martedì 4 novembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La testimonianza di un missionario al Corriere: «Sono mostri, non uomini» - Congo, lo spettro di un nuovo genocidio - Un milione e 600 mila profughi nella giungla senza acqua né cibo. Imperversano le violenze dell'Esercito del Signore
2) Finché c’è fede... - Perfino i cattolici non leggono più Bibbia e Vangelo - Qualche volta capita di essere fulminati da un’evidenza. In Italia non sappiamo niente del Vangelo. Lo orecchiamo e pure male. La Bibbia poi: zero o quasi. Gomorra ormai è diventato sinonimo di Camorra ed è considerato un libro sui Casalesi, non una città incenerita da Dio come narra la Genesi…- di Renato Farina
3) Reazione vaticana alla decisione di Oxford di abolire i riferimenti al Natale - Ateismo promosso con l'indifferenza, spiega l'Arcivescovo Ravasi
4) Vita e morte - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore:- Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 3 novembre 2008 - E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi
5) Veramente liberi e liberamente veri - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 3 novembre 2008 - A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, importante documento nel quale è affrontato uno degli aspetti essenziali della vocazione matrimoniale e dello specifico cammino di santità che ne consegue, è possibile oggi capire meglio quanto questa luce profetica sia decisiva per comprendere il grande “sì” che implica l’amore coniugale.
6) Il primo incontro del forum cattolico-musulmano - Una scelta per il futuro - di Francesco M. Valiante – L’Osservatore Romano, 4 novembre 2008
7) Scienza e religione al di là degli stereotipi - Il big bang - il gesuita e l'ebreo - Due astronomi a colloquio con Riccardo Chiaberge - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 4 novembre 2008
8) ELEZIONI USA/ Il giorno della verità per le ambizioni di Barack Obama - Lorenzo Albacete - martedì 4 novembre 2008 – IlSussidiario.net
9) RECENSIONE/ Il segreto dell’infaticabile creatività di don Oreste Benzi - Redazione - martedì 4 novembre 2008 – IlSussidiario.net
10) BIOETICA/ Dalla “Carta di Firenze” il pericolo di un'alleanza fra culto della scienza e disumanizzazione - Carlo Bellieni – IlSussidiario.net
11) GLI ABISSI ASSURDI DEL CONVENZIONALISMO - A Oxford cancellano il Natale. E i musulmani si stupiscono - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 4 novembre 2008
12) l’intervista «Un errore abbandonare i temi etici» - DAL NOSTRO INVIATO A WASHINGTON – Avvenire, 4 novembre 2008
13) «Così nel genoma ho trovato Dio» - DI LUIGIDELL’AGLIO – Avvenire, 4 novembre 2008


La testimonianza di un missionario al Corriere: «Sono mostri, non uomini» - Congo, lo spettro di un nuovo genocidio - Un milione e 600 mila profughi nella giungla senza acqua né cibo. Imperversano le violenze dell'Esercito del Signore
DAL NOSTRO INVIATO
NAIROBI – Lo spettro di un altro genocidio si aggira per il Congo orientale. Un milione e seicentomila profughi vagano nella giungla senza cibo e senza acqua pulita. Nei prossimi giorni dopo aver mangiato le ultime provviste rimaste rischiano di morire. Già in numerose famiglie hanno dovuto seppellire i più deboli, vecchi e bambini.
NON SOLO GOMA - La catastrofe umanitaria non è solo a Goma, circondata dalle forze del generale ribelle Laurent Nkunda. E’ in fiamme anche il nord, il triangolo dove si incontrano le frontiere di Uganda Sudan e Congo. In quell’aera ha colpito il Lord Resistance Army, letteralmente Esercito di Liberazione del Signore, un gruppo ribelli ugandesi famoso per la sua ferocia.
«SONO MOSTRI, NON UOMINI» - Un missionario ha scritto una lettera al Corriere della Sera. Eccola: «Gli uomini dell’LRA sono mostri non uomini. Mercoledi mattina, 17 settembre, è stata una giornata di violenze su numerosi villaggi della parrocchia di Duru. Scuole e mercato sono stati i luoghi presi di mira. Paura e tristezza sono nell’animo di tanta gente. Anche oggi le scuole sono chiuse». «Oggi – continua il documento - abbiamo cominciato in città a fare il censimento della gente scappata e rifugiatasi presso familiari o conoscenti. Parte della popolazione vicino alla frontiera sudanese è scappata in Sudan. Anche i nostri tre confratelli di Duru. Per radio ricetrasmittente e per sms abbiamo appreso che anche padre Mario Benedetti, settantenne, si è rifugiato in bici alla missione sudanese di Yambio, lontana 60 km da Duru, domenica sera. Chi scappa è gente della parrocchia confinante della Missione Duru e anche dei nostri villaggi più a est». «I guerriglieri LRA hanno ucciso alcuni adulti a sangue freddo con machete o scure o pugnale; hanno bruciato scuole e case e distrutto beni: moto, bici, bidoni pieni di olio di palma; hanno mostrato il loro volto e cosa vogliono. Hanno rapito un centinaio di alunni, degli insegnanti e alcuni adulti. Vogliono terra bruciata intorno a loro. Non vogliono che la popolazione li veda e possa dare informazioni alle nostre autorità civili e militari e della MONUC (la missione dell’ONU, ndr). Vogliono impadronirsi dei campi seminati. Mercoledi scorso LRA si è presentata al momento del mercato su più villaggi verso mezzogiorno o nel primo pomeriggio: i suoi uomini hanno razziato tutto e ammazzato i commercianti. I suoi capi di sentono braccati e isolati a livello internazionale. Non hanno i tradizionali appoggi palesi o nascosti di quando stavano in Uganda, sua patria. Il governo di Khartoum non li sostiene più. Kampala e Kinshasa sono contro». «LRA conta - si stima - circa 900 giovani uomini, nascosti nelle foreste nostre verso la frontiera. Sono presenti dal 2003. Hanno fucili e altre armi che conservano per attacchi militari. Per uccidere si servono soprattutto di machete. Il fucile fa rumore; il machette no».
ASSALTI E MAGIA NERA - L’Esercito di Liberazione del Signore è diventato famoso perché assaliva i villaggi e rapiva i bambini. Poi faceva loro un lavaggio del cervello, li terrorizzava, li sottoponeva a pratiche di magia nera e infine, Bibbia in mano, li costringeva a assalire di nuovo il loro villaggio e ammazzare i genitori. Sul loro capo Joseph Kony pende l’accusa di crimini contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale. Lontano dagli occhi indiscreti dei giornalisti, degli operatori umanitari e della Monuc, i miliziani dell’LRA massacrano senza pietà e apparentemente senza motivo la popolazione del Congo. Anche più a sud intorno a Goma dove i giornalisti sono arrivati da giorni, la situazione è catastrofica. La città, capoluogo del Kivu settentrionale resta circondata dalle truppe del generale ribelle Laurent Nkunda. Nkunda ha dichiarato una tregua unilaterale e ha fatto sapere non si muoverà prima dei risultati delle elezioni americane. Anche lui dunque si mostra sensibile ai media, la cui attenzione ora è focalizzata su chi sarà in nuovo inquilino della Casa Bianca.
AIUTI UMANITARI - Il primo camion con gli aiuti per le popolazioni intrappolate nelle aree controllate dalla rivolta partiranno stamattina scortate dai militari della Monuc. Non si sa bene quanta gente riusciranno a raggiungere. La gente è scappata alla spicciolata non è quindi facile fargli arrivare il cibo necessario a sopravvivere. Il convoglio dovrebbe raggiungere Rutshuru, 70 chilometri più a nord, in mano ai tutsi del generale Nkunda. I coordinatori dell’Onu sono stati chiari sulla loro strategia: «Intendiamo rifornire i centri di raccolta di Rutshcuru e Kiwanja, in modo tale che gli sfollati possano rientrare e trovare da mangiare», ha spiegato Gloria Fernandez, capo di Ocha (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite). Secondo gli osservatori a commettere violenze e crimini più che i ribelli sono stati gli sbandati dell’esercito governativo, sbaragliati sul campo e costretti a scappare. Durante la fuga hanno saccheggiato, violentato e ammazzato.
DIPLOMAZIA IN ATTESA - La diplomazia resta attendista. Dopo una breve visita a Goma i ministri degli esteri francese, Bernard Kouchner, e britannico, David Miliband, hanno promesso aiuti umanitari, ma non hanno deciso sulla sull’invio di una forza militare di protezione. Un atteggiamento che sorprende, soprattutto dopo l’esperienza del 1994 quando il mancato invio di una forza di pace europea provocò il genocidio ruandese: in cento giorni furono massacrati 800 mila tutsi e hutu moderati. I due ministri hanno sollecitato il rafforzamento del contingente di caschi blu che ora conta 17 mila uomini, ma, come ha detto al Corriere l’ex inviato europeo per i grandi laghi, l’italiano Aldo Ajello, «Non è la quantità che conta, ma la qualità. Se in 17 mila non sono riusciti a fermare i 3000 uomini di Nkunda è impensabile che lo possano fare 10 mila uomini in più. A meno che non si tratti di truppe ben addestrate, ben organizzate e ben motivate, cioè occidentali». Un summit regionale, cui dovrebbero partecipare i presidenti del Ruanda, Paul Kagame, e del Congo, Joseph Kabila, è previsto per la prossima settimana. Non si sa bene se parteciperà Nkunda e i leader dei 35 gruppi di guerriglia presenti in Kivu.
Massimo A. Alberizzi


Finché c’è fede... - Perfino i cattolici non leggono più Bibbia e Vangelo - Qualche volta capita di essere fulminati da un’evidenza. In Italia non sappiamo niente del Vangelo. Lo orecchiamo e pure male. La Bibbia poi: zero o quasi. Gomorra ormai è diventato sinonimo di Camorra ed è considerato un libro sui Casalesi, non una città incenerita da Dio come narra la Genesi…- di Renato Farina
Qualche volta capita di essere fulminati da un’evidenza. In Italia non sappiamo niente del Vangelo. Lo orecchiamo e pure male. La Bibbia poi: zero o quasi. L’altra sera, per consolarmi della melancolia suscitata da Annozero di Santoro, sono trasmigrato dal secondo al primo canale della Rai. Ed è stato molto istruttivo. C’era “Porta a porta” e si parlava di “Sangue dei vinti”, il film tratto dal libro di Giampaolo Pansa. Va visto, bisogna portarci gli studenti a vederlo, ripara molta ignoranza e molte falsificazioni dei testi di storia sulla Liberazione. Con Bruno Vespa e Pansa c’era anche un protagonista di quella pellicola: Michele Placido. Il quale tirando la morale della serata, citando sue recenti letture di classici greci, ha detto più o meno: «Come si sostiene nell’Antigone: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”».
Intorno c’era gente molto attrezzata, laureati, intellettuali, tutti - a sentire citare Sofocle e i tragici di Atene - hanno pensosamente accondisceso con cenni del capo alla profondità di questi nostri antenati attici (non si allude qui agli abitanti degli appartamenti siti all’ultimo piano, ma ai residenti in Attica: siamo gente colta noi di Libero, quasi come Placido). Lì ho capito che noi italiani siamo ignoranti sulla guerra civile 1943-1945, e qualcosa però si sta facendo finalmente; ma siamo conciati peggio sulle Sacre Scritture, e invece lì non si sta facendo nulla di nulla.
Ho controllato. Non era Sofocle ma Gesù a scandire quelle parole. Capitolo 8 versetto 22 del Vangelo di Matteo. Possibile che nessuno abbia eccepito? Possibilissimo. In Italia si può tranquillamente frequentare dalle scuole materne sino alla laurea e al dottorato uscendone coi massimi voti senza che sia necessario rispondere ad una qualsiasi domanda sul Vangelo e neppure se ne sia letta una pagina. Questo vale anche per l’Antico Testamento. (Non vale più per il Corano: nelle medie inferiori è infatti ormai obbligatorio leggere la storia di Maometto con ampie citazioni del libro del Profeta).
Non esiste nella scuola italiana come materia obbligatoria. Certo c’è l’insegnamento della religione cattolica. Ma esso è facoltativo, il voto non è determinante. Oltretutto, ahinoi, durante l’ora di religione il Vangelo non è un libro di testo previsto. I professori inoltre si dedicano a tutto, meno che alle pagine di Luca, Marco, Matteo e Giovanni. Le lettere di Paolo e i salmi, l’Esodo e il libro di Geremia o quelli di Isaia, Giobbe e Giona? Non esistono. Gomorra ormai è diventato sinonimo di Camorra ed è considerato un libro sui Casalesi, non una città incenerita da Dio come narra la Genesi.
Non è un’ignoranza recente. Non diamo la colpa ai professori di oggi e ai ragazzi propensi ai videogiochi invece che alle letture sacre. Ricordo un’antica trasmissione di Maurizio Costanzo. Ci fu un austero e coltissimo comunista, di cui non faccio il nome per non incorrere in errore, che sostenne che il detto: «Chi non lavora non mangia» fosse di Lenin. Al che un altro ospite lo derise: «Eh, eh, è di Marx».
Avevo appena letto (per caso, lo ammetto) una lettera di San Paolo. E stava davvero lì: seconda lettera ai Tessalonicesi, capitolo 3 versetto 10. Peraltro ho controllato anche nelle opere complete di Lenin, tramite Internet. La frase c’è anche in Lenin, che la cita da Marx, come si noterà presto dal virgolettato. Sul serio. Trattasi dell’opuscolo “Stato e Rivoluzione”, parte quinta, capitolo sulle “Premesse economiche della morte dello Stato”: «"Chi non lavora non mangia": questo principio socialista è già realizzato; "a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti": quest'altro principio socialista è anche esso già realizzato. Tuttavia ciò non è ancora il comunismo».
Sia Marx sia Lenin hanno in realtà realizzato un esproprio proletario dal Nuovo Testamento.
Conclusione. Ci vuole un altro piccolo decreto Gelmini. Il primo articolo della legge 133 inserisce come obbligatori la lettura e lo studio della Costituzione italiana. D’accordo. La Lega ha fatto aggiungere: vanno meditati anche gli Statuti regionali. Come no? Come si fa a vivere senza conoscere il quinto articolo dello Statuto dell’Abruzzo? Io mi permetterei di rendere obbligatoria un’altra oretta di insegnamento: la lettura dei Vangeli. E ancora: dell’Antico Testamento e delle lettere di San Paolo.
In fondo sono la sostanza della nostra cultura anche per chi non crede.
Il fatto è che ignorano questi testi anche i cattolici che pure la considerano parola di Dio, e su di essa si basa la loro fede visto che vi si annuncia nascita morte e resurrezione di Gesù Cristo. Invece niente. Si è chiuso da poco il Sinodo dei vescovi sulla “Parola di Dio”, il Papa ha invocato di rileggere quei testi insieme. Qualche giornale ne ha parlato? Lo si considera ovvio. Balle. I musulmani al contrario sanno tutto del Corano. Imparano a leggere su quel testo. Così assorbono l’alfabeto ed insieme la (spesso) nefasta potenza della loro religione.
Forza Mariastella, rimedia. Io intanto da piccolo deputato presenterò una proposta di legge. Tanto non passa. Non siamo integralisti, noialtri poveri italiani bamba.

LIBERO 02/11/08


Reazione vaticana alla decisione di Oxford di abolire i riferimenti al Natale - Ateismo promosso con l'indifferenza, spiega l'Arcivescovo Ravasi
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 3 novembre 2008 (ZENIT.org).- La decisione del consiglio comunale di Oxford di abolire qualsiasi riferimento al Natale è un sintomo dell'ateismo che oggi si promuove con l'indifferenza religiosa, constata un rappresentante vaticano.
L'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha commentato la decisione della città britannica di menzionare tutti gli eventi del 25 dicembre e dei giorni successivi con il nome "Festività della luce invernale".
L'obiettivo dichiarato dalle autorità del comune britannico è quello di ridimensionare l'eccessiva risonanza assegnata alla più importante festività cristiana a discapito delle altre religioni.
Sabir Hussain Mirza, presidente del Consiglio musulmano di Oxford, ha affermato in alcune dichiarazioni alla stampa britannica: "Sono molto irritato per questo. I cristiani, i musulmani e altre religioni aspettano tutte il Natale".
Monsignor Ravasi, ha constatato alla "Radio Vaticana" che il desiderio di questa iniziativa di Oxford "non è tanto quello, a mio avviso, di riuscire a ristabilire un dialogo in modo tale da non avere prevaricazioni, quanto, piuttosto, quello di stingere fino al punto di estinguere qualsiasi identità propria, qualsiasi storia che sta alle spalle, e non stabilire un vero dialogo".
"Il vero dialogo lo si costruisce proprio attraverso le identità; quindi, in questo caso, io ritengo che non solo si tratti di una stravaganza, ma alla fine anche di una negazione consapevole - non so fino a che punto - di una grandezza che sta alle proprie spalle, che costruisce il proprio stesso volto".
"Mentre in passato, quando si combatteva la presenza dei segni religiosi, lo si faceva con delle argomentazioni, persino con il desiderio di opporre un sistema del tutto alternativo, ora, invece, tante volte, questa avanzata della negazione è una specie di onda grigia, di nebbia; si vuole introdurre proprio una componente così fluida ed inconsistente che è la caratteristica della secolarizzazione attuale", spiega il rappresentante vaticano.
"Dio non viene negato, viene del tutto ignorato e l'impegno pastorale è ancora più complesso perché di fronte ad una negazione si possono apportare le argomentazioni. Di fronte invece a questa sorta di 'gioco di società' incolore, inodore, insapore, c'è, alla fine, l'impossibilità di una reazione".
"Ora noi non abbiamo più l'ateismo nel senso forte, qualche volta drammatico del passato. Noi ora abbiamo l'indifferenza. Questa indifferenza stempera tutto, stinge, scolora, e alla fine, forse impedisce all'uomo anche di interrogarsi - come fanno tutte le grandi religioni - sui temi fondamentali, temi capitali che vengono invece dissolti nell'interno di un'atmosfera così inconsistente".
L'Arcivescovo considera molto positivo il fatto che i musulmani si oppongano a questa iniziativa, perché significa che anch'essi sono consapevoli dei pericoli di questo tentativo di eliminare le identità.


Vita e morte - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore:- Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 3 novembre 2008 - E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi
«Ieri la festa di Tutti i Santi ci ha fatto contemplare “la città del cielo, la Gerusalemme celeste che è nostra madre” (Prefazio di tutti i Santi). Oggi, con l’animo ancora rivolto a queste realtà ultime, commemoriamo tutti i fedeli defunti, che “ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace” (Preghiera eucaristica I). E’ molto importante che noi cristiani viviamo il rapporto con i defunti nella verità della fede, e guardiamo alla morte e all’al di là nella luce della Rivelazione. Già l’apostolo Paolo, scrivendo alle prime comunità, esortava i fedeli a “non essere tristi come gli altri che non hanno speranza”. “Se infatti – scriveva – crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (1 Ts 4,13-14). E’ necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi, perché la verità cristiana non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere» [Benedetto XVI, Angelus, 2 novembre 2008].

Dopo la fede nella Pasqua di Cristo professata, celebrata, vissuta, pregata in primavera, dopo quella dell’Assunta, segno di consolazione e di sicura speranza, ecco la nostra Pasqua dall’1 all’8 novembre: il mondo ci appare come un “giardino”, dove lo Spirito di Dio ha suscitato con mirabile fantasia una moltitudine di santi e sante, di ogni età e condizione sociale, di ogni lingua, popolo e cultura. Ognuno è diverso dall’altro, con la singolarità della propria personalità umana e del proprio carisma spirituale. Tutti però recano impresso il “sigillo” di Gesù (Ap 7,3), cioè l’impronta del suo amore, testimoniato attraverso la Croce. Sono tutti nella gioia, in una festa senza fine, ma come Gesù, questo traguardo l’hanno conquistato passando attraverso la fatica e la prova (Ap 7,14), affrontando ciascuno la propria parte.
Nel primo millennio la solennità di Tutti i santi era come una celebrazione collettiva di Maria e di tutti i martiri. Questo martirio, peraltro, possiamo intenderlo in senso lato, cioè come amore per Cristo senza riserve, a cui tutti i battezzati sono protesi e che si raggiunge seguendo la via delle “beatitudini” evangeliche. E’ la stessa via tracciata da Gesù e che i santi e le sante si sono sforzati di percorrere, pur consapevoli dei loro limiti umani. Nella loro esistenza terrena, infatti, sono stati poveri di spirito, addolorati per i peccati, miti, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati per la giustizia. E Dio ha partecipato loro la sua stessa felicità: l’hanno pregustata già in questo mondo e, nell’al di là, la godono in pienezza. Sono ora consolati, eredi della terra, saziati, perdonati, vedono Dio di cui sono figli. In una parola: “di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3.10). Professando, celebrando questa fede sentiamo ravvivarsi in noi l’attrazione verso la grande speranza, verso il cielo, una meta sicura e così grande da giustificare la fatica del cammino e che spinge ad affrettare il passo del nostro pellegrinaggio terreno. Si accende sempre più nei nostri cuori il desiderio di unirci alla famiglia dei santi, perché come esseri spirituali siamo capaci di Dio per l’anima intellettiva di liberi soggetti trascendenti. Ogni anima è creata direttamente da Dio – non è un semplice essere vivente “prodotto” dai genitori – ed è immortale (CCC n. 366). Occorre ravvivare l’attrazione verso il Cielo di Maria e dei Santi, che ci spinge ad affrettare il passo del nostro pellegrinaggio terreno. Come è efficace sentire accendersi nei nostri cuori il desiderio di unirci per sempre alla famiglia dei santi, di cui fin dal Battesimo come figli nel Figlio già ora abbiamo la grazia di far parte.

La fede cristiana è anche per gli uomini di oggi una speranza che trasforma o sorregge la loro vita?
E’ una delle tre domande poste nella Spe salvi al n. 10: gli uomini e le donne di questa nostra epoca desiderano ancora la vita eterna? O forse più radicalmente l’esistenza terrena è diventata l’unico orizzonte? Agli inizi del cristianesimo, come testimonia il Nuovo testamento, la fede e la speranza erano fortissimi, anche se l’intera riflessione interessa il vivere e il morire di ogni uomo e quindi interessa anche noi qui e ora. In realtà, come già osservava sant’Agostino, tutti vogliamo la “vita beata”, la felicità, l’ogni bene senza alcun male cioè il Paradiso. Non sappiamo bene che cosa sia e come sia, ma ci sentiamo attratti, vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita E’ questa una speranza universale, comune a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. L’espressione “vita eterna” vorrebbe dare un nome a questa attesa insopprimibile: non una successione senza fine, ma l’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo e il dopo non esistono più. Una pienezza di vita e di gioia: è questo che speriamo e attendiamo dal nostro essere con Cristo.
Occorre continuamente ravvivare la speranza nella vita eterna fondata realmente sulla morte e risurrezione di Cristo. “Sono risorto e ora sono sempre con te”, ci dice il Signore, e la mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani e sarò presente persino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là io ti aspetto per trasformare per te le tenebre in luce. E’ un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa e non una semplice informazione che, oggi, sembra accantonata o superata da informazioni più recenti.
La speranza cristiana non è però mai soltanto individuale, è sempre anche speranza per gli altri. Le nostre esistenze sono profondamente legate le une e le altre ed il bene e il male che ciascuno compie, con responsabilità personale, tocca sempre anche gli altri, anche i propri cari già partiti per l’al di là. Alle anime dei defunti può essere dato ”ristoro e refrigerio” mediante l’Eucaristia, la preghiera e l’elemosina. Che l’amore possa giungere fin nell’al di là, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni e gli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l’al di là un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono? Così la preghiera di un’anima pellegrina nel mondo può aiutare un’altra anima che si sta purificando dopo la morte mediante una purificazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. E’, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Ecco perché la Chiesa ci invita a pregare per i nostri cari defunti e a sostare presso le loro tombe nei cimiteri.


Veramente liberi e liberamente veri - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 3 novembre 2008 - A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, importante documento nel quale è affrontato uno degli aspetti essenziali della vocazione matrimoniale e dello specifico cammino di santità che ne consegue, è possibile oggi capire meglio quanto questa luce profetica sia decisiva per comprendere il grande “sì” che implica l’amore coniugale.
In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti nella verità di un autentico essere dono del Donatore divino, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente di ogni vita umana unica e irripetibile. Questo grande “sì” alla bellezza dell’amore comporta certamente gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente ed è la consapevolezza del proprio e altrui essere dono del Donatore divino che rende liberi e responsabili.
A livello di praticabilità, è vero che nel cammino della coppia possono verificarsi circostanze gravi che rendono prudente distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle. Ed è qui che la conoscenza dei ritmi naturali di fertilità della donna diventa importante per la vita dei coniugi. I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità uniti sempre all’impegno o tensione di castità coniugale o autocontrollo delle pulsioni per una sempre più grande e gratuita tenerezza reciproca nelle relazioni, consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l’integro significato della donazione sessuale. “Se non si vuole esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere i limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato e sia rivestito di autorità, è lecito infrangere” (Humanae vitae, 17). E’ questo il nucleo essenziale dell’insegnamento che Paolo VI rivolse ai coniugi, che il Sinodo sulla famiglia ha fatto proprio e che il servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale. Benedetto XVI, con il profondo magistero sull’agape e sul suo rapporto con l’eros già espresso nell’Enciclica Deus caritas est, lo approfondisce. In questo modo i coniugi, rispettando la piena verità del loro amore, potranno modularne l’espressione in conformità a questi ritmi, senza togliere nulla alla totalità del dono di sé che l’unione nella carne esprime. Ovviamente ciò richiede una maturità nell’amore, che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù fin da ragazzi.
La possibilità tecnica di separare la fertilità dall’esercizio della sessualità e quindi l’unità di biologia e relazionalità che definisce la natura, l’ethos della sessualità umana, fu chiaramente intuita da Paolo VI con una “svolta epocale” nel rapporto tra l’uomo e la tecnica: si veicola nella coscienza dell’uomo e della donna l’idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una misura d’uso che la tecnica poteva stabilire. Certo, la soluzione tecnica anche nelle grandi questioni umane appare spesso più facile e attraverso i mezzi della comunicazione la più condivisa, dominante, ma essa in realtà nasconde la questione di fondo che riguarda il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale, senza umiliare e degradare la ragione a una mera ratio tecnica, facendo del piacere il criterio ultimo. E’ una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI, in continuità con Paolo VI, Giovanni Paolo II e il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, sta lanciando al mondo: o si allargano gli spazi della ragione o l’uomo è in pericolo mortale. Nonostante, allora, che il mondo, e con esso molti cattolici, trovino tanta difficoltà non solo a praticare ma addirittura a comprendere il messaggio della Chiesa occorre il coraggio di dire che la tecnica non può sostituire la maturazione della libertà quando è in gioco l’amore. Anzi, come ben sappiamo, neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere poiché l’amore sponsale cristiano si conosce solo con il cuore. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano. Per questo il servizio che la Chiesa offre nella sua pastorale matrimoniale e familiare, spesso squalificato nell’attuale emergenza educativa, non solo come non praticabile ma addirittura falso, punta a saper orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere come tensione quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata nella preghiera. Questi quarant’anni dall’Humanae vitae non sono certamente stati un deserto!


Il primo incontro del forum cattolico-musulmano - Una scelta per il futuro - di Francesco M. Valiante – L’Osservatore Romano, 4 novembre 2008
Quando cristiani e musulmani si siedono intorno a un tavolo per parlare di "amore di Dio" e "amore del prossimo", la posta in gioco va al di là di un semplice rapporto di buon vicinato: riguarda infatti il futuro dell'umanità. E non soltanto perché alle due religioni appartengono rispettivamente oltre un terzo e un quinto della popolazione del pianeta. Ma perché le nuove dinamiche del mondo, riportando il fatto religioso al centro del dibattito pubblico, globalizzano oggi anche doveri e responsabilità dei credenti. Tanto da convincere molti a ritenere il dialogo non più una "scelta stagionale" ma una "necessità vitale", come già tre anni fa aveva visto acutamente Benedetto XVI a Colonia, in uno dei primi incontri del suo pontificato con una comunità musulmana. "Sembra che i credenti siano condannati al dialogo" ha ribadito lo scorso ottobre il cardinale Tauran parlando a un congresso internazionale a Castel Gandolfo.
Il destino di quello che André Malraux aveva profetizzato come il "secolo religioso" passa dunque per questa sfida. Lo hanno compreso un anno fa i 138 esponenti dell'islam autori della lettera aperta indirizzata al Papa e ad altri capi di Chiese e comunità ecclesiali il 13 ottobre 2007. In essa si avvertiva, appunto, che "se musulmani e cristiani non sono in pace, il mondo non può essere in pace". Da quella lettera - e dalla successiva risposta del cardinale segretario di Stato Bertone a nome del Pontefice - è cominciato il cammino che porterà domani al primo incontro del forum cattolico-musulmano, in programma a Roma da martedì 4 fino a giovedì 6 novembre.
All'appuntamento partecipano due delegazioni composte da 29 persone per parte tra autorità religiose, esperti e consiglieri. A guidare quella cattolica è il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, mentre a capo di quella musulmana c'è il Gran Mufti della Bosnia ed Erzegovina Mustafa Ceric. Del tema del seminario - "Amore di Dio, amore del prossimo" - verranno approfonditi i "fondamenti teologici e spirituali" durante il primo giorno, mentre il successivo sarà dedicato a "dignità della persona umana e mutuo rispetto". La giornata conclusiva prevede l'udienza di Benedetto XVI ai partecipanti e, nel pomeriggio, la sessione pubblica alla Pontificia Università Gregoriana.
Motivi e contenuti del colloquio - lo rivela la scelta del tema - sono legati alla lettera dei 138 e alla risposta di Benedetto XVI. L'intento di fondo dell'iniziativa musulmana era di mostrare che "i due comandamenti più grandi" dell'amore per Dio e dell'amore per il prossimo rappresentano di fatto un terreno comune alle tre religioni che considerano Abramo come padre della fede. La lettera ha segnato senza dubbio un elemento significativo nella situazione creatasi dopo le strumentalizzazioni e le incomprensioni seguite al discorso di Benedetto XVI all'università di Ratisbona. Non meraviglia perciò che il Papa ne abbia apprezzato "lo spirito positivo", come ha rivelato appunto il cardinale Bertone nella risposta inviata al principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal, presidente dell'Aal al-Bayt Institute for Islamic Thought, il 19 novembre dello scorso anno. "Senza ignorare o minimizzare le nostre differenze di cristiani e musulmani - ha assicurato il porporato - possiamo e quindi dobbiamo prestare attenzione a ciò che ci unisce".
Da questo scambio di lettere sono scaturiti una serie di contatti tra il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e i firmatari musulmani, le cui delegazioni si sono riunite il 4 e il 5 marzo di quest'anno. Decidendo, di comune intesa, la costituzione di un forum cattolico-islamico e l'organizzazione dell'incontro a Roma.
Va comunque ricordato che il confronto tra cattolici e musulmani non è certo una novità. Su una vicenda plurisecolare di scontri e incontri, a partire dal Novecento - e soprattutto dopo il Vaticano ii - si è innestata una storia diversa. Fatta di nuove contrapposizioni e incomprensioni, ma anche di avvicinamenti e contatti che sono diventati periodici e sempre più frequenti. Come dimostra il calendario degli incontri che nell'ultimo anno il dicastero vaticano ha avuto con istituzioni e organizzazioni islamiche in diverse parti del mondo. Significativo, per esempio, quello del febbraio scorso al Cairo per la sessione del comitato misto per il dialogo, costituito nel 1998 dal Pontificio Consiglio con al-Azhar, uno dei più antichi istituti accademici religiosi musulmani - fondato nel x secolo - e oggi la più prestigiosa istituzione teologica dell'islam sunnita nel mondo. Da parte loro, i musulmani non hanno fatto mancare segnali nuovi e importanti di apertura. Come il congresso sul dialogo interreligioso convocato quattro mesi fa a Madrid dal re dell'Arabia Saudita Abdallah bin Abdulaziz Al Saud, il custode dei luoghi santi della Mecca e Medina.
Sono fermenti che autorizzano a guardare all'incontro di domani con ragionevole speranza. Anche se è d'obbligo una sana dose di realismo. L'intensa attività che lo ha preparato sembra già una buona base di partenza. Ma restano sul tavolo nodi cruciali, legati soprattutto alle grandi questioni della dignità e del rispetto della persona umana. Da più parti si reclama un impegno forte e risolutivo su questi temi. In nome soprattutto di quella libertà religiosa piena ed effettiva che continua a essere un punctum dolens nei rapporti tra cristiani e musulmani. Lo ha chiesto, da ultimo, il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, dedicando agli aspetti più attuali del dialogo con l'islam una delle proposizioni presentate al Papa. Il cui testo significativamente inizia con una citazione della Nostra aetate, la dichiarazione del Vaticano ii su Chiesa e religioni non cristiane che già 43 anni fa, nel condannare "qualsiasi discriminazione tra gli uomini o persecuzione perpetrata per motivi di religione", si era riferita espressamente alla frase dell'apostolo Giovanni "chi non ama, non conosce Dio". Avevano visto giusto i padri conciliari: cristiani e musulmani oggi possono incontrarsi sulla base comune dei "due comandamenti più grandi" dell'amore.
(©L'Osservatore Romano - 3-4 novembre 2008)


Scienza e religione al di là degli stereotipi - Il big bang - il gesuita e l'ebreo - Due astronomi a colloquio con Riccardo Chiaberge - di Lucetta Scaraffia – L’Osservatore Romano, 4 novembre 2008
Il rapporto fra scienza e religione sembra farsi sempre più difficile, addirittura fonte di aperti conflitti che nascono più spesso da malintesi che da vere ragioni di contrapposizione, tanto che alcuni scienziati, in tutto il mondo, ne hanno fatto addirittura un genere letterario. In un clima così teso arriva invece con intento distensivo il libro di Riccardo Chiaberge La variabile Dio (Milano, Longanesi, 2008, pagine 195, euro 14,60) che affronta questo tema da un punto di vista originale: un lungo colloquio con importanti scienziati, George Coyne, che è stato direttore della Specola Vaticana, e Arno Penzias, l'astronomo che ha captato il rumore del big bang. L'incontro si è svolto in distesa amicizia e stima reciproca, "tutto l'opposto di quel clima di crociata e di muro contro di muro che sembra dominare da qualche anno intorno a questi temi".
I due scienziati, entrambi settantacinquenni, hanno parlato del rapporto con la religione nel loro percorso biografico - Coyne gesuita, Penzias ebreo scampato alla Shoah - e nella loro passione scientifica. E se Penzias dice di guardare a un mondo in cui Dio non interviene, Coyne insegue Dio nella sua ricerca sull'universo: "Sto cercando di capire un universo creato da Dio che mi ama". Ma se non sono molti gli scienziati a dichiararsi religiosi - scrive Chiaberge - sono quasi la metà quanti pensano che avere una fede non impedisca affatto di essere un ottimo ricercatore, convinti cioè che si tratti di due campi esistenziali separati, che possono non interferire l'uno con l'altro.
Chiaberge passa poi ad affrontare i due nodi strategici della contrapposizione fra scienza e fede: il processo a Galileo e l'evoluzionismo. Mentre per il processo a Galileo sembra addirittura che l'ebreo Penzias sia più indulgente del gesuita Coyne nel suo giudizio sull'operato della Chiesa di Roma, vedendo nel processo allo scienziato non tanto una condanna delle sue teorie, quanto dell'uomo che ne aveva fatto un uso contrario alle disposizioni della gerarchia ecclesiastica - un processo quindi più politico che scientifico - per quanto riguarda l'evoluzionismo vediamo i due scienziati schierati entrambi, senza remore, su una posizione favorevole.
Posizione che si contrappone quindi nettamente a quelle dei creazionisti, ai quali Chiaberge dedica un interessante capitolo frutto di una visita al Creation Museum del Kentucky. Coyne sostiene che anche l'idea dell'Intelligent Design "sminuisce Dio, lo degrada ad un ingegnere", mentre invece - continua il gesuita - "la scienza moderna pone una sfida, una sfida stimolante, alle credenze tradizionali intorno a Dio. Dio nella sua infinita libertà crea continuamente un mondo che riflette questa libertà a tutti i livelli del processo evolutivo verso una complessità sempre più grande. Dio lascia che il mondo sia quello che sarà nella sua continua evoluzione. Non interviene, ma piuttosto asseconda, partecipa, ama".
Ma questo libro dai molti meriti, che tra l'altro - ed è un pregio non secondario - riesce a far capire in termini semplici complicate teorie astrofisiche sull'origine e la natura dell'universo, non arriva a individuare il punto su cui si fonda la vera differenza fra i cattolici e gli evoluzionisti radicali: cioè il posto dell'essere umano nella natura. I cattolici, e i credenti in generale, non accettano infatti una teoria che vuole l'uomo parte della natura a tal punto da negare la differenza, l'eccezione, della specificità umana. Da questa diversa concezione di essere umano, ovviamente, deriva una diversa valutazione etica dell'intervento scientifico nei momenti di inizio e di fine della vita.
Molto parziale è anche la lettura che Chiaberge fa del Vaticano ii, secondo lui molto aperto nei confronti della scienza e che nei decenni successivi sarebbe stato tradito da una nuova ostilità dimostrata dalla Chiesa: l'autore sembra non pensare che nei decenni che seguono il concilio è cambiato completamente il rapporto fra la scienza e la società, e si sono aperti nuovi e complessi problemi, ai quali, sicuramente, i padri conciliari non avrebbero potuto dare risposte diverse da quelle date dalla Chiesa di oggi. Ma nonostante queste incomprensioni il libro rimane un tentativo interessante di conciliazione fra mondi culturali che vengono spesso contrapposti. Un tentativo del quale bisognerà tenere conto.
(©L'Osservatore Romano - 3-4 novembre 2008)


ELEZIONI USA/ Il giorno della verità per le ambizioni di Barack Obama - Lorenzo Albacete - martedì 4 novembre 2008 – IlSussidiario.net
È finita. Quando leggerete queste righe, i giochi per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti saranno ormai chiusi. In questo momento, a poche ore dal giorno dell’elezione, tutti sono diventati molto prudenti ad anticipare risultati, ma la maggioranza dei sondaggi prevede la vittoria di Obama. Ma anche se Obama perdesse, queste elezioni avranno cambiato la storia politica americana.
Soprattutto un elemento è alla base di questo cambiamento: il fattore razziale. La ragione per cui è così difficile predire l’esito di queste elezioni è l’impossibilità di misurare l’impatto sugli elettori dell’identità razziale di Obama. Questo fattore, e non quello tradizionale della divisione tra conservatori e progressisti, destra e sinistra (nel senso americano, non europeo), appare essere determinante nel decidere il risultato di questa elezione.
Si potrebbe verosimilmente dire che se Obama fosse stato un bianco, nessuno avrebbe dubitato della sua vittoria: Obama avrebbe vinto, non perché la maggioranza degli americani siano diventati di sinistra, ma perché la grande maggioranza delle persone non è ideologica e vuole un cambiamento, perché considera intollerabile e pericolosa l’attuale situazione del paese.
Non ha nessuna importanza la destra o la sinistra. Il comportamento “presidenziale” e entusiasmante di Obama durante la campagna, così come la sua astuzia politica nel venir fuori dal nulla per battere l’establishment Democratico (che era schierato in favore di Hillary Clinton), gli avrebbero garantito la presidenza, non importa quanto egli fosse progressista. Il fattore che si è posto di traverso a questa certezza è appunto la sua razza.
Non è questione di razzismo come ideologia, ma è piuttosto la paura di ciò che non si conosce. Per gli indecisi, Obama appare attraente, ma estraneo. In una recente ricerca un gran numero di intervistati considerava gli europei bianchi (Tony Blair, per esempio) più “americani” rispetto ad un americano nero. Non è un problema di colore della pelle, è un problema di cultura degli afro-americani. È la loro cultura, non il colore della loro pelle come tale, che preoccupa il medio elettore bianco. (Nel caso di Obama c’è l’ulteriore complicazione del suo retroterra veramente multi culturale e multi razziale, per non parlare del suo nome).
È già sorprendente che Obama sia riuscito a superare queste preoccupazioni e ad arrivare dove è arrivato, e questo è una sorprendente rivelazione di come oggi gli americani stiano vivendo il dramma razziale, che è stato parte così integrante della storia della nazione.
In effetti, la chiave del successo di Obama non è in un cambiamento delle tensioni razziali, che affliggono ancora molti americani, ma la sua abilità di attrarre milioni e milioni di nuovi elettori, preparati ad affrontare la questione razziale con nuove modalità.
Se Obama vince, questo nuovo modo di vivere il dramma delle differenze di razza negli Stati Uniti sarà un fattore importante per il futuro di questo Paese.


RECENSIONE/ Il segreto dell’infaticabile creatività di don Oreste Benzi - Redazione - martedì 4 novembre 2008 – IlSussidiario.net
Nel messaggio per la sua morte, avvenuta il 2 novembre 2007, Benedetto XVI lo aveva definito «un infaticabile apostolo della carità». E quella definizione, che coglie in profondità la cifra della testimonianza offerta al mondo da don Oreste Benzi, ritorna nel sottotitolo della biografia che il giornalista riminese Valerio Lessi ha mandato in stampa in occasione del primo anniversario della scomparsa del sacerdote.
Don Oreste Benzi – Un infaticabile apostolo della carità (San Paolo, 2008) è il racconto dell’avventura umana e cristiana di un sacerdote che aveva fatto suo l’insegnamento ricevuto dagli educatori in seminario, e cioè che vale la pena «strapazzarsi per le anime». Don Benzi ha vissuto ogni istante della sua vita mosso dall’amore a Cristo e dal desiderio che ogni uomo potesse incontrare questo amore. Scrive nella Prefazione Giovanni Paolo Ramonda, il suo successore alla guida della comunità Papa Giovanni XXIII: «Il Gesù di don Oreste era una persona viva. Lui ci diceva sempre che Cristo non era un’ideologia, una filosofia, ma una persona vivente con la quale dovevamo entrare in relazione come innamorati che si cercano. (…) Cristo veramente era il centro del suo cuore e lui voleva che diventasse il cuore del mondo». Negli anni Cinquanta, quando cominciavano ad essere evidenti i segni della scristianizzazione tra le giovani generazioni, diede vita ad un movimento teso a far avere ai preadolescenti, tramite vacanze sulle Dolomiti, «un incontro simpatico con Cristo». Quando lo sviluppo di quell’intuizione è diventato il carisma della sua comunità, ovvero la condivisione diretta della vita dei più poveri ed emarginati, la centralità del rapporto Cristo è rimasta sempre il fondamento del suo infaticabile darsi a tutti.
Oggi nelle strutture della Comunità Papa Giovanni XXIII sparse nei cinque continenti siedono a tavola 49.000 persone. Nessuna di queste realtà (dalla prima casa famiglia sorta nel 1973 fino alle comunità di recupero per tossicodipendenti e alle varie case di accoglienza per i diseredati di ogni tipo) è nata da un progetto a tavolino. Niente era più estraneo alla sua mentalità di una carità, ed anche di una Chiesa, che nasce per programmazione dall’alto: tutto doveva procedere seguendo i segni, le occasioni, gli incontri che il buon Dio poneva sul suo cammino.
Il libro di Valerio Lessi documenta passo dopo passo questa avventura, attingendo direttamente dai racconti e dai ricordi dello stesso don Benzi e dalle testimonianze degli amici e dei collaboratori. Molti gli aneddoti sconosciuti al grande pubblico e che invece restituiscono la verità della sua figura: come quando rinunciò al caffè che gli piaceva moltissimo per salvare una creatura dall’aborto. E quel bambino oggi vive.
L’autore ha avuto con il sacerdote una familiarità di rapporto che risale al 1972, quando egli stesso partecipò ad uno dei campeggi organizzati ad Alba di Canazei. Nel 1991 scrisse con lui Con questa tonaca lisa, il libro intervista in cui per la prima volta don Benzi raccontava di sé e della propria esperienza cristiana. Da quel titolo tutti presero a chiamare don Oreste il prete dalla tonaca lisa, consumata per soccorrere il bisogno di tutti, dai minori senza famiglia alle ragazze di strada, dai bimbi uccisi prima di nascere ai senza dimora, dai tossicodipendenti ai disabili. Il suo sorriso luminoso era il biglietto da visita di un uomo saldamente appoggiato sulla roccia della fede.
Dalla lettura del libro emerge come sia riduttivo, come spesso si è fatto, catalogare don Benzi tra i preti di strada o i preti sociali. Osserva Giovanni Paolo Ramonda «Tanto era accogliente, tanto era fermo nei principi di fedeltà a Cristo, alla dottrina, alla tradizione della Chiesa». Per lui non c’erano dubbi che la Chiesa Cattolica è l’unica Chiesa di Cristo e aveva parole durissime verso un certo ecumenismo all’acqua di rose o verso le scuole teologiche che, diceva letteralmente, «castrano il cristianesimo».


BIOETICA/ Dalla “Carta di Firenze” il pericolo di un'alleanza fra culto della scienza e disumanizzazione - Carlo Bellieni – IlSussidiario.net
martedì 4 novembre 2008

Si è concluso il convegno fiorentino su “Le buone ragioni della Carta di Firenze”, durante il quale si è discusso delle cure da offrire ai bambini estremamente piccoli. Il convegno resterà nei ricordi per la presenza dell’olandese Eduard Verhagen, coautore del protocollo sull’eutanasia infantile e del filosofo Gianfranco Verzoller che ha discusso il tema se il neonato sia una persona, incorrendo entrambi nelle ire delle famiglie delle persone disabili [leggi qui]. Non entro nel merito del convegno, dato che sulla Carta di Firenze si è già espresso in maniera netta il Comitato Nazionale di Bioetica, in pratica respingendone le conclusioni. Non entro neanche nelle polemiche che il convegno ha provocato con le critiche che i giornali hanno sollevato a chi sosteneva che neonati e disabili non sono persone.
Ma è opportuno partire da qui per affermare una certezza: se si inizia a distinguere chi è persona e chi non lo è o si cade nell’assurdo o si usano riferimenti logici deboli e fragili. Ci ha infatti fatto piacere notare che è montata un’onda di sdegno a fronte delle affermazioni miranti a chiudere neonati e disabili in un limbo di non-persone; la direzione dell’ospedale Meyer ha affermato che certamente disabili e malati sono persone, arrivando a spiegare che l’Ospedale suddetto è consapevole di aver sempre operato in difesa della vita, per il rispetto della persona sin da quando è nella pancia della mamma [leggi qui]. E già, il punto dolente emerge e i nodi vengono al pettine: infatti negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’erosione di quella che gli inglesi chiamano “personhood”, cioè dello status di persona: prima ai feti ed embrioni, poi ai disabili gravissimi come Terri Schiavo, insomma progressivamente a tutti quelli che “non sono in grado di autogestirsi mentalmente”; in altre parole, per un numero sempre crescente di filosofi soprattutto anglosassoni, il non avere una netta coscienza di sé implica il non essere persone. A fronte di questo, chi aveva affermato che “non-persona” è solo il feto - e che questo essere non-persona giustifica la sua eliminazione in caso di desiderio dei genitori di abortire – resta totalmente spiazzato: si indigna con chi stigmatizza come non-persona il bambino o l’anziano, ma non sa giustificare la propria decisione di considerare non-persona il feto. E allora si affannano a trovare qualche sostanziale differenza tra un feto e un bambino, ma inutilmente: non ce ne sono.
Dunque alcuni arrivano a spiegare che ciò che rende persone sarebbe l’arrivo della luce agli occhi, “che stimola il funzionamento del cervello ed attiva la capacità di immaginare e la nascita del pensiero umano”, dimenticando evidentemente che ci sono delle persone che in realtà non sono mai stati colpite dalla luce per una cecità congenita: non sono forse persone? Dimenticando che alcuni feti vengono portati alla luce, operati perché malati e reinseriti in utero: sarà dunque per loro l’essere persone un fenomeno transitorio e reversibile? Dimenticando che alla fine della gestazione la luce penetra attraverso il pancione fino agli occhi del feto. Arrivano a riportare in auge delle frasi di Italo Calvino che sosteneva che “…un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri” [leggi qui], cosa che ci fa preoccupare non poco, al pensare che in sostanza diventiamo persone solo per “concessione “ di qualcun altro, cosa che speravamo finita dai tempi del diritto di vita e di morte del pater familias di ciceroniana memoria.
Ho da poco partecipato ad un congresso nazionale organizzato dal coordinamento “Vivere” che raduna le associazioni dei genitori dei bambini ex-prematuri. Il convegno significativamente si intitolava “Prendetevi cura di noi”: non abbiamo sentito voci alzarsi invocando che smettessero gli studi per aiutare i piccoli di 22 settimane; non abbiamo visto cartelli contro i medici che curano i piccolissimi, ma abbiamo sentito richieste pressanti e commoventi di mamme che vogliono che il loro bambino sia curato come tutti gli altri pazienti. Lo scandalo oggi è che gli Stati che aprono i cancelli alla sospensione delle cure per i piccolissimi chiudono al tempo stesso le porte culturali, mentali ed economiche agli aiuti a chi invece vuole vivere anche nella malattia. Sarebbe bene che fossero loro a parlare.
Le elezioni domani negli USA ci riportano proprio a questo: all’immagine di una candidata vicepresidente che culla il suo bambino disabile generando scandalo nei media liberal e tra i benpensanti. Scandalo che nasce da una mamma che non si pone il dubbio se “accettare” il figlio malato, ma lo ama incondizionatamente. In molti si stanno preoccupando delle conseguenze che una vicepresidente-mamma-audace avrà sui temi legati alla vita. Noi speriamo che ce la faccia. Lei e il suo piccolo sapranno mostrare al mondo che non siamo noi che facciamo diventare qualcuno“persona”, ma che la nostra ragione e il nostro cuore sono davvero in marcia quando sappiamo riconoscere l’essere persone in tutti, anche in chi è così piccolo o così malato da non sembrarlo.


GLI ABISSI ASSURDI DEL CONVENZIONALISMO - A Oxford cancellano il Natale. E i musulmani si stupiscono - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 4 novembre 2008
Si si potrebbe ridere sopra. E invece no.
Perché chi prova ad uccidere le parole è spesso un assassino peggiore di chi, magari in situazioni estreme, uccide un uomo. E ora vogliono uccidere Christmas.
Vogliono cancellare questa parola. A Oxford, cittadina nota per le sue università sapientissime, il consiglio comunale ha deciso che quest’anno il Natale, per essere più inclusivo, cancellerà la parola
Christmas per chiamarsi festival della Luce o qualcosa del genere. Uno dei leader di coloro da includere, la comunità musulmana, ha bollato la cosa come ' ridicola'. Ma i capi della città dei saggi hanno deciso di procedere ugualmente. E togliere quindi quella parola. Perché in quella parola c’è qualcosa che dà fastidio. C’è Christ
che dà fastidio. Si fanno fuori le parole per far fuori la
realtà. Si cancella
Christmas per provare a cancellare Christ.
Ci si potrebbe ridere sopra. E infatti il capo musulmano ci ride sopra. Ride della dabbenaggine, della malevolenza dei capi della città dei saggi.
Ma la faccenda è seria. Non è un caso che queste cose avvengano nelle città dei saggi. Sono sempre loro a non sopportare Christ. Sono loro, i saggi di ogni epoca, a non sopportare quel nome che, è scritto, è sopra ogni altro nome, compreso quello stampato sui loro libri, sopra le firme svolazzanti con cui guadagnano fama su giornali ed enciclopedie.
Quel nome. Che dà fastidio perché ricorda che la signoria del mondo non è nelle nostre mani, per quanto raffinate e ben curate. Ricorda che il Lord, il vero Lord, è Lui. Non viene in mente al popolo di togliere, di uccidere Christ. A meno che il popolo non sia sobillato dai saggi. Come avvenne la prima volta, nel piazzale del Sinedrio o fuori dal palazzo di Pilato. Ma non viene in mente nelle favelas di San Paolo o nei ranchitos
orrendi di Caracas di cancellare la parola Christ.
Magari in quelle vie strette dove si irradia ogni genere di delitto lo si tradisce e lo si bestemmia. Ma nessuno del popolo vorrebbe cancellare la parola Christ. La vogliono cancellare i saggi. Quelli che scrivono libri. Che hanno il loro nome in caratteri d’oro o di ottone fuori dalle porte degli studi. Che se vai su Google hanno mille pagine che riportano il loro nome.
Sono questi che non sopportano più il nome di Christ, e trovano ogni scusa, compreso l’inclusione di quelli che invece non lo vogliono cancellato. E che se la ridono di questa saggezza anticristiana dell’Europa. E ci prendono in giro per questo. Ma quel nome non verrà cancellato dalla banalità di una delibera.
Dalla burocrazia saccente e violenta mascherata da tolleranza. Quel nome risorge a Oxford. Nelle preghiere o nelle invocazioni. Nella vita.
Perché sempre cercano di cancellare il Suo nome dolce e meraviglioso, il Suo nome che è scritto con tutti i pianti e tutti i sorrisi del mondo. Lo vorrebbero cancellare dai documenti, dai libri, dai manifesti, dai calendari, ma sempre il suo nome risorge nella vita dl suo popolo.
Come sono ridicoli questi notai del niente. Come splende ancora più luminoso il Suo nome.


l’intervista «Un errore abbandonare i temi etici» - DAL NOSTRO INVIATO A WASHINGTON – Avvenire, 4 novembre 2008
«Credo che gli ame­ricani abbiano vi­sto in Obama una proposta di cambiamento più credibile di quella offerta da McCain. Ma il candidato re­pubblicano ha fatto parecchi passi falsi in questa campagna elettorale». James Capretta è stato fino a tre anni fa alla Casa Bianca come responsabile, con George W. Bush, del bilancio per il welfare e non crede però che «il cambiamento prospettato da Obama sia quello di cui l’A­merica ha bisogno».
Perché?
La politica fiscale del candida­to democratico porta a un au­mento delle tasse ma soprat­tutto delle spese. Quando e se i democratici avranno il control­lo del Congresso e della Casa Bianca ci sarà una crescita del potere federale, dei programmi pubblici. E non è ciò che gli a­mericani amano nel governo; non vogliono che Washington si metta a fare piani di salva­taggio delle società quotate in Borsa. Questo aspetto non è sta­to evidenziato abbastanza, o con la giusta forza dal messag­gio di McCain
Lei scrisse qualche mese fa sul «Washington Times» che per vincere a McCain sarebbe ba­stato affermare che il suo riva­le avrebbe alzato le tasse. A questo punto possiamo dire che la freccia ha mancato il bersaglio…
Sì. Non è il tema delle tasse ad essere sbagliato. McCain sem­plicemente non lo ha usato co­me avrebbe dovuto fare. Solo nelle ultime settimane, forse l’ultimo mese, il suo staff ha puntato sulla politica fiscale e tentato di mettere in evidenza che la proposta di Obama non crea ricchezza ed è negativa per l’economia. E se oggi McCain è in leggera rimonta è perché ha iniziato a parlare di tasse.
Resta il fatto che Obama è fa­vorito. Questa sera l’America sarà un Paese «liberal?
Gli Stati Uniti sono una nazio­ne conservatrice, che vinca o meno Obama. Ma gli america­ni sono pragmatici e non ideo­logici. Per questo votano chi li convince di più sul tema che sta loro più a cuore in un momen­to preciso. E oggi è l’economia.
Bush è stato tenuto a debita di­stanza da McCain. Scelta giu­sta oppure il presidente avreb­be potuto dare un mano in al­cuni frangenti al candidato conservatore?
In queste elezioni si è dimenti­cato l’Iraq. La politica estera e la sicurezza sono svanite dal di­battito. Gli americani vogliono girare pagina sull’Iraq, e in que­sto senso Bush rappresenta la continuità. Ma bisogna dare at­to al presidente di aver difeso gli Stati Uniti, di aver contra­stato il terrorismo e di aver af­frontato la minaccia più grande del ventunesimo secolo. In qualche modo Bush poteva aiu­tare. Tenere sotto i riflettori l’I­raq avrebbe consentito a Mc­ Cain di ricordare che Obama aveva torto quando soste­neva che il surge (il piano di rinforzi mi­­litari,
ndr) non a­vrebbe funzionato e che sulla politica e­stera non è credibi­le.
Assenti da queste e­lezioni sono pure i
temi etici. Perché?
Altro errore del ticket repubbli­cano. McCain e la Palin non so­no riusciti a far emergere il ra­dicalismo di Obama su que­stioni come l’aborto e la difesa della famiglia. In agosto quan­do il senatore dell’Arizona è sta­to ospite del reverendo Rick Warren nel dibattito sulla fede, era stato convincente. Il candi­dato democratico invece era apparso ondivago e poco bril­lante. Ma poi il ticket repubbli­cano ha lasciato perdere que­sta strada preferendo altre tat­tiche. Che oggi rischiano di ri­velarsi sbagliate.
Anche la scelta di Sarah Palin come “running mate”?
Ha avuto il pregio di portare u­na ventata di novità e di galva­nizzare la base conservatrice. Se poi sia stata un plus o meno nel­le urne lo scopriremo fra poco.
Alberto Simoni
L’ex consigliere della Casa Bianca, Capretta, analizza la strategia del Veterano: «Ha sfruttato in modo sbagliato il tema delle tasse, ma il cambiamento non è Barack»


«Così nel genoma ho trovato Dio» - DI LUIGIDELL’AGLIO – Avvenire, 4 novembre 2008
U no scienziato che acquista la fede osservando e studiando il Dna e scopre nella cellula il 'linguaggio di Dio'. Questo è il professor Francis S. Collins,
uno dei maggiori genetisti del mondo, direttore del progetto Genoma umano ed autore de Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia fra scienza e fede (Sperling & Kupfer). Ieri, nella terza giornata dei lavori della Pontificia accademia delle Scienze su 'Approcci scientifici sull’evoluzione dell’universo e della vita', Collins ha galvanizzato la discussione portando la sua testimonianza. Ha mostrato una serie di immagini per spiegare lo sviluppo della genomica e ha cominciato dal famoso numero della rivista Nature del 25 aprile 1953, nel quale compare la doppia elica dell’acido desossiribonucleico (Dna), disegnata e illustrata da Jimmy Watson e Francis Crick. «Dal 2003, quando abbiamo portato a termine il progetto – racconta –, giorno per giorno stiamo scoprendo che cos’è il patrimonio genetico dell’uomo e come ogni gene riveli progressivamente le sue possibili funzioni, le conseguenze che può produrre (malattie comprese), i caratteri e insomma l’enorme ricchezza della natura umana. Ogni individuo, pur partecipando al genoma comune, è diverso dagli altri, è unico». Ma di fronte a queste scoperte, man mano che il progetto procedeva, Collins (che non era affatto credente) si poneva interrogativi che lo cambiavano interiormente. A questo punto, si chiedeva, si può giudicare l’evoluzione come un processo puramente casuale? Possiamo considerare strutture biologiche così complesse come il prodotto della sola evoluzione? E anche la legge morale deriva dai meccanismi evolutivi? Alcune forme primitive di comportamento altruistico appaiono nel mondo animale. «Ma le più piene e nobili espressioni dell’altruismo sono una contraddizione in termini, addirittura uno scandalo, se considerati dal punto di vista dell’evoluzione», sottolinea Collins. Di qui la sua proposta: il Bio-Logos, dove logos sta per parola di Dio, una visione in cui la scienza è un potente mezzo di progresso in quanto scopre e sviluppa i 'dettagli' della Creazione. E il ruolo dell’evoluzione è chiaro per Collins: Dio ha usato il processo evolutivo per realizzare il suo piano creativo. Il genetista americano ha mal sopportato le dispute scoppiate fra i credenti in materia di evoluzione. E cita sant’Agostino: «Nelle materie che sono oscure e restano oltre le nostre possibilità di comprensione, noi troviamo nelle Sacre Scritture passaggi che possono essere interpretati in maniera differente ma senza pregiudizio per la fede che abbiamo ricevuto». Gli chiedono: la scienza ha bisogno di Dio? E lui: «La scienza non ha come suo scopo diretto quello di dimostrare l’esistenza di Dio ma può essere un primo gradino per arrivare poi, con un ragionamento filosofico, a Dio». C’è chi dice che nulla in biologia può avere senso se non alla luce dell’evoluzione. «Ma l’origine della vita – replica Collins – rimane un mistero.
Quando comincia la vita, la scienza e l’evoluzione ci spiegano il 'come'; però noi abbiamo bisogno di Dio per capire il 'perché'». Su una questione rimasta aperta tra i cosmologi – l’universo è eterno, oppure ha avuto un inizio (come fa pensare il Big Bang)? – ha poi fatto chiarezza il cardinale
Georges Cottier, che si è richiamato a san Tommaso. Tanto per cominciare, dice Cottier, che l’universo abbia avuto un inizio è una verità di fede, che non può essere dimostrata. E il cardinale avverte che Tommaso era particolarmente severo con quanti pretendevano di dimostrare le verità di fede. «È la fede a dirci che l’universo ha avuto un inizio. E comunque la tesi dell’eternità del mondo non è contraddittoria: anche un mondo eterno sarebbe un mondo creato perché la creazione stabilisce una relazione di dipendenza ontologica tra l’essere creato e la causa creatrice». Il genere Homo nasce in Africa, circa dieci milioni di anni fa, ma solo due milioni e mezzo di anni fa diventa cacciatore, esploratore del mondo, e senza ricorrere alla violenza sui suoi simili. Yves
Coppens, uno dei maggiori paleontologi contemporanei, ha tracciato la storia dell’uomo a partire da dieci milioni di anni fa, perché allora la sua linea evolutiva si separa nettamente da quella degli scimpanzé. Ma due milioni e mezzo di anni fa il genere Homo rivela molte sue caratteristiche peculiari.
Diventa carnivoro e corre per cacciare le prede. Il suo cervello è più sviluppato e comincia a manifestarsi la coscienza.
Dispone di migliori strumenti, è più numeroso perché si adatta meglio ai cambiamenti climatici. Ed è la prima specie di Homo che migra dal luogo in cui è nata. Cinquanta­sessantamila anni fa espande la propria presenza. «Ed è sorprendente trovarlo un po’ dovunque. Viene in Europa, anche in quella del Nord, va in Asia, in America (a piedi) e in Australia (con imbarcazioni)».