domenica 23 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 23/11/2008 12:13 – VATICANO - Papa: se si rifiuta il regno di Dio, il mondo non può che andare in rovina - Alla recita dell’Angelus Benedetto XVI torna a parlare della carità come "criterio" del giudizio finale. Un pensiero alla beatificazione, domani a Nagasaki, di 188 martiri giapponesi ed il ricordo della “grande carestia” che 75 anni fa costò all’Ucraina milioni di morte.
2) La "Humanae vitae" e la moderna questione sociale - ROMA, sabato, 22 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo l’introduzione al volume di Michel Schooyans, La profezia di Paolo VI. L’enciclica Humanae Vitae (1968) (Edizioni Cantagalli, Siena 2008), monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla dottrina sociale della Chiesa.
3) 22/11/2008 12:14 – VATICANO - Papa: alla fine, il criterio col quale saremo giudicati sarà l’amore, la carità concreta - Il regno di Dio si estende sull’universo intero, ma è messo “a rischio” dalla libertà che ogni uomo ha di scegliere “con chi allearsi”, se con Gesù o con il diavolo. A Dio “non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.
4) Eluana e il diritto - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 22 novembre 2008 - Perché mai non dovrebbe rilevare il ‘diritto alla vita’ nella richiesta di interruzione dell’alimentazione forzata?
5) Lunedì 24 novembre a Nagasaki la beatificazione di Pietro Kibe Kasui e di 187 compagni martiri - Testimoni coerenti di Cristo - fino all'estremo sacrificio - di Diego Yuuki – L’Osservatore Romano, 23 novembre 2008
6) Una storia ecclesiale segnata dalla sofferenza e dalle persecuzioni - Da san Francesco Saverio l'impulso per evangelizzare il Giappone - di Fuyuki Hirabayashi, L’Osservatore Romano, 23 Novembre 2008
7) COME AD «ACCANIMENTO TERAPEUTICO» - QUANTE CONTORSIONI DIETRO LA PAROLA EUTANASIA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 novembre 2008
8) LA CATENA DI VEGLIE PER ELUANA CHE STA ATTRAVERSANDO IL PAESE - Non sit-in di pressione politica ma libera, genuina invocazione - MARINA CORRADI – Avvenire, 23 novembre 2008
9) IL SUICIDIO IN DIRETTA SU INTERNET DI UN 19ENNE AMERICANO - Quando va in scena la morte nella solitudine del Web - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 23 novembre 2008


23/11/2008 12:13 – VATICANO - Papa: se si rifiuta il regno di Dio, il mondo non può che andare in rovina - Alla recita dell’Angelus Benedetto XVI torna a parlare della carità come "criterio" del giudizio finale. Un pensiero alla beatificazione, domani a Nagasaki, di 188 martiri giapponesi ed il ricordo della “grande carestia” che 75 anni fa costò all’Ucraina milioni di morte.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Il “regno” di Gesù non è quello dei “capi delle nazioni”, non è di questo mondo, ma “porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia. Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina”. Benedetto XVI ha spiegto così, oggi, il significato della solennità di Gesù re dell’universo ai 30mila fedeli presenti in piaza San Pietro per la recita dell’Angelus.
“La regalità di Cristo, infatti, è rivelazione e attuazione di quella di Dio Padre, il quale governa tutte le cose con amore e con giustizia. Il Padre ha affidato al Figlio la missione di dare agli uomini la vita eterna amandoli fino al supremo sacrificio, e nello stesso tempo gli ha conferito il potere di giudicarli, dal momento che si è fatto Figlio dell’uomo, in tutto simile a noi (cfr Gv 5,21-22.26-27)”.
Come già ieri in un discorso rivolto ad un pellegrinaggio di Amalfi il Papa ha oggi ricordato il passo di Matteo. “‘Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto’ (Mt 25,35) e così via”. “Le immagini – ha proseguito - sono semplici, il linguaggio è popolare, ma il messaggio è estremamente importante: è la verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati”. “Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali”.
“Cari amici – ha detto poi Benedetto XVI - il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive san Paolo, è ‘giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo’ (Rm 14,17). Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita, e che specialmente i suoi figli più ‘piccoli’ possano accedere al banchetto che lui ha preparato per tutti. Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice ‘Signore, Signore’ e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola. Per questo la Vergine Maria, la più umile di tutte le creature, è la più grande ai suoi occhi e siede Regina alla destra di Cristo Re. Alla sua celeste intercessione vogliamo affidarci ancora una volta con fiducia filiale, per poter realizzare la nostra missione cristiana nel mondo”.
Un concreto esempio di tale missione è stato indicato dal Papa nei 188 martiri giapponesi che saranno beaificati domani, a Nagasaki. Dopo la recita dell’Angelus, salutando i fedeli italiani ed anche quelli inglesi, infatti ha detto che “domani, in Giappone, nella città di Nagasaki, avrà luogo la beatificazione di 188 martiri, tutti giapponesi, uomini e donne, uccisi nella prima parte del XVII secolo. In questa circostanza, così significativa per la comunità cattolica e per tutto il Paese del Sol Levante, assicuro la mia spirituale vicinanza”.
Un pensiero, infine, ad uno scarsamente ricordato episodio, il 75mo anniversario di quando fu volontariamente provocata “l’Holodomor – la ‘grande carestia’ – che negli anni 1932-1933 ha causato milioni di morti in Ucraina e in altre regioni dell’Unione Sovietica durante il regime comunista. Nell’auspicare vivamente – ha concluso il Papa - che nessun ordinamento politico possa più, in nome di una ideologia, negare i diritti della persona umana e la sua libertà e dignità, assicuro la mia preghiera per tutte le vittime innocenti di quella immane tragedia, e invoco la santa Madre di Dio perché aiuti le Nazioni a procedere sulle vie della riconciliazione e costruire il presente e il futuro nel rispetto reciproco e nella ricerca sincera della pace”.



La "Humanae vitae" e la moderna questione sociale - ROMA, sabato, 22 novembre 2008 (ZENIT.org).- Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo l’introduzione al volume di Michel Schooyans, La profezia di Paolo VI. L’enciclica Humanae Vitae (1968) (Edizioni Cantagalli, Siena 2008), monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla dottrina sociale della Chiesa.
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Introduzione
La Humanae vitae e la moderna questione sociale
La ricorrenza del quarantesimo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI (25 luglio 1968) è da celebrarsi anche come momento importante nella storia della dottrina sociale della Chiesa. Quali sono i legami tra un’Enciclica che parla di riproduzione, di controllo delle nascite, di sessualità e la dottrina sociale della Chiesa? Le argomentazioni di Michel Schooyans costituiscono una risposta a questa domanda, ma dato che ormai, 40 anni dopo la Humanae vitae, questi nessi sono letteralmente esplosi, al punto che nessuno ha più alcun dubbio sul fatto che le tematiche della vita occupino un posto centrale nella moderna «questione sociale», vorrei proporre qualche riflessione. Spero che da quanto dirò si potranno cogliere meglio le ragioni non solo della presenza di questo libro nella nostra Collana, ma anche, più in generale, della sempre maggiore necessità di considerare questo tipo di problematiche come non estranee o marginali rispetto alla costruzione della società secondo l’obiettivo del vero bene comune.
Il rapporto tra sessualità umana e società è stato piuttosto trascurato, per lungo tempo, tanto che oggi, per molte persone, diventa difficile addirittura coglierlo. Eppure è un rapporto di fondamentale importanza. Alla base della società non stanno semplicemente due individui asessuati, ma una coppia, un uomo e una donna che si accolgono reciprocamente e, donandosi, si aprono alla vita. La polarità maschio-femmina è una dimensione fondamentale della relazionalità umana, dell’essere dell’uomo che è relazione. La dottrina sociale della Chiesa insegna che la socialità nasce dalla persona umana, una creatura «uni-duale, come insegna Benedetto XVI, riprendendo una efficace definizione impiegata da Giovanni Paolo II. Da questa realtà deriva la grande importanza antropologica e sociale della sessualità. L’incontro sessuato tra maschio e femmina, non è solo «eros», è anche «agape», fin dall’origine, anche se i due amanti non ne sono pienamente consapevoli. Questo perché l’amore, che si esprime anche nella sessualità, ci mostra quanto è a noi indisponibile, una relazione profonda, non di tipo strumentale. L’amore «accade», non si può programmare: l’altro non è mai strumentalizzabile. Benedetto XVI afferma che «l’amore tra uomo e donna… non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all’essere umano». Giustamente è stato osservato che «In questo “imporsi” si verifica un interessante dinamismo: il soggetto amante si trova a riconoscere la mossa amorosa come totalmente propria, coinvolgente e, in qualche modo, totalizzante la propria esistenza e la propria soggettività, ma nello stesso tempo non disponibile a sé nel suo accadere, e tanto meno nel suo realizzarsi». L’amore viene dal di fuori, viene da altro, irrompe: chi ama fa esperienza della gratuità, della vocazione, grazie alla quale si apprezza in molti modi il senso e il valore della propria libertà che si lega quella di un’altra persona. Questa gratuità, questa libertà, questa indisponibilità non possono, proprio in quanto tali, non essere aperte alla vita. È qui l’origine delle due caratteristiche, quella unitiva e quella procreativa, dell’unione sessuale, indicate dall’Humanae vitae. Tali caratteristiche non possono essere disgiunte perché è la logica dell’amore umano a tenerle insieme. La logica contraccettiva introduce, invece, un elemento strumentale dentro l’accadere dell’amore e trasforma l’uomo e la donna, uniti gratuitamente da qualcos’altro e quindi «coppia», in due individui. L’atto sessuale viene separato dall’apertura all’accadere dell’amore e alla vita e, quindi, dall’apertura all’incondizionato. Quanto succederà molti anni dopo con l’inseminazione artificiale extracorporea, che separa la sessualità dal concepimento, minando le basi stesse della famiglia e trasformando la sessualità in tecnica, era in qualche modo già stato avviato con la contraccezione. Se la coppia, aperta a una vocazione d’amore non strumentale, viene sostituita con due individui, allora l’esperienza primordiale della gratuità e dell’esistenza dell’indisponibile viene eliminata dalla società. Tutti i successivi legami sociali che da quella cellula originaria, la coppia, promanano non saranno più intesi come «accoglienza» dell’altro, ma come giustapposizione strumentale. Se all’origine non c’è un amore che «accade» come vocazione, quale è appunto l’amore tra uomo e donna, ma un rapporto pattizio e tecnico tra due individui, anche tutti gli altri rapporti sociali, a cascata, perderanno la logica dell’amore e dell’apertura per assumerne una strettamente contrattuale. La tecnica e il patto prendono il sopravvento, la sessualità viene intesa solo o prevalentemente in questo modo, sostanzialmente egocentrico e solipsistico. Se si tratta di due «individui» e non di una «coppia», eterosessualità, omosessualità e transessualità si equivalgono. Vengono meno l’accoglienza e la complementarità. Sul piano procreativo ciò comporta il diritto delle donne ad «avere un figlio da sole». Non si dà nessun vero incontro, perché il vero incontro «accade» come vocazione, come progetto su di noi che ci si svela.
Di fronte a queste considerazioni si può comprendere perché il Magistero insista in modo particolare su due tematiche: la prima è la tecnicizzazione della procreazione (ossia la separazione del concepimento dall’atto coniugale. Trasformando il figlio generato in prodotto, questa tecnicizzazione priva la coppia di una delle finalità fondamentali della famiglia, quella di costituire il luogo umano dell’accoglienza), la seconda è la distinzione uomo-donna, ovvero la differenza sessuale.
Quanto al primo punto è evidente come l’inizio del processo si abbia proprio con la pillola contraccettiva e come l’enciclica Humanae vitae, esaminando l’intera questione alla luce della ragione e della fede, abbia visto lontano. È difficile negare – come mostra molto bene Michel Schooyans - che un unico filo rosso colleghi la contraccezione, l’aborto, l’inseminazione artificiale extracorporea, la selezione eugenetica embrionale e fetale e altri fenomeni di disprezzo della vita. Non si vuol dire che si tratti di atti dalla medesima gravità, ma certamente sono espressioni di una stessa logica.
Quanto al secondo punto, é oggi in atto una battaglia culturale attorno alla parola «genere» («gender») che spesso viene adoperata al posto della parola «sesso» per indicare non una vocazione naturale della persona, ma una scelta culturale o, come anche si dice, un «orientamento sessuale». Su questo importante punto la Congregazione per la Dottrina della Fede ha emanato nel 2004 una Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, nella quale si afferma tra l’altro: «Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli». Lo stesso Benedetto XVI ha ribadito le «verità antropologiche fondamentali dell’uomo e della donna. L’uguaglianza in dignità e l’unità dei due, la radicata profonda diversità tra il maschile e il femminile e la loro vocazione alla reciprocità e alla complementarità, alla collaborazione e alla comunione» e ha aggiunto: «Quando l’uomo e la donna pretendono di essere autonomi e totalmente autosufficienti, rischiano di restare chiusi in un’autorealizzazione che considera come conquista di libertà il superamento di ogni vincolo naturale, sociale o religioso, ma che di fatto li riduce ad una solitudine opprimente».
L’insistenza del Magistero su questi due punti – procreazione e identità sessuale – mira a contenere la pressione degli aspetti attuali del nichilismo, che si manifestano nel rifiuto di una vocazione, di una Parola sull’uomo e sul mondo. L’amore tra uomo e donna è risposta a una vocazione che irrompe, fuori di ogni strumentalità umana. Se questo viene a mancare nel punto di inizio, si trasforma il senso stesso della famiglia e, conseguentemente, dell’intera convivenza sociale. La famiglia è il primo luogo in cui si vive la vocazione a un bene comune, che vi si mostra come impegno morale da assumere liberamente e «insieme». È nella famiglia che la vocazione ad accogliere gli altri come aspetto fondamentale dell’accogliere se stessi diventa prassi quotidiana. È nella famiglia che la disponibilità ad accogliere un progetto su di noi che ci precede e ci com-prende, pur essendo assolutamente non realizzabile senza la nostra libertà, si rende visibile e praticabile. Nella famiglia si fa esperienza dei legami naturali, non in quanto naturalistici e nemmeno come semplicemente culturali o storici – ambedue dimensioni indegne della dignità della persona – ma come vocazione, che rifiuta l’arbitrio e richiede la libertà, traccia un progetto ma non lo impone e chiede che venga liberamente accolto.
Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno, Benedetto XVI tocca precisamente questo punto. Con una bellissima espressione egli dice che «la famiglia nasce dal “sì” responsabile e definitivo di un uomo e di una donna e vive del “sì” consapevole dei figli che vengono via via a farne parte ... È necessario che questa consapevolezza diventi convinzione condivisa anche di quanti sono chiamati a formare la comune famiglia umana. Occorre saper dire il proprio “sì” a questa vocazione che Dio ha inscritto nella stessa nostra natura». Viene qui posto un nesso chiarissimo tra la vocazione naturale alla famiglia, che ci chiama ad un «sì» libero e responsabile ad accogliere un progetto su di noi non solo come individui ma come famiglia, e la vocazione a dire il nostro «sì» a un’altra vocazione, a un altro progetto su di noi che consiste nel far parte della grande famiglia umana. Se l’uomo non riesce a cogliere la famiglia come vocazione naturale, come potrà accogliere l’appartenenza alla più vasta famiglia umana come un’altra vocazione naturale da assumere responsabilmente? Se la famiglia è produzione convenzionale e contrattuale, nella prospettiva non della vocazione ma del prodotto, anche la società nel suo complesso non potrà essere intesa diversamente da una «aggregazione di vicini»: nessuno, in questa prospettiva, riesce a comprenderla anche come «una comunità di fratelli e sorelle, chiamati a formare una grande famiglia».
Un altro punto che ci fa dire che l’enciclica Humanae vitae ha una grande rilevanza sociale è il tema della tecnica, che secondo me è il principale problema della nostra cultura e della nostra società. Esiste il pericolo della «tecnicizzazione» di ambiti di vita che, così trattati, sfuggono al governo umano; così il nostro potere si trasforma in impotenza. Il sogno di Prometeo o, per restare più vicini nel tempo, di Francesco Bacone, vuole mettere nelle mani dell’uomo il segreto dell’onnipotenza, ma in realtà spoglia quelle mani, consegnando l’uomo alla tecnica come anonima nudità del puro fare. Il problema della tecnica, che il Magistero ha considerato soprattutto nell’ambito del rapporto con la natura tramite il lavoro e in quello della manipolazione della vita, travalica oggi questi stessi due ambiti e si pone come problema sociale globale. Anche il Compendio della dottrina sociale della Chiesa considera il problema della tecnica all’interno del rapporto uomo-natura e delle biotecnologie. Esso lascia però anche intuire che il discorso della tecnica va ampliato ben oltre il tema della natura, quando lo collega al problema della cultura (n. 461), della povertà (n. 482) o all’ecologia umana (n. 464). Oggi l’utilizzo della tecnica è la vera e propria «questione sociale». Del resto, se seguiamo l’impostazione della Humanae vitae e poi della Evangelium vitae, comprendiamo che le cose stanno effettivamente così: la vita è la massima questione sociale, dunque anche la tecnica lo diventa quando viene applicata alla procreazione. È lì, infatti, che anche l’uomo diventa fin dalla sua origine un «prodotto» della anonima nudità della tecnica.
Nell’enciclica Humanae vitae Paolo VI non conduce riflessioni espressamente rivolte alla dimensione sociale e politica, come farà invece Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae. Paolo VI si mantiene su considerazioni previe, di carattere antropologico (a livello sia filosofico sia teologico) e di carattere morale. Così facendo egli illumina l’origine della società ed è questo uno dei principali motivi per cui l’enciclica Humanae vitae merita attenzione anche come dottrina sociale della Chiesa. Quanto è successo ai tempi della Humanae vitae e gli eventi successivi, fino ai nostri giorni, attestano che veramente, come sostiene il titolo di questo libro, quella di Paolo VI fu una «profezia».
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Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Convegno internazionale «Donna e uomo, l’humanum nella sua interezza», 9 febbraio 2008. Cf. Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, (29 giugno 1995), n. 8.
Benedetto VI, Deus caritas est, n. 3.
G. Marengo, «Amo perché amo, amo per amare». L’evidenza e il compito, Cantagalli, Siena 2007, p. 43. Cf anche A. Scola, Il mistero nuziale, PUL-Mursia, 2 voll., Roma 1997-2000.
Secondo Benedetto XVI con l’inseminazione artificiale extracorporea «è stata infranta la barriera posta a tutela della dignità umana» (Benedetto XVI, Discorso alla Congregazione per la Dottrina della Fede del 31 gennaio 2008).
Cf A. Scola, Uomo-donna. Il caso serio dell’amore, Marietti 1820, Genova 2002. Per un approfondimento della polarità uomo-donna nel più ampio contesto dell’antropologia cristiana, si veda A. Scola, Antropologia cristiana, in The Pontifical Academy of Social Sciences, Conceptualization of the Person in Social Sciences, Vatican City 2006, pp. 7-24. Una utile disamina della questione della identità e del genere si trova in: «I Quaderni di Scienza e Vita», n. 2, marzo 2007: «Identità e genere».
E. Montfort, Diritti della famiglia e ideologia del gender, in « Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa » IV (2008) 2, pp. 43-48.
Congregazione della Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo (2004), n. 2.
Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Convegno internazionale «Donna e uomo, l’humanum nella sua interezza», 9 febbraio 2008.
Ibidem.
Mi sono soffermato su una visione della natura come vocazione in G. Crepaldi, Ecologia ambientale ed ecologia umana. Politiche dell’ambiente e Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2007, pp. 17-26.
Benedetto XVI, Famiglia umana comunità di pace, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 1° gennaio 2008, n. 6.
Ibidem.
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, capitolo X, nn. 451-487, pp. 248-266.


22/11/2008 12:14 – VATICANO - Papa: alla fine, il criterio col quale saremo giudicati sarà l’amore, la carità concreta - Il regno di Dio si estende sull’universo intero, ma è messo “a rischio” dalla libertà che ogni uomo ha di scegliere “con chi allearsi”, se con Gesù o con il diavolo. A Dio “non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Alla fine, il “criterio del giudizio” col quale saremo esaminati sarà “l’amore, la carità concreta nei confronti del prossimo”, quel giudizio “sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena”, della scelta che ognuno compie, su “con chi vogliamo allearci: se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti”, attesi dal “fuoco eterno”.
Quella scelta, resa possibile dalla libertà dell’uomo, e le sue conseguenze nel Giudizio finale sono state evocate oggi da Benedetto XVI, che, ricevendo un pellegrinaggio di Amalfi, ha parlato della solennità di Cristo Re, che si celebra domani, e del passo di Matteo che descrive il ritorno “nella sua gloria” di Gesù, “pastore buono” e “giudice giusto”.
“Egli – ha sottolineato il Papa - è re dell’universo intero, ma il punto critico, la zona dove il suo regno è a rischio, è il nostro cuore, perché lì Dio si incontra con la nostra libertà. Noi, e solo noi, possiamo impedirgli di regnare su noi stessi, e quindi possiamo porre ostacolo alla sua regalità sul mondo: sulla famiglia, sulla società, sulla storia. Noi uomini e donne abbiamo la facoltà di scegliere con chi vogliamo allearci: se con Cristo e con i suoi angeli oppure con il diavolo e con i suoi adepti, per usare lo stesso linguaggio del Vangelo. Sta a noi decidere se praticare la giustizia o l’iniquità, se abbracciare l’amore e il perdono o la vendetta e l’odio omicida. Da questo dipende la nostra salvezza personale, ma anche la salvezza del mondo. Ecco perché Gesù vuole associarci alla sua regalità; ecco perchè ci invita a collaborare all’avvento del suo Regno di amore, di giustizia e di pace. Sta a noi rispondergli, non con le parole, ma con i fatti: scegliendo la via dell’amore fattivo e generoso verso il prossimo, noi permettiamo a Lui di estendere la sua signoria nel tempo e nello spazio”.
Quanto al momento del giudizio, “il Figlio dell’uomo nella sua gloria, circondato dai suoi angeli, si comporta come il pastore, che separa le pecore dalle capre e pone i giusti alla sua destra e i reprobi alla sinistra. I giusti li invita ad entrare nell’eredità preparata da sempre per loro, mentre i reprobi li condanna al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli altri angeli ribelli. Decisivo è il criterio del giudizio. Questo criterio è l’amore, la carità concreta nei confronti del prossimo, in particolare dei “piccoli”, delle persone in maggiore difficoltà: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. Il re dichiara solennemente a tutti che ciò che hanno fatto, o non hanno fatto nei loro confronti, l’hanno fatto o non fatto a Lui stesso. Cioè Cristo si identifica con i suoi ‘fratelli più piccoli’, e il giudizio finale sarà il rendiconto di quanto è già avvenuto nella vita terrena. Cari fratelli e sorelle, - ha concluso Benedetto XVI - è questo ciò che interessa a Dio. A Lui non importa la regalità storica, ma vuole regnare nei cuori delle persone, e da lì sul mondo”.


Eluana e il diritto - Autore: Spinelli, Stefano Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 22 novembre 2008 - Perché mai non dovrebbe rilevare il ‘diritto alla vita’ nella richiesta di interruzione dell’alimentazione forzata?
Cari amici,
abbiamo ricevuto da un nostro lettore questo interessantissimo contributo sulla vicenda di Eluana Englaro, che da tempo ci occupa e ci preoccupa.
Oltre che essere grati all’autore, vi invitiamo a prelevare il testo completo e a farne oggetto di dialogo, confronto e discussione. È troppo grande il bene della vita per non dare tutto il nostro impegno!

Gent.ma redazione
per quanto possa essere utile, allego un mio contributo, giuridico - ma non troppo - sulle sentenze che hanno “deciso” la vita di Eluana.
Quello che colpisce di più è l’innovazione dell’ordinamento giuridico attuata mediante sentenza. Da nessuna parte stanno scritte le cose che dice la sentenza della Cassazione, né sono rinvenibili interpretativamente; o - meglio - l’interpretazione che è stata fatta, per mezzo di una valutazione estensiva dell’art. 32 Cost., è del tutto incompatibile con altre norme dell’ordinamento a protezione della vita. E’ ovvio che con una interpretazione - per quanto legittima sia - non si può contravvenire ad altre norme dell’ordinamento del tutto chiare ed immediatamente applicabili.
In ogni caso, l’interpretazione risulterebbe erronea perché non coerente con l’ordinamento vigente.
Ma tant’è.
Ora è il momento della preghiera e dell’impegno per una normativa che tuteli anche il limite dell’umanità.
Ecco la conclusione dell’articolo, che potete prelevare, per approfondirne le ragioni e per comunicarle ad amici e conoscenti, visto che in tanti, su questo argomento, spesso esprimono pareri svariati: «Un’ultima considerazione sull’altra condizione fissata in sentenza: l’irreversibilità della condizione di incoscienza.
Anche qui con criterio rigoroso la Suprema Corte ha affermato che “non vi deve essere alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”.
Si è detto tuttavia che nel caso di specie non risulta vi sia affatto concordanza in ambito scientifico sulla possibilità di un accertamento di “irreversibilità” di tal fatta (a meno di non annacquare anche tale condizione) se l’“irreversibilità” non fosse così sicura, verrebbe automaticamente meno uno dei presupposti su cui si regge tutta la decisione.»
Avv. Stefano Spinelli

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Lunedì 24 novembre a Nagasaki la beatificazione di Pietro Kibe Kasui e di 187 compagni martiri - Testimoni coerenti di Cristo - fino all'estremo sacrificio - di Diego Yuuki – L’Osservatore Romano, 23 novembre 2008
Benedetto XVI, il 1° giugno 2007, firmò il decreto che aprì la via alla beatificazione di Pietro Kibe e di 187 compagni martiri, distribuiti, a seconda del luogo del martirio, su nove delle diocesi del Giappone, coprendo così quasi tutta la geografia del Paese. Le date della loro morte vanno dal 1603 al 1639, cioè all'epoca della persecuzione degli Shogun Tokugawa. Molti di loro vissero nella fase più dura di quella persecuzione.
Pietro Kibe e i suoi 187 compagni martiri sono ben noti nella Chiesa in Giappone e fra le popolazioni di origine, ma generalmente sconosciuti al di fuori del Paese.
Perciò nascono spontaneamente le domande: Perché ora? Perché così tanti? La risposta è semplice: quando furono canonizzati i 26 santi (1862) e beatificati i 205 martiri della persecuzione degli Shogun Tokugawa (1867), la Chiesa in Giappone non esisteva in quanto tale. I cristiani sopravvissuti alla persecuzione vivevano nelle catacombe. Non vi erano vescovi né sacerdoti giapponesi che potessero parlare a nome di quella Chiesa martire. Il numero dei martiri conosciuti supera i diecimila. Quando vennero aperti i processi di canonizzazione a Roma, i diversi ordini religiosi che avevano operato in Giappone presentarono subito i loro membri e i loro collaboratori martiri. Continuano però a restare nell'ombra i cristiani che subirono tutto il peso della persecuzione, i più crudeli tormenti, che si assunsero la responsabilità della comunità alla morte degli ultimi missionari e trasmisero la fede che è giunta fino ai nostri giorni.
Quando nel 1865 il Giappone si aprì di nuovo al mondo esterno, sebbene limitatamente, vennero riscoperti i cristiani vissuti in clandestinità e rinacque così l'interesse per quei martiri. Si consultarono gli archivi e si raccolsero le tradizioni locali. In occasione della visita pastorale di Giovanni Paolo II, "pellegrino dei martiri", a Nagasaki (febbraio 1981), sorse l'idea di riunire un gruppo di martiri importanti di quella persecuzione e di indicarli come esempio di coerenza cristiana.
In quel processo, iniziato nel 1981, si è cercato di scegliere quei martiri sul cui sacrificio vi fossero chiare testimonianze, che rappresentassero un gran numero di regioni del Giappone, i cui monumenti o luoghi di martirio fossero già ben noti e che come gruppo fossero rappresentativi della società giapponese di allora: uomini e donne, anziani e bambini, personaggi della classe dirigente, invalidi, mendicanti. Dei 188 scelti, quattro sono sacerdoti, uno religioso e 183 cristiani laici.
Fra questi cristiani vi sono intere famiglie di martiri. Ad esempio la famiglia di Gaspare Nishi, dell'isola Ikitsuki di Hirado, nobile samurai divenuto catechista, che morì con sua moglie e il loro primogenito e che offrì altri due figli come martiri, uno di essi già canonizzato, il domenicano san Tommaso Nishi. Un altro è Ogasawara Kenya, martire insieme a sua moglie Miya (Maria) e ai loro nove figli, uno di essi nato in carcere, battezzato ed educato lì. Un altro magnifico esempio è anche quello dei tre catechisti di Yatsushiro (Kumamoto), Gioacchino Watanabe, Michele Mitsuishi e Giovanni Hattori, uomini del popolo che vivevano modestamente del loro lavoro, ma quando il Daimyo, Kato Kiyomasa, espulse i missionari dal suo territorio, assunsero la responsabilità di quella Chiesa, guidarono i cristiani, aiutarono gli altri martiri, recuperarono i loro corpi, e condannati per questo al duro carcere, da lì continuarono per diversi anni il loro apostolato, educando i propri figli piccoli. Il martirio di Pietro Hattori, di cinque anni, è una pagina commovente per l'atteggiamento del bambino.
Rientra in questo processo il "grande martirio di Kyoto", nel quale 52 martiri furono arsi vivi per espresso ordine dello Shogun Hidetada (1619). Fra quei martiri vi furono molte madri con bambini piccoli: è il "martirio degli innocenti" della Chiesa in Giappone, descritto con queste parole dall'agente della ditta inglese di Hirado Richard Cooks, che si trovava a Kyoto in quell'occasione: "Fra i martiri vi erano bambini di cinque e sei anni, bruciati fra le braccia delle madri, che gridavano: Gesù, accogli le loro anime". In questo gruppo si distinse per il suo fervore la famiglia Hashimoto, composta da padre, madre e cinque figli, dai 3 ai 14 anni.
Alcune parole sui quattro sacerdoti martiri. Erano stati tutti studenti del seminario di Arima, anche se provenivano da diverse regioni del Giappone. La loro storia è simile: la lotta per realizzare la propria vocazione, l'apostolato instancabile sotto la più feroce persecuzione, il martirio durissimo. Dell'agostiniano Tommaso di sant'Agostino "Kintsuba" un luogo nell'area di Nagasaki conserva ancora il nome: è la "valle del Kintsuba", nome trasmesso da generazione di cristiani nascosti di questa regione e legato alle grotte che servirono loro da rifugio. Giuliano Nakaura fu uno dei quattro giovani che nel 1582 si recarono come legati a Roma; sacerdote gesuita nel 1608, martire nel 1633, dopo 19 anni di apostolato come missionario nascosto.
Il suo monumento nel villaggio natale lo presenta "mentre indica il cammino per Roma". Diogo Yuri Ryosetsu, membro della famiglia degli antichi Shogun Ashikaga, percorse il Giappone incoraggiando i cristiani, convertendo gli altri, entrando nelle carceri per portare ai cristiani detenuti la grazia dei sacramenti. Pietro Kibe, che si recò a piedi fino a Roma, passando per Gerusalemme, per essere ordinato sacerdote ed entrare nella Compagnia di Gesù, ebbe come principale testimone della veridicità del suo martirio il giudice inquisitore dei cristiani Inoue Chikugo: "Kibe Pietro fu condannato a morte perché non voleva rinnegare la propria fede e incoraggiava i catechisti martoriati accanto a lui".
(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)


Una storia ecclesiale segnata dalla sofferenza e dalle persecuzioni - Da san Francesco Saverio l'impulso per evangelizzare il Giappone - di Fuyuki Hirabayashi, L’Osservatore Romano, 23 Novembre 2008
Nell'agosto 1549, Francesco Saverio, assieme a due compagni gesuiti, sbarca a Kagoshima, nella parte più meridionale del Giappone. Scopre la laboriosità, unita al desiderio di conoscere, dei giapponesi, e nutre grandi speranze per questa missione. Capisce che è necessario cominciare da Kyoto, il centro politico-culturale di allora ma, quando vi arriva, il Giappone è in piena epoca Sengoku (epoca dei regni combattenti), e abbandona l'idea. Decide di porre la base operativa a Yamaguchi. Nel 1551, su invito del signore feudale di Oita, Otomo Sorin, si reca in quella regione e vi rimane per due mesi. Pensando alla missione in Cina, lascia presto il Giappone. Francesco Saverio lasciò due orientamenti per la missione: formare i giapponesi e adattarsi ai costumi e alla cultura giapponese.
Padre Cosme de Torres successe a Francesco Saverio a capo della Chiesa giapponese che nel 1550 aveva nella regione di Oita il suo centro e cresceva senza particolari difficoltà. Si costruirono chiese, ospedali, asili infantili anche grazie al favore di Otomo Sorin. Nel 1562 a Hizen (distretto di Nagasaki) il signore feudale di Omura, Omura Sumitada, offrì l'uso di un porto navale ed espresse il desiderio di essere battezzato. Nel giugno del 1563 Torres battezzò Omura Sumitada assieme al suo vassallo maggiore. In questo periodo il cristianesimo si diffuse soprattutto nella penisola di Shimabara e nella regione di Amakusa.
Torres, seguendo la volontà di Saverio, spostò l'opera missionaria a Kyoto inviandovi nel 1559 Gaspare Vilela il quale cominciò a lavorare da solo e senza nessun sostegno. Già a partire dal 1563 la classe sociale più colta fece il suo ingresso nella Chiesa e ci fu una crescita straordinaria di fedeli. Dopo la morte di Torres, Francesco Cabral divenne provinciale dei gesuiti in Giappone. Negli anni '70 e '80 in molte zone ci furono conversioni collettive. L'onda delle conversioni si estese fino alla regione di Kyoto e nel 1579 il numero dei cristiani raggiunse le 100.000 persone.
Il gesuita Valignano arrivò in Giappone come visitatore nel luglio del 1579 e intraprese una riforma della Chiesa locale. Nel febbraio del 1582, al momento di lasciare il Paese si fece accompagnare da una delegazione formata da quattro giovani da inviare in Europa. Visitarono la Spagna e il Portogallo, si recarono in udienza dal Papa e dopo ben otto anni fecero ritorno in Giappone.
La Chiesa, che fino al 1587 si era ingrandita senza troppe difficoltà, con il decreto di espulsione dei missionari di Toyotomi Hideyoshi subì una brusca frenata. Nel 1592 giunsero in Giappone i francescani provenienti da Manila. Le cose non furono semplici. Sei francescani con i compagni giapponesi, 3 gesuiti giapponesi per un totale di 26 persone vennero arrestati e quindi condotti sotto scorta da Kyoto a Nagasaki. Il 5 febbraio del 1597, sulla collina "Nishizaka" di Nagasaki vennero martirizzati con la crocifissione. Dopo la morte di Hideyoshi, Tokugawa Ieyasu assunse il comando e il governo. Intorno al 1603 si contavano 300.000 fedeli cristiani. Il 28 gennaio del 1614 venne promulgato il decreto ufficiale di proibizione della religione e di espusione dei missionari. Prima di lasciare il Giappone, i missionari lasciarono ai fedeli un sistema ecclesiale organizzato in una struttura chiamata "confraternite"; essa permatteva di custodire la fede anche senza la presenza dei sacerdoti. Con altre 52 esecuzioni nel 1619 a Kyoto, 50 nel 1623 a Edo e con il terzo grande martirio, il Governo era convinto di essere riuscito a estirpare fino alle radici la religione cristiana.
La violenta persecuzione e oppressione verso i cristiani ebbe luogo nella regione di Nagasaki a partire dal 1628. Dopo la rivolta di Shimabara, furono adottate misure per lo sterminio sistematico dei cristiani.
(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)


COME AD «ACCANIMENTO TERAPEUTICO» - QUANTE CONTORSIONI DIETRO LA PAROLA EUTANASIA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 novembre 2008
Siamo in grado di definire con rigore il si­gnificato del termine 'eutanasia'? Certa­mente sì: possiamo farlo, anzi dobbiamo far­lo, perché proprio a causa di valori scorretta­mente attribuiti a questa parola il dibattito sul 'caso Englaro', e più in generale sulla fi­ne della vita umana, è andato assumendo ne­gli ultimi mesi connotati molto ambigui, per non dire ingannevoli.
'Eutanasia' (etimologicamente 'buona mor­te') indica la morte procurata intenzional­mente e motivata dalla pietà per le terribili sofferenze fisiche di un malato: si tratta quin­di di un vero e proprio omicidio, per quanto 'pietoso'. Ma la pietà, per quanto autentica, soggettivamente sincera e oggettivamente fondata, può giustificare un omicidio? La tra­dizione etica e giuridica ha sempre negato che una simile giustificazione sia possibile, pur senza mai minimizzare la tragicità delle si­tuazioni eutanasiche. Da tempo è in atto un tentativo, molto espli­cito, di riformulare il concetto di eutanasia. Con questo termine ci si vuole oggi riferire al­l’uccisione volontaria e diretta di una perso­na, su sua richiesta consapevole e autonoma. In questa accezione, l’eutanasia (che alcuni non scorrettamente qualificano anche come ' suicidio assistito') sarebbe giustificabile. L’insistenza su questa definizione circoscrit­ta di eutanasia è ormai palesemente funzio­nale a negare che quello di Eluana Englaro sia un vero caso di eutanasia (si tratterebbe sol­tanto di una mera e doverosa desistenza da un accanimento terapeutico, giustificata, oltre tutto, dalla volontà pregressa della povera E­luana). Così come per il termine 'eutanasia', anche l’espressione 'accanimento terapeuti­co' viene ormai a subire una contorsione se­mantica, quella che ha indotto la Cassazione ad autorizzare il signor Englaro a far cessare l’alimentazione e l’idratazione della figlia e a procurarne così inevitabilmente la morte, senza però autorizzarlo a sopprimerla diret­tamente (ad esempio attraverso un’iniezione letale). Si vogliono così tenere distinte due pratiche, che sono in realtà la stessa cosa e cioè la morte procurata in modo diretto (eu­tanasia attiva) e la morte procurata in modo indiretto (eutanasia passiva).
Queste forzature lessicali sono devastanti e paradossali. Applicandole rigorosamente do­vremmo negare carattere eutanasico ad ucci­sioni autenticamente pietose, ma non solle­citate dalla vittima e qualificare invece come eutanasica l’uccisione freddamente burocra­tica di chi, anche in perfetta salute, ne faces­se richiesta. Né meno grave è l’alterazione del concetto di accanimento terapeutico: da atto medico futile, inutilmente invasivo, spropor­zionato, incapace di arrecare alcun reale be­neficio al malato, si viene ad intendere arbi­trariamente per accanimento terapeutico qua­lunque pratica medica che il paziente rifiuti coscientemente, anche per motivazioni irra­zionali. Perfino i gesti umani simbolicamen­te più rilevanti, l’alimentare e il dissetare, di­vengono in tal modo forme di accanimento.
Se abbiamo l’onestà intellettuale di chiama­re le cose con il loro vero nome, non possia­mo non qualificare l’ormai prossima morte di Eluana se non come un autentico omicidio eutanasico. Essa, infatti, non morirà per la pa­tologia che l’ha colpita, ma a seguito della so­spensione del sostegno vitale che l’ha man­tenuta in vita per tanti anni, un sostegno che non è qualificabile né come atto medico, né come una forma di accanimento terapeutico. Ma, si dice, facendola morire, si rispetterà la volontà di Eluana. Forse (!) questo è vero; ma è anche vero che l’aiuto al suicidio, sia pure intenzionalmente e liberamente richiesto, nel nostro codice è sempre stato e resta un delit­to. Eluana sarà uccisa e il suo caso si inserirà nel tristissimo e lunghissimo novero degli o­micidi pietosi. Spero sinceramente che in tut­ti coloro che plaudono alla sentenza della Cas­sazione non ci sia, invece della pietà, l’inten­zione di progredire verso la legittimazione di uccisioni motivate non dalla compassione, ma dall’esigenza funzionale di liberare la so­cietà dal peso economico e psicologico dei minorati mentali, dei portatori di handicap, dei malati in stato vegetativo, di tutte le per­sone la cui vita si deciderà di ritenere 'non degna' di essere vissuta, acquisendo il loro consenso (!) o più semplicemente presu­mendolo. È consapevole l’opinione pubblica che molti bioeticisti sono già saldamente at­testati su queste posizioni?


LA CATENA DI VEGLIE PER ELUANA CHE STA ATTRAVERSANDO IL PAESE - Non sit-in di pressione politica ma libera, genuina invocazione - MARINA CORRADI – Avvenire, 23 novembre 2008
A ttraverso l’Italia in queste ore si sta formando una catena di preghiera, di veglie, in chiese che aprono per questo le porte anche di sera ad accogliere i fedeli. Pregano perché Eluana Englaro sia lasciata vivere, in quel suo sonno che ad alcuni pare non umanamente 'dignitoso'. Tutto questo potrebbe a uno sguardo superficiale sembrare la controparte devota di quei sit-in abituali in democrazia, per cui i cittadini manifestano per ogni causa oggetto di dibattito pubblico.
Semplicemente un’altra delle forme di pressione con cui la società spinge per orientare le sue leggi. Magari qualcuno potrebbe essere tentato di vagliare quanta gente prega per Eluana, per valutare, in fin dei conti, 'quante divisioni ha il Papa'.
In realtà, l’intento delle veglie è un altro, e non si gioca in quella dinamica della conquista del consenso tipica della democrazia, cui siamo tanto abituati da pensare che non ne esistano altre. La domanda dei fedeli è sì, che Eluana Englaro viva, ma questo all’interno di una logica profondamente cristiana, che, viene il dubbio, rischia di essere dimenticata perfino in un Paese di grande tradizione cattolica. Quest’altra logica sta nell’affidare la vita di una donna – la sua e insieme quella di tutti, giacché per il cristianesimo nessuno è solo e vive per se stesso – nelle mani di Dio. Molte parole sono state dette su questa vicenda, i giudici hanno ricorso contro altri giudici, la politica si è divisa e ancora si aspetta una parola da Strasburgo; ma le veglie di queste notti sono preghiera, e dunque affidamento a Dio. Certa parte di opinione pubblica potrebbe allora alzare le spalle: ah, va be’, se vogliono pregare, che preghino.
Perché per molti, anche di formazione cattolica ma usurata dall’abitudine e dalla distrazione, pregare è una santa cosa – totalmente ininfluente sulla realtà. Tanto pia quanto inutile. Quasi vagamente lamentosa. Non virile (gli uomini agiscono, non implorano). Ma la preghiera dei cristiani non è rito consolatorio o sentimentale, non è uno sperare che 'Dio ce la mandi buona'.
Comporta un giudizio radicale sulla realtà: l’uomo non si fa da sé, dunque è creatura. Nemmeno in un respiro è autonomo dal disegno di un Dio che lo ha voluto. Pregare è dunque prima di tutto riconoscere il mistero che è all’origine di ognuno, e che infinitamente ci supera (forse proprio per questo il pregare risulta alla modernità, e soprattutto ai dotti, umiliante: c’è nell’inginocchiarsi un’abiura del proprio sovrano e egocentrico Io). Pregare è dirsi figli, e mettere se stessi e gli altri nelle mani di un Padre. Può essere oggi, se non ci si è stati educati, drammaticamente faticoso. Nel suo Diario Etty Hillesum, giovane ebrea morta ad Auschwitz dopo avere traversato una silenziosa conversione cristiana, chiama se stessa «la ragazza che non sapeva inginocchiarsi», a dire del duro sforzo interiore che questo gesto, e ciò che implica, comportano. Ma lo stare in ginocchio e il ripetere antiche preghiere non è affatto querulo, o umanamente diminuente. Nel dirsi figlio infatti il cristiano scopre la sua vera statura, che è assai di più di quella che vorrebbero concedergli i moderni maestri e imbonitori. Una statura infinita, anche in quelli che vengono detti ultimi, anche in un malato incosciente, che per le nostre sofisticate Tac e per certi dottori pare buono da buttare: giacché ognuno dei respiri di quell’uomo, è disegno di Dio. Né sit-in dunque, né vano piangere di deboli, le veglie di queste sere, ma l’appassionato domandare di uomini certi del valore infinito di ognuno. La ragazza ebrea di cui parlavamo assiste, in una notte del ’42, alla partenza da Amsterdam di un convoglio di deportati. «Questa notte, bisognerebbe soltanto inginocchiarsi e pregare», è il suo solo commento. Nella violenza più infame, nel mondo diviso tra padroni e ultimi, il tenace affermare: siamo figli, tutti, e il valore di ciascuno è infinito.


IL SUICIDIO IN DIRETTA SU INTERNET DI UN 19ENNE AMERICANO - Quando va in scena la morte nella solitudine del Web - FRANCESCO OGNIBENE – Avvenire, 23 novembre 2008
L a solitudine più amara è quella che si consuma in mezzo alla folla. Non c’è di peggio del sentirsi trasparenti tra volti ignoti, gente anonima che nemmeno immagina quanto sia insostenibile la sofferenza trascinata come un giogo in mezzo a un prossimo indifferente. Si grida un dolore – l’abbandono, l’affetto perduto, il futuro fattosi buio – ma nessuno sente. E allora può scattare l’istinto di imporre all’impassibilità degli altri l’attenzione forzata per quel che normalmente non pare interessare. Fino a trasformare la propria ferita in spettacolo, in modo da essere sicuri dell’ascolto. Potranno dirci solo gli psichiatri di quale patologia si tratti, certo è che il fenomeno degli atti di autolesionismo annunciati su Internet – luogo delle relazioni impalpabili moltiplicate all’infinito – sta assumendo proporzioni inquietanti. Anche perché qualcuno ha cominciato ad arrivare fino in fondo. È il caso di Abraham Biggs, il 19enne della Florida accanito frequentatore di network sociali – le reti di amicizie via web dilaganti tra i frequentatori della rete – che a lungo ha gettato online tutto il suo dolore per un legame sentimentale reciso, fino a proclamare via Internet l’intenzione di farla finita spiegando come e dove intendesse farlo: dose letale di farmaci, la propria stanza, una videocamera connessa al network per mostrare in diretta tutta l’agonia. Alcune centinaia di utenti del sito sul quale s’era confessato l’hanno visto immobile sul letto pensando a una puerile messinscena.
Ma dopo alcune ore la fissità di quella scena irreale ha finalmente allarmato qualche utente capace ancora di percepire che dentro lo schermo abita anche l’esistenza di gente concreta, che non tutto quel che si vede navigando è simulazione virtuale, eccesso studiato, mascherata di cattivo gusto. Quando la polizia ha trovato Abraham cadavere, davanti alla webcam che ne amplificava la morte tra i milioni di potenziali utenti di quell’inquadratura fissa, è come se Internet avesse cessato di produrre per un istante il suo oceanico frastuono di bit. La realtà ha infranto il video, ha ricordato che c’è vita oltre lo schermo e che la solitudine di quel ragazzo americano morto per un dolore che nessuno ha saputo sopportare davvero con lui è un fatto tanto aspro quanto vero. Dicono che nel network frequentato da Abraham c’era chi lo provocava, pensando che la sparasse grossa: «Dai, facci vedere se sei capace di ammazzarti...». E di certo mentre cercava su YouTube o Facebook i video delle più disparate messinscene eccentriche, delle bravate senza filtro, delle violenze idiote di cui ormai s’è perso il conto, teneva d’occhio anche quel matto della Florida che andava dicendo di volersi suicidare, per vedere fin dov’era capace di arrivare. Audience perfetta per il tragico finale che si andava preparando. La società dell’intrattenimento e della solitudine catodica, appena lenita dalle amicizie a bassa tensione attecchite sul Web, ha creato un voyerismo della trasgressione altrui e propria che può indurre a credersi tutti protagonisti di uno spettacolo planetario del quale si è allo stesso tempo attori e pubblico. Nei network sociali, beninteso, si va a conoscere altra gente, a ritrovare amici persi per strada, parenti remoti, compagni di battaglie ideali. Ma c’è anche questo volto oscuro che s’incrocia appena svoltato l’angolo: un clic, e ci si imbatte nel grumo di disperazione di un ragazzo che ha perso i contatti con la vita, e sta costruendo il reality show della propria fine.