetativo, la stessa diagnosi fatta a Eluana. «Una sentenza terribile, dolorosa, durissima da accettare » ricorda la mamma. Dopo 20 giorni, Davide è inserito in reparto e qui rimane per due mesi dopodiché viene trasferito in una struttura per la riabilitazione. Davide è intubato, si nutre attraverso un sondino naso-gastrico, soffre di gravi broncopolmoniti con febbre altissima. Il quadro clinico è disperato; mamma, papà e il fratello lo assistono continuamente: «Gli facevamo sentire la nostra presenza». Dopo quattro mesi è giunto il momento delle dimissioni. La famiglia è indecisa sul da farsi, e la soluzione che viene suggerita da un esperto è il ricovero in una residenza sanitaria assistita. «Con mio marito e mio figlio ci siamo guardati negli occhi – racconta Amedea –, il pensiero era lo stesso: portiamolo a casa». Davide e la famiglia sono parrocchiani di don Oreste Benzi, «il prete degli ultimi». A casa, alla Grotta Rossa di Rimini, torna un «bimbo» di 27 anni, da gestire come un neonato. Da accudire in continuazione: per questo mamma Amedea vive nella sua camera. C’è da azionare l’ossigeno, fare punture, eliminare l’eccessivo catarro. «Non sapevo come gestire questa nuova drammatica situazione – ammette la madre –. I primi due anni sono stati per me una tragedia incondizionata». Davide ha lo sguardo nel vuoto, non manifesta reazioni, nonostante gli stimoli che arrivano dai familiari.
Amedea ricorda quei giorni: «Avevo pensato di farla finita, perché venivo già da un altro enorme dolore: la perdita di un figlio morto a soli 12 anni in seguito a incidente stradale». Con il nuovo dramma ad Amedea crolla il mondo addosso. «Sono stati due lunghi anni: per questo capisco la sofferenza del padre di Eluana nell’accettare la condizione del suo stato vegetativo. A un certo punto, però, ognuno di noi deve scegliere». Amedea ha scelto la vita, e si è sposata per la seconda volta, «con la vita. E mio figlio ha percepito il mio, il nostro abbandono, che lo avevamo accettato incondizionatamente e ha iniziato a dare segnali positivi». Davide, questo trentenne dai capelli castano scuro, per i medici resta in stato vegetativo, ma nessuno, incontrandolo in casa, seduto sulla carrozzina, direbbe che è «assente». «Sta bene, sorride, sorride spesso, è presente. Nel suo silenzio, nella sua immobilità, è parte integrante della nostra famiglia». Simone, il fratello minore, sposato da un anno, fuga ogni dubbio. «Mamma, sta’ tranquilla: ci pensiamo noi a Davide, non andrà in istituto». Due anni fa Davide ha subito l’asportazione del rene: per complicazioni è andato sotto i ferri per tre volte nell’arco di 15 giorni. «Secondo i medici, non avrebbe retto neppure alla prima operazione – ricorda mamma Amedea –. Invece ce l’ha fatta, oggi sta bene ed è qui con noi». Il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, ha fatto visita al ragazzo ed è in contatto con i familiari. Oggi il pensiero di Amedea va però a Eluana Englaro e piange. «In un momento di tristezza, di sofferenza, di buio, si possono dire tante cose. Ma chi siamo noi per togliere la vita? Non sta a noi decidere. Un sorriso di Davide, un suo sguardo, anche nel vuoto, mi dona serenità e mi riempie di gioia. Come posso staccare la spina a questo figlio?».
«Capisco il dolore del padre di Eluana – dice la madre di un ragazzo in stato vegetativo a Rimini – ma chi siamo noi per togliere la vita? La spina si stacca agli elettrodomestici»
IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
Inquisizione. Basta la parola per evocare qualcosa di sinistro: tribunali spietati, processi sommari, roghi e caccia alle streghe. Una pagina di storia sbandierata spesso dall’orgoglio anticlericale per mettere la Chiesa con le spalle al muro.
Eppure qualche anno fa Giovanni Paolo II si chiedeva: «Nell’opinione pubblica l’immagine dell’Inquisizione rappresenta quasi una forma di antitestimonianza e di scandalo.
In quale misura questa immagine è fedele alla realtà?». In quell’occasione papa Wojtyla manifestava apprezzamento per uno storico Simposio internazionale sull’Inquisizione tenutosi in Vaticano nel 1998.
Dieci anni dopo, sulla scia di quell’evento, si è aperto ieri a Milano, presso la Biblioteca Ambrosiana, un convegno internazionale su «L’Inquisizione romana in età moderna e il caso milanese». Fino a domani tre giornate di riflessione promosse dalla Classe di Studi Borromaici dell’Accademia Ambrosiana. Tra i relatori teologi e storici, laici e credenti, come Franco Buzzi, John Tedeschi, Adriano Prosperi, José Martìnez Millán, Elena Brambilla, Claudia di Filippo, Gianvittorio Signorotto. Ieri prima dell’inizio dei lavori c’è stato il saluto dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi.
Il prefetto dell’Ambrosiana Franco Buzzi è sicuro: «Non bisogna aver paura di trattare un tema così complesso. Bisogna distinguere innanzitutto tra le varie fasi storiche dei processi inquisitoriali: quella di maggiore intensità ci fu nel 1500. Sia sul fronte cattolico, che su quello protestante. Oggi però manca ancora uno studio organico sulla teologia che ha sostenuto l’Inquisizione. Perché non si può ridurla a fenomeno di violenza tout court. Nella mentalità cinquecentesca era importante preservare la dottrina pura per mantenere salda l’intera società.
E anche la teologia ha finito per risentire del contesto storico e dell’ambiente». Ma non è un tentativo di assoluzione: «Si tratta - spiega il teologo - di riconoscere che l’Inquisizione fu una soluzione figlia del suo tempo.
Siamo tra Medioevo ed età moderna: il cristianesimo era la religione della città, non c’era ancora distinzione tra potere spirituale e temporale. Per la concezione politica dell’epoca non era accettabile che venisse turbato l’ordine pubblico da malfattori, ladri o assassini. A maggior ragione non era tollerabile il fatto che ci fossero coloro che procuravano la morte dell’anima: l’eresia era crimine ancor più atroce. Creava una situazione di degrado nella società con conseguenze nell’eternità». Sconcertano comunque i rimedi: «Oggi può apparire imbarazzante - dice Buzzi - quella mancanza di rispetto per la persona che dissentiva. Il diritto naturale dell’uomo alla libertà civile e religiosa non era stato ancora affermato. Ma l’abuso maggiore fu il tentativo di far crollare il segreto della confessione. Tra il XVI e il XVII secolo poi il prete più che rivelare il segreto, ritardava l’assoluzione finché il penitente si andasse ad auto-accusarsi…».
John Tedeschi, storico emerito dell’università del Wisconsin (Usa), rileva come l’opera di censura dell’Inquisizione romana spinse all’estero molti intellettuali italiani che avevano aderito al protestantesimo: «L’Italia soffrì di una grave perdita, però la loro fuga permise il diffondersi della cultura rinascimentale nel nord Europa.
Questi emigrati furono responsabili di una produzione impressionante di traduzioni e scritti originali. Fecero conoscere fuori dai confini italiani letterati come Tasso, la cui prima edizione all’estero della Gerusalemme Liberata uscì a Londra nel 1584. E poi gli esempi migliori del pensiero politico italiano come Guicciardini e Machiavelli, che era uno dei tanti autori proibiti in quel tempo al di qua delle Alpi.
Perfino il De Monarchia di Dante, opera censurata e rimasta manoscritta in Italia per la sua esaltazione dell’autorità imperiale, vide la luce a Basilea nel 1559 grazie all’ex vescovo di Capodistria, passato al luteranesimo, Pier Paolo Vergerio». Tuttavia, fa notare Tedeschi, ci fu anche un’emigrazione di segno opposto: «Ci furono casi di esiliati che furono espulsi dalle città estere per gli scontri con le autorità religiose locali: furono processati per atti di indisciplina e blasfemìa. Sappiamo dalle sentenze inquisitoriali conservate al Trinity College di Dublino, che ci fu un grosso movimento da tutte le parti d’Europa: sociniani dalla Polonia, calvinisti scozzesi, ugonotti dalla Francia, evangelici italiani della seconda generazione dalla Valtellina, si misero tutti in viaggio verso Roma per essere volontariamente riconciliati con la Chiesa.
Divennero così numerosi nel corso del Seicento che nel 1673 fu fondato a Roma un 'Ospizio dei convertendi', per facilitare la loro reintegrazione». Sembra giunto davvero il tempo per mandare al rogo tanti luoghi comuni: «Nella maggior parte dei processi inquisitoriali - precisa Buzzi- non c’era tortura. E poche volte si fece ricorso alla pena estrema. Gli accusati godevano di una certa tutela: non è un caso se potendo scegliere tra tribunale civile o religioso, molti preferivano quest’ultimo perché dava più garanzie. Oggi però per fortuna stanno cadendo le divisioni ideologiche, c’è una nuova storiografia che si preoccupa non tanto di giudicare la storia, ma di ricostruirla e intenderla».
Franco Buzzi, prefetto dell’Ambrosiana: «Manca uno studio organico della teologia che la sostenne. La storia non va giudicata, ma ricostruita» Lo storico John Tedeschi: «L’Italia soffrì di una grave perdita e molti intellettuali fuggirono all’estero. Ma il Rinascimento sbarcò nel Nord Europa»
Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008
L o sfolgorio del presbiterio ricorda che i genovesi lavorano da secoli a quel «corretto rapporto tra la dimensione della fede e la laicità della vita civile» cui il cardinale Angelo Bagnasco esorta gli italiani. L’oro zecchino, le sante figure e le cornici barocche, tutto quel che sovrasta l’altare di San Lorenzo - informa un’iscrizione del 1624 viene dalle casse della repubblica di Genova. Questo trionfo di ricchezza laica nel massimo tempio della cattolicità genovese è solo uno dei segni del connubio che sotto la Lanterna è riuscito, tra alti e bassi, a sfidare il tempo e che mercoledì ha richiamato in San Lorenzo la folla delle grandi occasioni. «La nostra cattedrale è aperta a tutti, indistintamente» ha annunciato l’arcivescovo, illustrando il ciclo di conferenze che si terranno fino a febbraio nella chiesa madre. Al suo appello ha risposto lo storico Ernesto Galli della Loggia. «Nel momento in cui si distruggono un mondo morale e un mondo sociale, chi è educato al senso della laicità non credente non può che manifestare una profonda incertezza e questo porta a nuove sintonie» ha detto aprendo la discussione su 'fondamenti della laicità e nuove sfide'. Dall’altra parte del tavolo, il filosofo del diritto Francesco D’Agostino; tra i due, come moderatore, Dino Boffo. Il direttore di
Avvenire ha invitato a utilizzare il registro del Concilio - «credenti e non credenti possono condividere l’impegno alla retta edificazione di questo mondo» - e Galli della Loggia ha riconosciuto che «la laicità si fonda sull’annuncio cristiano e sulla polarità dell’esercizio separato dei due poteri, Stato e Chiesa, che non comporta la separazione delle due sfere: in questa polarità si è formato il destino dell’Occidente come terra della libertà politica, perché su questa base è stato forgiato l’obbligo del potere di non violare il comandamento morale, la soggezione del potere politico al giudizio delle coscienze».
Il cristianesimo, insomma, come culla della libertà politica e della democrazia, ragionamento che può apparire iperbolico in tempi di scontri su presunte 'ingerenze' ecclesiastiche, ma che D’Agostino ha rafforzato dal punto di vista filosofico, sostenendo che «per il concetto cristiano di laicità è fondamentale che esista un mondo uguale per tutti e crea opportunità per tutti. Il cristiano dirà che è buono perché creato da Dio ma anche chi non ha la fede percepirà che esso è per noi, che è offerto alla ragione e alla conoscenza scientifica, perchè il cristiano ha il dovere di conoscere il mondo nella sua oggettività».
Dall’ontologia al caso Englaro il passo è breve: il rapporto tra fede, laicità e scienza è un tasto irresistibile per il filosofo del diritto ma soprattutto per l’ex presidente del Comitato nazionale di bioetica e infatti D’Agostino a Genova ha richiamato il mondo laico a «dar credito all’idea che il mondo esista e che esista un oggettività che concerne le cose del mondo, perché quando si distacca da questa sua matrice cristiana il mondo diventa una favola, alla maniera di Nietzsche, che ognuno può riformulare». Quindi, ha paragonato chi vuole sottrarre la sperimentazione scientifica al controllo etico e rivendica il diritto all’eutanasia a un novello Faust, che parte dal disconoscimento dell’oggettività del male, mentre «il peccato appartiene al mondo e ha una sua verità».
L’interlocutore è parso d’accordo: «Ci sono valori costitutivi del vincolo sociale che sono indisponibili, che non si possono mettere ai voti», ha detto Galli della Loggia, rilevando che i problemi della laicità sono iniziati con il «disancoraggio delle società cristiane dal cristianesimo». Per lo storico è fatale lo spegnimento della soggettività etica, dell’idea che l’individuo e la società si costruiscano intorno ad alcuni valori condivisi e a relazioni impegnative. Con queste conseguenze: «Giuridicizzazione di tutti gli aspetti della vita e trasformazione della scienza in tecnoscienza». E un pendant politico. «Con il tramonto della soggettività etica - ha ammesso lo storico - la laicità tende a diventare la negazione del rilievo storico della religione e la sua delegittimazione». Ha un bel ricordare D’Agostino che «il cristianesimo non tradirà il principio di laicità» perché «tradirebbe se stesso, diventando fondamentalista», in quanto il rischio paventato dal filosofo - «se la laicità non prende sul serio il cristianesimo tradisce se stessa» - per lo storico è già un fatto: «non c’è più un problema di 'confini' tra le due sfere - ha detto Galli della Loggia - ma è in atto il tentativo di espellere la religione dallo spazio pubblico e di espellere la naturalità della vita privata».
Ernesto Galli della Loggia
1) COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
2) COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
3) Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
4) 28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
5) 28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
6) Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
7) Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
8) INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) «Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
11) IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
12) Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008
COLLETTA/ Socci: una carità che sa educare e creare sviluppo, anche economico - INT. Antonio Socci - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Giunta ormai alla dodicesima edizione, la Giornata Nazionale della Colletta alimentare è diventata ormai un appuntamento fisso per molti italiani. Non solo per le migliaia di volontari che ogni anno permettono la realizzazione di questo grande gesto di carità, ma anche per tutti coloro che, facendo la spesa come tutti gli altri giorni, decidono per una volta di comprare qualcosa in più, facendo così la spesa anche per chi non se la può permettere.
Un gesto semplicissimo, dunque, che in questa sua immediatezza è capace però, come nota Antonio Socci, di «comunicare il cuore» di chi ha dato origine alla grande realtà del Banco alimentare.
Socci, la Colletta alimentare è una cosa un po’ diversa rispetto alla normale beneficenza: è un gesto concreto che coinvolge personalmente chi lo fa. Possiamo dire che, in questo rendere tutti partecipi e protagonisti, è anche un gesto con un valore educativo?
C’è in effetti un valore educativo per la persona singola, nonché un valore culturale per la società, per tutta la comunità umana in cui viviamo. Per la singola persona si tratta di un fatto, un’opera che mette in sintonia con il cuore di chi l’ha pensata. Parlo innanzitutto per me: anch’io andrò sabato a fare la colletta, e a sistemare i pacchi insieme ad altre persone, e quando faccio questo penso sempre a come è nato il Banco alimentare, cercando di immedesimarmi con il cuore di don Giussani. Penso al suo sguardo, e mi immagino la sua espressione, il suo sentimento, il modo con cui sapeva empaticamente sentire il bisogno degli altri. Questo è il cuore della grande carità cristiana: una cosa molto grande, molto bella, un fatto che spalanca. E credo che sia una cosa tutta da vivere; direi anzi che, vissuta con questo cuore, la Colletta è in grado di far vivere la vita intera in un altro modo.
Lei accennava al fatto che in questo gesto c’è un valore per la società intera. Un rilievo importante, in un momento in cui la gente vive con paura gli effetti dell’attuale crisi economica.
Per spiegare questo mi rifaccio a un libro estremamente interessante, che ho letto di recente, intitolato “Benedetta economia - San Benedetto e san Francesco nella storia economica europea”: un libro straordinario che permette di capire l’importanza del cristianesimo nello sviluppo dell’Europa, non solo attraverso il monachesimo – cosa già nota – ma anche attraverso il movimento francescano. Una prospettiva che contiene molti insegnamenti anche per l’oggi. In particolare, fra le attualissime conclusioni cui gli autori arrivano, c’è l’indicazione dei due elementi che hanno dato maggiore dinamismo allo sviluppo dell’economia europea: il primo fattore è la gratuità, per cui attraverso il movimento francescano è nato il mercato moderno, nella sua accezione migliore; il secondo è il carisma, vale a dire il fatto che ciò che è nato da grandi personalità come Benedetto o Francesco ha creato un dinamismo e un’intelligenza della realtà comprensiva di tutti i bisogni. Questa è una lettura veramente interessante, molto utile adesso, soprattutto in prossimità di grandi gesti di carità come la Colletta alimentare e poi le Tende di Natale, organizzate da Avsi.
In che senso tale giudizio aiuta a capire il valore di questi gesti di carità?
È un giudizio culturale che ci permette di capire che il cuore cristiano in ogni epoca si esprime con questo sguardo di carità che anche noi viviamo in questi gesti, in cui è evidente sia la gratuità, sia il carisma che li ha generati; ma al tempo stesso manifesta un’intelligenza delle cose e un’intelligenza della realtà che è stato storicamente assai fecondo.
Questo sembra richiamare a quanto dice Benedetto XVI nella “Deus caritas est”: «non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore». La carità è più della giustizia?
La giustizia mette in campo il ruolo dello Stato, che ha una funzione equitativa; mentre la carità dice qualcosa in più, perché parla alla persona. È dunque un elemento più umano e più ragionevole. La società non è una massa amorfa che viene plasmata dallo Stato: quando è così è una società non libera. La società è libera se fatta da uomini liberi, che si muovono con responsabilità e con intelligenza. In questo senso la carità è una dimensione della persona e non può essere una dimensione dello Stato, il quale si occupa della giustizia. La carità è un cuore, e quello che conta è che in una società ci siano persone, volti, carismi che fanno vedere questo cuore in atto, e per cui contagiano.
E come dice il Papa è una cosa di cui ci sarà sempre bisogno.
Sì, altrimenti c’è il grosso rischio che segnalava Eliot: esiste una società buona se gli uomini non sono buoni? È questo il punto: non può essere lo Stato a fare la società buona. Ciò che fa buoni gli uomini non è certo una legge o un sistema, nemmeno il più perfetto.
Lei diceva che questo è un bene che contagia. Lo si vede ogni anno dalla gente che viene coinvolta e che si commuove di fronte al gesto di gratuità della Colletta; si sono commossi anche vari politici alla presentazione fatta quest’anno alla Camera…
Questo non mi sorprende, anche perché troppo spesso in modo manicheo pensiamo ai politici come se fossero i “cattivi”, mentre in realtà sono persone normali. Comunque, la spiegazione di un tale “contagio” di stupore e commozione sta nel fatto che evidentemente una cosa così corrisponde profondamente al cuore di ognuno. L’iniziativa in sé genera corrispondenza, ma è soprattutto il cuore che c’è dentro all’iniziativa che dà questa corrispondenza e quindi questa commozione. Se tutti fossimo educati a un cuore del genere, parafrasando una ben nota frase di don Giussani, staremmo tutti meglio. La Colletta è un gesto umano e ragionevole perché è un gesto da cui traspare quel cuore, quell’intelligenza, quella carità. Questo commuove, e contagia.
COLLETTA/ 2. Passera: la formula del Banco Alimentare vale più di un assegno milionario - INT. Corrado Passera - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
«Una società che non combatte e risolve il problema della povertà è una società dove la fiducia cala, una società che cresce meno, una società che diventa più violenta». A dirlo è Corrado Passera, Ceo di Intesa-San Paolo, uno dei più grandi gruppi bancari europei. «L`impegno per combattere la povertà - continua - è giusto in sé. Ma è anche indispensabile se si vuole tenere insieme la società e non rischiare derive pericolose: non è certo il nostro caso, ma la storia dimostra che quando una parte della società entra in uno stato di stress insopportabile, ne soffre la democrazia, e la tenuta delle istituzioni diventa a rischio».
Sabato prossimo, 29 novembre, c’è la giornata nazionale della Colletta alimentare, la raccolta di alimenti che si svolge in tutta Italia organizzata dal Banco Alimentare. In piena crisi economica, quando verrebbe da pensare che tutti vogliano tenersi stretto quello che hanno, la carità non si ferma e il Banco lavora per venire incontro a chi ha bisogno. «Quella del Banco Alimentare è una formula straordinaria per efficacia. Aiuta concretamente milioni di persone, contribuendo a risolvere la necessità primaria del cibo. Lo fa in maniera continuativa e non estemporanea con una macchina organizzativa molto efficiente e poco costosa. In più coinvolge nel dono milioni di persone, che è un fatto fondamentale. Lo stesso risultato economico raggiunto con un unico assegno avrebbe immensamente meno forza di quello che scatena il Banco Alimentare, grazie alla larghissima partecipazione che sa sviluppare».
Ma non si può parlare di povertà senza scomodare le politiche di welfare. Alle quali la crisi economica manderà, prima o poi, il “conto” dello stato di sofferenza sociale che si verrà a creare nel Paese. «Viviamo comunque - dice Passera - in un continente e in un paese che assicura un livello di welfare che il resto del mondo si sogna. Quando qualcuno disdegna il welfare come conquista della nostra società occorre ricordarlo e non dimenticarsi che il resto del mondo guarda all`Europa, e per certi aspetti all`Italia, con grande invidia. Detto questo, l`attuale welfare, nella sua sostenibilità soprattutto nel campo della sanità, dell`assistenza, della previdenza, sia per l`effetto dell`invecchiamento (che è un`alta conquista dell`umanità) e della natalità, sia per l`effetto dell`immigrazione, è purtroppo a rischio e deve ristrutturarsi per sopravvivere e per continuare a garantire il suo ruolo».
Occorrono quindi altre soluzioni e l’incapacità dello Stato di far fronte al costo sociale della povertà è sempre più evidente. «È chiaro che il “pubblico” - prosegue Passera - non sarà in grado di assicurare da solo il livello di servizi di cui una società in grande trasformazione come la nostra avrà bisogno nei prossimi anni. Questo lascia spazio al ruolo che il non-profit, l`impresa sociale, il volontariato potranno svolgere nel nostro Paese. Con le nostre banche e le fondazioni nostre azioniste, nel rispetto di un`antica tradizione, abbiamo sempre sostenuto la nascita e lo sviluppo di progetti nel terzo settore».
Resta aperto il problema di una politica del credito. Di fronte alla povertà c’è chi non ha mai smesso di invocare un salario minimo per tutti, o forme più calibrate di garanzia come il micro credito. «Dobbiamo ulteriormente facilitare l`accesso al credito a tutti quei settori, come l`impresa sociale, che lo meritano ma che hanno avuto difficoltà in passato a trovare ascolto. Nel Sud del mondo il micro-credito consiste in prestiti di pochi dollari, da noi il micro-credito prende forme diverse. Micro-credito è, per esempio, il “prestito d`onore” agli studenti, micro-credito è finanziare i cassintegrati fino a quando l`Inps interviene con il sussidio, oppure finanziare le famiglie meno abbienti per assumere una badante».
Tra un intervento come questo e il “minimo salariale”, la posizione di Passera è molto elastica. «C`è spazio per tutto - dice -, sia per un terzo settore più forte, sia per ammortizzatori sociali di cui l`Italia oggi manca. Oggi soffriamo di rigidità antistoriche e di una tutela inadeguata contro la disoccupazione, quando dovremmo invece puntare su maggiore flessibilità e adeguati ammortizzatori sociali. Dobbiamo evitare però gli errori fatti in altri paesi, dove un “eccesso” di ammortizzatore sociale disincentiva l`uscita dalla disoccupazione stessa».
Affrontando un tema caldo come quello della povertà, non si può non parlare, come sempre accade nel nostro Paese, di contraddizioni geografiche, crescita, redistribuzione della ricchezza. «Su molti interventi c`è grande consenso, il fatto è che poi non facciamo ciò che diciamo. Un caso emblematico - prosegue Passera - è quello delle infrastrutture e dei decenni necessari a realizzarle. I nostri meccanismi decisionali in tutti i settori delle istituzioni e della Pubblica amministrazione si bloccano con troppa facilità e il costo per il Paese è enorme. Quanto alla redistribuzione della ricchezza, è un tema squisitamente politico. Invece dobbiamo sentirci tutti responsabili di accelerare la crescita economica sostenibile. Se non c`è crescita economica non ci sono risorse da redistribuire, e da troppi anni non cresciamo abbastanza».
Di fronte a chi ha bisogno don Luigi Giussani parlava di semplice atto di carità cristiana. Viene da chiedersi se non sia proprio questo uno dei fattori di coesione, anche sociale, di cui le nostre società vivono più oggi la mancanza. «La carità - conclude Passera - ha un particolare significato per un cristiano e magari per un laico ne ha un altro. Ma il dono e il donarsi è uno dei grandi motori della società. Oggi si tende da parte di troppi a ridurre la società alla sua componente economica, considerando i cittadini solo dei consumatori e in generale le persone solo come portatrici di interessi particolari. In realtà la società si tiene insieme e si evolve grazie a valori che trascendono ciò che è conveniente e ciò che è contingente, grazie proprio a questo darsi senza misura, comunque senza calcolo».
Spagna: cresce la polemica sulla sentenza contro i crocifissi - Su iniziativa dell'Associazione Culturale Scuola Laica a Valladolid - di Nieves San Martín
MADRID, giovedì, 27 novembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Arcivescovo di Siviglia, Carlos Amigo Vallejo, ha affermato questo martedì che eliminare dalle scuole pubbliche il crocifisso, “che è un segno così radicato della nostra cultura, non favorisce assolutamente la convivenza tra le persone”.
Anche l'Arcivescovado di Valladolid ha difeso questa posizione di fronte a una sentenza giudiziaria che obbliga a ritirare i crocifissi da una scuola pubblica della città.
Le dichiarazioni ai media del Cardinale Amigo Vallejo, in un intervallo della XCII Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), in svolgimento a Madrid, arrivano dopo una sentenza del Giudice per i Contenziosi Amministrativi numero 2 di Valladolid, che ordina di ritirare i crocifissi dalla scuola pubblica Macías Picavea della capitale della Castilla-León.
La sentenza afferma che la presenza di simboli religiosi nella scuola mina i diritti fondamentali di uguaglianza, libertà religiosa e aconfessionalità dello Stato raccolti nella Costituzione.
Il Cardinale Amigo si è detto in disaccordo con questa decisione, visto che “la convivenza si costruisce con il rispetto per le persone, non solo sbarazzandosi della ricchezza culturale di un Paese”.
“La cosa importante è che si insegni a questi bambini di Valladolid a rispettare i simboli religiosi di ogni religione”, ha affermato. “Mi sembra positivo che si ascolti” la società, “ma tutti, non solo un settore e a volte minoritario”.
“Abbiamo avuto dei problemi con la questione dei simboli”, ha ricordato. “Ricordiamoci del velo islamico, che ha anche portato a delle leggi in Francia”.
Fernando Pastor, dell'Associazione Culturale Scuola Laica e promotore del reclamo, ha insistito sul ritiro dei crocifissi “perché si applichi la legge e si rispettino i diritti di tutti i cittadini”, e ha riconosciuto che quando si è rivolto ai giudici tre anni fa non ha pensato alle conseguenze che avrebbe potuto avere una decisione favorevole.
La polemica si produce in un momento in cui in Spagna si verificano casi aneddotici di dichiarazioni di apostasia, depositati nei Vescovadi chiedendo che il proprio nome venga cancellato dal registro battesimale, il tutto di fronte alle telecamere e ai microfoni. Alcuni Vescovi hanno rifiutato, perché il battesimo è un fatto storico. Quello che hanno detto di poter fare è aggiungere una nota al margine dell'iscrizione nel libro battesimale, con la dichiarazione di apostasia dell'interessato.
In questi giorni, inoltre, in Spagna si sta verificando un altro fatto insolito: si creano associazioni di atei militanti con una dichiarata intenzione di sradicare tutto ciò che richiama la religione nella nostra società.
Non si tratta di non credere o di agnosticismo, ma di una militanza aggressiva contro i simboli religiosi negli spazi pubblici, una specie di uscita dalla tomba di tutti gli intolleranti che hanno favorito la persecuzione religiosa della II Repubblica spagnola negli anni Trenta del XX secolo.
La Giunta della Castilla y León ha espresso la sua disponibilità a ricorrere contro la sentenza: “Non posso condividere una parte delle argomentazioni della sentenza, secondo la quale la presenza di un simbolo religioso, come il crocifisso, è oggi in Spagna un elemento di aggressione, un elemento di indebolimento di diritti e libertà”, ha dichiarato il presidente Juan Vicente Herrera.
L'Arcivescovado di Valladolid ha chiesto il ricorso perché, in caso contrario, si potrebbe incorrere in un “evidente pregiudizio” per la cittadinanza, secondo il suo portavoce, Jorge Guerra, che ha affermato che la decisione parte da un concetto molto semplice e ridotto: “Il crocifisso, secondo altre decisioni dei tribunali, è qualcosa di più, perché rappresenta la dignità e la tolleranza delle persone”, e la presenza della croce in spazi pubblici “non obbliga le persone a manifestare alcun tipo di credo”.
Da parte sua, la Confederazione delle Federazioni di Associazioni di Genitori di Alunni e di Famiglia dell'Andalusia (CONFAPA) ha reso pubblica questo mercoledì una nota, firmata dal suo presidente Juan Mª del Pino Mata, in cui si dice che “di fronte alla situazione che si sta creando in altre regioni della Spagna riguardo alla presenza di simboli religiosi nelle scuole pubbliche” e “rispettando profondamente l'opinione degli organi giudiziari, non riusciamo a capire quale apporto negativo abbia la presenza di Gesù nella scuola”.
“Difenderemo – aggiunge – l'idea che il ritiro dei crocifissi dipenda dalle decisioni maggioritarie prese dalle associazioni di genitori di ogni centro, e il fatto che senza questo requisito non siano imposte nell'ambito scolastico le valutazioni di minoranze senza peso specifico nella nostra società a maggioranza cristiana”.
La nota conclude sottolineando che “sulla questione stanno intervenendo associazioni molto politicizzate, che non apportano alla vita scolastica nulla per il suo miglioramento e che anziché preoccuparsi della vera qualità dell'insegnamento per tutti portano solo atteggiamenti di radicalità ed esasperazione”.
In questo tempo liturgico che precede l'Avvento, come accade ogni anno, inizieranno a emergere dichiarazioni dei genitori degli alunni nelle scuole pubbliche chiedendo che non si realizzi nulla che abbia a che vedere con il Natale: né presepi, né rappresentazioni, nulla che possa anche lontanamente ricordare che alla fine dell'anno si celebra la nascita di Gesù.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
28/11/2008 09:03 – THAILANDIA - Bangkok, i manifestanti promettono battaglia. Il premier cerca il dialogo - I leader della protesta antigovernativa occupano a oltranza i due aeroporti della capitale e promettono di lottare “fino alla morte”. Da Chiang Mai il primo ministro Somchai invita al dialogo e alla “non-violenza”. Gli aeroporti rimangono chiusi; predisposti voli straordinari da una base militare per agevolare il rientro dei turisti.
Bangkok (AsiaNews/Agenzie) – I leader della protesta anti-governo in Thailandia promettono una occupazione a oltranza dei due aeroporti di Bangkok e ribadiscono di voler “combattere fino alla morte” se la polizia procederà allo sgombero. Il primo ministro Somchai Wongsawat fa un passo indietro e abbassa i toni dello scontro, affermando di voler cercare una mediazione con i manifestanti, basandosi sul principio della “non-violenza”.
Dal 26 novembre migliaia di oppositori hanno bloccato l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi, mentre ieri è stata la volta dello scalo di Don Mueang, usato soprattutto per i voli interni. Il premier aveva dichiarato lo stato di emergenza, accusando i rivoltosi di tenere in ostaggio la nazione.
Un portavoce del governo ha aggiunto che la polizia aveva ricevuto istruzioni per procedere “il prima possibile” allo sgombero, utilizzando però “metodi pacifici”. L’esecutivo ha chiesto alle forze dell’ordine di aprire un tavolo di trattative con i manifestanti; in caso di rifiuto gli agenti avrebbero l’autorizzazione a procedere, mettendo in pratica “tutto il necessario per riaprire gli aeroporti, basandosi sul principio della non-violenza”.
Al contrario, i membri dell’Alleanza popolare per la democrazia (Pad) ribadiscono la linea dura, confermano di essere pronti a “difendersi con ogni mezzo” e di voler restare negli aeroporti "fino alle dimissioni di Somchai”. Al momento sembra regnare una calma apparente; fonti interne affermano che vi sono alcuni funzionari dell’esecutivo impegnati in trattative con i leader della protesta.
Il governo riferisce inoltre che l’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi rimarrà chiuso almeno fino al 29 novembre; per favorire il rientro di una parte dei turisti ancora bloccati in Thailandia, l’esecutivo ha predisposto alcuni voli in partenza da una base militare nei pressi della capitale.
Somchai ha deciso di restare “a tempo indefinito” a Chiang Mai, nel nord del Paese, a causa delle “tensioni” fra l’esecutivo e le forze armate. E proprio a Chiang Mai sarebbe in agenda un consiglio dei ministri straordinario per far fronte alla crisi.
Il 27 novembre Anupong Paojinda, comandante dell’esercito thailandese, aveva invitato il premier a rassegnare le dimissioni e allo scioglimento del parlamento. Il capo dell’esercito, molto influente nel Paese, ha però negato l’ipotesi di un colpo di Stato dei militari e ricorda che il governo mantiene ancora la “piena autorità” sul Paese.
28/11/2008 10:14 – VIETNAM - Le autorità di Hanoi non vogliono pubblico al processo contro i cattolici di Thai Ha - Ci vorrà una domanda scritta per poter assistere al dibattimento, che non si svolgerà nella sede del tribunale, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato del popolo. Il procedimento nello stesso giorno della consacrazione del vescov ausiliare della capitale.
Hanoi (AsiaNews) – Si fanno sempre più evidenti i connotati politici del processo che le autorità di Hanoi stanno organizzando contro i cattolici che hanno preso parte alle manifestazioni dei parrocchiani di Thai Ha, che chiedevano la restituzione del terreno della parrocchia, requisito dallo Stato. Non contenti di impedire a due degli imputati di vedere il loro avvocato, le autorità di Hanoi stanno infatti organizzando il processo in modo che sia anche estremamente difficile assistervi.
In primo luogo la data. Da tempo si sa che il 5 dicembre – giorno di inizio del procedimento giudiziario – ci sarà la cerimonia di consacrazione del nuovo vescovo ausiliare della capitale, mons. Chu Van Minh. Il che vuol dire che i sacerdoti saranna impegnati in cattedrale. Per consuetudine poi, i fedeli laici, e soprattutto quelli più impegnati, partecipano in gran numero a tali cerimonie e quindi anche loro saranno occupati e, come i preti, non andrnno in tribunale.
Non basta. La legge vietnamita prevede che i processi siano pubblici, a meno che non mettano a repentaglio la dignità del querelante. E non è questo il caso. Ma l’avvocato degli accusati, Le Tran Luat, ha fatto sapere, come riferisce Eglises d’Asie, che gli imputati sono stati avvertit, a voce, che per assistere a questo processo occorre presentare una domanda scritta. Il che, nota l’avvocato, è in palese contraddizione con il principio del processo pubblico e riflette l’intenzione di limitare il numero dei presenti. L’obbigo della richiesta scritta, inoltre, permette di sapere chi vuole esserci e ha sapore chiaramente intimidatorio.
Non basta ancora. E’ stato annunciato che il procedimento non si svolgerà al tribunale di Hanoi, ma al quarto piano di un palazzo del Comitato popolare (il municipio), in via Hoàng Cau, all’interno del distretto di Dong Da. E il 15 novembre un delegato del Comitato del popolo andò al convento dei Redentoristi, che hanno la cura della parrocchia di Thai Ha, dicendo di volere un incontro urgente. Una manovra chiaramente diversiva, mentre "centinaia di persone si riunivano per attaccare la cappella".
Un esperanto senza speranza - Autore: Riva, Sr. Maria Gloria Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 27 novembre 2008
George Orwell parlava di neo-lingua, cioè del tentativo del potere, nemico dell’uomo, di dare alle parole più vere e più sacre della vita un significato contrario a quello che il cuore dell’uomo ha sempre loro attribuito.
«Condannati a vivere, libertà di morire, pietà per la morte, cinismo di fronte alla strenua difesa della vita»: i mezzi di comunicazione sono ormai stracolmi di simili affermazioni contraddittorie.
Del resto è storia vecchia: più di 4000 anni fa a Babele si architettava la stessa cosa. Ciò nonostante, ogni volta, l’uomo è miope di fronte a certe devianze. Anche per questo la Chiesa, all’inizio di ogni anno liturgico, durante il periodo di avvento, pone ad esempio della vita dei cristiani Giovanni il Battista, il più grande fra i profeti.
Sì, profeta, nel senso greco di pro-fétes, di colui che indica presente ciò che è già nascostamente in atto nella storia. Il Battista ha additato ai suoi contemporanei Colui che veramente compie l’eugenetica dell’umanità. Colui che rende veramente buona ogni nascita, perché certa di un compimento di bene.
Ogni tempo ha i suoi profeti. Abbiamo recentemente visto un documentario sulla vita di uno che fu, davvero, un Battista per la sua generazione. Un vescovo-profeta tanto grande quanto sconosciuto ai più: Clemens August von Galen.
Di fronte all’avvento del Führer, egli fu tra i primi a riconoscerlo come verführer (cioè come seduttore, anticristo. (Nel 1933 in una trasmissione radiofonica Dietrich Bonhoeffer definisce Hitler non un führer (conduttore) ma un verfüher (seduttore). La trasmissione viene subito interrotta).
Prima che un’operazione dispotica di potere dalla connotazione politica, quella di Hitler fu un’operazione culturale tesa a modificare le coscienze.
La eugenetica di stampo hitleriano fece leva sulla conservazione della razza tedesca riconosciuta come ariana, e ideò pertanto un programma di valorizzazione della stessa (decretata come la sola degna dell’appellativo umano). Iniziò così lo sterminio dell’uomo disabile, o diversamente abile, o impotente in qualunque delle sue funzioni. Un’operazione che sollevò l’indignazione della Chiesa e che trovò, appunto, nel vescovo von Galen una delle voci più chiare e autorevoli. Il dramma della shoa, prima che essere un dramma antisemita fu un dramma antiumano. In questo contesto la Chiesa scatenò l’odio di Hitler, proprio per aver saputo smascherare in tempo reale la vera natura del progetto nazista.
Ora, come allora, la funzione profetica della Chiesa infastidisce. Nella predicazione hitleriana risuonavano parole a noi oggi tristemente familiari che, mentre pretendono di stare dalla parte dell’uomo, ne propugnano invece la autodistruzione. Se a quel tempo le idee hitleriane provenivano da un potere dichiaratamente dispotico, oggi queste stesse idee vengono sbandierate come segno di una più grande e più emancipata civiltà.
Dopo una fallace unità europea si vuole ora diffondere una neo-lingua che detti le coordinate valoriali della futura civiltà: un esperanto che odora di morte e di volontà di potere sull’uomo e sul suo mistero.
Le torri di Babele non sono passate di moda. Non interessa più raggiungere il Cielo ma testimoniare che il Cielo ormai è vuoto, occupato com’è dalle grossolane voci di un etere che sparge la sua nuova grammatica: strumentalizzare la morte e la vita, l’uomo e la donna per ridurre tutto a oggetto di consumo.
Gli Ebrei per il dialogo - Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: Corriere della Sera - giovedì 27 novembre 2008
Pubblichiamo questo articolo tratto dal Corriere della Sera del 26.11.08 dei nostri amici ebrei Guido Guastalla e Giorgio Israel
Molti ebrei italiani, impegnati da tempo nel dialogo con i fratelli cristiani, e cattolici in particolare, pur rispettando le decisioni prese il 17 novembre dalla Assemblea dei Rabbini d’Italia, esprimono il loro profondo dissenso da ogni tentativo di imporre la rottura del dialogo ebraico-cristiano e si impegnano a proseguirlo nelle forme e nei modi che riterranno più opportuni, sia con gruppi religiosi e laici sia con strutture riconducibili alle autorità ecclesiastiche.
La reintroduzione, nella preghiera in latino del venerdì precedente la Pasqua cristiana, della speranza di “illuminazione” per i fratelli ebrei è un fatto, per’altro limitato, circoscritto, al quale è seguita una spiegazione autorevole che ha fatto affermare al presidente dell’International Jewish Committee, Rabbino David Rosen: «Siamo molto grati per le chiarificazioni che abbiamo ricevuto dal Cardinale Kasper reiterate dal Cardinale Bertone nella sua lettera al Rabbino Capo di Israele, che affermavano che questa preghiera ha una natura escatologica e in nessun modo riflette nessuna presa di posizione di proselitismo nei confronti degli Ebrei».
Il Talmud ci insegna che le spiegazioni e i chiarimenti sono molto più importanti delle affermazioni del testo: ne rappresentano il completamento e costituiscono la corretta interpretazione di ciò che viene affermato. Queste spiegazioni, e gli atti conseguenti, come le reiterate affermazioni ufficiali soprattutto del Papa nella lotta all’antisemitismo, di amicizia e di affetto nei confronti degli Ebrei, ci inducono e ci convincono a considerare circoscritta e risolta la discussione, sia pure legittima, successiva alla reintroduzione nella preghiera in latino delle affermazioni oggetto di controversia.
Il dialogo e l’amicizia ebraico-cristiana sono troppo importanti – soprattutto nel contesto attuale di una gravissima crisi planetaria che ha implicazioni morali ed etiche di grande rilevanza e di altrettanto minacciosi pericoli da parte del fondamentalismo e terrorismo di matrice islamica – perché si possa pensare di interromperli o comunque di attenuarli e delimitando le modalità e gli interlocutori da prescegliere.
A cominciare dalla metà dell’Ottocento insigni studiosi e rabbini hanno iniziato, in condizioni ben più difficili ed ardue di quelle attuali, a proporre il problema del rapporto e del dialogo fra ebrei e cristiani nell’intento di superare millenni di incomprensioni, persecuzioni, di teologia della sostituzione e di quello che Jules Isaac chiamò “l’insegnamento del disprezzo”. Scriveva il grande rabbino livornese, kabbalista e filosofo, Elia Benamozegh in Israele e l’umanità : «Allora, la conciliazione sognata dai primi cristiani come una condizione dalla Parusia o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel grembo della Chiesa … si effettuerà in verità non nel modo in cui si è voluto attenderla, ma nel solo modo serio, logico e durevole, soprattutto nella sola maniera vantaggiosa per la nostra specie. Sarà come lo dipinge l’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, un ritorno del cuore dei figli ai loro padri e di quello dei padri ai loro figli (Ml. 3,24), vale a dire dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate».
Come l’unità dei due popoli già sussiste nelle mani di Dio, in modo misterioso, noi crediamo che, se lasceremo crescere la loro capacità di ascolto e di amore, i figli di Israele e i figli della Chiesa, potranno giungere dopo duemila anni di incomprensioni a quella riconciliazione nella differenza, la cui importanza e urgenza tutti gli uomini di buona volontà debbono riconoscere.
In una recente lettera il Papa Benedetto XVI ha osservato che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede», mentre è invece necessario «affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo» e «qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari». Questo è un approccio che prefigura un forma di dialogo corretto, alieno da confusi sincretismi e tentativi di riappropriazione, e volto a promuovere la dimensione religiosa nella sfera pubblica, obbiettivo questo che è fondamentale per l’ebraismo. Vogliamo ricordare, al riguardo, Isaia quando afferma: «È troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Isaia, 49,6) e «…Cessate di operare il male. Imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova» (Isaia, 1, 11-17)”.
Oltretutto ebraismo e cristianesimo hanno un terreno comune che li lega in modo assolutamente speciale, e che proprio per questo ha reso ancor più dolorose le vicende dei secoli passati. È un terreno che rende particolarmente necessario, importante e proficuo il dialogo. Vogliamo ricordare un testo dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, pubblicato nella primavera del 2001 come prefazione a “Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana”. Vi si diceva: «È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile a un rapporto positivo tra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune».
Su questo sentiero ormai largo e agevole, in questo campo dissodato, in questa vigna del Signore come disse il Papa durante il funerale di Giovanni Paolo II, vogliamo percorrere insieme la strada del dialogo e della redenzione e stare amabilmente insieme, secondo le parole del salmista: «Ecco, come è bello e come è dolce sedere fra fratelli che vivono d’accordo!… Perché il Signore vi ha imposto la benedizione e la vita per sempre» (Salmo, 133, 1-3).
Guido Guastalla
Assessore alla cultura Comunità ebraica Livorno
Giorgio Israel
Professore all’Università di Roma “La Sapienza”
INDIA/ Il dio serpente del terrorismo globale - Roberto Fontolan - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Ricordava un saggio pubblicato dalla rivista Oasis che nell’atlante mondiale del terrorismo l’India ha conquistato il suo posto di rilievo ormai da parecchio tempo. Sono passati sessanta anni dall’uccisione del padre della patria, il Mahtama Gandhi, per mano di estremisti hindu, 24 da quella di Indira Gandhi ad opera dei sikh e 17 da quella di Rajiv Gandhi causata dai guerriglieri tamil. Nella più grande democrazia del mondo c’è una certa propensione ad ammazzarne i leader. Ma non si tratta solo di omicidi eccellenti, perché in questo non ci sarebbero differenze abissali dagli Stati Uniti degli anni Sessanta o dall’Italia e Germania degli anni di piombo. Le stragi accompagnano l’India moderna, che pure ottenne l’indipendenza grazie alla spettacolare campagna non violenta del Mahatma contro la dominazione inglese. Ma come è accaduto troppo frequentemente (si pensi alla Palestina o a Cipro) i britannici lasciarono dietro le spalle le braci ardenti di incendi che sarebbero ben presto divampati. E così la separazione del Pakistan, concepito come la patria dei musulmani, fu accompagnata da una terrificante violenza i cui echi non si sono mai spenti. E le periodiche insurrezioni delle caste, i conflitti etnico-nazionalisti (nel Punjab dei sikh, nel Tamil Nadu, nell’Assam), la guerra a bassa ma continua intensità con il Pakistan per il Kashmir (ne ha scritto recentemente Arundhati Roy, autrice del magnifico romanzo Il dio delle piccole cose, dedicato al dramma degli intoccabili), gli scontri politici sollevati dalle svariate formazioni comuniste. Il casus belli della recente ondata delle persecuzioni anticristiane dell’Orissa è stato l’assassinio di un leader hindu rivendicato da un gruppo maoista -meccanismi che ricordano i pogrom antiebraici nella Russia di fine Ottocento.
Massacri e attentati più familiari alla nostra immagine di terrorismo (autobombe, agguati, esplosioni nei mercati e nelle stazioni, assalti) sono relativamente più recenti. Dal 1992 fino all’altro ieri vengono enumerati oltre milleduecento civili morti in attentati di ogni genere.
I fatti di Mumbai allungano la catena, ma insieme mostrano qualcosa di diverso (o almeno lo mostrano in modo clamoroso). C’è la mano o l’idea di Al Qaeda, c’è la caccia ad americani e britannici, c’è un gruppo che dichiara il legame con il jihad, la guerra “santa” del musulmano, la cui interpretazione non è affatto univoca. Emerge cioè la natura del terrorismo globalizzato, quello che non ha una radice locale, etnica o nazionalistica, ma che di queste radici può nutrirsi; quello che non ha una origine politica, ma su di essa può prosperare: è Alien, il mostro che il cinema ha immaginato vicino a noi, dentro di noi, e che la realtà ci ha fatto conoscere “grazie” all’11 settembre. Non è circoscrivibile a una ragione ideologica o a una zona geografica, perché supera ogni tipo di barriera. Pensateci. Dall’Afghanistan in Algeria, da Israele al Libano, Somalia, Irak e Indonesia, e poi Madrid, Londra, Mosca. Un serpente nero che corre veloce sulla mappa del mondo. Lo squadrone dei terroristi veniva dal Pakistan, giurano le autorità indiane. E’ lì uno dei buchi neri del pianeta, una delle tane di Alien (come aveva presentito Bernard Henri Levy nello sconvolgente libro inchiesta Chi ha ucciso Daniel Pearl?).
STORIA/ Gramsci, l'enigma del figlio prediletto ma scomodo del PCI - INT. Giancarlo Lehner - venerdì 28 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Il fondatore del PCI si sarebbe convertito in punto di morte. È quanto ha affermato mons. Luigi de Magistris propenitenziere emerito del Vaticano nonché conterraneo del pensatore alerese. Oltre al grande scalpore della notizia, restano molti dubbi. Ma una cosa è certa, Antonio Gramsci da un certo punto della sua vita in poi cambiò radicalmente alcune sue convinzioni politiche e morali. Giancarlo Lehner, storico e giornalista, studioso del comunismo e biografo di Gramsci esprime la propria opinione
È possibile che la prima educazione di stampo cattolico ricevuta da Antonio Gramsci abbia influito nel suo pensiero?
Di primo acchito direi che in questa vicenda la questione dell'educazione ricevuta si pone nettamente in secondo piano. Gramsci frequentò un asilo di suore, ma penso che la cosa non abbia avuto alcun peso nella sua riflessione interiore. Premettendo che quando si parla di “conversione” di Gramsci occorre necessariamente calcare il terreno delle ipotesi, poiché non esistono, o ancora non sono stati ritrovati, documenti scritti, andrei piuttosto a vedere quelli che sono stati i dolori di Antonio Gramsci. Induttivamente infatti si può affermare che le sofferenze subite sia dal carcere fascista sia dalla consapevolezza fortissima del tradimento dei suoi compagni di partito portò Gramsci a rivedere molte delle sue precedenti posizioni.
Quali furono i compagni dai quali si sentì tradito?
In particolar modo fu tradito da Togliatti. Questo è lui stesso ad affermarlo nelle sue lettere. Credo che non ci sia sofferenza più grave che scoprire, o comunque supporre, di essere traditi dai propri amici perché il fatto che gli avversari possano volere il tuo male rientra nella logica, mentre tutte le tue certezze si affidano ai tuoi compagni e se questi vengono meno allora crollano molte convinzioni. Si evince dalle lettere di Gramsci e dall'impianto dei suoi pensieri negli ultimi scritti che egli si allontana via via dal fondamento stesso del comunismo. Fondamento che in un primo momento anch'egli individuava nella lotta, la lotta di classe, l'intolleranza nei confronti dell'avversario politico. Gramsci si avvicinò, e anche questo è comprovato, ai grandi valori cristiani fino a mutare completamente il proprio modo di intendere i rapporti umani.
Può spiegarci in che cosa mutò questo atteggiamento?
Faccio un esempio. Un avversario forte di Antonio Gramsci sul piano politico e delle idee fu senza dubbio Amedeo Bordiga, fondatore del PcdI, il Partito Comunista d'Italia. Fu un personaggio dogmatico e di grande coerenza e fra Bordiga e Gramsci ci fu un asperrimo conflitto ideologico. Ciononostante Gramsci conservò per tutta la vita un rapporto di affettuosa amicizia, di stima e benevolenza nei confronti di Bordiga.
Questa che sembra una banalità è invece un fatto fondamentale perché si parla di un periodo storico in cui l'ideologia comunista sovietica favoriva l'eliminazione fisica dell'avversario senza mezzi termini, quand'anche questi fosse un compagno di partito. Se qualcuno osava uscire dall'ortodossia del comunismo veniva considerato un vero e proprio traditore. Gramsci invece, pur nel dissenso, conservò un rapporto esemplare verso coloro che erano ideologicamente lontani da lui.
Altri significativi cambiamenti di rotta?
C'è un recupero fortissimo del valore della famiglia, tant'è che va a ritirarsi in Sardegna, appena esce di prigione e ne ha l'occasione, invitando i propri cari a seguirlo. A quel punto Gramsci non era nient'altro che un comunista talmente deluso dallo stalinismo che una volta libero non poteva nemmeno pensare di andare in URSS ad unirsi con moglie e figli a Mosca, ma piuttosto di portare i propri cari a vivere nell'Italia fascista. Forse non ce ne rendiamo abbastanza conto, ma è un fatto epocale quello che vede il fondatore del PCI preferire il regime di Mussolini a quello di Stalin.
Tutto quanto lei afferma è davvero sorprendente e, soprattutto, sconosciuto ai più. Ma è tuttavia bastante per confortare la tesi della conversione?
No, non è sufficiente per poter affermare che Gramsci si convertì al cattolicesimo. Infatti ho parlato soltanto del fatto che da un certo punto in poi egli sceglie di seguire dei valori differenti i quali sono in modo generico “cristiani”. Io non dispongo di prove scientifiche per avvalorare quello che ha detto il cardinale De Magistris. Però diciamo pure che non mi meraviglierei, nel caso fosse dimostrata la sua conversione. Ma sia chiaro un concetto: non mi fido molto delle conversioni in punto di morte, non in senso morale, ma storico. Da un punto di vista scientifico una conversione in punto di morte non è quasi mai documentabile. Il fatto che Carducci, anticlericale e autore dell'Inno a Satana si sia convertito poco prima di morire, non cambia l'accezione del suo contributo alla letteratura. Quello che voglio precisare è che in Gramsci, certamente, al di là della conversione c'è un discorso di riavvicinamento a certi valori che sicuramente non sono comunisti.
In quali scritti si trova preponderantemente questo riavvicinamento?
Nelle lettere e in alcuni ragionamenti contenuti nei suoi quaderni. Con un'avvertenza: sia le lettere sia ancor più i quaderni sono scritti spesso in forma criptica. Nel mio libro La famiglia Gramsci in Russia parlo di “lessico dell'acquario”. Gramsci infatti è come un pesce che nuota nell'acquario che è il carcere fascista ed è consapevole che tutto quello che scrive sarà spiato sia dal fascismo che dai comunisti perché le lettere erano indirizzate a Mosca.
Esistono altri testimoni della conversione di Gramsci?
Sì, nel '77 un altro monsignore parlò di un racconto delle suore della clinica Quisisana a Roma. La notizia in effetti non è del tutto nuova. Se poniamo che sia vera dobbiamo porre anche il fatto che probabilissimamente le prove scientifiche siano state “sbianchettate” perché certamente il PC degli anni '50 non poteva tollerare una cosa simile. L'unica speranza è che magari in futuro la Chiesa fornisca una documentazione scientificamente attendibile o quanto meno dei seri indizi.
C'è anche qualche compagno di partito che ha mai accennato a qualche ripensamento di Gramsci in chiave religiosa?
No! Figuriamoci, il fatto più drammatico della vicenda Gramsci è che il PC ci ha descritto un uomo che non è mai esistito. Lo ha sempre presentato come un fervente stalinista mentre il merito più grande di quest'uomo è stato che, trent'anni prima della denuncia dei crimini staliniani fatta da Krusciev pose a Togliatti, nell'ottobre del 1926, il problema dei “metodi” di Stalin. Il che è, secondo me, straordinario.
Questa sua “profezia” in un certo senso l'ha pagata in modo durissimo: non lo doveva dire, lo ha detto e l'ha pagata. Il partito lo ha massacrato diffamandolo, lo ha presentato per anni come un fautore di Stalin. Si aggiunga poi che il PCI ha letteralmente rubato i diritti d'autore alla famiglia Gramsci. Anche questo è ampiamente documentato nel mio libro. Il Partito Comunista italiano È riuscito, sebbene questi fossero alla fame, a rubar loro i diritti fino al 1996.
Qualora si accertasse l'effettiva conversione di Antonio Gramsci, ciò comporterebbe anche un diverso approccio nello studio delle sue opere?
Direi certamente di sì, ovviamente avrebbe conseguenze. Ma devo dire che già chiunque si accinga a scrivere oggi un su Antonio Gramsci deve rendersi conto che certe bugie e falsificazioni non reggono più.
«Anche nel vuoto, i sorrisi e gli sguardi di Davide mi danno gioia» - DA RIMINI PAOLO GUIDUCCI – Avvenire, 28 novembre 2008
« S taccare la spina? La spina si può staccare a un elettrodomestico, non a una vita». Amedea Parma va dritta al cuore della questione, senza troppi giri di parole. Potrebbe fare altrimenti una madre che da 8 anni accudisce il figlio in stato vegetativo? «Sono molto turbata per il caso di Eluana – ammette la signora Parma, 60 anni tra poche settimane, riminese – non voglio giudicare nessuno ma allo stesso tempo non posso tacere: don Oreste Benzi mi inciterebbe a far conoscere la mia esperienza. Se mi permetto di prendere la parola è perché anche io vivo le stesse sofferenze del padre di Eluana». Duemila, anno del Giubileo. È il giorno della festa del papà: Davide ha 27 anni, all’ora di cena il suo posto a tavola è vuoto. Alle 20 suonano alla porta ma invece del ragazzo spuntano le divise dei carabinieri. «Davide è in ospedale, nel reparto rianimazione, le sue condizioni sono gravi, molto gravi». La causa è un’overdose. Ad attendere Amedea e il marito, in ospedale, c’è la diagnosi dei medici, che suona come una sentenza senza appello. Davide è in pericolo di vita e anche se riuscisse a sopravvivere per lui non ci sarebbe più stato niente da fare: lo attendeva lo stato vegetativo, la stessa diagnosi fatta a Eluana. «Una sentenza terribile, dolorosa, durissima da accettare » ricorda la mamma. Dopo 20 giorni, Davide è inserito in reparto e qui rimane per due mesi dopodiché viene trasferito in una struttura per la riabilitazione. Davide è intubato, si nutre attraverso un sondino naso-gastrico, soffre di gravi broncopolmoniti con febbre altissima. Il quadro clinico è disperato; mamma, papà e il fratello lo assistono continuamente: «Gli facevamo sentire la nostra presenza». Dopo quattro mesi è giunto il momento delle dimissioni. La famiglia è indecisa sul da farsi, e la soluzione che viene suggerita da un esperto è il ricovero in una residenza sanitaria assistita. «Con mio marito e mio figlio ci siamo guardati negli occhi – racconta Amedea –, il pensiero era lo stesso: portiamolo a casa». Davide e la famiglia sono parrocchiani di don Oreste Benzi, «il prete degli ultimi». A casa, alla Grotta Rossa di Rimini, torna un «bimbo» di 27 anni, da gestire come un neonato. Da accudire in continuazione: per questo mamma Amedea vive nella sua camera. C’è da azionare l’ossigeno, fare punture, eliminare l’eccessivo catarro. «Non sapevo come gestire questa nuova drammatica situazione – ammette la madre –. I primi due anni sono stati per me una tragedia incondizionata». Davide ha lo sguardo nel vuoto, non manifesta reazioni, nonostante gli stimoli che arrivano dai familiari.
Amedea ricorda quei giorni: «Avevo pensato di farla finita, perché venivo già da un altro enorme dolore: la perdita di un figlio morto a soli 12 anni in seguito a incidente stradale». Con il nuovo dramma ad Amedea crolla il mondo addosso. «Sono stati due lunghi anni: per questo capisco la sofferenza del padre di Eluana nell’accettare la condizione del suo stato vegetativo. A un certo punto, però, ognuno di noi deve scegliere». Amedea ha scelto la vita, e si è sposata per la seconda volta, «con la vita. E mio figlio ha percepito il mio, il nostro abbandono, che lo avevamo accettato incondizionatamente e ha iniziato a dare segnali positivi». Davide, questo trentenne dai capelli castano scuro, per i medici resta in stato vegetativo, ma nessuno, incontrandolo in casa, seduto sulla carrozzina, direbbe che è «assente». «Sta bene, sorride, sorride spesso, è presente. Nel suo silenzio, nella sua immobilità, è parte integrante della nostra famiglia». Simone, il fratello minore, sposato da un anno, fuga ogni dubbio. «Mamma, sta’ tranquilla: ci pensiamo noi a Davide, non andrà in istituto». Due anni fa Davide ha subito l’asportazione del rene: per complicazioni è andato sotto i ferri per tre volte nell’arco di 15 giorni. «Secondo i medici, non avrebbe retto neppure alla prima operazione – ricorda mamma Amedea –. Invece ce l’ha fatta, oggi sta bene ed è qui con noi». Il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, ha fatto visita al ragazzo ed è in contatto con i familiari. Oggi il pensiero di Amedea va però a Eluana Englaro e piange. «In un momento di tristezza, di sofferenza, di buio, si possono dire tante cose. Ma chi siamo noi per togliere la vita? Non sta a noi decidere. Un sorriso di Davide, un suo sguardo, anche nel vuoto, mi dona serenità e mi riempie di gioia. Come posso staccare la spina a questo figlio?».
«Capisco il dolore del padre di Eluana – dice la madre di un ragazzo in stato vegetativo a Rimini – ma chi siamo noi per togliere la vita? La spina si stacca agli elettrodomestici»
IDEE. Una pagina della storia moderna da rivedere superando la leggenda nera: studiosi a confronto a Milano. L’esigenza di una nuova storiografia - L’Inquisizione oltre i luoghi comuni - DA MILANO ANTONIO GIULIANO – Avvenire, 28 novembre 2008
Inquisizione. Basta la parola per evocare qualcosa di sinistro: tribunali spietati, processi sommari, roghi e caccia alle streghe. Una pagina di storia sbandierata spesso dall’orgoglio anticlericale per mettere la Chiesa con le spalle al muro.
Eppure qualche anno fa Giovanni Paolo II si chiedeva: «Nell’opinione pubblica l’immagine dell’Inquisizione rappresenta quasi una forma di antitestimonianza e di scandalo.
In quale misura questa immagine è fedele alla realtà?». In quell’occasione papa Wojtyla manifestava apprezzamento per uno storico Simposio internazionale sull’Inquisizione tenutosi in Vaticano nel 1998.
Dieci anni dopo, sulla scia di quell’evento, si è aperto ieri a Milano, presso la Biblioteca Ambrosiana, un convegno internazionale su «L’Inquisizione romana in età moderna e il caso milanese». Fino a domani tre giornate di riflessione promosse dalla Classe di Studi Borromaici dell’Accademia Ambrosiana. Tra i relatori teologi e storici, laici e credenti, come Franco Buzzi, John Tedeschi, Adriano Prosperi, José Martìnez Millán, Elena Brambilla, Claudia di Filippo, Gianvittorio Signorotto. Ieri prima dell’inizio dei lavori c’è stato il saluto dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi.
Il prefetto dell’Ambrosiana Franco Buzzi è sicuro: «Non bisogna aver paura di trattare un tema così complesso. Bisogna distinguere innanzitutto tra le varie fasi storiche dei processi inquisitoriali: quella di maggiore intensità ci fu nel 1500. Sia sul fronte cattolico, che su quello protestante. Oggi però manca ancora uno studio organico sulla teologia che ha sostenuto l’Inquisizione. Perché non si può ridurla a fenomeno di violenza tout court. Nella mentalità cinquecentesca era importante preservare la dottrina pura per mantenere salda l’intera società.
E anche la teologia ha finito per risentire del contesto storico e dell’ambiente». Ma non è un tentativo di assoluzione: «Si tratta - spiega il teologo - di riconoscere che l’Inquisizione fu una soluzione figlia del suo tempo.
Siamo tra Medioevo ed età moderna: il cristianesimo era la religione della città, non c’era ancora distinzione tra potere spirituale e temporale. Per la concezione politica dell’epoca non era accettabile che venisse turbato l’ordine pubblico da malfattori, ladri o assassini. A maggior ragione non era tollerabile il fatto che ci fossero coloro che procuravano la morte dell’anima: l’eresia era crimine ancor più atroce. Creava una situazione di degrado nella società con conseguenze nell’eternità». Sconcertano comunque i rimedi: «Oggi può apparire imbarazzante - dice Buzzi - quella mancanza di rispetto per la persona che dissentiva. Il diritto naturale dell’uomo alla libertà civile e religiosa non era stato ancora affermato. Ma l’abuso maggiore fu il tentativo di far crollare il segreto della confessione. Tra il XVI e il XVII secolo poi il prete più che rivelare il segreto, ritardava l’assoluzione finché il penitente si andasse ad auto-accusarsi…».
John Tedeschi, storico emerito dell’università del Wisconsin (Usa), rileva come l’opera di censura dell’Inquisizione romana spinse all’estero molti intellettuali italiani che avevano aderito al protestantesimo: «L’Italia soffrì di una grave perdita, però la loro fuga permise il diffondersi della cultura rinascimentale nel nord Europa.
Questi emigrati furono responsabili di una produzione impressionante di traduzioni e scritti originali. Fecero conoscere fuori dai confini italiani letterati come Tasso, la cui prima edizione all’estero della Gerusalemme Liberata uscì a Londra nel 1584. E poi gli esempi migliori del pensiero politico italiano come Guicciardini e Machiavelli, che era uno dei tanti autori proibiti in quel tempo al di qua delle Alpi.
Perfino il De Monarchia di Dante, opera censurata e rimasta manoscritta in Italia per la sua esaltazione dell’autorità imperiale, vide la luce a Basilea nel 1559 grazie all’ex vescovo di Capodistria, passato al luteranesimo, Pier Paolo Vergerio». Tuttavia, fa notare Tedeschi, ci fu anche un’emigrazione di segno opposto: «Ci furono casi di esiliati che furono espulsi dalle città estere per gli scontri con le autorità religiose locali: furono processati per atti di indisciplina e blasfemìa. Sappiamo dalle sentenze inquisitoriali conservate al Trinity College di Dublino, che ci fu un grosso movimento da tutte le parti d’Europa: sociniani dalla Polonia, calvinisti scozzesi, ugonotti dalla Francia, evangelici italiani della seconda generazione dalla Valtellina, si misero tutti in viaggio verso Roma per essere volontariamente riconciliati con la Chiesa.
Divennero così numerosi nel corso del Seicento che nel 1673 fu fondato a Roma un 'Ospizio dei convertendi', per facilitare la loro reintegrazione». Sembra giunto davvero il tempo per mandare al rogo tanti luoghi comuni: «Nella maggior parte dei processi inquisitoriali - precisa Buzzi- non c’era tortura. E poche volte si fece ricorso alla pena estrema. Gli accusati godevano di una certa tutela: non è un caso se potendo scegliere tra tribunale civile o religioso, molti preferivano quest’ultimo perché dava più garanzie. Oggi però per fortuna stanno cadendo le divisioni ideologiche, c’è una nuova storiografia che si preoccupa non tanto di giudicare la storia, ma di ricostruirla e intenderla».
Franco Buzzi, prefetto dell’Ambrosiana: «Manca uno studio organico della teologia che la sostenne. La storia non va giudicata, ma ricostruita» Lo storico John Tedeschi: «L’Italia soffrì di una grave perdita e molti intellettuali fuggirono all’estero. Ma il Rinascimento sbarcò nel Nord Europa»
Galli della Loggia e D’Agostino: la laicità nasce nel cristianesimo - Lo storico: «Ci sono valori indisponibili, la crisi attuale rischia di cedere al diktat delle tecnoscienze». Il filosofo: «Senza l’etica la scienza torna a essere il regno di Faust» - DAL NOSTRO INVIATO A GENOVA PAOLO VIANA – Avvenire, 28 novembre 2008
L o sfolgorio del presbiterio ricorda che i genovesi lavorano da secoli a quel «corretto rapporto tra la dimensione della fede e la laicità della vita civile» cui il cardinale Angelo Bagnasco esorta gli italiani. L’oro zecchino, le sante figure e le cornici barocche, tutto quel che sovrasta l’altare di San Lorenzo - informa un’iscrizione del 1624 viene dalle casse della repubblica di Genova. Questo trionfo di ricchezza laica nel massimo tempio della cattolicità genovese è solo uno dei segni del connubio che sotto la Lanterna è riuscito, tra alti e bassi, a sfidare il tempo e che mercoledì ha richiamato in San Lorenzo la folla delle grandi occasioni. «La nostra cattedrale è aperta a tutti, indistintamente» ha annunciato l’arcivescovo, illustrando il ciclo di conferenze che si terranno fino a febbraio nella chiesa madre. Al suo appello ha risposto lo storico Ernesto Galli della Loggia. «Nel momento in cui si distruggono un mondo morale e un mondo sociale, chi è educato al senso della laicità non credente non può che manifestare una profonda incertezza e questo porta a nuove sintonie» ha detto aprendo la discussione su 'fondamenti della laicità e nuove sfide'. Dall’altra parte del tavolo, il filosofo del diritto Francesco D’Agostino; tra i due, come moderatore, Dino Boffo. Il direttore di
Avvenire ha invitato a utilizzare il registro del Concilio - «credenti e non credenti possono condividere l’impegno alla retta edificazione di questo mondo» - e Galli della Loggia ha riconosciuto che «la laicità si fonda sull’annuncio cristiano e sulla polarità dell’esercizio separato dei due poteri, Stato e Chiesa, che non comporta la separazione delle due sfere: in questa polarità si è formato il destino dell’Occidente come terra della libertà politica, perché su questa base è stato forgiato l’obbligo del potere di non violare il comandamento morale, la soggezione del potere politico al giudizio delle coscienze».
Il cristianesimo, insomma, come culla della libertà politica e della democrazia, ragionamento che può apparire iperbolico in tempi di scontri su presunte 'ingerenze' ecclesiastiche, ma che D’Agostino ha rafforzato dal punto di vista filosofico, sostenendo che «per il concetto cristiano di laicità è fondamentale che esista un mondo uguale per tutti e crea opportunità per tutti. Il cristiano dirà che è buono perché creato da Dio ma anche chi non ha la fede percepirà che esso è per noi, che è offerto alla ragione e alla conoscenza scientifica, perchè il cristiano ha il dovere di conoscere il mondo nella sua oggettività».
Dall’ontologia al caso Englaro il passo è breve: il rapporto tra fede, laicità e scienza è un tasto irresistibile per il filosofo del diritto ma soprattutto per l’ex presidente del Comitato nazionale di bioetica e infatti D’Agostino a Genova ha richiamato il mondo laico a «dar credito all’idea che il mondo esista e che esista un oggettività che concerne le cose del mondo, perché quando si distacca da questa sua matrice cristiana il mondo diventa una favola, alla maniera di Nietzsche, che ognuno può riformulare». Quindi, ha paragonato chi vuole sottrarre la sperimentazione scientifica al controllo etico e rivendica il diritto all’eutanasia a un novello Faust, che parte dal disconoscimento dell’oggettività del male, mentre «il peccato appartiene al mondo e ha una sua verità».
L’interlocutore è parso d’accordo: «Ci sono valori costitutivi del vincolo sociale che sono indisponibili, che non si possono mettere ai voti», ha detto Galli della Loggia, rilevando che i problemi della laicità sono iniziati con il «disancoraggio delle società cristiane dal cristianesimo». Per lo storico è fatale lo spegnimento della soggettività etica, dell’idea che l’individuo e la società si costruiscano intorno ad alcuni valori condivisi e a relazioni impegnative. Con queste conseguenze: «Giuridicizzazione di tutti gli aspetti della vita e trasformazione della scienza in tecnoscienza». E un pendant politico. «Con il tramonto della soggettività etica - ha ammesso lo storico - la laicità tende a diventare la negazione del rilievo storico della religione e la sua delegittimazione». Ha un bel ricordare D’Agostino che «il cristianesimo non tradirà il principio di laicità» perché «tradirebbe se stesso, diventando fondamentalista», in quanto il rischio paventato dal filosofo - «se la laicità non prende sul serio il cristianesimo tradisce se stessa» - per lo storico è già un fatto: «non c’è più un problema di 'confini' tra le due sfere - ha detto Galli della Loggia - ma è in atto il tentativo di espellere la religione dallo spazio pubblico e di espellere la naturalità della vita privata».
Ernesto Galli della Loggia