sabato 8 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) PAPA: "A SUA IMMAGINE" LANCIA CAMPAGNA PER SMS DI SOLIDARIETA' - Salvatore Izzo – (AGI) - CdV, 8 mag.
2) Avvenire.it, 8 Maggio 2010 - I dolori, le ansie e le gioie - Maggio e la Signora alla quale affidiamo tutto di Davide Rondoni
3) La Madonna del Rosario ricorda la battaglia di Lepanto. La Supplica, una importante invocazione alla materna intercessione di Maria scritta da un ateo convertito. Maria, modello di santità - Bruno Volpe – dal sito Pontifex.roma.it
4) La necessità di recitare il Rosario tutti i giorni - Giorgio Mastropasqua – dal sito Pontifex.roma.it
5) Santa eppure mescolata ai peccatori: la Chiesa del papa teologo - Divampa la polemica sui peccati della Chiesa. Ecco come Ratzinger, da giovane professore, spiegava perché "il divino si presenta così spesso in mani indegne". Una pagina scritta più di quarant'anni fa, ma attualissima - di Sandro Magister
6) L'origine divina della Chiesa si mostra nella tempesta - 19 aprile 2010 - Corriere della Sera - Un dolore vero per ridare fiducia - di Vittorio Messori
7) Il mistero del Male - La luce e il suo contrario - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010
8) I vescovi dopo il voto favorevole del parlamento argentino - Grave la norma sul matrimonio omosessuale - L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010
9) Donne: né sante, né puttane - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 7 maggio 2010
10) 8) La ragione inaridita del pensiero moderno salvata dalla metafisica - Il deserto e l'oasi - di Marco Tibaldi - L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010
11) A colloquio con il fisico e filosofo della scienza Bernard d'Espagnat - Cerchiamo il reale che si nasconde dietro le "tubature" dell'universo - di Silvia Guidi - L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010
12) PAPA A VESCOVI DEL BELGIO: VOSTRA CHIESA E' PROVATA DAL PECCATO - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 8 mag.
13) PAPA: CHIESA BELGIO NON SI SCORAGGI DAVANTI A PROFONDA CRISI - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 8 mag.
14) Avvenire.it, 7 Maggio 2010 - Si paga per custodire le cellule del cordone - L'anti-donazione irrompe in sala parto - Francesco Ognibene
15) «No alla Ru486 online» - Avvenire, 8 maggio 2010
16) Spagna, la «morte degna» è già legge in Andalusia - I pro-life: si spiana la strada all’eutanasia - DI MICHELA CORICELLI – Avvenire, 8 maggio 2010
17) Avvenire.it, 8 MAGGIO 2010 - IL MESE MARIANO - Maria e l’Italia minore - abbraccio che continua - Giacomo Gambassi


PAPA: "A SUA IMMAGINE" LANCIA CAMPAGNA PER SMS DI SOLIDARIETA' - Salvatore Izzo – (AGI) - CdV, 8 mag.
"A Sua Immagine", il programma religioso di Rai Uno, attiva un numero telefonico per inviare SMS a Papa Benedetto XVI. L'iniziativa e' legata all'appuntamento del 16 maggio, il giorno in cui i movimenti e le associazioni laicali si ritroveranno in piazza San Pietro per testimoniare a Benedetto XVI l'affetto del popolo cristiano.
Il numero per inviare gli sms (attivo da domenica 9 maggio) sara' 3351863091.
Tutti i messaggi saranno consegnati al Pontefice entro il mese di maggio. "E' un'occasione davvero unica - dichiara il conduttore del programma, Rosario Carello - attraverso questo numero chiunque potra' manifestare la propria solidarieta', anche chi non sara' fisicamente in piazza San Pietro".
© Copyright (AGI)


Avvenire.it, 8 Maggio 2010 - I dolori, le ansie e le gioie - Maggio e la Signora alla quale affidiamo tutto di Davide Rondoni
Maggio piovoso, maggio comunque violentemente odoroso. Di rose bagnate, di erbe cresciute con potenza, di cieli svarianti. E mese di Lei, si dice, della Madre che sei nei cieli. Dell’Ave Maria. E uno dice: cosa me ne faccio di un mese di maggio speciale per Lei ? Cosa serve un mese dedicato a Lei? Forse qualche prete l’ha spiegato in queste settimane e m’è sfuggito. Forse non stiamo più attenti a queste cose. E si sta distratti, si pensa: bene, è il mese detto della Madonna.

E tutto va avanti come prima. Fino a che accade qualcosa che non puoi non affidarLe. Insomma qualcosa che sovrasta talmente le tue forze che ti giri intorno e dici: ma questa cosa a chi la posso affidare? Che vuol dire in realtà: chi la può abbracciare? Perché affidare a Lei, mica vuol dire una cosa tipo "servizio di pronto intervento". A volte La si pensa come fosse l’idraulico, sia detto con il massimo rispetto della Signora. S’è rotto il tubo, può pensarci Lei? Magari s’è rotto proprio quello che bastava tener d’occhio con un po’ di manutenzione, ma si sa la nostra pigrizia, anche quella dell’anima, è tanta…

Lei risolve perché abbraccia. Perché un problema risolto dà gioia forse al massimo fino all’insorgere di un prossimo problema. E invece un abbraccio che tiene tutta la vita la rende più venata di letizia e di pace. A Lei si può affidare tutto. Può essere una cosa piccola e che però ti angustia esageratamente o una cosa grandissima che nemmeno sai come chiamarla. Perché noi uomini siamo fatti così. A volte basta una cosa piccola che non va, una cosa da poco e ci viene l’ansia. Noi uomini intendo uomini e donne, si capisce. Hai voglia a dire: non ti preoccupare, non è niente. Non funziona e allora si vorrebbe affidare anche quella piccola vigliacchissima preoccupazione.

Che so, una faccenda di lavoro, un amico o un marito che non capiscono una cosa, o un figlio che non studia come dovrebbe. Oppure, ci sono quelle altre cose. Le frustate in faccia. Quelle analisi che non ci si aspettava. O quel maledetto incrocio. O proprio lui, no... Ci sono quelle che magari vedi solo in televisione. Le fiamme per strada ad Atene per la proteste della crisi, o la povera disgraziata che nelle fiamme ha messo la sua piccolissima figlia. O la marea nera che avvelena il Pacifico. Insomma tutte quelle cose che ti vien male solo a pensarle, anche se poi pensi: io che ci posso fare? Anche questo secondo pensiero di impotenza non ti lascia tranquillo.

E poi c’è da affidare non solo i guai. Ma anche le gioie. E i desideri. Tutti, compresi quelli più nascosti. I desideri delicatissimi. Perché anche certe gioie non sai dove metterle. E certe sorprese se te le tieni ti fan scoppiare il cuore. E la gioia degli altri quando la vedi… Sì la gioia degli altri, di tuo figlio, della donna che ami, degli amici: a chi affidarla perché non si perda, perché sia una nota sempre in quei cuori, una screziatura in quegli occhi amati…

È il mese più bello. È proprio adatto: la natura esplode sotto i nostri occhi, rivela la sua affascinante misteriosa meraviglia, piena di sfarzo e anche di difetti, di fioriture e marcite, di slanci e di cadute. Anche noi siamo fatti allo stesso modo, fantastici e fragili, pieni di semine delicate e di temporali e mareggiate. «Misterio etterno dell’esser nostro», diceva Leopardi. Un mese che ci somiglia, si può dire. Forse anche per questo è il Suo mese. Di lei che era una come noi. Perciò è, per così dire, "più facilmente" dei nostri, dalla nostra parte.

Non c’è bisogno di spiegarLe tanto. Ha tutta la gamma del sentire umano. Ha avuto le sette spade. E rideva come una ragazza bellissima quando Lo ha visto tornare.
Davide Rondoni


La Madonna del Rosario ricorda la battaglia di Lepanto. La Supplica, una importante invocazione alla materna intercessione di Maria scritta da un ateo convertito. Maria, modello di santità - Bruno Volpe – dal sito Pontifex.roma.it
La Chiesa cattolica celebra oggi [8 maggio] la festa della Madonna del Rosario e tradizione consolidata, vuole che a mezzogiorno si reciti la tradizionale Supplica alla Madonna di Pompei. Di questa festa parliamo con il noto mariologo, sacerdote, professor Salvatore Perrella. Professor Perrella, che cosa rappresenta e che origini ha questa festa?: " é molto antica e risalente nel tempo e appunto, si prefigge di valorizzare ed esaltare la importanza del santo Rosario. Grazie alla recita del Rosario, sotto il pontificato di Pio V, poi canonizzato, il mondo occidentale, nella battaglia navale di Lepanto, ebbe sorprendentemente la meglio sulle truppe navali ottomane". Aggiunge: " va anche detto che questa festa la si deve ai domenicani, ricordando con gioia che il rosario é una istituzione tipicamente cattolica. Altre religiosi celebrano delle preghiere ripetute, delle litanie, ma la ripetitività del rosario, che fa bene al corpo e all' anima, ha un significato salvifico e ...

... pacificatore, con uno scopo, ovvero rendere gloria al Salvatore per mezzo di Maria, celebrando i suoi misteri. Ecco perché, pur essendo mariano, il Rosario ha un valore cristologico. Nel rosario si ripetono le 150 avemaria, che ricordano il numero dei salmi dell' Antico Testamento. Dunque é corretto dire che il Rosario é presidio e rifugio del cristiani, che lo recitano con sincera devozione e amore. Certamente se lo si fa in maniera superficiale e distratta, tanto per celebrare un rito, e senza alcuna convinzione interiore, non sortisce alcun effetto, come ogni preghiera. Il Rosario ha una enorme forza purificatrice e rasserenante dell' animo, proprio a causa e ragione della sua apparente ripetitività".

Veniamo alla Supplica che oggi si recita in ogni chiesa cattolica, alle 12: " la Supplica é una orazione che si associa prevalentemente al Santuario di Pompei ed infatti é la supplica alla Madonna di Pompei. Si tratta di una bella preghiera, magari in alcune parti eccessivamente barocca e ridondante, ma bisogna tener conto dell' epoca storica nella quale venne scritta. A proposito, venne elaborata da Bartolo Longo, un ateo poi convertito al cattolicesimo".

Questa festa, in Maggio, porta in evidenza il ruolo di Maria: " lei é la tutta santa, colei che ci avvicina e ci porta a Dio con fede, semplicità e devozione. A volte nei confronti della mariologia, che fa parte della teologia, si nutre un certo pregiudizio e la si guarda con aria di sufficienza del tutto sbagliata, quasi fosse roba da donnette. La mariologia é una scienza seria, il culto mariano non é affatto secondario. Lo hanno ricordato sia Giovanni Paolo II che Papa Benedetto XVI. Maria é necessaria al cristianesimo, ci aiuta sempre nelle difficoltà".
Bruno Volpe


La necessità di recitare il Rosario tutti i giorni - Giorgio Mastropasqua – dal sito Pontifex.roma.it
Durante la tredicesima apparizione di Lourdes, il 1 Marzo 1858, come di consueto Bernardetta iniziò a recitare il Rosario davanti all'Immacolata servendosi della corona dell'amica Paolina che tanto l' aveva pregata di farlo. Giunta però verso la fine, la SS.Vergine le chiese dove avesse la sua corona. La santa rispose di averla in tasca, la prese e la mostrò alla Madonna sollevandola e la SS. Vergine rispose: "Servitevi di quella». Da quel giorno Bernardetta non si separò più dalla sua corona, quel dolce vincolo che ci lega a Maria, pegno della sua protezione e arma di vittoria contro ogni male e avversità. Se interrogati dalla Madonna come Bernardetta: «Dov'è la tua corona?» cosa potremmo noi rispondere? Potremmo estrarla dalla tasca e mostrargliela o dovremmo arrossire di vergogna nel non poterlo fare? Portiamo sempre la corona del rosario con noi, la nostra corona, unica e insostituibile, la nostra dolce catena che lega Cielo ... e terra e che ci destina alla salvezza eterna e recitiamo con essa la preghiera più bella destinata a Maria, il Santo Rosario. Siamo nel mese mariano per eccellenza, quindi perchè non iniziare subito? E se già lo facciamo, cerchiamo di intensificare il nostro raccoglimento, il nostro silenzio, il nostro amore verso la Creatura più bella del Creato e la più amorosa delle Madri. Il Rosario è Maria, è l'armonia del Cielo, è la gioia della meditazione del Vangelo che diventa preghiera, è l'arma invincibile contro satana e le seduzioni del suo mondo.
La Madonna stessa ha parlato dell'importanza del Santo Rosario a Lourdes e a Fatima, ha invitato a recitarlo ogni giorno per ricevere le Sue Grazie, la Sua protezione, per convertire i peccatori e liberare le Anime del Purgatorio. Perchè così tanta insistenza da parte della SS.Vergine? Perchè con il S.Rosario noi possiamo ottenere tutto.
Suor Lucia di Fatima ci ha lasciato scritto: "La Santissima Vergine in questi ultimi tempi in cui noi viviamo ha dato una nuova efficacia alla recita del Rosario tale che non c'è nessun problema, non importa quanto difficile possa essere, o temporale o soprattutto spirituale, nella vita personale di ciascuno di noi, delle nostre famiglie... che non possa essere risolto col Rosario. Non c'è nessun problema, vi dico, non importa quanto può essere difficile, che noi non possiamo risolvere con la preghiera del Rosario."
Sono le stesse esortazioni lasciateci dai Papi di Santa Madre Chiesa, da San Pio V a Leone XIII, da Beato Pio IX a San Pio X e successivi, ma soprattutto sono le promesse che la Madonna stessa lasciò al Beato Alano:
A tutti coloro che reciteranno il mio Rosario prometto la mia specialissima protezione.
Il Rosario sarà un'arma potentissima contro l'inferno, distruggerà i vizi, dissiperà il peccato e abbatterà le eresie.
Chi si raccomanderà col Rosario non perirà.
Chiunque reciterà devotamente il S. Rosario, con la meditazione dei Misteri, si convertirà se peccatore, crescerà in grazia se giusto e sarà fatto degno della vita eterna.
Io libero ogni giorno dal Purgatorio le anime devote del mio Rosario.
I veri figlioli del mio Rosario godranno di una grande gioia in Cielo.
Ciò che chiederai col Rosario, l'otterrai.
Coloro che propagano il mio Rosario saranno da me soccorsi in ogni loro necessità.
La devozione del Santo Rosario è un gran segno di predestinazione.
Prendiamo quindi la nostra corona e cambiamo il mondo.
Giorgio Mastropasqua


Santa eppure mescolata ai peccatori: la Chiesa del papa teologo - Divampa la polemica sui peccati della Chiesa. Ecco come Ratzinger, da giovane professore, spiegava perché "il divino si presenta così spesso in mani indegne". Una pagina scritta più di quarant'anni fa, ma attualissima - di Sandro Magister
ROMA, 6 maggio 2010 – Il servizio di www.chiesa della scorsa settimana sul concetto di "Chiesa peccatrice" ha suscitato vivaci consensi e dissensi.
Tra chi dissente c'è Joseph A. Komonchak, sacerdote dell'arcidiocesi di New York, storico e teologo, curatore dell'edizione americana della "Storia del Vaticano II" diretta da Giuseppe Alberigo, firma di prestigio della rivista "Commonweal".
Egli ci ha scritto:
*
Caro Sandro Magister,
Nel suo recente post, lei ha affermato che l'attuale papa non ha mai fatta propria l'idea che la Chiesa possa essere definita peccatrice. Ma in realtà, nella sua "Introduzione al cristianesimo", naturalmente scritta prima di diventare papa, egli usa questa formula. Parla anzi del Vaticano II come "troppo timido" nel parlare non più soltanto della Chiesa santa ma della Chiesa peccatrice, "tanto profonda è nella coscienza di noi tutti la sensazione della peccaminosità della Chiesa" (p. 329 dell'ultima edizione italiana). Egli segue qui, credo, la visione di sant'Agostino, ripresa in san Tommaso d'Aquino, secondo cui la Chiesa non sarà "senza macchia o ruga" fino alla fine dei tempi. Entrambi i grandi santi citano la prima lettera di Giovanni 1, 8: "Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi". Ed ogni giorno ed ovunque la Chiesa prega: "Rimetti a noi i nostri debiti". Il cardinale Biffi è nel giusto circa l'uso della frase "casta meretrix", ma, naturalmente, la questione non si riduce a questo. In ogni caso, almeno in una occasione, in una visita a Fatima, papa Giovanni Paolo II parlò della Chiesa come "santa e peccatrice".
Sinceramente suo,
Joseph A. Komonchak
*
Padre Komonchak ha ragione quando cita Giovanni Paolo II. Nel primo dei suoi tre viaggi a Fatima, quello del 1982, e nel primo dei sette discorsi da lui pronunciati in quella città, egli in effetti disse di essere arrivato lì "pellegrino tra pellegrini, in questa assemblea della Chiesa pellegrina, della Chiesa viva, santa e peccatrice".
Ma va notato che, nella mole sterminata dei discorsi di questo papa, questa è l'unica volta in cui si trova l'aggettivo "peccatrice" applicato direttamente alla Chiesa. Una prudenza tanto più rimarchevole in quanto adottata da un papa passato alla storia come colui che chiese ripetutamente e pubblicamente perdono per i peccati dei figli della Chiesa.
Sia per Giovanni Paolo II che per il suo prefetto di dottrina cardinale Joseph Ratzinger, infatti, la formula "Chiesa peccatrice" era ritenuta pericolosamente equivoca, per la sua non risolta contraddizione con la professione di fede del Credo nella "Chiesa santa".
La prova di questo timore è nella nota su "La Chiesa e le colpe del passato" pubblicata il 7 marzo 2000 dalla commissione teologica internazionale sotto l'egida di Ratzinger, a commento e chiarificazione delle richieste di perdono fatte da Giovanni Paolo II in quell'anno giubilare.
In essa, c'è un passaggio dedicato proprio a spiegare perché la Chiesa "è in un certo senso anche peccatrice" e a suggerire come esprimere questo concetto con parole non equivoche.
È il paragrafo iniziale della terza sezione della nota, dedicata ai "fondamenti teologici" della richiesta di perdono:
*
"È giusto che, mentre il secondo millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell'arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di controtestimonianza e di scandalo. La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori" (Tertio millennio adveniente, 33). Queste parole di Giovanni Paolo II sottolineano come la Chiesa sia toccata dal peccato dei suoi figli: santa, in quanto resa tale dal Padre mediante il sacrificio del Figlio e il dono dello Spirito, essa è in un certo senso anche peccatrice, in quanto assume realmente su di sé il peccato di coloro che essa stessa ha generato nel battesimo, analogamente a come il Cristo Gesù ha assunto il peccato del mondo (cfr. Romani 8, 3; 2 Corinzi 5, 21; Galati 3, 13; 1 Pietro 2, 24). Appartiene peraltro alla più profonda autocoscienza ecclesiale nel tempo il convincimento che la Chiesa non sia solo una comunità di eletti, ma comprenda nel suo seno giusti e peccatori del presente, come del passato, nell'unità del mistero che la costituisce. Nella grazia, infatti, come nella ferita del peccato, i battezzati di oggi sono vicini e solidali a quelli di ieri. Perciò si può dire che la Chiesa – una nel tempo e nello spazio in Cristo e nello Spirito – è veramente "santa e insieme sempre bisognosa di purificazione" (Lumen gentium, 8). Da questo paradosso – caratteristico del mistero ecclesiale – nasce l'interrogativo su come si concilino i due aspetti: da una parte, l'affermazione di fede della santità della Chiesa; dall'altra, il suo incessante bisogno di penitenza e di purificazione.
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Nel paragrafo ora citato si richiama anche il passaggio nel quale il Concilio Vaticano II parla dei peccati dei figli della Chiesa. È nel paragrafo 8 della costituzione "Lumen gentium". Dove di nuovo si evita di definire "peccatrice" la Chiesa in quanto tale:
"Mentre Cristo, 'santo, innocente, immacolato' (Ebrei 7, 26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Corinzi 5, 21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Ebrei 2, 17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento".
E allora perché il teologo Ratzinger, nella sua "Introduzione al cristianesimo" del 1968 che è ancora oggi il suo libro di teologia più letto in tutto il mondo, lamentò – come ricorda Komonchak – che il Concilio Vaticano II fu "troppo timido" nel parlare della "peccaminosità della Chiesa", cioè di questa "sensazione tanto profonda nella coscienza di noi tutti"?
Per rispondere a questa domanda non resta che rileggere ciò che Ratzinger scrisse in quel suo libro, nell'ultimo capitolo, dedicato proprio a spiegare perché la Chiesa è "santa" pur essendo fatta di peccatori.
In effetti, è proprio nel suo rapporto con il peccato e la "sporcizia" del mondo che più risplende la santità della Chiesa. Scritte più di quarant'anni fa, queste argomentazioni di Ratzinger sono di un'attualità stupefacente. Anche nel richiamare il senso e il limite delle accuse portate contro la Chiesa, allora come oggi.
Eccone i passaggi principali, ripresi dalle pagine 330-334 dell'ultima edizione italiana di "Introduzione al cristianesimo", Queriniana, Brescia, 2005. Passaggi nei quali, ancora una volta, non compare mai la formula "Chiesa peccatrice".
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"CREDO LA SANTA CHIESA CATTOLICA"
di Joseph Ratzinger
La santità della Chiesa sta in quel potere di santificazione che Dio esercita malgrado la peccaminosità umana. Ci imbattiamo qui nella caratteristica propria della Nuova Alleanza: in Cristo, Dio si è spontaneamente legato agli uomini, si è lasciato legare da loro. La Nuova Alleanza non poggia più sulla mutua osservanza di un patto, ma viene invece donata da Dio come grazia, che permane anche a dispetto dell'infedeltà dell'uomo. Dio continua, nonostante tutto, a essere buono con lui, non cessa di accoglierlo proprio in quanto peccatore, si volge verso di lui, lo santifica e lo ama.
In virtù del dono del Signore, mai ritrattato, la Chiesa continua a essere quella che egli ha santificato, in cui la santità del Signore si rende presente tra gli uomini. Ma è sempre realmente la santità del Signore che si fa qui presente, e sceglie anche e proprio le sporche mani degli uomini come contenitore della sua presenza. Questa è la figura paradossale della Chiesa, nella quale il divino si presenta così spesso in mani indegne. [...] Lo sconcertante intreccio di fedeltà di Dio e infedeltà dell'uomo, che caratterizza la struttura della Chiesa, è la drammatica figura della grazia. [...] Si potrebbe dire addirittura che la Chiesa, proprio nella sua paradossale struttura di santità e di miseria, sia la figura della grazia in questo mondo.
Invece, nel sogno umano di un mondo salvato, la santità viene immaginata come un non essere toccati dal peccato e dal male, un non mescolarsi con esso. [...] Nell'odierna critica della società e nelle azioni in cui essa sfocia, questo tratto spietato, che molto spesso contraddistingue gli ideali umani, è anche troppo evidente. Ciò che veniva percepito come scandaloso della santità di Cristo, già agli occhi dei suoi contemporanei, era proprio il fatto che ad essa mancava del tutto questo aspetto di condanna: il fatto che egli non faceva scendere il fuoco su chi era indegno, né permetteva agli zelanti di strappare dal campo la zizzania che vi vedevano crescere. Al contrario, la santità di Gesù si manifestava proprio come mescolarsi con i peccatori, che egli attirava a sé; un mescolarsi fina al punto di farsi egli stesso "peccato", accettando la maledizione della legge nel supplizio capitale: piena comunanza di destino con i perduti (cfr. 2 Corinzi 5, 21; Galati 3, 13). Egli ha preso su di sé il peccato, se ne è fatto carico, rivelando così che cosa sia la vera santità: non separazione ma unificazione; non giudizio ma amore redentivo.
Ebbene, la Chiesa non è forse semplicemente la prosecuzione di questo abbandonarsi di Dio alla miseria umana? Non è forse la continuazione della comunione di mensa di Gesù con i peccatori, del suo mescolarsi con la povertà del peccato, tanto da sembrare addirittura di affondare in esso? Nella santità della Chiesa, ben poco santa rispetto all'aspettativa umana di assoluta purezza, non si rivela forse la vera santità di Dio che è amore, amore però che non si tiene arroccato nel nobile distacco dell'intangibile purezza, ma si mescola con la sporcizia del mondo per così ripulirla? Tenendo presente questo, la santità della Chiesa può mai essere qualcosa di diverso dal portare gli uni i pesi degli altri, che ovviamente scaturisce per tutti dal fatto che tutti vengono sorretti da Cristo? [...]
In fondo, è sempre all'opera un malcelato orgoglio quando la critica alla Chiesa assume quel tono di aspra amarezza che oggi incomincia ormai a diventare un gergo usuale. A essa, purtroppo, si aggiunge poi sin troppo sovente un vuoto spirituale, in cui non si scorge assolutamente più lo specifico della Chiesa, sicché essa viene considerata soltanto come una formazione politica che persegue i suoi interessi, e se ne percepisce l'organizzazione come miseranda o brutale, quasi che la peculiarità della Chiesa non stia oltre l'organizzazione: nella consolazione della Parola di Dio e dei sacramenti che essa assicura nei giorni lieti e tristi. I veri credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. essi vivono di ciò che la Chiesa è sempre. E se si vuole sapere che cosa sia realmente la Chiesa, bisogna andare da loro. La Chiesa, infatti, non è per lo più là dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede, che diviene per loro fonte di vita. [...]
Ciò non vuol dire che bisogna lasciare sempre tutto così com'è e sopportarlo così com'è. Il sopportare può essere anche un processo altamente attivo, un lottare per far sì che la Chiesa sempre più diventi essa stessa capace di sorreggere e sopportare. La Chiesa, infatti, non vive che in noi, vive della lotta di chi non è santo per la santità, come del resto tale lotta vive, a sua volta, del dono di Dio, senza il quale non sarebbe nemmeno possibile. Ma la lotta risulterà fruttuosa, costruttiva, soltanto se sarà animata dallo spirito del sopportare, da un autentico e reale amore.
Eccoci così arrivati anche al criterio al quale deve sempre commisurarsi la lotta critica per una migliore santità: questa lotta non solo non è in contrasto con il sopportare, ma è da esso esigita. Questo criterio è il costruire. Una critica amara, capace solo di distruggere, si condanna da sé. Una porta violentemente sbattuta può sì essere un segnale che scuote coloro che sono dentro, ma l'illusione che si possa costruire più nell'isolamento che attraverso la collaborazione è appunto un'illusione, esattamente come l'idea di una Chiesa "dei santi" invece di una Chiesa "santa", la quale è santa perché il Signore elargisce in essa il dono della santità, senza alcun merito da parte nostra.
L'origine divina della Chiesa si mostra nella tempesta - 19 aprile 2010 - Corriere della Sera - Un dolore vero per ridare fiducia - di Vittorio Messori
Nessuno si aspetta che il Ministro da cui dipendono i Convitti Nazionali incontri gli “abusati“ da qualche insegnante o inserviente, esprimendo “dolore e vergogna”. Altrettanto vale per gli armatori di navi, dove la sorte dei minori imbarcati è nota a tutti. Né esprimono pubblica contrizione i responsabili dello sport giovanile, dove spogliatoi e docce attraggono, com’è risaputo, anche una fauna di adulti ben prevedibile. La pedofilia (o pederastia che sia, il limite di età è incerto e varia a seconda di gusti e culture) è presente da sempre, ovunque ci siano uomini e donne. E, spesso, è presente in modo non clandestino, è addirittura lodata e raccomandata da filosofi, come avvenne nell’ antica Grecia e com’ è avvenuto nel Sessantotto europeo e americano. Il leader dei Verdi all’europarlamento, Daniel Cohn-Bendit, il già carismatico capo della contestazione, si è vantato di avere non solo raccomandato ma praticato il sesso con i minori quando era insegnante. Mario Mieli, ideologo e iniziatore del movimento omosessuale in Italia, in un’opera di culto stampata dall’allora austera Einaudi, considerava “opera redentiva“ per entrambi il sesso tra un adulto e un giovanissimo. Sartre, la de Beauvoir, Foucault, Jack Lang, il futuro ministro francese, firmarono con altri intellettuali un famoso manifesto dove –in nome della “liberazione sessuale“ – esigevano la depenalizzazione dei rapporti con minori, bambini compresi. In quei “maestri“ riviveva una lunga tradizione europea. Il filosofo venerato dai giacobini, a partire da Robespierre, e dalla maggioranza dell’elite rivoluzionaria, non era certo il blasfemo Voltaire bensì l’edificante Jean Jacques Rousseau, apostolo della educazione infantile. In tutti i sensi, visto che scrisse compiaciuto di avere comprato a Venezia una bambina di 10 anni, che seppe liberarlo dalla depressione.
Eppure, malgrado i pulpiti da cui vengono tante prediche siano risibili; malgrado sia impenetrabile il silenzio di coloro che rappresentano ambiti ampiamente coinvolti; malgrado questo, Benedetto XVI continua a voler mostrare che la Chiesa “è differente“, sino ad umiliarsi personalmente. A Malta ha ripetuto quanto già aveva fatto in Australia e negli Stati Uniti: incontrare alcuni di coloro che furono vittime, spesso decenni fa, delle attenzioni di religiosi “educatori“. Come ha fatto nella drammatica, commovente, lettera aperta ai cattolici d’Irlanda, rifiuta di fare appello alle circostanze attenuanti o di puntare il dito su altri ricordando, come pur potrebbe, che molti giudici di oggi farebbero meglio a tacere. Il fatto è che papa Ratzinger è del tutto consapevole che il peccato dei sacerdoti del Cristo non ha soltanto conseguenze canoniche e penali, ma ha echi metafisici. Nella prospettiva evangelica, il volto dei piccoli è quello stesso di Dio, chi dà scandalo, qui, meglio farebbe a mettersi al collo una macina da mulino e a gettarsi in un pozzo. Parola, terribile, di Vangelo. Il papa sa con quale fiducia non solo i genitori cattolici ma, spesso, anche quelli di altre fedi e convinzioni, affidassero i figli alle istituzioni ecclesiali, ispirate all’ideale evangelico. Il tradimento di quelle attese gli pare , intollerabile. Così mostra che la Chiesa , anche nella caduta, non è un luogo come altri: è un ambito dove, nell’istituzione, il peccato è presente. Ma la colpa, qui, è assai più grave che ovunque altrove, perché l’ideale è il più alto, i doveri i più pressanti, il Maestro il più esigente. Il dolore e la vergogna di cui parla vengono da autentica sofferenza, non sono certo melodramma ipocrita. Eppure, per il paradosso evangelico, la sua umiliazione non ne sminuirà ma ne accrescerà la credibilità di guida e garante della cristianità.
© Corriere della Sera
Il mistero del Male - La luce e il suo contrario - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010
Secondo la Parola di Dio le origini del male antecedono l'apparizione dell'uomo, il quale, infatti, appena creato, si trova già di fronte a un intendimento astuto e ingannevole, a una "invidia" - il libro della Sapienza parla dell'"invidia del diavolo" (2, 24) - che lo istiga al sospetto e alla rivolta nei confronti del Creatore.
Paolo è persuaso che "la nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male" (Efesini, 6, 12).
In ogni caso, la Genesi ci fa risalire a un peccato angelico precedente la storia dell'uomo e spaventosamente influente su di essa.
Il mondo degli angeli in generale e, in particolare, il peccato degli angeli - che incentivò molto, come tutta l'angelologia, la riflessione, per altro acuta e preziosa, dei medievali - ci è affatto sconosciuto. E, tuttavia, nella vita di Gesù incontriamo angeli infervorati e gioiosi nel servirlo, e demoni ostili che tentano di sedurlo, e di stornarlo dal disegno divino.
Dove c'è Gesù, là c'è l'avversione dei demoni. Considerato il loro comportamento nei confronti di Cristo, ci sembra di non essere lontani dal vero a ritenere che il loro peccato "originale" fu l'invidia e il fastidio anzitutto nei confronti dell'eterna elezione di Gesù, predestinato a essere il Signore in cielo e sulla terra.
Prima che l'uomo fosse creato, essi si sono ribellati alla signoria del Figlio di Dio fatto uomo e risuscitato da morte. Ma anche gli angeli sono stati creati "per mezzo" del Crocifisso risorto, "in lui" e "in vista di lui" (cfr. Colossesi, 1, 16). Il suo "nome", ricevuto per la "morte di croce", è "al di sopra di ogni nome"; e in tale nome ogni ginocchio è chiamato a piegarsi, "nei cieli, sulla terra e sotto terra" e ogni lingua a proclamare: "Gesù Cristo è il Signore!", a gloria di Dio Padre (cfr. Filippesi, 2, 8, 11). Tutta la grazia esistente nell'ordine scelto da Dio è proveniente da Gesù redentore. Anche la grazia degli angeli, perduta da quelli che l'hanno rifiutata.
Indubbiamente, ci risulta misterioso un simile ordine, che include questo esercizio diabolico della libertà, così come restiamo impressionati dalla forza del demonio, se pensiamo che soltanto il Figlio di Dio, che lo ha definito "Principe di questo mondo", nell'ora stessa della sua esaltazione sulla croce, ha avuto il potere di gettarlo fuori (Giovanni, 12, 31-32).
E tuttavia, su questa considerazione non dobbiamo troppo indugiare, anche se, per così dire, il "rovescio" di questo disegno ora non manca di suscitare sconcerto. Ad attrarre la nostra ammirazione dev'essere invece il "diritto" di tale disegno, ossia l'umanità gloriosa di Gesù, che viene prima di tutto e come ragione di tutto, nel quale siamo stati mirabilmente progettati e voluti, e che nella sua risurrezione è apparso il vincitore dei demoni. Come scrive san Paolo: "Dio, avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo" (Colossesi, 2, 15).
Ma la Parola di Dio ci rende noto anche un altro esercizio perverso della libertà, quello dei progenitori, che hanno ceduto alla suggestione del serpente. Ora tutti i loro discendenti vengono al mondo con l'eredità del peccato originale, ossia privi della giustizia o della grazia, e quindi difformi da Cristo.
Ancora una volta la ragione non sa nulla di questo peccato e della sua eredità. Essa non riesce né a sciogliere né a sopportare gli enigmi affliggenti del male. Alla filosofia non è nota la "terribile disgrazia originaria", come la nomina John H. Newman, che è la causa e l'inizio di ogni forma di male presente e attivo nella storia dell'uomo, a cominciare dal "salario del peccato" (Romani, 6, 23), la morte, nella quale tale disgrazia si consuma.
E, però, questa stessa situazione dell'uomo non è disperata, poiché Dio non solo non ha lasciato senza redenzione i figli di Adamo segnati da una colpa ereditata e incolpevole. Egli ha infatti "prevenuto", se così possiamo dire, la situazione dell'uomo, risultata intimamente ferita e discordante a motivo del peccato originale, predestinando il suo Figlio come redentore dello stesso Adamo e di tutti gli uomini suoi discendenti.
Da sempre Dio aveva riservato la grazia della croce di Cristo per la natura umana decaduta, e non solo perché cancellasse la macchia originale, ma anche perché fosse remissione di tutti i peccati, così che, dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondasse la grazia (cfr. Romani, 5, 20). Il peccato, come opera dell'uomo, non potrà oltrepassare i confini della misericordia, che è opera di Dio.
Ora, la sostanza della "buona notizia" è proprio questa eterna decisione di Dio che la sua gloria e la gloria del Figlio risplendessero nel perdono dell'uomo, meritato ed elargito dal Crocifisso risorto, e che la comunione con Gesù assiso alla destra del Padre fosse il fine ultimo dell'uomo.
Senza dubbio, il Vangelo non annulla e non preserva l'esistenza da sofferenze inenarrabili, da avvenimenti assurdi e inevitabili, da situazioni inimmaginabili di violenza e perversità che deve subire e dietro le quali sembra talora di avvertire l'opera diabolica. Il credente non ne è preservato e non sorprendono il suo lamento e la sua reazione. La fede però lo rassicura che egli non è abbandonato a se stesso, che la sua pena non è solitaria e i suoi tormenti privi di senso e di valore, dal momento che in essi si stanno rinnovando e compiendo gli stessi "patimenti di Cristo" (Colossesi, 1, 24), il Figlio di Dio, che il Padre non ha risparmiato, ma ha "consegnato per noi tutti" (Romani, 8, 32).
Ma proprio in questa "consegna", in questa "stoltezza" e "impotenza" della croce, che sembra professare l'assenza, il disinteresse, il silenzio implacabile di Dio, Dio ha collocato la sua assoluta presenza e la sorgente stessa della risurrezione e della gloria.
La Pasqua di Gesù è la sua e la nostra vittoria su ogni forma di male, compresa la morte, che non è uno sparire ineluttabile, ma una comunione con la morte del Signore. Non ci deprime la colpa, visto che la conversione e la remissione di un solo peccatore spande in cielo una gioia maggiore di quella diffusa da tanti giusti (cfr. Luca, 15, 7); e non ci prostrano in avvilita disperazione le tribolazioni patite, nella speranza, con Gesù sulla croce, "sacramento" di speranza. "Ritengo - scrive Paolo - che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi" (Romani, 8, 18).
(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010)
I vescovi dopo il voto favorevole del parlamento argentino - Grave la norma sul matrimonio omosessuale - L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010
Buenos Aires, 6. La Chiesa considera "molto grave" l'esito del passaggio parlamentare compiuto dalla norma sul "matrimonio omosessuale" che ieri è stata approvata dalla Camera dei deputati argentina. E particolarmente negativo è il giudizio sul fatto che queste coppie possano adottare dei bambini. È quanto ha detto il vescovo ausiliare di La Plata, Antonio Marino, responsabile dell'episcopato argentino per l'attività legislativa.
Il progetto di legge relativo al matrimonio "fra persone dello stesso sesso - ha rilevato il presule - non costituisce nessun progresso e invece va a modificare in modo rivoluzionario il concetto di società e di famiglia". Si tratta, infatti - ha aggiunto - "di una rivoluzione concettuale e culturale con la quale la Chiesa è in disaccordo". E, appunto, "la cosa più grave è che queste coppie gay possano adottare figli".
Il vescovo ha sottolineato, inoltre, che la Chiesa continuerà a dialogare con le istituzioni "offrendo i propri argomenti" anche in vista del passaggio al Senato che ora sarà chiamato a fornire un voto definitivo sul provvedimento. Argomentazioni in cui si mette in guardia anche circa l'incostituzionalità di un tale progetto e i danni che deriverebbero dall'adozione di minori da parte di coppie omosessuali. "Il bambino - viene ricordato - ha il diritto di crescere e di svilupparsi nella sua dimensione psicosessuale attraverso la complementarità tra l'uomo e la donna".
Se si avrà l'approvazione definitiva, l'Argentina sarà il primo Paese latinoamericano a riconoscere e a equiparare il matrimonio tra persone delle stesso sesso a quello eterosessuale. Anche se in alcune realtà statali all'interno di nazioni federali - come il distretto di Città del Messico - o in Paesi come l'Uruguay, i diritti delle unioni omosessuali sono già stati riconosciuti.
Il voto della Camera dei deputati di Buenos Aires è arrivato dopo una lunghissima discussione parlamentare. Il provvedimento è passato con 129 voti a favore contro 109, oltre a sei astenuti. E al riguardo monsignor Marino ha lamentato il fatto che alcuni parlamentari avrebbero ceduto rispetto ai propri convincimenti di fronte "alle pressioni di alcuni gruppi minoritari".
Già nei mesi scorsi vi erano stati alcuni tentativi da parte di coppie omosessuali di far passare il principio del riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso ricorrendo ai tribunali civili di singoli Stati, a cominciare da quello di Buenos Aires che aveva dato un primo parere favorevole aprendo così anche una querelle giudiziaria. Tuttavia, da mesi diverse proposte di legge attendevano di essere discusse nel Parlamento argentino. Adesso, però, è arrivata la prima approvazione resa possibile anche da una maggioranza trasversale ai due schieramenti. La legge dovrà comunque superare lo scoglio del Senato, dove i numeri per l'approvazione sembrano più incerti e in quella sede riprenderà anche la battaglia politica e giuridica.
Il provvedimento è costituito da 43 articoli che modificano in diverse parti il codice civile e rivedono il concetto di coniuge nel matrimonio, parlando di "contraenti" invece che di uomo e donna. "Il matrimonio - si legge infatti nel testo in esame - avrà gli stessi requisiti ed effetti, indipendentemente dal fatto che i contraenti siano dello stesso sesso o di sesso differente".
La Conferenza episcopale argentina, che non ha mai risparmiato le critiche al progetto, segue con molta preoccupazione l'iter della legge. Lo scorso 20 aprile, nel corso della 99ª assemblea plenaria, i presuli avevano diffuso un documento in cui si fa appello alla coscienza dei legislatori perché nel decidere su una "questione di tale gravità", tengano in considerazione alcune "verità fondamentali" per il bene del Paese e delle sue generazioni future. Si sottolinea, pertanto, come "l'unione fra persone dello stesso sesso non presenta gli elementi biologici e antropologici propri del matrimonio e della famiglia". In particolare, i vescovi argentini richiamano il dovere delle istituzioni a tutelare a livello legislativo il matrimonio tra un uomo e una donna "per assicurare e promuovere il suo insostituibile ruolo e contribuire al bene comune della società". Poiché "una volta concesso il riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso", o equiparando tali unioni al matrimonio, "lo Stato agirebbe in contraddizione con i suoi doveri, alterando i principi dell'ordine naturale e pubblico della società". Per i presuli l'attuale codice civile "non discrimina", bensì "riconosce solo una realtà naturale" quando richiede la diversità dei sessi per contrarre matrimonio. Al contrario "le situazioni giuridiche di reciproco interesse tra persone dello stesso sesso possono essere sufficientemente protette dal diritto comune".
(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2010)


Donne: né sante, né puttane - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 7 maggio 2010
Il femminismo, che ha avuto la pretesa di liberare in toto il mondo delle donne, forse non aveva capito che la libertà è singolare, femminile, ma singolare.
“na femena fa o desfa na fameja” tradotto, “una donna costruisce o distrugge una famiglia”.
Dicono spesso i Veneti e in passato mi sembrava una vera esagerazione, anzi peggio, un modo per dare la colpa sempre alle donne.
E' così dai tempi di Adamo ed Eva, pensavo, mai nessuno che dica che lo stupido è stato lui, e sempre colpa dei capricci di lei.

Credevo il proverbio, una forma di maschilismo antico insinuatosi persino nel pensare comune femminile, visto che spesso erano le stesse donne a pronunciarlo.

Invece crescendo e forse anche invecchiando, gli anni non sempre passano in vano, ho compreso che quel detto ha del vero, e che forse non è una forma di maschilismo, ma un riconoscimento al genio femminile.
Alla capacità delle donne di “tenere” reggere una famiglia, smussarne i malumori, i conflitti, valorizzare i pregi di chi le circonda, poi ci sono anche casi in cui - se desfa – si distrugge, perché quando le donne usano le loro capacità per acuire i conflitti, evidenziare le differenze e le debolezze allora si distrugge, questa è la libertà.

In queste ultime settimane si è molto dibattuto di femminismo, giusto, sbagliato, periodo superato, o periodo non ancora compiuto?

Il femminismo, che ha avuto la pretesa di liberare in toto il mondo delle donne, forse non aveva capito che la libertà è singolare, femminile, ma singolare. Perché la libertà per essere vera, efficace, deve essere la libertà dell’individuo di esprimere la sua unicità.
Invece, troppo spesso la libertà delle donne è stata declinata al maschile, si è umiliato l’essere femminile pretendendo che la parità consistesse non nell’esigere il rispetto di una diversità, ma nel dimostrare di potere essere identici, alla categoria del maschi, fratelli, colleghi, compagni di scuola

Mi guardavo attorno in questi giorni perché volevo raccontarvi la storia di una donna significativa, sconosciuta ma degna rappresentante di quel genio, di quella capacità di reggere il mondo, il quotidiano, e mi sono trovata ad affrontare una galleria di volti e di storie, non saprei scegliere, ad avere più tempo, più che un racconto si dovrebbe scrivere un libro.

Storie di donne sconosciute, che non avranno ma il nome sui
giornali, ma che reggono il mondo, perché ognuna regge un mattone, un pilastro. Si chiami famiglia, azienda, associazione.

C’è una signora a Meda nella verde Brianza, unghie dipinte di rosso, capelli sempre in ordine e impatto aggressivo.
Il marito aveva una piccola impresa di termoidraulica, quando è morto prematuramente lei si è trovata con due figli troppo giovani per reggere il peso dell’impresa di famiglia, e allora ci ha pensato lei, ha imparato quello che c’era da imparare, non le sfugge un ordine, una scadenza, una legge, ha l’ufficio nella taverna di casa, e i figli ora che sono diventati uomini camminano con le loro gambe e lei fa il direttore, la mamma, la nonna, sempre impeccabile nell’aspetto, professionale nel lavoro, disposta a ad ascoltare chi le sta di fronte ma non a cedere a sentimentalismi. Che dire è parità? Non so, ma di certo è la capacità di rispondere alle difficoltà, cercando di non snaturare se stessi, di continuare ad essere donna e madre.

Per farle un complimento dicono che la Furlanetto è come un uomo, e invece non è vero, perché è una donna che ha saputo non cedere davanti alla fatica, un uomo? Chissà che avrebbe fatto?

E poi c'è Adele, madre, moglie, ha saputo crescere una bella famiglia, accudire un marito impegnativo, intelligente, eclettico, spesso le capitava di fare da traduttore, lui filosofava e noi troppo giovani per capire le sue teorie lo ascoltavamo un po’ increduli, poi arrivava Adele ripeteva con parole sue e tutto diventava semplice. Ha fatto della sua casa un posto bello, accogliente dove altri potessero correre a rifugiarsi in cerca di consigli, esempi di vita, in qualche caso anche di accoglienza discreta e concreta. Lei mi è stata madre, pur non avendomi generata, perché in quell’età in cui tutto si contesta, dove si è smarriti e soli ha saputo con suo marito essere un sostegno alle mie fatiche e al mio scoraggiamento. Ha affrontato il male del secolo diventando come dice spesso - la prova vivente che in alcuni casi il cancro è una malattia cronica - e ora che il male è tornato a far visita a lei e a suo marito, si trova anche nella malattia ad essere prima che la malata, ancora colei che cura e conforta. Una volta sola si è adirata con me, una volta in cui presa dal mio lavorare, accudire, rassettare, sono sbottata dicendo:– beate le casalinghe che non fanno nulla – si sentì parte in causa e si arrabbiò, aveva ragione, perché lei è l’emblema della casalinga che cura, casa, famiglia, sua e di chi ha la fortuna di ruotare intono alla sua cucina, siano, amici, figli, nipoti o sconosciuti. Attenta alle cose belle, a dare un giudizio su quanto accade nel mondo, nella politica, in paese, ad insegnare vivendo cosa davvero conta nella vita.

L’ultima di cui vi voglio raccontare è una manager con 4 figli, si chiama Cecilia, laurea in Economia presso l'Università Bocconi di Milano, con specializzazione in area Marketing. Rimasta senza lavoro si è trovata ad affrontare il vuoto che la mancata realizzazione anche come professionista comporta, perché i bambini sono belli, ma quando uno stipendio manca si sente eccome. E allora ha saputo cogliere le esigenze del mercato e accorgersi che nessuno sapeva fare marketing e comunicare alle mamme come chi è mamma e conosce quel mondo e quelle esigenze da coniugare. Con altri soci ha dato vita a fattore mamma una società di servizi di marketing e comunicazione in grado di creare relazioni vere fra i brand e le mamme. Coniugando così, famiglia, lavoro, facendo fruttare un’esperienza sul campo.

Non so se queste sono donne siano un pezzetto di femminismo.
Sono di certo un pezzo di universo, la dimostrazione che non esiste una liberazione di categoria, ma una realizzazione dell’essere umano.

"Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani." Diceva nella lettera alle donne di Giovanni Paolo II, rendendo omaggio alle donne, una per una e non come categoria.

Insomma, non una "categoria", un "gruppo sociale", semplicemente donne, esseri umani unici, né sante, né puttane, preziose costruttrici di domani.


La ragione inaridita del pensiero moderno salvata dalla metafisica - Il deserto e l'oasi - di Marco Tibaldi - L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010
"La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità", così recita il celebre incipit della Fides et ratio. Ma se una delle due ali è ferita anche l'intero ne risente e il volo non può librarsi come potrebbe. L'ala forse più malata, da tempo, è la ragione che sembra aver smarrito l'originaria vocazione alla comprensione dell'intero. Un poderoso invito a riprendere il cammino interrotto viene dall'opera del domenicano, morto prematuramente, Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis a cura di Giovanni Cavalcoli (Verona, Fede&Cultura, 2009, pagine 1020, euro 60).
Nella prefazione dell'opera viene richiamato un vecchio testo di Adriano Bausola che la definisce come una "bella oasi in un deserto. L'oasi: una vigorosa trattazione di metafisica; il deserto: il pensiero filosofico contemporaneo, così poco fiducioso nella forza della ragione, così piatto". Tyn ha costruito la sua oasi riallacciandosi alla tradizione aristotelico-tomistica arricchita dal confronto critico con la tradizione filosofica che se ne è distanziata: dall'impoverimento dell'analogia operata dal nominalismo alla dissoluzione della metafisica figlia del criticismo moderno.
L'illustrazione dell'articolato percorso si snoda attorno a due idee fondamentali. La prima è che esiste un profondo collegamento tra tutto ciò che è. Di fronte al senso di frammentazione e smarrimento così tipico della sensibilità moderna, seguire il filo rosso di tutto ciò che partecipa all'essere, consente di recuperare il legame originario che tiene unito il tutto. La metafisica, infatti, è proprio l'attitudine a tenere unito, nella distinzione delle sue parti, tutto ciò che ha raggiunto la dignità di essere, fino a porci in collegamento consapevole con la sua stessa origine. È un rapporto che si fonda sulla partecipazione, sul dono di potervi accedere e non sulla conquista prometeica: "Ciò che Dio causa nelle creature è proprio l'essere, non certo il suo essere che è tale per essenza, bensì un essere per partecipazione; eppure sempre di essere si tratta, dell'atto entitativo che è intrinseco in un modo a Dio e in un altro modo agli enti finiti, ma nondimeno è realmente comune ad entrambi e, sebbene in modo diverso, fa tuttavia esistere entrambi" (p. 992). Queste affermazioni illustrano mediante lo spettro della ragione uno dei nuclei pulsanti della Rivelazione: l'essere diventati "famigliari di Dio" (Efesini, 3, 19) e, in una certa misura, "partecipi della natura divina" (2 Pietro, 1, 4). Per questo motivo, la metafisica deve essere un'attitudine costante della ragione umana. Anche la fisica del Novecento sta indirizzando i suoi sforzi verso la ricerca di quelle leggi che possano unificare i fenomeni dell'infinitamente piccolo con quelli dell'infinitamente grande potente analogia dell'attitudine metafisica a raggiungere l'intero. E l'analogia è proprio la seconda idea guida del lavoro di padre Tyn.
Essa consente di precisare le distinzioni interne all'essere salvaguardando nel contempo il loro collegamento. Così "l'analogia di attribuzione sottolinea la dipendenza e la differenza, quella di proporzionalità, il rapporto e la somiglianza" (p. 979). L'aver smarrito queste importanti distinzioni ha generato quella confusione di piani che ritroviamo in diversi panteismi moderni di matrice ecologista. Al contrario, la salvaguardia dell'analogia nelle sue due forme consente di comprendere l'originale progetto del creatore che proprio sul rapporto di dipendenza e autonomia ha concepito la relazione con la sua creatura prediletta: la coppia umana chiamata a essere, in modo particolare e unico, sua "immagine e somiglianza". In definitiva allora la metafisica riproposta da Tyn si pone come un atto di omaggio alla dimensione creaturale dell'essere in tutte le sue forme, perché "per parlare adeguatamente del divino in noi, occorre prima parlare dell'umano in noi, e non pensi di onorare il Creatore e Redentore colui che disprezza la natura da Lui plasmata e salvata".
(L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010)


A colloquio con il fisico e filosofo della scienza Bernard d'Espagnat - Cerchiamo il reale che si nasconde dietro le "tubature" dell'universo - di Silvia Guidi - L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010
Lo scopo della sua ricerca è rispondere a una domanda tanto semplice quanto vertiginosa - "che cos'è la realtà?" - indagando con gli strumenti del pensiero scientifico e filosofico le condizioni che rendono possibile all'uomo l'accesso al reale. Ma l'obiettivo di Bernard d'Espagnat, premio Templeton 2009 per la sua teoria nota come "il reale velato", è soprattutto non smettere di porre domande considerate troppo ambiziose, "ardue ma al tempo stesso irrinunciabili", non potendo rassegnarsi al "vuoto di comprensione insopportabile" che deriva dall'ignorare le questioni essenziali che spesso vengono censurate dalla scienza contemporanea. Domande nate durante l'infanzia e maturate a contatto con la grande letteratura e i tesori della cultura classica, come spiega d'Espagnat a "L'Osservatore Romano".

Come è nato il suo amore per le discipline scientifiche?

Al liceo ero più portato per la letteratura e la filosofia che per le scienze; fisica e chimica mi attiravano poco, e la matematica mi interessava fondamentalmente in quanto esercizio della mente. Non attribuivo a queste discipline un significato profondo. Ciò che ha veramente suscitato la mia vocazione di fisico è stata la lettura di due opere. La prima fu quella che feci all'età di 17-18 anni del libro Materia e luce del fisico Louis de Broglie (premio Nobel nel 1929). Fino ad allora la fisica mi era sembrata un sapere certamente utile ma noioso. In un certo senso una descrizione dettagliata delle "tubature" dell'universo. Ma grazie a quel libro provai la felice sensazione di scoprire che l'universo, nei suoi fondamenti, anche "fisici", non si può affatto descrivere in simili termini, voglio dire solo attraverso le banali nozioni che tutti hanno, eventualmente completate facendo ricorso alla matematica; che la realtà poneva veramente degli enigmi, forse non risolvibili attraverso il calcolo, e che comportavano dunque la necessità di dare alla fisica un prolungamento filosofico. In seguito, la lettura dell'opera Scienza e ipotesi del matematico Henri Poincaré confermò questa mia sensazione. Oggi, visti gli ulteriori sviluppi che ha avuto la fisica quantistica - sviluppi a cui ho partecipato anch'io - credo di poter dire che quell'intuizione era giusta.

Quanto deve ai suoi maestri?

Praticamente tutto. I miei rapporti con questi giganti della ricerca sono stati, non arrossisco a dirlo, essenzialmente passivi. Ho imparato moltissimo da loro. Da Enrico Fermi - allo stesso tempo sperimentatore e teorico, geniale in entrambi i campi - ho imparato a essere pragmatico quando è necessario; e che essere pragmatico non impedisce di avere idee. Del mio rapporto con Niels Bohr e della lettura dei suoi libri ho conservato da un lato il suo straordinario potere di attrazione - sorprendente combinazione di profondità e di gentilezza pura e semplice - potere che tutti quelli che l'hanno frequentato sanno quanto l'abbia aiutato a formare il piccolo nucleo di collaboratori che, negli anni Venti, rivoluzionò la fisica. Dall'altro lato, l'audacia con la quale seppe rompere con un certo materialismo scientista, secondo cui il fine ultimo della fisica è e deve necessariamente essere la conoscenza piena e totale della realtà in sé. In lui sussisteva l'idea che il vero fine della fisica, il solo veramente accessibile a essa, fosse la crescita e la messa in ordine razionale dell'esperienza umana comunicabile. Bohr ha liberato la fisica da una costrizione intellettuale che, di fatto, ne inibiva lo sviluppo.

C'è chi sostiene che lo studio del latino educhi al pensiero logico, e sia propedeutico al lavoro di ricerca scientifica e chi ritiene che si tratti di un mito pedagogico; l'"allenamento a pensare" si otterrebbe anche con l'apprendimento di qualsiasi altra lingua. Lei che ne pensa?

Non posso, a tale riguardo, che dirle la mia impressione. Mi ricordo in effetti il bisogno che provavo, nel tradurre dal latino al francese, di ricostituire completamente la frase del testo che avevo davanti, determinando quale parola era il soggetto, quale il complemento oggetto e così via, il che mi obbligava a utilizzare da un lato le mie conoscenze, quelle delle diverse regole delle declinazioni e della grammatica, e dall'altro il mio giudizio: bisognava che il risultato avesse un senso e che superasse, se possibile, il livello "lapalissiano" del significato, l'ovvietà pura e semplice. E mi sembra naturale supporre che questo genere di esercizio abbia contribuito positivamente al mio allenamento alla ricerca scientifica.

Come descriverebbe il suo lavoro?

Non mi soffermerò sugli aspetti noiosi, nel corso dei miei anni di attività; nessuna occupazione ne è priva. La mia più grande soddisfazione è stata aver fatto parte del piccolo novero di fisici che, verso l'inizio degli anni Sessanta, riscoprì l'importanza di una nozione che, stranamente, dopo essere stata messa in luce dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, era praticamente caduta nell'oblio, al punto che il suo nome non appariva neanche nei manuali di fisica quantistica. Si tratta di una nozione che, in inglese, viene chiamata entanglement e in francese imbrication o enchêvetrement, intreccio, o meglio, "intreccio a distanza". Fa sì che, in modo molto misterioso e nascosto, quando due particelle quantiche hanno interagito, continuino a formare un solo sistema qualunque sia la distanza che le separa. Per lungo tempo questa particolarità del formalismo è stata interpretata come mera imperfezione residua, ma analisi teorico-sperimentali condotte dagli anni Sessanta agli anni Ottanta hanno mostrato che ha effetti osservabili e, soprattutto, che questi effetti vengono effettivamente osservati. Oggi tali effetti d'intreccio sono anche alla base delle tecnologie in pieno sviluppo, conosciute con il nome di informatica quantistica.

Quali sono le piste più interessanti dell'attuale ricerca nella fisica teorica?

Attualmente si può dire che la corrente principale è ancora imperniata su temi come l'unificazione delle forze "forti", "deboli", e così via, sui gruppi di simmetria delle particelle elementari, sulle ricerche cosmologiche e sui tentativi di "quantificazione" della relatività generale. Questi temi sono molto importanti - in particolare l'ultimo - ma non bisogna dimenticare che le teorie che li affrontano sono tutte fondate sui principi fondamentali della meccanica quantistica. Il che fa sì che l'esame insieme scientifico e filosofico della natura profonda di questi principi - esame al quale i fisici come me si dedicano - sebbene per i suoi metodi si discosti nettamente dalla corrente principale in questione, non è tuttavia, in linea di principio, separato da essa.

Cosa pensa della querelle darwiniana che da qualche tempo occupa gran parte del dibattito scientifico contemporaneo?

Si tratta essenzialmente di definire una posizione mediana fra due estremi minacciosi e ingiustificabili: da una parte quello, attualmente temibile soprattutto negli Stati Uniti d'America, che consiste nell'interpretare quasi alla lettera i passaggi descrittivi delle Scritture, anche nei casi in cui una simile interpretazione viene contraddetta in pieno dai dati scientifici di cui disponiamo attulmente; e dall'altra parte quello, sviluppato soprattutto nell'Europa continentale, in particolare da alcuni biologi, che pretende che tutto, comprese la vita e la coscienza, sia a buon diritto riducibile a effetti puramente fisici, di modo che la nozione di spirito si annulla a favore di quella di materia. La nostra tesi è che la seconda posizione non è più difendibile scientificamente della prima.

Su quale dato scientifico si basa la sua apertura a una visione "religiosa" della vita?

La nozione di reale, o di "ciò che è". A tale proposito, in opposizione all'idealismo filosofico, prendo come unico postulato fondamentale quello, veramente molto semplice, secondo il quale vi è "qualcosa" la cui esistenza non deriva dalla nostra. In linea di principio, la natura di questo "qualcosa" è completamente aperta. Forse è l'insieme degli oggetti, forse quello degli atomi, o ancora quello delle idee platoniche. Forse è Dio. Non lo so a priori, ma interrogo la fisica contemporanea, e poco a poco il ventaglio si restringe. Alla fine la fisica m'insegna che questo reale ultimo non è certamente descrivibile per mezzo delle sole nozioni intuitive che tutti noi abbiamo: quelle di spazio, di tempo, di movimento, di forma e così via. E che, molto probabilmente, non lo è neppure attraverso nozioni prese a prestito dalla matematica, ad esempio quella della curva spazio-tempo. In poche parole, ci è nascosto. Profondamente nascosto. La fisica non ci può insegnare di più. Ma lo spazio libero così aperto permette alla nostra riflessione filosofica - ed eventualmente religiosa - di spiccare il volo.

Cos'è la scienza per lei?

Press'a poco quello che Niels Bohr e Immanuel Kant ritenevano che fosse, e cioè lo sviluppo ininterrotto e la messa in ordine razionale dell'esperienza umana comunicabile.
(©L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010)


PAPA A VESCOVI DEL BELGIO: VOSTRA CHIESA E' PROVATA DAL PECCATO - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 8 mag.
"La visita ad limina e' un'occasione per rafforzare la comunione soprattutto in questi tempi la viostra Chiesa e' stata provata dal peccato". Lo ha detto Benedetto XVI ai vescovi del Belgio, ricevuti oggi in Vaticano. Il Papa ha chiesto ai presuli di fare in modo che "tutti i preti, i religiosi e i laici ricevano il mio incoraggiamento e l'espressione della mia gratitudine e non dimentichino che e' solo Cristo che quieta la tempesta e ridona forza e coraggio per condurre una vita santa, in piena fedelta' al loro ministero e alla consacrazione a Dio e alla testimonianza cristiana".
Con le sue parole, Benedetto XVI si e' indirettamente riferito all'orrenda vicenda del vescovo stupratore di Bruges, mons. Roger Vangheluw, che in aprile ha rappresentato il settimo caso in poche settimane di "dimissioni" di un vescovo per "gravi impedimenti" (ex canone 401 comma 2 del Codice di Diritto Canonico) e il secondo caso, dopo quello di Oslo, di un presule che ammette di aver compiuto egli stesso abusi, anche se lo scandalo in Norvegia riguardava atti compiuti dal presule prima della consacrazione episcopale e in Belgio purtroppo anche dopo. Un altro precedente di vescovo reo confesso di abusi e' avvenuuto negli Stati Uniti con mons. Rembert Weakland, l'ex abate primate dei benedettini che fu capofila dei vescovi progressisti negli Usa e poi dovette dimettersi quando si copri' che la relazione omosessuale da lui condotta nell'intero arco del suo episcopato era iniziata quando il giovane amante aveva 10 anni (oggi Weakland e' un'militante per i diritti dei gay e il principale "accusatore" di Benedetto XVI Oltreoceano).
Anche mons. Vangheluwe appartiene all'ala progressista dell'Episcopato, tanto da aver fatto in Belgio una battaglia per il diaconato femminile. Questo dato storico rafforza quanto scritto dal Papa nella Lettera ai cattolci d'Irlanda circa il fatto che la rivoluzione del '68 ha aperto nella Chiesa una voragine morale. Sulla quale in
troppi hanno chiuso gli occhi a cominciare dall'ex primate Godried Dannels che ha ammesso nei giorni scorsi di aver incontrato i familiari della vittima del vescovo di Bruges con un gesto "forse troppo generoso, spontaneo e spensierato che rischia ora di passare come un mio fallimento".
Nel discorso di oggi il Pontefice e' tornato su questo tema quando ha difeso la corretta espressione e attuazione delle norme liturgiche. I sacerdoti, ha esortato, si prendano "cura" delle celebrazioni, soprattutto quelle eucaristiche, nelle quali - ha ripetuto - il mistero della Chiesa si manifesta "nella sua grandiosita' e semplicita'". "Il Concilio Vaticano II - ha aggiunto - ha insistito sul fatto che la Chiesa non puo' fare a meno del ministero dei sacerdoti. E' pertanto necessario e urgente conferigli il suo giusto posto e riconoscerne il carattere sacramentale insostituibile. Ne consegue, pertanto, la necessita' di una vasta e seria pastorale vocazionale, basata sulla santita' esemplare dei sacerdoti, l'attenzione ai germi di
vocazione presenti in molti giovani e la preghiera assidua e fiduciosa, secondo il comando di Gesu'".
Per il Papa, inoltre, "la diminuzione del numero dei sacerdoti non deve essere vista come un processo inevitabile". Quello che conta di piu', pero', e' avere sacerdoti santi e in proposito ha ricordato la figura di padre Damiano De Veuster, canonizzato l'11 ottobre scorso: "il nuovo Santo - ha detto - parla alla coscienza dei belgi. Non e' stato forse designato come il piu' illustre figlio della nazione di tutti i tempi? La sua grandezza, vissuta nel dono totale di se' ai suoi fratelli lebbrosi, al punto da rimanere anch'egli contagiato e morire, sta nella sua ricchezza interiore, nella sua costante preghiera, in unione con Cristo". "In questo Anno Sacerdotale e' bene offrire - ha concluso - il suo esempio sacerdotale e missionario, specialmente ai sacerdoti e religiosi".
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PAPA: CHIESA BELGIO NON SI SCORAGGI DAVANTI A PROFONDA CRISI - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 8 mag.
In Belgio, al di la' degli scandali, va attuata una "vasta e seria" pastorale vocazionale, per formare al sacerdozio uomini santi. Lo ha affermato Benedetto XVI nel discorso ai vescovi del Belgio, ricevuti questa mattina in udienza a conclusione della loro visita ad Limina.
Il Pontefice ha denunciato le "tendenze" negative figlie della secolarizzazione che colpisce il Belgio come moltialtri Paesi: "mi riferisco - ha detto - alla diminuzione del numero di battezzati che testimoniano apertamente la propria fede e la propria appartenenza alla Chiesa, all'aumento progressivo dell'eta' media dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, all'insufficienza di persone ordinate o consacrate impegnate nella pastorale attiva o nei settori educativo e sociale, al numero esiguo di candidati al sacerdozio e alla vita consacrata". Altri "punti delicati", ha aggiunto Benedetto XVI, riguardano la formazione cristiana dei laici, soprattutto delle giovani generazioni, e "le questioni relative al rispetto della vita e all'istituzione del matrimonio e della famiglia". Tutti ambiti a loro volta condizionati, non si e' nascosto il Papa, dalle "complesse e spesso inquietanti situazioni legate alla crisi economica, alla disoccupazione, all'integrazione sociale degli immigrati, alla coesistenza pacifica delle diverse comunita' linguistiche e culturali della nazione".
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Avvenire.it, 7 Maggio 2010 - Si paga per custodire le cellule del cordone - L'anti-donazione irrompe in sala parto - Francesco Ognibene
Non si capisce il perché, ma succede. E quando succede, non sembrano più scattare quegli automatismi culturali di difesa verso ogni insulto ai princìpi e al buon senso. Alludiamo al ribaltamento della realtà su delicatissime questioni bioetiche, per le quali esiste un intero campionario di paradossi.
Gli esempi si sprecano. Le staminali adulte garantiscono terapie già funzionanti? E allora si scatenano campagne per reclamizzare le virtù delle cellule embrionali, che sinora hanno guarito zero malati. I progressi della neonatologia rendono possibile la sopravvivenza di bambini nati prematuri a 22 settimane? Ecco pensosi documenti sostenere che prima delle 25 settimane non vale la pena prendersi cura di quelle creature. La selezione preimpianto degli embrioni moltiplica le giacenze nei freezer delle cliniche? Si insiste per avere ancor più mano libera nel selezionare e congelare vite umane. E ancora: la pillola abortiva crea problemi, anche letali, ma si dimettono dall’ospedale le donne che l’hanno appena ingerita. E via così, rimbalzando da un controsenso all’altro.

Fino a incontrarne uno nuovo, forse il più plateale, nascosto tra le pieghe di quella che comunque è un’ottima notizia. Diffondendo i dati sulla raccolta dei cordoni ombelicali nel 2009, il Gruppo italiano trapianti di midollo osseo (Gitmo) ha fatto sapere che le unità messe al sicuro subito dopo il parto hanno conosciuto un incremento superiore al 55% in un solo anno, oltre quota 14mila. Ancora un’inezia rispetto ai parti in Italia (ben oltre il mezzo milione), ma questa crescita improvvisa è forse il segno che le mamme italiane stanno arrivando a comprendere quanto sia semplice e prezioso il gesto di donare e far conservare il sangue cordonale del proprio figlio, del quale la ricerca biomedica ci sta mostrando la straordinaria efficacia per curare leucemie, mielomi multipli, anemie mediterranee, immunodeficienze e linfomi. Una vera panacea, che occorre raccogliere in modo appropriato, custodire in "banche" pubbliche, mappare e rendere disponibile per chiunque ne abbia bisogno e sia geneticamente compatibile. Le cellule cordonali sono un tesoro terapeutico da far mettere al sicuro senza alcuna spesa, sapendo che se domani ci si trovasse nella necessità di utilizzarne le virtù cliniche ci sarebbe quasi certamente un altro donatore compatibile col proprio profilo. Invece si scopre che per la maggior parte i cordoni "salvati" l’anno scorso (il 70%) non sono stati donati ma "riservati" in vista di un beneficio futuro per il proprio figlio che però la scienza ha escluso categoricamente.

Per guarire da malattie genetiche – dicono gli esperti, pressoché inascoltati – è molto meglio ricevere cellule da donatori che usare le proprie, nelle quali è scolpito il medesimo difetto dal quale si vuole guarire. E allora, perché quella larga maggioranza di "mancati donatori"? Perché esiste un fiorente mercato di biobanche private che custodiscono i cordoni a pagamento, utilizzando come testimonial personaggi dello spettacolo per fargli decantare le meraviglie del tenere gelosamente per sé un simile scrigno di possibili guarigioni altrui. E visto che in Italia questo bazar delle cellule è ancora vietato, ecco il lamento (radicali in testa, al solito) per il fatto di costringere gli italiani a rivolgersi oltre frontiera anziché legalizzare anche da noi questa ingannevole forma di concorrenza alla donazione. Un capolavoro di contro-realtà, e di autolesionismo. La donazione infatti innesca un intreccio di generosità, tesse quella trama altruista che sostiene la nostra società. Non ne possiamo fare a meno: si vive (e ci si cura) solo grazie agli altri. Non "donare" significa semplicemente negare ciò che siamo. Perché mentire a noi stessi?
Francesco Ognibene


«No alla Ru486 online» - Avvenire, 8 maggio 2010
ROMA. «Sto preparando un esposto contro la vendita online della pillola Ru486, che viene fatta senza alcuna garanzia». Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, non ha esitazioni nel ribadire per l’ennesima volta l’urgenza di contrastare la privatizzazione dell’aborto. «La Ru486 è un metodo più doloroso e pericoloso dell’aborto chirurgico – ha spiegato intervenendo su Tv2000 alla trasmissione “Controvento” – ma soprattutto con più effetti collaterali. Se la donna si trova in casa sola, quando avviene l’espulsione del feto, è chiaro che non può valutare correttamente i sintomi e la loro pericolosità, come farebbe un medico». Proprio questo è il rischio dell’aborto fai da te. Non è un caso che «delle trenta morti da pillola abortiva di cui si è a conoscenza, due sono dovute a emorragie sottovalutate». La pericolosità della Ru486 è stata evidenziata dal Consiglio superiore di sanità per tre volte, su richiesta di altrettanti governi. Per gli esperti «la pillola è sicura quanto l’aborto chirurgico solo se l’intera procedura viene completata in ospedale. Certo, il ricovero non può essere forzato – chiarisce il sottosegretario – ma credo che nessuna donna esca dall’ospedale, contro il parere medico e le direttive della sua Regione, se non viene consigliata a farlo». Ed ecco il punto: «Il disegno che c’è dietro certe posizioni ideologiche e politiche è molto chiaro. Si vuole far come in Francia: diffondere attraverso la pillola l’aborto a domicilio, in modo da poter in un secondo momento adeguare la legge sull’aborto». La 194 era nata con il fine della tutela sociale della maternità, che alcuni invece vogliono trasformare in un fatto privato. «L’idea della pillola trae in inganno. La si associa all’aspirina, a gesti che non hanno bisogno del medico. Ma non è così».
Leonardo Possati


Spagna, la «morte degna» è già legge in Andalusia - I pro-life: si spiana la strada all’eutanasia - DI MICHELA CORICELLI – Avvenire, 8 maggio 2010
Il governo regionale: «Vogliamo rispettare la volontà del malato» Ma il testo è molto ambiguo in particolare sulle cure palliative
D a oggi l’Andalusia è la prima regione spagnola con u na legge che garantisce la cosiddetta «morte degna». Si chiama «Legge dei diritti e delle garanzie della di gnità delle persone nel processo di morte»: è stata pubblicata ieri nella Gazzetta ufficiale della comunità autonoma andalu sa ed entrerà in vigore il 27 maggio. Proi bito parlare di eutanasia. Il governo regionale – socialista, come l’e secutivo centrale di José Luis Rodríguez Zapatero – assicura che questo testo non ha nulla a che fare con l’eutanasia attiva o il suicidio assistito, vietati (almeno per ora) dal Codice penale spagnolo. Ma l’i niziativa andalusa genera scetticismo: il Faro andaluso della famiglia e l’associa zione “Hazte oir” in precedenza avevano espresso il timore che si tratti del primo passo verso l’eutana sia; uno strappo nella maglia legislativa iberica, per aprire il terreno ad una prossima riforma più radicale.

La normativa riconosce al paziente il diritto di rifiutare medi cinali, interventi e terapie che potrebbero prolungare la sua vi ta in modo «artificiale». Il malato in fase terminale può dire no al respiratore artificiale o ad un farmaco. È una sua scelta. Il paziente ha anche il diritto a ricevere sedativi per calmare il dolore, anche se questi rischiano di accelerare la sua morte. Il testo vieta inoltre l’accanimento terapeutico e regolarizza la limitazione degli interventi di medici e personale sanitario. La legge assicurerà il rispetto della volontà del malato, anche qua lora sia stata messa per iscritto precedentemente, con il te­stamento biologico. Dal 27 maggio tutti gli istituti sanitari an dalusi – ospedali pubblici o cliniche private (anche religiose) – saranno obbligati a rispettare la norma, senza eccezioni. Nel testo, infatti, non è prevista l’obiezione di coscienza come era stato richiesto dal l’opposizione.

L’Andalusia è la prima comunità autono ma spagnola a sancire i diritti dei pazien ti in fase terminale, ma è probabile che al tre regioni seguiranno l’esempio. Nono stante le assicurazioni del governo locale socialista, il testo contiene zone d’ombra e ambiguità, in particolare per quanto ri guarda le cure palliative e la mancata ga ranzia del diritto all’obiezione. Il dibattito è bollente. Nessu no nega i diritti di un malato terminale a fermare il dolore, ma il testo riapre inevitabilmente la spinosa questione del signi ficato di «morte degna». C’è chi pensa che una legge ad hoc non fosse necessaria, soprattutto in un momento in cui le rea li preoccupazioni degli spagnoli sono altre. Insieme alle Ca narie, l’Andalusia è la regione con il più alto tasso di disoccu pazione di tutta la Spagna: è senza lavoro il 27% della popola zione attiva, ovvero 1.080.900 di persone.


Avvenire.it, 8 MAGGIO 2010 - IL MESE MARIANO - Maria e l’Italia minore - abbraccio che continua - Giacomo Gambassi
Accanto al cartello che, lungo l’Autosole, indica l’uscita di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, ce n’è uno in cui si legge: «Santuario della Madonna delle Vertighe». Sulla collina che si nota passando con l’auto, una chiesa custodisce l’icona della patrona dell’A1. Una tavola che, secondo la tradizione, si trovava in un’edicola di Asciano ospitata su un terreno conteso fra due fratelli. Davanti all’immagine volarono parole forti. E lì venne fissato un duello per decidere a chi fosse destinato il fazzoletto di terra. Era la sera del 6 luglio 1100. Di notte l’edicola scomparve e si trasferì alle Vertighe che deve il suo nome al vocabolo latino «vertex», che significa cima, e la sua fama alla Vergine del prodigio.

La storia del Santuario dell’autostrada è soltanto una delle "cronache" mariane che l’Italia racconta. Storie minori, spesso semisconosciute, specchio di una devozione a Maria capillare e diffusa, antica e sempre nuova, memoria viva della presenza della Madre di Dio che nei secoli si è manifestata attraverso eventi soprannaturali, apparizioni e guarigioni. Segni con cui la «donna del piano superiore», come l’aveva definita Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, «non ha disdegnato il domicilio della povera gente». E ha fatto dei luoghi dove ha lasciato traccia uno spazio d’incontro dell’uomo con Dio, ai quali in particolare in questo mese di maggio si rivolge la devozione popolare.

Un incontro che a Capurso, in provincia di Bari, ha per protagonista nel 1705 un sacerdote, don Domenico Tanzella, gravemente infermo. A lui la Vergine rivela di bere da un antico pozzo, detto di Santa Maria, e di erigere una chiesa in suo onore. Sorseggiata l’acqua, il prete ritrova la salute e per adempiere al voto visita il pozzo. Sarà fra i sassi che scoprirà un affresco in stile bizantino della Vergine con il Bambino. Due volti che da tre secoli sono il fulcro della basilica di Santa Maria del Pozzo.

Una guarigione è il primo miracolo attribuito alla Beata Vergine delle Grazie di Udine. Nella seconda metà del Quattrocento una domestica del luogotenente del governo veneziano si ritrova con una mano quasi staccata lavorando in cucina. La donna e il magistrato invocano l’effige esposta nel castello e la mano viene risanata. L’immagine taumaturga è oggi collocata nel santuario che da sempre è luogo di grazie come dimostrano gli ex voto sulle pareti fra cui protesi ortopediche, grucce e bastoni.

Altro «miracolo del corpo» è quello attribuito alla Madonna dell’Ambro, ospitata nel piccolo santuario di Montefortino in provincia di Ascoli Piceno sui monti Sibillini dove forse nacque la leggenda del giovane poeta Tannhäuser. L’origine del culto è legata alla vicenda di una ragazza muta che passa le giornate a pascolare le pecore e davanti all’immagine della Vergine riacquista la parola dopo averle offerto un mazzo di fiori. È la forza della preghiera che risana.

O che converte. Come avviene alla Mentorella, in provincia di Roma, nel santuario della Madonna delle Grazie, uno dei più antichi della Penisola, sorto nella località dove, secondo la tradizione, un ufficiale pagano dell’imperatore Traiano, Placido, ha una visione di Gesù che lo invita a seguirlo. Tornato a Roma, si fa battezzare col nome di Eustachio ed entrerà fra i santi martiri uccisi per la fede. Davanti alla statua lignea della Madonna si inginocchia come semplice pellegrino il cardinale Karol Wojtyla. È il 7 ottobre 1978. Pochi giorni dopo iniziava il conclave da cui Wojtyla uscirà Papa col nome di Giovanni Paolo II.

Nella geografia della devozione mariana un comune denominatore è quello della supplica di fronte alle calamità. Come per il terremoto. È il caso della Vergine di Borgo Maggiore a San Marino venerata in origine come Madonna del Greppo o della Rupe e, dopo il sisma del 1781, col titolo di Madonna della Consolazione. La festa viene celebrata la prima domenica di giugno ed è un gesto di ringraziamento alla Madre per aver preservato la Repubblica dal cataclisma.

Oppure è la storia della Madonna dei sette veli a Foggia, comparsa nel 1067 sulle acque della Puglia per sfuggire alla furia iconoclasta. È nel 1731, mentre la città è distrutta dal terremoto, che Maria appare «ripetutamente a tutto il popolo». Poi c’è la peste che diventa occasione per invocare la Vergine. A Macerata, il 3 agosto 1447, il Consiglio di credenza delibera di «erigere in un sol giorno alla Madre della Misericordia una chiesetta affinché per la sua intercessione presso l’Altissimo avesse all’istante a cessare il terribile flagello». A distanza di cinque secoli, nel 1952, Macerata viene proclamata «città di Maria».

A Città di Castello, in provincia di Perugia, la peste del 1348 raccontata da Boccaccio uccide un terzo della popolazione. Nel vicino colle di Canoscio un abitante fa costruire una cappella dedicata alla Madonna del Transito. Su questa «maestà» sorge l’attuale santuario. Un complesso crivellato dalle cannonate durante la seconda guerra mondiale. Il conflitto segna anche parte della storia di Nostra Signora dell’Arena a San Terenzo a Mare, in provincia di La Spezia.

A lei si rivolge la popolazione in occasione della peste spagnola del 1804 e durante gli anni Quaranta del secolo scorso. Proprio per un voto fatto l’8 settembre 1944 dalla gente di San Terenzo è stata ottenuta dal Capitolo di San Pietro in Vaticano la speciale incoronazione della Vergine. Alla peste del 1630 descritta da Alessandro Manzoni è legata la venerazione della Madonna della Creta e delle Grazie, nel santuario di Castellazzo Bormida, in provincia di Alessandria. Meta di pellegrinaggi, è dal 1947 la patrona dei motociclisti grazie alla frase scritta sulla volta dell’altare maggiore: «iter centaurorum para tutum» (mantieni sicuro il viaggio dei centauri).

E la Vergine si fa percepire nel quotidiano. A Pomigliano, sulle pendici del Vesuvio, la Madonna dell’Arco viene vista con un rivolo di sangue sulla guancia mentre, nel Quattrocento, un giocatore impreca per aver perso una partita di bocce. A Mazara del Vallole pupille della Madonna del Paradiso «si alzano fino quasi a celarsi» nel 1797. E a Firenze, nel santuario della Santissima Annunziata, sarà una mano invisibile a dipingere il volto di Maria: infatti, l’autore che a lungo aveva invocato la Vergine perché gli fosse data la capacità di realizzare la sua vera immagine si ritrova una mattina del 1252 «la figura della Madonna, che aveva già dipinta nel corpo, finita anche sul volto». Da oltre settecento anni i critici d’arte si interrogano su quei lineamenti a cui la città continua a guardare affidandosi a Maria, bussola di speranza fra le difficoltà della vita.
Giacomo Gambassi