mercoledì 5 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) PAPA A FATIMA: IL TERZO SEGRETO FA COMPRENDERE LA NECESSITA' DELLA PENITENZA - (AGI) - CdV, 4 mag. - (di Salvatore Izzo) - "La parola chiave di questo segreto e' il triplice grido: 'Penitenza, Penitenza, Penitenza!'. Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l'urgenza della penitenza - della conversione - della fede. Questa e' la risposta giusta al momento storico, che e' caratterizzato da grandi pericoli". Sono parole di Joseph Ratzinger nel commento teologico che scrisse nel 2000 per accompagnare la pubblicazione del terzo segreto di Fatima, decisa da Giovanni Paolo II dopo che il contenuto era stato celato per 80 anni dai suoi predecessori.
2) PADRE JERZY POPIEŁUSZKO, SIMBOLO DELLA POLONIA E DELL’EUROPA - Il redattore di “Niedziela” parla del prete degli operai ucciso dal regime comunista - di Antonio Gaspari
3) AUGURI DI BENEDETTO XVI AL RABBINO ELIO TOAFF PER I SUOI 95 ANNI
4) 5 maggio, Festa del Beato Nunzio Sulprizio - Allocuzione di Papa Paolo VI - Nota di Massimo Introvigne
5) Il Parlamento di Copenhagen - dice sì alle adozioni per coppie gay - Libero-news.it 04/05/2010
6) La meditazione sulla morte nelle rime spirituali di Michelangelo - In sereno abbandono tra braccia sicure - Il 3 maggio si è tenuta all'Università Cattolica del Sacro Cuore una giornata di studi dedicata a Claudio Scarpati. Nell'occasione - che ha visto anche la presentazione di un volume in suo onore (Studi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pagine 1158, euro 65) - l'italianista ha tenuto una lezione della quale riportiamo alcuni stralci. - di Claudio Scarpati - L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010
7) Il cardinale Giuseppe Siri e il suo tempo - Rosso porpora antitotalitario - di Roberto Pertici - L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010
8) 04/05/2010 – CINA - Chai Ling, ex leader di Tiananmen è divenuta cristiana - La sua conversione dovuta all’impotenza nel cambiare la Cina e al dolore per gli aborti forzati che avvengono nel suo Paese con la legge del figlio unico “cento volte più violenta del massacro di Tiananmen”. L’invito ai leader cinesi di pentirsi e a scoprire il perdono di Dio.
9) Come il dono dei dieci comandamenti (le dieci parole) struttura la nostra memoria, la nostra tradizione, ma anche la nostra responsabilità di fronte alla grande sfida del mondo attuale – S.E. Card. Angelo Scola - New York, 27 aprile 2010
10) CARLO ACUTIS: UN RAGAZZO DEI NOSTRI TEMPI DEVOTO ALLA MADONNA - Don Marcello Stanzione – dal sito Pontifex.roma.it
11) Facciamo chiarezza sull'Esorcismo – Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.) - dal sito Pontifex.roma.it
12) Cattolici, perchè? - Lorenzo Albacete - mercoledì 5 maggio 2010 – ilsussidiario.net
13) 150 ANNI/ Con buona pace di Cavour, è il Papa che unisce l’Italia. Parola di Dostoevskij - Renato Farina - mercoledì 5 maggio 2010
14) Avvenire.it, 5 MAGGIO 2010 - LA PROVOCAZIONE - Ma i cristiani sono gente «felice»? - Enzo Bianchi

PAPA A FATIMA: IL TERZO SEGRETO FA COMPRENDERE LA NECESSITA' DELLA PENITENZA - (AGI) - CdV, 4 mag. - (di Salvatore Izzo) - "La parola chiave di questo segreto e' il triplice grido: 'Penitenza, Penitenza, Penitenza!'. Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l'urgenza della penitenza - della conversione - della fede. Questa e' la risposta giusta al momento storico, che e' caratterizzato da grandi pericoli". Sono parole di Joseph Ratzinger nel commento teologico che scrisse nel 2000 per accompagnare la pubblicazione del terzo segreto di Fatima, decisa da Giovanni Paolo II dopo che il contenuto era stato celato per 80 anni dai suoi predecessori.
Un testo che nel briefing di oggi, alla vigilia del quindicesimo viaggio internazionale di Benedetto XVI, che dall'11 al 14 maggio avra' per meta proprio Fatima e il Portogallo, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha consigliato ai giornalisti di rileggere.
In esso, Ratzinger confida anche "un ricordo personale; in un colloquio con me Suor Lucia mi ha detto che le appariva sempre piu' chiaramente come lo scopo di tutte quante le apparizioni sia stato quello di far crescere sempre piu' nella fede, nella speranza e nella carita', tutto il resto intendeva solo portare a questo".
"L'angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio" descritto da Suor Lucia, per l'allora prefetto della Dottrina della Fede, "ricorda analoghe immagini dell'Apocalisse.
Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo.
La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente piu' come pura fantasia: l'uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco. La visione mostra poi la forza che si contrappone al potere della distruzione, lo splendore della Madre di Dio, e, proveniente in un certo modo da questo, l'appello alla penitenza.
In tal modo viene sottolineata l'importanza della liberta' dell'uomo: il futuro non e' affatto determinato in modo immutabile, e l'immagine, che i bambini videro, non e' affatto un film anticipato del futuro, del quale nulla potrebbe piu' essere cambiato".
La visione, sulla quale Papa Wojtyla volle che proprio il card. Ratzinger facesse il commento ufficiale, "parla piuttosto di pericoli e della via per salvarsi da essi".

Nel testo firmato dal futuro Papa c'e' ben chiara la distinzione tra la Rivelazione - che e' stata completata dagli Apostoli - e le rivelazioni private, che la Chiesa tuttavia puo' approvare, come e' accaduto con il Terzo Segreto di Fatima. "La visione interiore - spiega - non e' fantasia, ma comporta anche limitazioni.

Gia' nella visione esteriore e' sempre coinvolto anche il fattore soggettivo: non vediamo l'oggetto puro, ma esso giunge a noi attraverso il filtro dei nostri sensi, che devono compiere un processo di traduzione. Cio' e' ancora piu' evidente nella visione interiore, soprattutto allorche' si tratta di realta', che oltrepassano in se stesse il nostro orizzonte. delle persone umane". Con questa avvertenza, l'allora cardinale afferma che il vescovo vestito di bianco che nella descrizione di Suor Lucia cade sotto i colpi degli aggressori "abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre che sembra precedere gli altri, tremando e soffrendo per tutti gli orrori, che lo circondano.
Non solo le case della citta' giacciono mezze in rovina, il suo cammino passa in mezzo ai cadaveri dei morti". "La via della Chiesa viene cosi' descritta come una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni".
Per Ratzinger, "si puo' trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo".
E leggendo queste parole e' difficile non pensare che mentre Papa Wojtla fu colpito dai proiettili di Ali' Agca, il suo successore ha sofferto nelle scorse settimane per le pesanti calunnie che gli sono state rivolte ma anche ha pianto per le rivelazioni sui crimini compiuti da sacerdoti e da alcuni vescovi. "Nella Via Crucis di un secolo - si legge ancora nel commento di Ratzinger - la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce".

La sensazione che le parole di Suor Lucia possano riguardare anche questo Pontificato e' rafforzata poi nel lettore che dieci anni dopo riprende in mano quel testo perche' Ratzinger stesso ragiona sull'incongruenza che di fatto c'e' tra la visione descritta da Suor Lucia e l'attentato di piazza San Pietro.

Infatti, "nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri". "Non doveva il Santo Padre - si domanda il futuro successore di Wojtyla - quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del segreto , riconoscervi il suo proprio destino?
Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermo' sulla soglia della morte come disse egli stesso il 13 maggio 1994".
Per Ratzinger "che qui una mano materna abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera e' piu' forte dei proiettili, la fede piu' potente delle divisioni" e "la conclusione del segreto e' una visione consolante, che vuole rendere permeabile alla potenza risanatrice di Dio una storia di sangue e lacrime: angeli raccolgono sotto i bracci della croce il sangue dei martiri e irrigano cosi' le anime, che si avvicinano a Dio".
E rimane "l'esortazione alla preghiera come via per la salvezza delle anime e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione". "Da quando Dio stesso ha un cuore umano ed ha cosi' rivolto la liberta' dell'uomo verso il bene, verso Dio, la liberta' per il male - sono le parole conclusive di Joseph Ratzinger sul segreto - non ha piu' l'ultima parola. Da allora vale la parola: Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo: il messaggio di Fatima ci invita ad affidarci a questa promessa".

IL MESSAGGIO DI FATIMA: IL COMMENTO TEOLOGICO DEL CARD. JOSEPH RATZINGER (impressionante se letto oggi)
Chi legge con attenzione il testo del cosiddetto terzo « segreto » di Fatima, che dopo lungo tempo per disposizione del Santo Padre viene qui pubblicato nella sua interezza, resterà presumibilmente deluso o meravigliato dopo tutte le speculazioni che sono state fatte. Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato. Vediamo la Chiesa dei martiri del secolo ora trascorso rappresentata mediante una scena descritta con un linguaggio simbolico di difficile decifrazione. È questo ciò che la Madre del Signore voleva comunicare alla cristianità, all'umanità in un tempo di grandi problemi e angustie? Ci è di aiuto all'inizio del nuovo millennio? Ovvero sono forse solamente proiezioni del mondo interiore di bambini, cresciuti in un ambiente di profonda pietà, ma allo stesso tempo sconvolti dalle bufere che minacciavano il loro tempo? Come dobbiamo intendere la visione, che cosa pensarne?

Rivelazione pubblica e rivelazioni private – il loro luogo teologico

Prima di intraprendere un tentativo di interpretazione, le cui linee essenziali si possono trovare nella comunicazione che il Cardinale Sodano ha pronunciato il 13 maggio di quest'anno alla fine della celebrazione eucaristica presieduta dal Santo Padre a Fatima, sono necessarie alcune chiarificazioni di fondo circa il modo in cui, secondo la dottrina della Chiesa, devono essere compresi all'interno della vita di fede fenomeni come quello di Fatima. L'insegnamento della Chiesa distingue fra la « rivelazione pubblica » e le « rivelazioni private ». Fra le due realtà vi è una differenza non solo di grado ma di essenza. Il termine « rivelazione pubblica » designa l'azione rivelativa di Dio destinata a tutta quanta l'umanità, che ha trovato la sua espressione letteraria nelle due parti della Bibbia: l'Antico ed il Nuovo Testamento. Si chiama « rivelazione », perché in essa Dio si è dato a conoscere progressivamente agli uomini, fino al punto di divenire egli stesso uomo, per attirare a sé e a sé riunire tutto quanto il mondo per mezzo del Figlio incarnato Gesù Cristo. Non si tratta quindi di comunicazioni intellettuali, ma di un processo vitale, nel quale Dio si avvicina all'uomo; in questo processo poi naturalmente si manifestano anche contenuti che interessano l'intelletto e la comprensione del mistero di Dio. Il processo riguarda l'uomo tutto intero e così anche la ragione, ma non solo essa. Poiché Dio è uno solo, anche la storia, che egli vive con l'umanità, è unica, vale per tutti i tempi ed ha trovato il suo compimento con la vita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. In Cristo Dio ha detto tutto, cioè se stesso, e pertanto la rivelazione si è conclusa con la realizzazione del mistero di Cristo, che ha trovato espressione nel Nuovo Testamento. Il Catechismo della Chiesa Cattolica cita, per spiegare questa definitività e completezza della rivelazione, un testo di San Giovanni della Croce: « Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola... Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto nel suo Figlio... Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità » (CCC 65, S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 22).

Il fatto che l'unica rivelazione di Dio rivolta a tutti i popoli è conclusa con Cristo e con la testimonianza a lui resa nei libri del Nuovo Testamento vincola la Chiesa all'evento unico della storia sacra e alla parola della Bibbia, che garantisce e interpreta questo evento, ma non significa che la Chiesa ora potrebbe guardare solo al passato e sarebbe così condannata ad una sterile ripetizione. Il CCC dice al riguardo: « ... anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli » (n. 66). I due aspetti del vincolo con l'unicità dell'evento e del progresso nella sua comprensione sono molto bene illustrati nei discorsi d'addio del Signore, quando egli congedandosi dice ai discepoli: « Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé... Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà » (Gv 16, 12-14). Da una parte, lo Spirito fa da guida e così dischiude una conoscenza, per portare il peso della quale prima mancava il presupposto — è questa l'ampiezza e la profondità mai conclusa della fede cristiana. Dall'altra parte, questo guidare è un « prendere » dal tesoro di Gesù Cristo stesso, la cui profondità inesauribile si manifesta in questa conduzione ad opera dello Spirito. Il Catechismo cita al riguardo una profonda parola di Papa Gregorio Magno: « Le parole divine crescono insieme con chi le legge » (CCC 94, S. Gregorio, in Ez 1, 7, 8). Il Concilio Vaticano II indica tre vie essenziali, in cui si realizza la guida dello Spirito Santo nella Chiesa e quindi la « crescita della Parola »: essa si compie per mezzo della meditazione e dello studio dei fedeli, per mezzo della profonda intelligenza, che deriva dall'esperienza spirituale e per mezzo della predicazione di coloro « i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità » (Dei Verbum, 8).

In questo contesto diviene ora possibile intendere correttamente il concetto di « rivelazione privata », che si riferisce a tutte le visioni e rivelazioni che si verificano dopo la conclusione del Nuovo Testamento; quindi è la categoria, all'intemo della quale dobbiamo collocare il messaggio di Fatima. Ascoltiamo ancora al riguardo innanzitutto il CCC: « Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate “private”, alcune delle quali sono state riconosciute dall'autorità della Chiesa... Il loro ruolo non è quello... di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica » (n. 67). Vengono chiarite due cose:

1. L'autorità delle rivelazioni private è essenzialmente diversa dall'unica rivelazione pubblica: questa esige la nostra fede; in essa infatti per mezzo di parole umane e della mediazione della comunità vivente della Chiesa Dio stesso parla a noi. La fede in Dio e nella sua Parola si distingue da ogni altra fede, fiducia, opinione umana. La certezza che Dio parla mi dà la sicurezza che incontro la verità stessa e così una certezza, che non può verificarsi in nessuna forma umana di conoscenza. È la certezza, sulla quale edifico la mia vita e alla quale mi affido morendo.

2. La rivelazione privata è un aiuto per questa fede, e si manifesta come credibile proprio perché mi rimanda all'unica rivelazione pubblica. Il Cardinale Prospero Lambertini, futuro Papa Benedetto XIV, dice al riguardo nel suo trattato classico, divenuto poi normativo sulle beatificazioni e canonizzazioni: « Un assentimento di fede cattolica non è dovuto a rivelazioni approvate in tal modo; non è neppure possibile. Queste rivelazioni domandano piuttosto un assentimento di fede umana conforme alle regole della prudenza, che ce le presenta come probabili e piamente credibili ». Il teologo fiammingo E. Dhanis, eminente conoscitore di questa materia, afferma sinteticamente che l'approvazione ecclesiale di una rivelazione privata contiene tre elementi: il messaggio relativo non contiene nulla che contrasta la fede ed i buoni costumi; è lecito renderlo pubblico, ed i fedeli sono autorizzati a dare ad esso in forma prudente la loro adesione (E. Dhanis, Sguardo su Fatima e bilancio di una discussione, in: La Civiltà Cattolica 104, 1953 II. 392-406, in particolare 397). Un tale messaggio può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell'ora attuale; perciò non lo si deve trascurare. È un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso.

Il criterio per la verità ed il valore di una rivelazione privata è pertanto il suo orientamento a Cristo stesso. Quando essa ci allontana da lui, quando essa si rende autonoma o addirittura si fa passare come un altro e migliore disegno di salvezza, più importante del Vangelo, allora essa non viene certamente dallo Spirito Santo, che ci guida all'interno del Vangelo e non fuori di esso. Ciò non esclude che una rivelazione privata ponga nuovi accenti, faccia emergere nuove forme di pietà o ne approfondisca e ne estenda di antiche. Ma in tutto questo deve comunque trattarsi di un nutrimento della fede, della speranza e della carità, che sono per tutti la via permanente della salvezza. Possiamo aggiungere che le rivelazioni private sovente provengono innanzitutto dalla pietà popolare e su di essa si riflettono, le danno nuovi impulsi e dischiudono per essa nuove forme. Ciò non esclude che esse abbiano effetti anche nella stessa liturgia, come ad esempio mostrano le feste del Corpus Domini e del Sacro Cuore di Gesù. Da un certo punto di vista nella relazione fra liturgia e pietà popolare si delinea la relazione fra Rivelazione e rivelazioni private: la liturgia è il criterio, essa è la forma vitale della Chiesa nel suo insieme nutrita direttamente dal Vangelo. La religiosità popolare significa che la fede mette radici nel cuore dei singoli popoli, così che essa viene introdotta nel mondo della quotidianità. La religiosità popolare è la prima e fondamentale forma di « inculturazione » della fede, che si deve continuamente lasciare orientare e guidare dalle indicazioni della liturgia, ma che a sua volta feconda la fede a partire dal cuore.

Siamo così già passati dalle precisazioni piuttosto negative, che erano innanzitutto necessarie, alla determinazione positiva delle rivelazioni private: come si possono classificare in modo corretto a partire dalla Scrittura? Qual è la loro categoria teologica? La più antica lettera di San Paolo che ci è stata conservata, forse il più antico scritto in assoluto del Nuovo Testamento, la prima lettera ai Tessalonicesi, mi sembra offrire un'indicazione. L'apostolo qui dice: « Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono » (5, 19-21).

In ogni tempo è dato alla Chiesa il carisma della profezia, che deve essere esaminato, ma che anche non può essere disprezzato. Al riguardo occorre tener presente che la profezia nel senso della Bibbia non significa predire il futuro, ma spiegare la volontà di Dio per il presente e quindi mostrare la retta via verso il futuro.

Colui che predice l'avvenire viene incontro alla curiosità della ragione, che desidera squarciare il velo del futuro; il profeta viene incontro alla cecità della volontà e del pensiero e chiarisce la volontà di Dio come esigenza ed indicazione per il presente. L'importanza della predizione del futuro in questo caso è secondaria. Essenziale è l'attualizzazione dell'unica rivelazione, che mi riguarda profondamente: la parola profetica è avvertimento o anche consolazione o entrambe insieme. In questo senso si può collegare il carisma della profezia con la categoria dei « segni del tempo », che è stata rimessa in luce dal Vaticano II: « ... Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? » (Lc 12, 56). Per « segni del tempo » in questa parola di Gesù si deve intendere il suo proprio cammino, egli stesso. Interpretare i segni del tempo alla luce della fede significa riconoscere la presenza di Cristo in ogni tempo. Nelle rivelazioni private riconosciute dalla Chiesa — quindi anche in Fatima — si tratta di questo: aiutarci a comprendere i segni del tempo ed a trovare per essi la giusta risposta nella fede.

La struttura antropologica delle rivelazioni private

Dopo che con queste riflessioni abbiamo cercato di determinare il luogo teologico delle rivelazioni private, prima di impegnarci in un'interpretazione del messaggio di Fatima, dobbiamo ancora brevemente cercare di chiarire un poco il loro carattere antropologico (psicologico). L'antropologia teologica distingue in questo ambito tre forme di percezione o « visione »: la visione con i sensi, quindi la percezione esterna corporea, la percezione interiore e la visione spirituale (visio sensibilis - imaginativa - intellectualis). È chiaro che nelle visioni di Lourdes, Fatima, ecc. non si tratta della normale percezione esterna dei sensi: le immagini e le figure, che vengono vedute, non si trovano esteriormente nello spazio, come vi si trovano ad esempio un albero o una casa. Ciò è del tutto evidente, ad esempio, per quanto riguarda la visione dell'inferno (descritta nella prima parte del « segreto » di Fatima) o anche la visione descritta nella terza parte del « segreto », ma si può dimostrare molto facilmente anche per le altre visioni, soprattutto perché non tutti i presenti le vedevano, ma di fatto solo i « veggenti ». Così pure è evidente che non si tratta di una « visione » intellettuale senza immagini, come essa si trova negli alti gradi della mistica. Quindi si tratta della categoria di mezzo, la percezione interiore, che certamente ha per il veggente una forza di presenza, che per lui equivale alla manifestazione esterna sensibile.

Vedere interiormente non significa che si tratta di fantasia, che sarebbe solo un'espressione dell'immaginazione soggettiva. Piuttosto significa che l'anima viene sfiorata dal tocco di qualcosa di reale anche se sovrasensibile e viene resa capace di vedere il non sensibile, il non visibile ai sensi — una visione con i « sensi interni ». Si tratta di veri « oggetti », che toccano l'anima, sebbene essi non appartengano al nostro abituale mondo sensibile. Per questo si esige una vigilanza interiore del cuore, che per lo più non c'è a motivo della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e pensieri che riempiono l'anima. La persona viene condotta al di là della pura esteriorità e dimensioni più profonde della realtà la toccano, le si rendono visibili. Forse si può così comprendere perché proprio i bambini siano i destinatari preferiti di tali apparizioni: l'anima è ancora poco alterata, la sua capacità interiore di percezione è ancora poco deteriorata. « Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai ricevuto lode », risponde Gesù con una frase del Salmo 8 (v. 3) alla critica dei Sommi Sacerdoti e degli anziani, che trovavano inopportuno il grido di osanna dei bambini (Mt 21, 16).

La « visione interiore » non è fantasia, ma una vera e propria maniera di verificare, abbiamo detto. Ma comporta anche limitazioni. Già nella visione esteriore è sempre coinvolto anche il fattore soggettivo: non vediamo l'oggetto puro, ma esso giunge a noi attraverso il filtro dei nostri sensi, che devono compiere un processo di traduzione. Ciò è ancora più evidente nella visione interiore, soprattutto allorché si tratta di realtà, che oltrepassano in se stesse il nostro orizzonte. Il soggetto, il veggente, è coinvolto in modo ancora più forte.
Egli vede con le sue possibilità concrete, con le modalità a lui accessibili di rappresentazione e di conoscenza. Nella visione interiore si tratta in modo ancora più ampio che in quella esteriore di un processo di traduzione, così che il soggetto è essenzialmente compartecipe del formarsi, come immagine, di ciò che appare. L'immagine può arrivare solo secondo le sue misure e le sue possibilità. Tali visioni pertanto non sono mai semplici « fotografie » dell'aldilà, ma portano in sé anche le possibilità ed i limiti del soggetto che percepisce.

Ciò lo si può mostrare in tutte le grandi visioni dei santi; naturalmente vale anche per le visioni dei bambini di Fatima. Le immagini da essi delineate non sono affatto semplice espressione della loro fantasia, ma frutto di una reale percezione di origine superiore ed interiore, ma non sono neppure da immaginare come se per un attimo il velo dell'aldilà venisse tolto ed il cielo nella sua pura essenzialità apparisse, così come un giorno noi speriamo di vederlo nella definitiva unione con Dio. Le immagini sono piuttosto, per così dire, una sintesi dell'impulso proveniente dall'Alto e delle possibilità per questo disponibili del soggetto che percepisce, cioè dei bambini. Per questo motivo il linguaggio immaginifico di queste visioni è un linguaggio simbolico. Il Cardinal Sodano dice al riguardo: « ... non descrivono in senso fotografico i dettagli degli avvenimenti futuri, ma sintetizzano e condensano su un medesimo sfondo fatti che si distendono nel tempo in una successione e in una durata non precisate ». Questo addensamento di tempi e spazi in un'unica immagine è tipica per tali visioni, che per lo più possono essere decifrate solo a posteriori. Non ogni elemento visivo deve, al riguardo, avere un concreto senso storico. Conta la visione come insieme, e a partire dall'insieme delle immagini devono essere compresi i particolari. Quale sia il centro di un'immagine, si svela ultimamente a partire da ciò che è il centro della « profezia » cristiana in assoluto: il centro è là dove la visione diviene appello e guida verso la volontà di Dio.

Un tentativo di interpretazione del « segreto » di Fatima

La prima e la seconda parte del « segreto » di Fatima sono già state discusse così ampiamente dalla letteratura relativa, che non devono qui essere illustrate ancora una volta. Vorrei solo brevemente richiamare l'attenzione sul punto più significativo. I bambini hanno sperimentato per la durata di un terribile attimo una visione dell'inferno. Hanno veduto la caduta delle « anime dei poveri peccatori ». Ed ora viene loro detto perché sono stati esposti a questo istante: per « salvarle » — per mostrare una via di salvezza. Viene in mente la frase della prima lettera di Pietro: « meta della vostra fede è la salvezza delle anime » (1, 9). Come via a questo scopo viene indicato — in modo sorprendente per persone provenienti dall'ambito culturale anglosassone e tedesco —: la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Per capire questo può bastare qui una breve indicazione. « Cuore » significa nel linguaggio della Bibbia il centro dell'esistenza umana, la confluenza di ragione, volontà, temperamento e sensibilità, in cui la persona trova la sua unità ed il suo orientamento interiore. Il « cuore immacolato » è secondo Mt 5, 8 un cuore, che a partire da Dio è giunto ad una perfetta unità interiore e pertanto « vede Dio ». « Devozione » al Cuore Immacolato di Maria pertanto è avvicinarsi a questo atteggiamento del cuore, nel quale il fiat — « sia fatta la tua volontà » — diviene il centro informante di tutta quanta l'esistenza. Se qualcuno volesse obiettare che non dovremmo però frapporre un essere umano fra noi e Cristo, allora si dovrebbe ricordare che Paolo non ha timore di dire alle sue comunità: imitatemi (1 Cor 4, 16; Fil 3, 17; 1 Tess 1, 6; 2 Tess 3, 7.9). Nell'apostolo esse possono verificare concretamente che cosa significa seguire Cristo. Da chi però noi potremmo in ogni tempo imparare meglio se non dalla Madre del Signore?

Arriviamo così finalmente alla terza parte del « segreto » di Fatima qui per la prima volta pubblicato integralmente. Come emerge dalla documentazione precedente, l'interpretazione, che il Cardinale Sodano ha offerto nel suo testo del 13 maggio, è stata dapprima presentata personalmente a Suor Lucia.

Suor Lucia al riguardo ha innanzitutto osservato che ad essa era stata data la visione, ma non la sua interpretazione. L'interpretazione, diceva, non compete al veggente, ma alla Chiesa. Essa però dopo la lettura del testo ha detto che questa interpretazione corrispondeva a quanto essa aveva sperimentato e che essa da parte sua riconosceva questa interpretazione come corretta. In quanto segue quindi si potrà solo cercare di dare un fondamento in maniera approfondita a questa interpretazione a partire dai criteri finora sviluppati.

Come parola chiave della prima e della seconda parte del « segreto » abbiamo scoperto quella di « salvare le anime », così la parola chiave di questo « segreto » è il triplice grido: « Penitenza, Penitenza, Penitenza! ». Ci ritorna alla mente l'inizio del Vangelo: « paenitemini et credite evangelio » (Mc 1, 15).

Comprendere i segni del tempo significa: comprendere l'urgenza della penitenza - della conversione - della fede. Questa è la risposta giusta al momento storico, che è caratterizzato da grandi pericoli, i quali verranno delineati nelle immagini successive.


Mi permetto di inserire qui un ricordo personale; in un colloquio con me Suor Lucia mi ha detto che le appariva sempre più chiaramente come lo scopo di tutte quante le apparizioni sia stato quello di far crescere sempre più nella fede, nella speranza e nella carità — tutto il resto intendeva solo portare a questo.

Esaminiamo ora un poco più da vicino le singole immagini. L'angelo con la spada di fuoco a sinistra della Madre di Dio ricorda analoghe immagini dell'Apocalisse. Esso rappresenta la minaccia del giudizio, che incombe sul mondo. La prospettiva che il mondo potrebbe essere incenerito in un mare di fiamme, oggi non appare assolutamente più come pura fantasia: l'uomo stesso ha preparato con le sue invenzioni la spada di fuoco. La visione mostra poi la forza che si contrappone al potere della distruzione — lo splendore della Madre di Dio, e, proveniente in un certo modo da questo, l'appello alla penitenza.

In tal modo viene sottolineata l'importanza della libertà dell'uomo: il futuro non è affatto determinato in modo immutabile, e l'immagine, che i bambini videro, non è affatto un film anticipato del futuro, del quale nulla potrebbe più essere cambiato. Tutta quanta la visione avviene in realtà solo per richiamare sullo scenario la libertà e per volgerla in una direzione positiva. Il senso della visione non è quindi quello di mostrare un film sul futuro irrimediabilmente fissato. Il suo senso è esattamente il contrario, quello di mobilitare le forze del cambiamento in bene.

Perciò sono totalmente fuorvianti quelle spiegazioni fatalistiche del « segreto », che ad esempio dicono che l'attentatore del 13 maggio 1981 sarebbe stato in definitiva uno strumento del piano divino guidato dalla Provvidenza e che pertanto non avrebbe potuto agire liberamente, o altre idee simili che circolano. La visione parla piuttosto di pericoli e della via per salvarsi da essi.

Le frasi seguenti del testo mostrano ancora una volta molto chiaramente il carattere simbolico della visione: Dio rimane l'incommensurabile e la luce che supera ogni nostra visione. Le persone umane appaiono come in uno specchio. Dobbiamo tenere continuamente presente questa limitazione interna della visione, i cui confini vengono qui visivamente indicati. Il futuro si mostra solo « come in uno specchio, in maniera confusa » (cfr 1 Cor 13, 12). Prendiamo ora in considerazione le singole immagini, che seguono nel testo del « segreto ».

Il luogo dell'azione viene descritto con tre simboli: una ripida montagna, una grande città mezza in rovina e finalmente una grande croce di tronchi grezzi. Montagna e città simboleggiano il luogo della storia umana: la storia come faticosa ascesa verso l'alto, la storia come luogo dell'umana creatività e convivenza, ma allo stesso tempo come luogo delle distruzioni, nelle quali l'uomo annienta l'opera del suo proprio lavoro. La città può essere luogo di comunione e di progresso, ma anche luogo del pericolo e della minaccia più estrema. Sulla montagna sta la croce — meta e punto di orientamento della storia. Nella croce la distruzione è trasformata in salvezza; si erge come segno della miseria della storia e come promessa per essa.

Appaiono poi qui delle persone umane: il vescovo vestito di bianco (« abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre »), altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e finalmente uomini e donne di tutte le classi e gli strati sociali.

Il Papa sembra precedere gli altri, tremando e soffrendo per tutti gli orrori, che lo circondano. Non solo le case della città giacciono mezze in rovina — il suo cammino passa in mezzo ai cadaveri dei morti. La via della Chiesa viene così descritta come una Via Crucis, come un cammino in un tempo di violenza, di distruzioni e di persecuzioni.

Si può trovare raffigurata in questa immagine la storia di un intero secolo. Come i luoghi della terra sono sinteticamente raffigurati nelle due immagini della montagna e della città e sono orientati alla croce, così anche i tempi sono presentati in modo contratto: nella visione noi possiamo riconoscere il secolo trascorso come secolo dei martiri, come secolo delle sofferenze e delle persecuzioni della Chiesa, come il secolo delle guerre mondiali e di molte guerre locali, che ne hanno riempito tutta la seconda metà ed hanno fatto sperimentare nuove forme di crudeltà. Nello « specchio » di questa visione vediamo passare i testimoni della fede di decenni. Al riguardo sembra opportuno menzionare una frase della lettera che Suor Lucia scrisse al Santo Padre il 12 maggio 1982: « la terza parte del “segreto” si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se no (la Russia) spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte” ».

Nella Via Crucis di un secolo la figura del Papa ha un ruolo speciale. Nel suo faticoso salire sulla montagna possiamo senza dubbio trovare richiamati insieme diversi Papi, che cominciando da Pio X fino all'attuale Papa hanno condiviso le sofferenze di questo secolo e si sono sforzati di procedere in mezzo ad esse sulla via che porta alla croce. Nella visione anche il Papa viene ucciso sulla strada dei martiri. Non doveva il Santo Padre, quando dopo l'attentato del 13 maggio 1981 si fece portare il testo della terza parte del « segreto », riconoscervi il suo proprio destino? Egli era stato molto vicino alla frontiera della morte ed egli stesso ha spiegato la sua salvezza con le seguenti parole: « ... fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte » (13 maggio 1994). Che qui una « mano materna » abbia deviato la pallottola mortale, mostra solo ancora una volta che non esiste un destino immutabile, che fede e preghiera sono potenze, che possono influire nella storia e che alla fine la preghiera è più forte dei proiettili, la fede più potente delle divisioni.

La conclusione del « segreto » ricorda immagini, che Lucia può avere visto in libri di pietà ed il cui contenuto deriva da antiche intuizioni di fede. È una visione consolante, che vuole rendere permeabile alla potenza risanatrice di Dio una storia di sangue e lacrime. Angeli raccolgono sotto i bracci della croce il sangue dei martiri e irrigano così le anime, che si avvicinano a Dio. Il sangue di Cristo ed il sangue dei martiri vengono qui considerati insieme: il sangue dei martiri scorre dalle braccia della croce. Il loro martirio si compie in solidarietà con la passione di Cristo, diventa una cosa sola con essa. Essi completano a favore del corpo di Cristo, ciò che ancora manca alle sue sofferenze (cfr Col 1, 24). La loro vita è divenuta essa stessa eucaristia, inserita nel mistero del chicco di grano che muore e diventa fecondo. Il sangue dei martiri è seme di cristiani, ha detto Tertulliano. Come dalla morte di Cristo, dal suo costato aperto, è nata la Chiesa, così la morte dei testimoni è feconda per la vita futura della Chiesa. La visione della terza parte del « segreto », così angustiante al suo inizio, si conclude quindi con una immagine di speranza: nessuna sofferenza è vana, e proprio una Chiesa sofferente, una Chiesa dei martiri, diviene segno indicatore per la ricerca di Dio da parte dell'uomo. Nelle amorose mani di Dio non sono accolti soltanto i sofferenti come Lazzaro, che trovò la grande consolazione e misteriosamente rappresenta Cristo, che volle divenire per noi il povero Lazzaro; vi è qualcosa di più: dalla sofferenza dei testimoni deriva una forza di purificazione e di rinnovamento, perché essa è attualizzazione della stessa sofferenza di Cristo e trasmette nel presente la sua efficacia salvifica.

Siamo così giunti ad un'ultima domanda: Che cosa significa nel suo insieme (nelle sue tre parti) il «segreto » di Fatima? Che cosa dice a noi? Innanzitutto dobbiamo affermare con il Cardinale Sodano: « ... le vicende a cui fa riferimento la terza parte del « segreto » di Fatima sembrano ormai appartenere al passato ». Nella misura in cui singoli eventi vengono rappresentati, essi ormai appartengono al passato. Chi aveva atteso eccitanti rivelazioni apocalittiche sulla fine del mondo o sul futuro corso della storia, deve rimanere deluso.

Fatima non ci offre tali appagamenti della nostra curiosità, come del resto in generale la fede cristiana non vuole e non può essere pastura per la nostra curiosità. Ciò che rimane l'abbiamo visto subito all'inizio delle nostre riflessioni sul testo del «segreto »: l'esortazione alla preghiera come via per la « salvezza delle anime » e nello stesso senso il richiamo alla penitenza e alla conversione.

Vorrei alla fine riprendere ancora un'altra parola chiave del « segreto » divenuta giustamente famosa: « il Mio Cuore Immacolato trionferà ». Che cosa significa? Il Cuore aperto a Dio, purificato dalla contemplazione di Dio è più forte dei fucili e delle armi di ogni specie. Il fiat di Maria, la parola del suo cuore, ha cambiato la storia del mondo, perché essa ha introdotto in questo mondo il Salvatore — perché grazie a questo « Sì » Dio poteva diventare uomo nel nostro spazio e tale ora rimane per sempre. Il maligno ha potere in questo mondo, lo vediamo e lo sperimentiamo continuamente; egli ha potere, perché la nostra libertà si lascia continuamente distogliere da Dio. Ma da quando Dio stesso ha un cuore umano ed ha così rivolto la libertà dell'uomo verso il bene, verso Dio, la libertà per il male non ha più l'ultima parola. Da allora vale la parola: « Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo » (Gv 16, 33). Il messaggio di Fatima ci invita ad affidarci a questa promessa.
Joseph Card. Ratzinger
Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede



PADRE JERZY POPIEŁUSZKO, SIMBOLO DELLA POLONIA E DELL’EUROPA - Il redattore di “Niedziela” parla del prete degli operai ucciso dal regime comunista - di Antonio Gaspari
ROMA, martedì, 4 maggio 2010 (ZENIT.org).- E’ stato il sacerdote degli operai e del sindacato. Si è battuto coraggiosamente, praticando la carità del Vangelo, per difendere i diritti umani contro un regime dispotico, violento e assassino.
Le sue prediche accendevano i cuori e pur essendo mite e buono, faceva paura al regime.
Per metterlo a tacere, fu prima minacciato, poi coinvolto in un incidente stradale da cui uscì miracolosamente illeso, mentre il 19 ottobre 1984, venne rapito e ucciso da parte di tre funzionari del ministero dell'interno.
Il suo corpo fu ritrovato il 30 ottobre 1984 nelle acque della Vistola vicino a Włocławek.
Stiamo parlando di padre Jerzy Popiełuszko, ucciso a soli 37 anni dal regime comunista. Ai suoi funerali parteciparono più di 400.000 persone. Diciassette milioni di persone hanno visitato la sua tomba, ogni 19 ottobre si tiene una veglia di 24 ore per ricordarlo.
Eroe nazionale polacco è stato riconosciuto dalla Chiesa cattolica come martire e verrà beatificato a Varsavia, domenica 6 giugno 2010, nella piazza intitolata al Maresciallo Piłsudski.
In merito alla sua storia e alle vicende della Polonia negli anni Ottanta il regista Radaf Wieczynski ha diretto un film “Popiełuszko” che è ancora in distribuzione in alcune sale italiane.
In occasione della beatificazione di padre Jerzy Popiełuszko, il settimanale cattolico “Niedziela” ha preparato un CD (in polacco) intitolato “Padre Jerzy Popiłuszko. Martire per la fede e per la Patria”. Un CD che racconta in forma teatrale la vita e l’opera del cappellano di “Solidarność”, diretto da don Ireneusz Skubiś Skubiś, redattore capo di “Niedziela”, e Ksawery Sokołowski, con Marian Florek (attore) in cooperazione con Anna Przewoźnik dallo Studio della Radio di “Niedziela”.
Il CD, che dura circa 30 minuti, può essere usato nella catechesi a scuola o negli incontri in parrocchia e contiene anche la canzone di Marcin Styczeń dedicata a padre Popiełuszko e intitolata: “Era pronto per tutto”.
Per conoscere la natura profonda della fede cattolica dei polacchi e le implicazioni di martiri del nostro tempo come padre Popiełuszko, ZENIT ha intervistato don Mariusz Frukacz, sacerdote dell’arcidiocesi di Czestochowa, giornalista e redattore del settimanale cattolico “Niedziela” nonché corrispondente di KAI (Agenzia Cattolica di Informazioni).
Chi è stato padre Jerzy Popiełuszko? Quali erano le sue virtù eroiche e perchè verrà beatificato?
Frukacz: Padre Jerzy Popiełuszko ucciso 1984 è stato vicario nella parrocchia di San Stanislao Kostka a Varsavia. Negli anni 80 del XX secolo è stato il pastore dei lavoratori e il cappellano di “Solidarność”. Nella sua vita ma anche nel suo insegnamento, soprattutto durante le Messe per la Patria, ha rappresentato la fedeltà totale al Vangelo di Cristo, all’insegnamento della Chiesa, in modo particolare nelle sue omelie ricordava i pensieri e le idee del Servo di Dio cardinale Stefan Wyszyński, “Primate del Millennio” e maestro di Giovanni Paolo II.
Padre Popiełuszko ha promosso il rispetto dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori e della dignità delle persone umane, tutto alla luce del Vangelo. Per la Polonia e per il mondo intero ha praticato e testimoniato le virtù del coraggio, della fedeltà a Dio, alla Croce di Cristo e al Vangelo, amore per Dio e per la Patria. Ha rappresentato il patriottismo in senso cristiano, come virtù culturale e sociale. La sua beatificazione è un esempio per i sacerdoti, alla luce della sua totale fedeltà a Cristo. Inoltre rappresenta il simbolo delle vittime del regime comunista, così come San Massimiliano Kolbe è stato il simbolo delle vittime dell’ideologia nazista. Nazismo e comunismo hanno perseguitato il popolo e la fede del popolo polacco. Per questo motivo nei tempi odierni abbiamo bisogno di testimoni della fede come Popiełuszko.
Padre Popiełuszko era il cappellano di Solidarność. Come si distingue la sua opera di sacerdote da quella di attivista politico?
Frukacz: Padre Popiełuszko era un sacerdote che portava sempre con sé le parole prese dal profeta Isaia e dal Vangelo di Luca: “mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati”. Questa frase si trova sul santino stampato in occasione della sua ordinazione sacerdotale.
Come cappellano di “Solidarność” è stato sempre con i lavoratori durante gli scioperi, aiutava le famiglie dei lavoratori perseguitati e imprigionati. Padre Popiełuszko non era un attivista politico nel senso comune della parola, ma ricordava sempre che l’azione politica deve servire al bene comune, deve riconoscere la dignità delle persone umane e rispettare i diritti umani. In questo senso possiamo dire che padre Popiełuszko volendo realizzare la sua vocazione sacerdotale di servire l’umanità ha partecipato intensamente alla vita sociale. La finalità delle sue azioni non era di carattere politico riduttivo o particolare.
Come hanno fatto Solidarność, il Pontefice Giovanni Paolo II e sacerdoti come Popiełuszko a sconfiggere il potente regime sovietico?
Frukacz: “Solidarność” non è stato solo un sindacato dei lavoratori. Si è costituito fin dal principio come un movimento nazionale di 10 mila persone. E' stato il primo movimento in cui la Chiesa cattolica e il mondo degli operai si sono uniti insieme. Dobbiamo ricordare che per l’ideologia comunista l’operaio è la persona che non crede e nel nome dell’ideologia materialista deve stare lontano dalla fede e dalla Chiesa cattolica. ‘Solidarność’ già nel momento della sua nascita avvenuta nel 1980, ha rappresentato il contrario della filosofia marxista e dell’ideologia comunista. Chiesa cattolica e operai erano coerentemente e solidamente insieme.
Per comprendere meglio le ragioni della sconfitta del potente regime comunista e sovietico dobbiamo guardare al grande e importante ruolo svolto da Giovanni Paolo II. Tutto ebbe inizio nel primo viaggio di Giovanni Paolo II, avvenuto nel 1979. E’ stato il primo viaggio del Papa slavo in un paese dell’Europa centrale ed orientale. Profetiche le invocazioni e le preghiere che Giovanni Paolo II pronunciò nella Piazza della Vittoria (oggi Piazza di Piłsudski) “che lo Spirito Santo scenda su questa terra e la faccia cambiare”. L’anno dopo è nata “Solidarność”.
Bisogna anche ricordare la VI Giornata Mondiale della Gioventù nell’agosto del 1991 a Jasna Góra e a Czestochowa. E' stata la prima Giornata della Gioventù con la partecipazione dei giovani dell’Europa Orientale. Il Santo Padre ha celebrato la Santa Messa il 15 agosto e tre giorni dopo il dispotico regime sovietico è caduto.
Personalmente penso anche che dobbiamo guardare al ruolo del cardinale Stefan Wyszyński, Primate della Polonia, imprigionato dal regime comunista negli anni 1953-56.
E’ stato il cardinale Wyszyński ad organizzare i “Voti di Jasna Góra” nel 1956, la Novena in occasione dei mille anni del Cristianesimo in Polonia (1957-1966). Erano anni durissimi, in cui sembrava impossibile sopravvivere al dominio sovietico. Eppure Wyszyński riuscì ad organizzare e garantire l’attività religiosa e sociale dei fedeli in Polonia. E’ stato lo stesso cardinale Wyszyński a rafforzare e diffondere la cosiddetta “Teologia della Nazione” per rafforzare l’identità cattolica dei polacchi.
Quanto è contata la fede cattolica del popolo polacco nella sconfitta del comunismo?
Frukacz: Come ho già spiegato per il popolo polacco la fede ha la sua importanza anche nella vita sociale. Non è una cosa privata. La fede ha una sua dimensione sociale e nazionale. Per noi Maria Madonna Nera di Czestochowa è la Regina della Polonia. Per noi la fede è collegata con il vero patriottismo, cioè l'amore per Dio e per la Patria. Nelle bandiere polacche tante volte si può vedere la frase “Dio, Onore, Patria”. Penso che questa identità e questa pratica religiosa abbiano alimentato la forza spirituale che ha sconfitto il comunismo. Vorrei ricordare che il regime marxista-leninista è stato contro Dio (ateo) e contro la Nazione (internazionalismo comunista). Dobbiamo anche ricordare che anche Gesù amava la sua Patria e piangeva sulle sorti di Gerusalemme.
In Italia c’è un film che racconta la storia di padre Popiełuszko. Lo ha visto? Può fornirci qualche ragione per convincere le persone ad andarlo a vedere?
Frukacz: Giovanni Paolo II ha detto che grazie al sangue versato da padre Popiełuszko, noi polacchi siamo in Europa. Il film su padre Popiełuszko ricorda non soltanto la vita del sacerdote martire, ma anche i valori cristiani e sociali di cui abbiamo bisogno non soltanto in Polonia ma soprattutto in Europa. Padre Popiełuszko è la persona che si è inserita nella storia della Polonia e dell’Europa. Penso che questo film rappresenti la figura di padre Popiełuszko così come era, in maniera affascinante e vera.



AUGURI DI BENEDETTO XVI AL RABBINO ELIO TOAFF PER I SUOI 95 ANNI
Relazioni fraterne tra cattolici ed ebrei
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 4 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il messaggio autografo che Benedetto XVI ha inviato al rabbino emerito di Roma Elio Toaff, in occasione del suo novantacinquesimo genetliaco. Il testo è stato letto da monsignor Georg Gänswein, segretario particolare del Papa, durante la solenne cerimonia tenuta a Roma, lunedì 3 maggio, in occasione della serata inaugurale della Fondazione Elio Toaff per la cultura ebraica.
* * *
All'illustrissimo Signore Rabbino emerito Rav Elio Toaff
Il Signore è il mio pastore non manco di nulla Anche se vado per una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me (Salmo 23)
Nella felice ricorrenza del Suo 95° genetliaco desidero unirmi a quanti si rallegrano con Lei per i doni che la misericordia dell'Altissimo Le ha elargito in un'esistenza lunga e feconda di bene.
Penso, con le espressioni del Salmo, a come il Signore abbia rinfrancato l'anima Sua, guidandoLa per il giusto cammino, anche nella valle più oscura, nell'ora della persecuzione e dello sterminio del popolo ebraico.
Il Signore, nei suoi misteriosi disegni, ha voluto che Ella sperimentasse in maniera singolare la sua salvezza, divenendo un segno di speranza per la rinascita di molti Suoi fratelli.
Mi è specialmente caro ricordare il Suo impegno per la promozione di relazioni fraterne tra cattolici ed ebrei, e la sincera amicizia che La legò al mio venerato predecessore, il Papa Giovanni Paolo ii.
Il mio augurio è che si compiano per Lei le parole conclusive dello stesso Salmo: «Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni». Shalom!
Dal Vaticano, 3 maggio 2010


5 maggio, Festa del Beato Nunzio Sulprizio - Allocuzione di Papa Paolo VI - Nota di Massimo Introvigne
Oggi 5 maggio festeggiamo il Beato Nunzio Sulprizio (1817-1836), un giovane operaio nato in Abruzzo e morto a Napoli dopo una gravissima malattia sopportata eroicamente. Se mi è concessa una nota autobiografica, ricordo di averne sentito parlare da bambino, in occasione della sua beatificazione, dalle suore da cui andavo a scuola. Ho quindi rintracciato il discorso veramente notevole di Papa Paolo VI per la beatificazione (1° dicembre 1963), da cui emerge che la gioventù e la vita operaia possono essere vie alla santità. Non sono però dei valori per sé, come vorrebbero un certo giovanilismo e un certo operaismo, ma solo se sono accompagnati dalla religione.

***

Oggi si conclude felicemente una causa di beatificazione, che si protrae da oltre un secolo, ma che la fama di santità, dalla quale il nuovo Beato, Nunzio Sulprizio, in vita ed in morte fu subito circondato, aveva già positivamente risolto.

Nunzio Sulprizio chiudeva santamente la sua vita mortale a Napoli, il 5 maggio 1836, a soli diciannove anni. Fin dal luglio 1859 Pio IX lo dichiarava venerabile emanando il Decreto, che introduceva il processo ora giunto a buon termine, mentre nel 1891 Leone XIII riconosceva eroiche le virtù del giovane abruzzese e ne associava la figura a quella di San Luigi Gonzaga, nella memoria del terzo centenario della morte di questo Santo, per la devozione di Nunzio Sulprizio verso di lui, e per la breve età, in cui si compi per entrambi il ciclo degli anni terreni: diversissimi nell’aspetto storico e sociale, i due giovani recano alla Chiesa la gioia e la gloria d’una somigliante virtù, quella della santità giovanile.

Gode di questa proclamazione la terra d’origine del nuovo Beato, l’Abruzzo, terra feconda di Santi, illustre e venerabile per la pietà tradizionale del suo popolo, pronto ad esprimere in canti, in riti, in costumi l’emozione commossa ed austera della sua anima religiosa.

Gode specialmente la diocesi, in cui Nunzio Sulprizio ebbe i natali, quella di Penne-Pescara, che siamo lieti di vedere qui degnamente rappresentata dal suo zelante Pastore, circondato dalle Autorità, dal Clero, dalle associazioni di quella stessa diocesi e da alcune migliaia di fedeli, di là venuti per acclamare con fierezza e con compiacenza il nuovo fratello celeste. Gode parimente Napoli, dove il Beato terminò il suo breve pellegrinaggio terreno, e dove la festa del Beato Vincenzo Romano, che abbiamo testé elevato all’onore degli altari, si unisce a quella di questo nuovo suo «figlio d’acquisizione». Salutiamo cordialmente questi cari Abruzzesi e Napoletani, e facciamo voti che la loro fortunata naturale parentela con così degni rappresentanti delle loro regioni si traduca in parentela spirituale, nella imitazione delle virtù cristiane di quelli.

Questo Nostro augurio Ci obbliga ad accennare agli aspetti caratteristici della vita che la beatificazione, oggi decretata, offre al culto e alla imitazione della Chiesa. E, come si sa, tali aspetti sono principalmente due; quello offerto dalla corta durata della vita del Beato Nunzio Sulprizio, e quello che sembra delineato dal fatto che egli fu, per alcuni tristi e duri anni della sua adolescenza, operaio, un povero e semplice apprendista in una squallida officina di fabbro ferraio. Giovane ed operaio, ecco il binomio che sembra definire il nuovo Beato; ed è binomio di tale splendore e di tale importanza, che basta per riempire d’interesse la breve e scolorita biografia di lui.

Nulla diciamo ora di questa biografia, anche perché pensiamo che per la sua brevità e per la sua semplicità, se già non fosse da tutti conosciuta, potrà esserlo assai facilmente. Ci preme invece, con questo sguardo complessivo e fugace, assicurarci che quelle due prerogative di Nunzio Sulprizio - d’essere giovane e d’essere operaio - sono associabili alla santità. Può un giovane essere Santo? Può un operaio essere Santo? Anzi più interessante ancora sarà, se riusciremo a scoprire che questo caro nostro eletto non solo fu degno di beatificazione quantunque giovane e quantunque operaio, ma proprio perché giovane e perché operaio.

Qui bisogna, una volta ancora, ricordare quali siano oggi le nostre condizioni di spirito, quando presumiamo (e Dio voglia che sia abituale a noi questa non riprovevole presunzione! ) conoscere, cioè misurare, quei tipi umani singolari, anzi eccezionali, che chiamiamo Beati o Santi. Se bene osserviamo, quando studiamo con l’interesse della psicologia moderna la loro vita, noi inconsciamente studiamo la nostra. I Beati, i Santi, gli Eroi, i Perfetti oggi ci servono di specchio per conoscere noi stessi. Il loro culto ci educa ad uno studio su l’uomo, sulla storia, sulla coscienza umana di tale efficacia e penetrazione che basta di per sé a raccomandarlo come provvido e sapiente. Lo studio della santità vissuta ci porta alla scoperta delle manifestazioni umane più alte e più caratteristiche, e perciò più degne di attenzione e di assimilazione. Ed è un studio meraviglioso, perché, da un lato, riscontra negli eletti proposti alla nostra venerazione e alla nostra imitazione una fondamentale identità: la natura umana. Si isti et istae, cur non ego? viene spontaneo di esclamare con S. Agostino; e tale studio mette in evidenza un unico principio di perfezione, il quale può essere a tutti comune, la grazia, che orienta la nostra vita verso un unico archetipo, Gesù Cristo, come c’insegna S. Paolo, là dove dice che i Santi, i chiamati da Dio alla salvezza, debbono «essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rom. 8, 29). E da un altro lato lo studio agiografico ci mostra che tutti i Santi sono differenti gli uni dagli altri. Ciascuno è distinto e ciascuno ha una sua inconfondibile fisionomia; ognuno dimostra uno sviluppo proprio, in un certo senso libero e originale, della propria personalità; è ancora S. Paolo, che ce lo ricorda: «Una stella differisce per il diverso splendore da un’altra stella» (2 Cor. 15, 41).

Ed ecco allora perché noi oggi siamo tanto proclivi a dare all’eletto un nome che a noi lo avvicini e dagli altri santi lo distingua; una qualifica che lo faccia entrare nelle nostre categorie sociali o psicologiche, ed insieme lo separi da altre forme della vita umana. Vogliamo trovare nei Santi dei colleghi, diciamo così, qualificati; una santità astratta e generica oggi meno ci attrae; la vogliamo definire con termini concreti, nostri, e inconfondibili.

Perciò è sembrato facile e felice ai biografi di Nunzio Sulprizio chiamarlo giovane e chiamarlo operaio. Questa nomenclatura gli assicura due strette parentele con la vita del nostro tempo, nella quale il giovane ed il lavoratore occupano posizioni rappresentative ed operative di prima importanza.

E l’elogio del nuovo Beato potrebbe fermarsi qui; ed avrebbe titoli indiscutibili e stupendi per essere ascoltato da voi, giovani, da voi, operai.

Nunzio Sulprizio dirà a voi, giovani, come la vostra età è stata da lui illuminata e santificata; egli è una gloria vostra. Egli vi dirà come la gioventù non dev’essere considerata l’età delle libere passioni, delle inevitabili cadute, delle crisi invincibili, dei pessimismi decadenti, degli egoismi dannosi; egli vi dirà piuttosto come l’essere giovani è una grazia, è una fortuna. S. Filippo ripeteva: Beati voi, giovani, che avete tempo di far bene. È una grazia, è una fortuna essere innocenti, essere puri, essere lieti, essere forti, essere pieni di ardore e di vita, come appunto sono e dovrebbero essere gli uomini che ricevono il dono dell’esistenza fresca e nuova, rigenerata e santificata dal battesimo; ricevono un tesoro che non va sciupato follemente, ma conosciuto, custodito, educato, sviluppato, e rivolto a produrre frutti vitali, benefici per sé e per gli altri. Egli vi dirà che nessuna età come la vostra, giovani, è idonea ai grandi ideali, ai generosi eroismi, alle coerenti esigenze di pensiero e di azione. Egli v’insegnerà come voi, giovani, potete rigenerare in voi stessi il mondo in cui la Provvidenza vi ha chiamato a vivere, e come tocca a voi, per primi, consacrarvi alla salvezza d’una società che ha appunto bisogno di animi forti e impavidi. V’insegnerà la suprema parola di Cristo, essere il sacrificio, la croce, la salvezza nostra e del mondo. I giovani comprendono. questa suprema vocazione.

Ed a voi, lavoratori, questo povero e sofferente vostro collega porta un messaggio di molti capitoli. Dice il messaggio di Nunzio Sulprizio beatificato, innanzi tutto, come la Chiesa pensi a voi, come abbia di voi stima e fiducia, come veda nella vostra condizione la dignità dell’uomo e del cristiano, come il peso stesso della vostra fatica sia titolo per la vostra promozione sociale, e per la vostra grandezza morale. Dice ancora il messaggio di Nunzio Sulprizio come il lavoro abbia sofferto, e come tuttora abbia bisogno di protezione, di assistenza e di aiuto per essere libero ed umano, e per consentire alla vita la sua legittima espansione. Vi dirà ancora come il lavoro non possa separarsi da quel suo grande complemento, che è la religione; la religione che dà la luce, cioè le ragioni supreme della vita e che determina perciò la scala dei veri valori della vita stessa; è la religione che dà il respiro, cioè l’interiorità, la purificazione, la nobiltà, il conforto alla fatica fisica e all’attività professionale; è la religione, che umanizza la tecnica, l’economia, la socialità; è la religione, che fa grandi e buoni e giusti e liberi e santi gli uomini laboriosi. E allora Nunzio Sulprizio vi dirà come sia ingiusto privare la vita del lavoratore della sua superiore nutrizione ed espressione spirituale, ch’è la preghiera; vi dirà come nulla sia più nocivo per il vostro spirito, per la vostra vita familiare e sociale che ignorare Cristo, nulla di più indebito e pericoloso e fatale che dichiararsi a Lui, il grande Amico, indifferenti o ostili; e come nessuno infine sia chiamato ad essergli vicino, ad accogliere il suo Vangelo e a godere della sua salvezza più d’un lavoratore dal cuore forte e onesto.

Potrebbe, dicevamo, fermarsi la nostra lode dl nuovo Beato, fermarsi a questo duplice riconoscimento, che vede associata la santità al fatto ch’egli era giovane e fu lavoratore. I suoi biografi si sono infatti, per lo più, accontentati di questa bella apologia.

Ci sia concesso di notare, con coloro che hanno studiato più addentro la vita di questo umile servo di Dio, come tale apologia sia suscettibile di approfondimenti, i quali ci porterebbero a riconoscere in Nunzio Sulprizio aspetti nuovi, appena avvertiti nelle narrazioni ordinarie della sua breve esistenza, ma forse più penetranti, più misteriosi e più reali; anche perché qualcuno potrebbe osservare che la qualifica di giovane conviene a Nunzio Sulprizio piuttosto per la breve durata della sua vita, che per lo spirito proprio d’un giovane; e quella di operaio non presenta che elementi parziali della psicologia e della problematica del lavoratore moderno.

E non sarà difficile scoprire nel Beato, che oggi la Chiesa propone alla nostra considerazione, temi fecondi e profondi di studio e di simpatia. La sua infanzia, ad esempio, orfana e povera, segnata da tanta tristezza, non ci invita alla meditazione immensa, conturbante per chi non è della scuola di Cristo, sul mistero del dolore innocente? e come da un’infanzia, sulla quale dev’essersi accumulato il senso pesante della solitudine, della miseria, della brutalità, non è scaturita, come di solito avviene, una psicologia malata e ribelle, un’adolescenza insolente e corrotta? come mai tutta questa vita giovanile infelice e mancata fiorisce fin dai primi anni in innocente, paziente e sorridente bontà? Poi v’è il problema fondamentale della sua religiosità: donde una pietà così viva, così sicura, così perseverante, così personale? basta a spiegarla quel po’ d’educazione religiosa che poteva dare a quel tempo una parrocchia abruzzese perduta sui monti? o vi è una religiosità di popolo, connaturata ed inconscia, che in Nunzio Sulprizio si manifesta con ingenua pienezza? ovvero fu grande maestra l’umile nonna paesana, ch’ebbe cura per alcun tempo dell’orfano e senza forse saperlo svelò a quell’animo sofferente e sensibile le prime note del divino colloquio? Resta davvero da esaminare la formazione religiosa del giovane illetterato; e può darsi che l’esame ci porti a riconoscere la ricchezza spirituale della tradizione religiosa locale, ch’è poi quella di gran parte della gente italiana, tradizione tanto degna di rispetto, anche se talora manifestata in forme ora discutibili di culto popolare. E può darsi ancora, e sarà la scoperta migliore, che ci capiti di avvertire l’azione del divino Maestro invisibile, che, come in molte altre vite di Santi s’incontra, fa lui dell’anima pura e iniziata dal dolore al raccoglimento l’alunna privilegiata, che non dai libri, non dalla voce di maestro esteriore, ma da certa nascente scienza interiore impara le verità della fede ed i misteri del regno di Dio. Cosi vi sarà il problema della capacità di questo giovanetto malato e infelice a capire oltre il proprio bisogno quello degli altri, oltre il proprio dolore il dolore altrui.

La pazienza, la mansuetudine, la carità premurosa e servizievole di questo adolescente incurabile e zoppicante si possono, sì, narrare e descrivere; la comparsa d’ un Colonnello dal cuore d’ oro fa grande figura nella sua breve storia; ma, umanamente parlando, quella bontà resta inesplicabile; essa ci avverte cioè che anche qui siamo davanti al segreto dell’ ottimo Nunzio, il segreto che appunto noi cercavamo, quello della sua santità.

Così che, se la glorificazione, che oggi celebriamo di questa singolare virtù, davvero ci appare meritata e a noi stessi esemplare e benefica, sarà bene fare amicizia con questo caro Beato, e pensare umilmente come dobbiamo avvicinare la sua celeste conversazione e come possiamo seguire anche noi il suo terrestre itinerario.

Con questi voti, invocando l’intercessione di Nunzio Sulprizio e a lui tributando l’omaggio della Nostra devozione, tutti, venerati Fratelli e diletti Figli, di cuore vi benediciamo.


Il Parlamento di Copenhagen - dice sì alle adozioni per coppie gay - Libero-news.it 04/05/2010
Con 60 voti a favore e 54 contro, il Parlamento danese approva la legge che consente agli omosessuali di adottare dei bambini…
Il voto è stato incerto fino all'ultimo, quando con 60 voti a favore e 54 contrari, il parlamento danese ha approvato la legge sulle adozioni per coppie gay. Gli omosessuali che hanno registrato un patto d'unione potranno adottare dei figli.
La proposta, inizialmente respinta, è passata grazie all'alleanza tra un parlamentare indipendente e alcuni deputati «dissidenti» del Partito Liberale. L’esito del voto rappresenta quindi una sconfitta per il governo guidato dal liberale Lars Lokke Rasmussen, che si è trovato contro ben cinque esponenti del proprio partito, decisivi nel dar via libera alla legge. Uno di questi, Karsten Lauritzen, ha spiegato che «l'unico modo per dire no alla discriminazione era quello di votare a favore. Non posso accettare che la legge escluda a priori qualcuno da un diritto a causa della razza, del colore, della religione o dell'orientamento sessuale».
In Danimarca esiste già la possibilità per i cittadini non coniugati di ottenere adozioni indipendentemente dall'orientamento sessuale, mentre alle coppie omosessuali è consentita l'adozione di eventuali figli avuti dai due partner durante le relazioni precedenti.


La meditazione sulla morte nelle rime spirituali di Michelangelo - In sereno abbandono tra braccia sicure - Il 3 maggio si è tenuta all'Università Cattolica del Sacro Cuore una giornata di studi dedicata a Claudio Scarpati. Nell'occasione - che ha visto anche la presentazione di un volume in suo onore (Studi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pagine 1158, euro 65) - l'italianista ha tenuto una lezione della quale riportiamo alcuni stralci. - di Claudio Scarpati - L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010
La poesia di Michelangelo rappresenta, nel medio Cinquecento, un incrocio di voci provenienti dall'intera tradizione lirica, dove si sovrappongono l'eredità dantesca e petrarchesca, le esperienze del Quattrocento toscano, lo stile elevato e lo stile comico, financo burlesco, con un'estensione che va dalla retorica codificata da Bembo fino alla trascrizione del parlato.
Le rime religiose o spirituali del Buonarroti si collocano per la quasi totalità nell'ultimo quindicennio della sua attività poetica, tra il 1540 e il 1555, tra la conclusione del Giudizio universale e le ultime Pietà: non sono rime d'occasione, ma rappresentano la meditazione della sua età matura, in certo modo sono il grande bilancio di una carriera vitale d'eccezione.
Sotto il velame delle formule penitenziali che possono ingenerare nel lettore postumo un senso di sazietà, è la grande questione che riaffiora: se il tempo della vita lo condusse così fortemente in prossimità del divino, che cosa sarà l'ultimo svelamento? E questa rivelazione sarà rottura o completamento? Di fronte all'eccedenza del vero, cui l'uomo aspira, le cose del mondo sono ingannevoli e dunque il culto della bellezza deve essere rigettato; l'"affettüosa fantasia" del sonetto al Vasari del 1554 (285), l'immaginazione carica di appassionata ricerca che ha dominato l'artista, risulta, allo sguardo rivolto alle cose ultime, carica di errore: "Giunto è già il corso della vita mia/ con tempestoso mar, per fragil barca, / al comun porto, ov'a render si varca/ conto e ragion d'ogni opra trista e pia./ Onde l'affettüosa fantasia/ che l'arte mi fece idol e monarca, / conosco or ben com'era d'error carca, / e quel ch'a mal suo grado ogn'uom desia./ Gli amorosi pensier, già vani e lieti, /che fien or, s'a duo morti m'avicino/ D'una so 'l certo, e l'altra mi minaccia./ Né pinger né scolpir fia più che quieti/ l'anima, volta a quell'amor divino/ ch'aperse, a prender noi 'n croce le braccia". (285).
Le "due morti" rinviano alla "seconda morte" ricordata nel secondo e nel ventesimo capitolo dell'Apocalisse. L'"affettüosa fantasia" è l'immaginazione in quanto legata alle passioni vitali: tema platonizzante, ficiniano, come spiega Lina Bolzoni in un saggio di questa miscellanea. D'altra parte, che la fantasia fosse ingannatrice, lontana dal vero, era luogo comune nel medio Cinquecento e Michelangelo riconosce che l'arte aveva fatto sì che l'immaginazione divenisse per lui oggetto di culto esclusivo, capace di esercitare su di lui un dominio assoluto ("L'affettüosa fantasia / che l'arte mi fece idolo e monarca"). Ma questa fantasia era solo carica di errore? I pensieri d'amore svaniscono in vicinanza della morte e tuttavia essi sono ricordati come "vani" e nel contempo "lieti". Non erano stati quelli anche pensieri elevanti, che lo avevano "fatto salire sopra se stesso" (153), che lo avevano sollevato dalla "cruda scorza" della materia (152)?
Si profila qui un nodo di grande rilievo che riguarda la filosofia e l'antropologia dell'umanesimo rinascimentale. Non è mancato chi ha letto nella meditazione religiosa dell'ultimo Michelangelo un ripiegamento, quasi una sconfessione dell'impresa che aveva dominato la sua vita d'artista: quella cioè di trascrivere con un linguaggio classico il mondo figurativo del testamento antico e del nuovo; di celebrare la dignità somma del corpo umano rileggendola alla luce di una intensità e gravità finora sconosciute. L'ultimo Michelangelo testimonierebbe il fallimento di quel progetto, la resa di fronte all'impossibilità di collegare due mondi, quasi rinuncia alla centralità dell'uomo che la civiltà umanistica aveva proposto.
A illuminare questo nodo ci vengono incontro le prime pagine di un non dimenticabile scritto di Erwin Panofsky, La storia dell'arte come disciplina umanistica; uno scritto del 1940 che merita ancora considerazione. Lì Panofsky osservava che l'umanesimo - quello di Petrarca, Ficino, di Pico, di Erasmo - è un atteggiamento fondato sulla rivendicazione dei valori umani (la razionalità, la libertà) e insieme sull'accettazione dei suoi limiti (la fragilità, la fallacia). Michelangelo è figlio dell'umanesimo, ha percorso tutta l'estensione di ciò che è esperibile dalla mente umana, di ciò cui può dar vita "la mano che comanda all'intelletto" (151). Ora si trova davanti a un confine: l'opera della sua mano sta per finire.
"Se i giudizi temerari e sciocchi/ al senso tiran la beltà, che muove/ e porta al cielo ogni intelletto sano, / dal mortal al divin non vanno gli occhi/ infermi, e fermi sempre pur là dove/ scender senza grazia è pensier vano". È il sonetto 164, risalente ai primi anni quaranta del sedicesimo secolo, quando ha inizio, dietro lo stimolo di Vittoria Colonna, la poesia meditante di Michelangelo.
Le contraddizioni che si addensano nella mente di chi mette a paragone un'esistenza colma di opere e di pensieri con la grave interrogazione sul futuro che si apre oltre il varco della morte, si sciolgono, in queste ultime poesie, solo nella preghiera (n. 290).
Michelangelo chiede che dal suo passato sia allontanato il "braccio severo", che vivamente ricorda il braccio di Cristo giudice nella Sistina. Altra iconografia si conviene ora al grande artista. La Pietà disegnata per Vittoria Colonna, ora al Gardner Museum di Boston, raffigura Cristo accasciato cui due angeli sorreggono le braccia: al figlio nell'abbandono della morte si sostituisce la Madre che a braccia aperte lo consegna all'umanità, mentre il Crocifisso del British Museum sembra staccarsi dal patibolo rispondendo all'estremo richiamo del fedele.
I disegni di Cristo in croce si moltiplicano in questi anni, mentre l'ultima scultura di Michelangelo si celebra nella Pietà del Duomo di Firenze e nella Pietà Rondanini, nella quale l'opera dello scultore giunge alla negazione del proprio linguaggio e si risolve in silenzio. Nel frammento 286 [egli] aveva scritto che negli ultimi anni i suoi pensieri dovevano "restringersi a un pensiero solo".
Siamo davanti alle testimonianze più alte dell'umanesimo cristiano del nostro rinascimento. Dalla volta della Sistina al Giudizio, Michelangelo aveva accompagnato la storia dell'uomo. Sull'uomo, sulla sua facies corporea penetrata di pensosità sempre più profonda, di una drammaticità integra anche se placata, aveva lavorato lungo gli anni con una tensione che non si ripeterà nella storia dell'arte. Ora sceglie per sé l'abolizione di ogni tema divagante: dal 1545 in poi la Pietà è l'unico soggetto che osa trattare nella sua scultura. Nel 1555 intreccia un rapporto epistolare e poetico con Ludovico Beccadelli, già vicario di Roma, ecclesiastico e letterato, cultore e biografo del Petrarca. In forma vicina a quella della confessione gli invia un verso rivelatore: "Le favole del mondo mi hanno tolto / il tempo dato a contemplare Iddio". In effetti la scelta ultima di Michelangelo, contemplativa, austera e univoca, ha suggerito ad alcuni interpreti, infondatamente, l'idea di un suo avvicinamento alla severità dei riformatori d'oltralpe. In realtà Michelangelo riecheggiava le parole di Paolo (II Timoteo, 4, 3; ma anche i Timoteo, 1, 4): "Verrà un tempo in cui gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole": questo passo su cui Michelangelo ha fermato la sua attenzione è lo stesso in cui si trova il testamento di Paolo che dal carcere annuncia al discepolo che ha combattuto la buona battaglia ed è giunto per lui il momento di sciogliere le vele. Era tale l'altezza morale della figura di Beccadelli che il vecchio artista, in questa che è tra le ultime liriche da lui scritte, poteva davanti a lui guardare la sua vita per iscorcio e confidargli la sua stanchezza, quella stessa che aveva figurato nel corpo crollante di Cristo sostenuto da Nicodemo e dalla madre. Con queste immagini negli occhi, le sue immagini, quelle che lui aveva tratte dalla materia, nell'ultimo tornante del viaggio Michelangelo annulla il confine tra poesia e preghiera e l'una si converte nell'altra.
(©L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010)


Il cardinale Giuseppe Siri e il suo tempo - Rosso porpora antitotalitario - di Roberto Pertici - L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010
Il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, cardinale dal 1953, a lungo presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), è stato certamente una delle personalità eminenti della Chiesa del xx secolo, di quella italiana in specie: in qualche modo anche figura simbolica, punto di riferimento di atteggiamenti ecclesiali, posizioni culturali e politiche che sono state a lungo "segno di contraddizione" in Italia come nel mondo cattolico. Pochi anni dopo la sua morte, nel 1993, il vaticanista italiano Benny Lai gli dedicò una biografia ricca di innumerevoli testimonianze e ricordi autobiografici, che lo stesso Siri gli aveva affidati negli oltre quarant'anni della loro familiarità: come ogni materiale autobiografico, anche questo è per lo storico una fonte preziosa, ma anche un problema, su cui esercitare continua verifica critica.
Più recentemente, nel 2006, è apparso - a opera di Nicla Buonasorte - un profilo documentato, che in qualche modo condensa l'immagine che di Siri è stata elaborata in ambienti influenti del cattolicesimo italiano del secondo Novecento: quelli, in qualche modo, critici della "linea Siri".
Il merito fondamentale del volume curato e introdotto da Paolo Gheda (Siri, La Chiesa, l'Italia, Genova-Milano, Marietti, 2009, pagine 418, euro 25) è invece proprio quello di delineare quadri storiografici meno polarizzati e consueti e quindi offrire quasi un nuovo inizio per la riflessione sul cardinale genovese. Vi sono raccolti, assieme ad altri contributi, gli atti del convegno su Siri che si svolse a Genova nel settembre 2008, articolati in tre parti dedicate rispettivamente al ruolo da lui svolto nella Chiesa italiana, all'azione politico-culturale e infine alla partecipazione al dibattito teologico ed ecclesiale dei suoi anni. Seguono alcune importanti testimonianze e in appendice testi di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e dei cardinali Bagnasco e Bertone.
Come si vede, si tratta di un gran numero di temi e problemi, affrontati con sensibilità e prospettive talora diverse. Una questione di fondo, tuttavia, attraversa la maggior parte dei saggi: la "grande trasformazione" che investì l'Italia e il mondo a partire dagli anni Cinquanta e le risposte che a essa cercò di fornire la Chiesa cattolica.
In Italia sono gli anni del cosiddetto boom economico, cioè la fase definitiva della rivoluzione industriale apertasi nel lontano 1896: quindi migrazioni interne, urbanesimo, allentamento dei legami tradizionali, sviluppo dei consumi. La fine, insomma, dell'Italia rurale. A livello internazionale è il periodo culminante della Golden age, che si apre - intorno al 1950 - col boom "coreano" e si chiuderà nel 1973 con la crisi petrolifera. La distensione internazionale sembra attenuare la durezza del contrasto ideologico degli anni Cinquanta e si accompagna con un intenso processo di decolonizzazione e di emersione di nuove culture.
Questi mutamenti culturali e sociali hanno presto ricadute giuridico-istituzionali. Nel primo decennio post-bellico si era assistito in Occidente a un generale ritorno della religione tradizionale anche nelle sue forme istituzionalizzate: in Inghilterra - per fare solo un esempio significativo - è tra il 1955 e il 1959 che si tocca il picco di praticanti. Ma intorno al 1960 il clima sta già cambiando: l'opinione pubblica si appassiona al processo contro i Penguin Books per la ristampa di Lady Chatterley's Lover, processo attorno a cui si apre un grande dibattito nazionale sulla sessualità e l'adulterio. Come si vede, i problemi della pubblica moralità che preoccupano tanto in quegli anni i vescovi italiani, in particolare il loro presidente Siri in continuo contatto con l'arcivescovo di Milano Montini - li documenta Gheda nel saggio che dedica ai loro rapporti - sono il capitolo italiano di processi più vasti che coinvolgono tutta l'Europa occidentale e gli Stati Uniti.
In Inghilterra sarà nel 1967 che si arriverà all'Abortion Act, che prevede l'interruzione volontaria della gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche, negli Stati Uniti nel 1973 attraverso una celebre sentenza della Corte suprema, nel 1975 in Francia con la legge Veil, in Italia nel 1978. Questo impetuoso mutamento socio-culturale è in genere accompagnato da "svolte a sinistra" nella politica interna: nel 1960 l'elezione di Kennedy negli Stati Uniti, nel 1962-63 l'avvio del centro-sinistra in Italia, nel 1964 il Labour Party torna al potere in Gran Bretagna dopo tredici anni di opposizione, nel 1966 si conclude il lungo monopolio del potere democristiano in Germania occidentale e prende avvio la Grosse Koalition con i socialdemocratici. Unica eccezione di rilievo, la Francia, in cui invece si consolida la svolta gollista.
Si tratta di un insieme di processi che - in generale - tende a indebolire la presenza religiosa nella società e a porre in difficoltà le Chiese. Tanto più un'istituzione come la Chiesa cattolica, con il suo compatto corpus dottrinale e la sua complessa struttura gerarchica. Le questioni si complicano ulteriormente per la Chiesa italiana, che si trova ad affrontare più o meno negli stessi anni la profonda trasformazione del Paese, la svolta politica e - su d'un piano ovviamente assai diverso - il passaggio conciliare.
In ambito ecclesiale, anche in Italia, si delineano strategie diverse. Una - potrebbe dirsi - di "adeguamento", che scaturiva da un'interpretazione ottimistica dei mutamenti in atto, dalla convinzione della loro ineluttabilità e - in fondo - della loro sostanziale positività. Si trattava di assecondarli per operarvi una nuova semina cristiana: anche la riduzione della presenza sociale della Chiesa era vissuta come una liberazione da un cattolicesimo di costume, "sociologico", e dai legami col potere politico che avevano caratterizzato i secoli passati. È tutta da verificare (e comunque andrebbe chiarita) l'affermazione che - secondo una confidenza di Siri a Lai - il pro segretario di Stato Montini gli avrebbe fatta alla fine del 1953, secondo cui "era fatale un'esperienza socialista in Italia" (p. 209). Ma indipendentemente da questo episodio e quindi dalla posizione di Montini, non c'è tuttavia dubbio che molti ambienti cattolici maturarono una concezione della "modernità" in qualche modo convergente con quelle che circolavano nella cultura laica e "progressista" degli stessi anni.
Un'altra strategia, che potrebbe dirsi di "contenimento", di "arginamento" (non di negazione o di compressione) fu quella elaborata da Siri. A questo proposito sono di notevole interesse le pagine (pp. 153-167) che Danilo Veneruso - nel suo ampio saggio su Il cardinale Giuseppe Siri e l'Onarmo - dedica al "centrismo" di Siri (politico, ma - per alcuni aspetti - anche ecclesiale). La sua non può essere definita una posizione di destra politica: così non fu mai organico al cosiddetto "partito romano", in quanto - tra l'altro - non giunse mai a mettere in discussione l'unità politica dei cattolici attorno alla Democrazia cristiana, né aspirò a un secondo partito cattolico di destra. Nel 1955, di fronte alle richieste in tal senso del cardinale Ernesto Ruffini e di non pochi vescovi meridionali, ribadì chiaramente: "Se si va con le destre, resta soltanto una porta aperta" (p.159).
"Centrista" è anche il suo anticomunismo, che continua a ritenere un valore permanente, anche quando sta tramontando come discrimine della politica italiana. L'atteggiamento di Siri è in realtà "antitotalitario": era stato ostile alla "statolatria" fascista e ora continuava la lotta per la libertà della Chiesa e per la democrazia contro i nuovi avversari. Il suo anticomunismo si presentava come un'organica risposta a una complessa sfida: risposta non eminentemente repressiva, ma in primo luogo culturale e sociale. Non si comprenderebbe altrimenti il suo impegno nell'Onarmo (Opera nazionale per l'assistenza religiosa e morale degli operai), nell'Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti), e infine nell'organizzazione annuale delle Settimane Sociali. Ma il comunismo era, per lui, intrinsecamente materialistico e ateo, e quindi restava qualcosa di altro rispetto al mondo cristiano; non possedeva - come invece pensavano e talora affermavano non pochi ambienti cattolici - una parziale verità da inverare o da sviluppare, magari nel contatto e nel dialogo col pensiero cristiano.
Tuttavia non può dirsi che la sua iniziale opposizione alla politica di centro-sinistra in Italia scaturisca soltanto da un residuo di anticomunismo: è in lui forte la sensazione che la nuova formula stia nascendo in un contesto culturale di "laicismo" avanzante, che proviene dall'emarginazione del partito liberale (laico, ma non laicista), dalla saldatura fra la sinistra liberale (il nuovo partito radicale) e il partito repubblicano (un po' gli ideologi dell'operazione) e dal riavvicinamento della socialdemocrazia al partito socialista, una formazione tradizionalmente anticlericale. Gheda pubblica una lunga lettera di Aldo Moro a Siri presidente della Cei del dicembre 1962 (pp. 64-67), in cui si adduce la consueta giustificazione dello "stato di necessità" - "il nostro partito ha creduto (...) di obbedire a una necessità, in quanto non vi era, come non vi è, nell'attuale parlamento un'alternativa democratica alla presente formula di governo" - e si sottolinea come quella di centro-sinistra sia un'operazione puramente politica, non culturale o ideologica - "atto necessario, inderogabile, e comunque non penalizzante l'indirizzo morale del mondo cattolico nella gestione del paese". Siri invece l'avverte, al tempo stesso, come una svolta politica e culturale, a cui contribuisce anche la fine progressiva dell'orizzonte "cristiano" del partito di maggioranza relativa: il cardinale genovese si rende conto, cioè, che con le scelte di Fanfani e di Moro ormai la Dc vuol "fare da sé", pur continuando a chiedere il voto cattolico in nome del collateralismo. Nella nuova fase, che sarebbe stata contrassegnata da una modernizzazione impetuosa del costume e della cultura, sarebbe così progressivamente venuta meno alla Chiesa la principale forma di mediazione con la società politica di cui si era avvalsa fin dalla Liberazione.
Anche in un ambito tutto diverso come quello ecclesiastico, Siri prende una posizione complessa, non identificabile completamente con quella della minoranza conciliare: lo mostrano - sia pure in una diversa prospettiva - i saggi di Gheda e di Roberto de Mattei. Anche quando emerge il suo dissenso da determinate scelte dei successori di Pio xii, esso si coniuga con un atteggiamento costante di totale obbedienza e affidamento al Papa, corrispondente anche all'altissima responsabilità che egli annetteva alla porpora cardinalizia. Ciò accade anche nei momenti di maggior distanza da Paolo VI, quelli immediatamente successivi alla sua elezione al pontificato. Il cardinale avvertì di aver avuto ragione in questa scelta di riservatezza - di "non secondare, come scriveva, né blocchi, né antiblocchi" - quando Paolo VI, nel novembre 1964, presentò ai padri conciliari la Nota explicativa praevia: "Tutto a posto! Lo Spirito Santo è entrato in Concilio (...) - annotava nel suo diario il 17 novembre 1964 - Così il crinale del Concilio è stato passato: il Papa ha puntato i piedi e solo Lui poteva farlo. Dio è colla sua Chiesa. Ora si comincia a vedere chiaro e la portata del voto di stamane è da reputarsi storica".
D'altra parte, l'esperienza degli anni difficili del post-concilio spinse Paolo VI a rivalutare in qualche modo la "linea" di Siri: ne è testimonianza importante la loro convergenza di fronte ai problemi aperti dalla "rivoluzione sessuale" di quegli anni, a cui il Papa rispose con l'enciclica Humanae vitae del 25 luglio 1968, quasi invocata da Siri in una lettera del novembre precedente (pp. 86-87). Insomma, dalla fine degli anni Sessanta il legame tra Siri e Montini si viene rinsaldando, nella comune convinzione - per usare le parole del cardinale genovese - che il necessario "aggiornamento" dell'azione pastorale della Chiesa non poteva essere concepito "come un termine negativo, come un pentimento, come un discredito, come un ripudio, tanto meno come un'infedeltà".
(©L'Osservatore Romano - 5 maggio 2010)


04/05/2010 – CINA - Chai Ling, ex leader di Tiananmen è divenuta cristiana - La sua conversione dovuta all’impotenza nel cambiare la Cina e al dolore per gli aborti forzati che avvengono nel suo Paese con la legge del figlio unico “cento volte più violenta del massacro di Tiananmen”. L’invito ai leader cinesi di pentirsi e a scoprire il perdono di Dio.
Boston (AsiaNews) – Chai Ling, l’unica donna leader di piazza Tiannamen nell’89, si è fatta battezzare il 4 aprile scorso. Aveva domandato di essere cristiana nel dicembre 2009.
Il giorno del suo battesimo ella ha spiegato il motivo che l’ha portata alla fede cristiana: la sua impotenza a cambiare la Cina e il dolore a vedere tanta violenza nel suo Paese, non solo nel campo dei diritti umani e della democrazia, ma soprattutto per gli aborti forzati causati dalla legge del figlio unico, che lei definisce “un massacro di Tiananmen quotidiano, cento volte superiore e fatto alla luce del giorno”.
La sua testimonianza è stata pubblicata integralmente sul sito di ChinaAid, dove racconta pure di tutti gli incontri e gli amici che l’hanno aiutata ad accogliere il cristianesimo.
Chai Ling è nata durante la Rivoluzione culturale da una coppia di soldati dell’esercito per la liberazione del Popolo, in una base militare del nord-est della Cina.
Durante le manifestazioni di Tianamen nel maggio-giugno 1989, Chai Ling, 23enne, era studente di psicologia all’Università Normale di Pechino (Beishida). È stata l’unica donna leader del gruppo, che ha previsto con grande tristezza la fine tragica del movimento democratico (“Ci sarà un bagno di sangue”, aveva detto in un’intervista giorni prima del fatidico 4 giugno). Insieme ad altri 11 studenti aveva espresso il giuramento di versare il suo sangue per la patria, sul modello degli eroi-martiri cinesi del passato che si suicidavano per risvegliare il loro popolo.
Dopo il massacro, Chai Ling è divenuta una dei 21 più ricercati dalla polizia cinese. Grazie all’aiuto di un gruppo di buddisti e di personalità di Hong Kong, dopo un periodo di vita nascosta, è riuscita a fuggire prima in Francia e poi negli Stati Uniti.


Stabilitasi a Boston, si è laureata ad Harvard in economia e con il marito Robert Maggin jr hanno dato vita a una compagnia di software che impiega quasi 300 persone. Non ha mai dimenticato il suo giuramento e ha sempre usato parte dei loro profitti per aiutare orfanotrofi e organizzazioni per i diritti umani in Cina.
La scoperta di essere controllata dai servizi segreti cinesi, le loro minacce e le difficoltà del movimento democratico all’estero la rendono senza speranza. “Pur con tutte le battaglie e i successi – dice – ho capito quanto io fossi piccola se paragonata alla forza di un intero regime. Come potrei io, un umile individuo andare contro un intero regime con enormi risorse e una rete diffusa?”.
Nel novembre 2009, ascolta a Washington la testimonianza di Wujian, una donna cinese costretta ad abortire perché rimasta incinta senza il permesso dei responsabili dell’ufficio per il controllo della popolazione.
“Quel momento – racconta – ha riportato alla memoria tutta l’impotenza e il dolore che abbiamo provato la notte del massacro del 4 giugno. Quella notte è stata così brutale, e non avevamo la forza di fermarla, e nemmeno il resto del mondo ha potuto fermarla. La storia di Wujian è solo uno dei 10 mila casi che sono accaduti in una singola contea in Cina nel 2005. Nei 30 anni passati, circa 400 milioni di vite sono state stroncate in Cina con l’aborto; molti sotto forma di crudeli e disumane operazioni, terminate con la morte dei bambini, ma anche con il terribile trauma e danno delle madri che sono sopravvissute…Nessuno potrà dimenticare il massacro di Tiananmen del 1989, anche se ormai sono passati più di 20 anni. Ma pochi di noi hanno compreso che queste parole: Politica-del-figlio-unico” sono un ordine di marcia per una brutalità cento volte superiore al massacro di Tiananmen, che accade alla luce del giorno, ripetuto ogni singola giornata”.
Alla domanda su “chi può fermare tutto ciò?”, Chai Ling risponde per la prima volta con la fede in Dio: “Solo Dio può fermare questa brutalità”.
Occorre ricordare che Chai Ling non ha avuto alcuna educazione religiosa: “[In Cina] – racconta - non ci era permesso credere in Dio. Per i leader ‘Dio’ era una cosa cattiva che i capitalisti usavano per il lavaggio del cervello del popolo. Come risultato, perfino l’amore di Dio era visto come una cosa che faceva paura. La società era piena di odio, sfiducia, paura”.
Aiutata dal marito, cristiano protestante, e da alcuni amici e amiche che lavorano come volontari contro l’aborto, Chai Ling chiede di diventare cristiana il 4 dicembre 2009. Lo scorso 4 aprile ha ricevuto il battesimo. La fede nella resurrezione di Gesù la rende ora più sicura e più certa “della vittoria di Dio” anche in mezzo a tante tribolazioni.
Nella sua testimonianza Chai Ling ha parole di misericordia anche per i leader cinesi, responsabili del massacro e della politica attuale: “Il perdono di Dio è così pieno; perfino uno dei due ladroni, che è stato crocifisso con Lui, dopo che si è pentito per i suoi peccati, Cristo gli ha promesso di portarlo con sé in cielo. Se i leader della Cina potessero almeno ascoltare questo [annuncio], non importa quello che hanno fatto o commesso, se solo si pentissero, potrebbero ricevere lo stesso amore e perdono che tutti riceviamo. Quale grande dono riceverebbero? La libertà per se e per la Cina!”.
La conversione di Chai Ling è l’ultima di una serie da parte di diversi leader di Tiananmen. Dopo aver lottato per le idee di uguaglianza e democrazia, grazie al rapporto col mondo occidentale o con missionari in Cina hanno scoperto che il loro impegno per i diritti umani è ragionevole solo se fondato su una base cristiana. “Quando abbiamo pensato a far nascere un movimento democratico – dice Chai Ling – gridavamo che tutti gli uomini nascono uguali. Ora so e posso dire con tutta la fiducia il perché: Dio li ha creati uguali, a immagine di Lui”.


Come il dono dei dieci comandamenti (le dieci parole) struttura la nostra memoria, la nostra tradizione, ma anche la nostra responsabilità di fronte alla grande sfida del mondo attuale – S.E. Card. Angelo Scola - New York, 27 aprile 2010

I. Che cos’è il Decalogo per i cristiani

a. Sono parole di Dio.

Egli ne è l’Autore, sebbene non tutte siano comunicate allo stesso modo.
In virtù della congruenza in divinis di Parola e Persona esse sono «spirito e vita».
Mediante la sua parola il Signore sostiene il mondo e dà sussistenza a tutti gli esseri del cosmo intero (Eb 1, 3).
La parola che esce dalla bocca di Dio «è viva, efficace [energhes] e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e discerne [kritikos] i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).
Noi non siamo in grado di comprendere appieno neppure una sola delle Parole del Signore benché esse non siano «lontano da noi». «Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30, 14).
b. Sono le Dieci Parole «del Patto»

Il Decalogo non può essere staccato dall’Alleanza. Esso viene proferito e scritto sulle due tavole di pietra in una circostanza storica ben definita e non può in alcun modo essere stralciato dall’insieme dell’azione divina entro la quale è stato dato. Non può di per se stesso essere isolato quasi che l’Alleanza consista unicamente nelle «Dieci Parole». Non può essere strappato via idealisticamente, moralisticamente o spiritualisticamente dalla storia santa e ripresentato quale canone morale universale e fondamento di una presunta etica globale. La sostanza delle «Dieci Parole» è l’Alleanza. Ognuna di esse possiede un significato storico e comunionale che sussume quello creazionale. Perciò a partire da questa matrice si staglia il rilievo esistenziale ed etico e non viceversa. Le Tavole saranno collocate dentro l’Arca dell’Alleanza proprio a dimostrazione che l’Alleanza è il comprehensor. Non c’è quindi Alleanza senza un contenuto, ma non è quel contenuto ad istituire l’Alleanza e a fondarla.
Proprio a motivo di questo loro statuto originario le «Dieci Parole» rinviano sempre alla relazione di Alleanza che Dio stabilisce col Popolo che si è scelto. Il principio del «faremo» e dell’«ascolteremo» (Es 24, 7) è sempre la premessa posta da Dio che ha liberato, ha donato la libertà, ha posto il quadro e conferisce la forza necessaria. Il fine di ogni «fare» ed «ascoltare» è la relazione con Lui, è Egli stesso: «Mi baci con i baci della Sua bocca» (Ct 1, 2). L’Alleanza sinaitica è stata perciò giustamente letta in consonanza con il Cantico dei Cantici.
Anche noi cristiani siamo intesi nel Patto sinaitico perché è contratto anche con coloro «che oggi non sono qui» (Dt 29, 14). L’esclusività dell’elezione va strettamente tenuta, ma il suo fine, nel disegno divino, è la «benedizione di tutte le famiglie dei popoli» (Gn 12, 3), come già chiaramente espresso nel Patto abramitico e ribadito dai Profeti. Solo vivendo fino in fondo l’autoteleologia della elezione divina l’Israele storico e teologico perviene alla sua vocazione universale presente nella preveggenza divina fin dall’ inizio.
c. Sono Parole dette e scritte.

Non solo dette e non solo scritte.

Anche per i cattolici c’è un primato della Torah orale sulla Torah scritta.

In tutta la storia santa il Signore contrasta sempre e sistematicamente il tentativo ripetuto di appropriazione e quindi di assolutizzazione della parola scritta o detta ed esige che si ascolti la Sua voce (qol) (cf. Geremia 7, 23).

Egli deve poter dire oggi quel che intende dire oggi e quel che Egli ha da dire oggi non è quel che aveva detto ieri, è una cosa nuova che l’uomo non conosce ancora (cf. Is 48, 6-8).

C’è una simmetria da un lato tra la pretesa divina di non sequestrare l’insegnamento divino e l’invito a mantenersi sempre dentro il vivo della relazione con Lui e, dall’altro, la preminenza accordata alla Torah orale sulla Torahscritta nella nostra tradizione.

Inoltre, le «Dieci Parole» sono consegnate ad un popolo e quindi ad un’entità vivente, e solo entrando in relazione con esso, con la sua tradizione, con la sua consegna generazionale (paradosis) si potrà avere accesso al significato vitale della parola già detta e già scritta. La realtà di popolo suppone una generazione comune e non si può avere parte al suo patrimonio senza entrare nella dinamica generativa, quasi per estrapolazione di excerpta. Il popolo di Dio è un popolo sui generis (Paolo VI).

Vivente è il Signore, vivente è la realtà di popolo, vivente dev’essere il rapporto con la Torah, con l’insegnamento, con le «Dieci Parole».

L’interlocutore delle «Dieci Parole» (il ‘tu’ del Signore) è unitariamente il popolo nel suo insieme e ogni singola persona in esso. Quando il Signore dice ‘Tu’, il Suo ‘Io’ non intende né solo il popolo, né solo l’individuo isolatamente presi. L’implicazione di Alleanza comporta la verità di tutti gli uomini e di tutto l’uomo al contempo. Non solo, ma questa simultaneità d’implicazione personale e sociale detta anche la modalità storica ed esistenziale di vitalità delle Parole e dell’accesso ad esse.

d. Il primato del ‘dire’ ribadisce il primato delle prime due parole (secondo la numerazione ebraica) sulle altre.

Esse godono di un quadruplice risalto: 1. In esse il Signore si esprime in prima persona (anohi); 2. tutte le restanti parole dipendono da esse ; 3. tutte le parole successive derivano da esse; 4. tutte le parole che seguono rinviano ad esse, cioè, rinviano al Soggetto che parla.

Il Signore che parla è Colui che ha operato la liberazione e la libertà è data per la verità della relazione, per l’amore e il servizio a Lui.
Se il soggetto del dire non è affidabile e quindi degno di fede, le sue espressioni non lo sono. Ma Colui che parla è il «Dio di verità» (Sal 30, 6), il «Dio fedele» (Dt 7, 9; Is 65, 16; Os 12, 1) e quindi «vere e stabili sono tutte le Sue parole» (cf. Sal 110, 7). Un unico filo attraversa l’essere fedele, l’essere veritiero, l’essere consistente e duraturo (emuna, emet, amen).
È nella relazione di Alleanza (Io sono tuo/Tu sei mio) e quindi di appartenenza che prendono corpo gli insegnamenti, le norme, le prescrizioni, i decreti e i comandi del Signore. Le parole che seguono le prime due consentono l’attuazione effettiva delle medesime. Senza le restanti le prime non stanno. Anche da questo punto di vista «tutte queste parole» (Es 20, 1; 24, 8 ) sono un’unica parola.
Le Parole hanno senso in primo luogo in riferimento alla Persona e quindi in quanto pronunciate da un Soggetto personale. Ciascuna di esse quindi trae senso non solo dalla sua semantica, ricavabile dal vocabolario, e quindi dalla grammatica della lingua degli uomini, ma soprattutto dall’intenzione divina che le significa e le amplifica. Le «Dieci Parole» vengono date, ma non si separano dal Signore emancipandosi da Lui. Esse sono in terra sempre come donate dal Cielo.
II. Significato delle «Dieci Parole» nella vita del popolo di Dio.

Esse si collocano tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, tra (a) l’azione di liberazione «dalla casa di schiavitù» (beth avadim) (Es 20, 2) e (b) il compimento dell’Alleanza, che non si dà senza «versamento di sangue» (Es 24, 8; Lv 17, 11; Zc 9, 11).

a. L’azione di Dio che precede sta ad indicare l’azione storica entro la quale tutto accade e il primato dell’azione divina come anche della Sua interlocuzione. Tutto procede da qui. L’agire di Dio pone le condizioni necessarie e irraggiungibili da qualsiasi mistagogia mondana. A partire dall’azione di Dio e nell’azione di Dio all’uomo ritorna ad essere possibile l’ascolto e l’obbedienza.

Dopo che Dio ha agito il rapporto diventa la misura della morale. Etica e relazione con Dio divengono inseparabili. Nella memoria di quel che Dio fa e nell’osservanza delle Sue parole l’uomo può intraprendere di nuovo la via del vero bene personale e sociale.

Un indice della verità di quel che stiamo affermando lo si ha nella distinzione delle «Dieci Parole» dai numerosi precetti (mišpatim) e norme (mizvot) che Mosè diede al popolo. Tale distinzione impedisce la riduzione delle «Dieci Parole» al rango di precetti o comandamenti e ne definisce la funzione tra l’atto fondamentale dell’assenso al Patto e quello categoriale della condotta etica. Peraltro «il Decalogo unifica la vita teologale e la vita sociale dell’uomo» (CCC 2069).

b. L’Alleanza, di per se stessa, chiede un «compimento» (milluim in Es 29 e Lv 8. teleiotes e teleiosis in Eb) che si ha solo nel «versamento del sangue».

La legislazione cultuale è ben distinta dalle «Dieci Parole», ma la dinamica dell’Alleanza dentro la quale esse si situano richiede di per se stessa il servizio sacerdotale. Per i cattolici questo nesso è strutturante.

Anche la preghiera dello Shemà sembra richiederlo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Dt 6, 5). «Con tutta la tua anima» potrebbe essere tradotto «con tutta la tua vita» o «persino se ti toglie la vita» (Berakot, 61 b). Le «Dieci Parole» chiedono come parte integrativa il sacrificio, l’offerta della vita, di tutto se stesso («santificazione del Nome», kiddush ha-Shem).

III. Responsabilità e sfide.

a. È evidente che la prima responsabilità è quella della decisione a stare nel Patto ed a vivere al cospetto della Presenza. Tale responsabilità va sempre rinnovata e non possiede mai il tratto dell’ovvietà, quanto piuttosto di una perenne novità che è fonte inesauribile di stupore e di letizia.

b. Si tratta quindi del fare esperienza del fatto che il Patto non è cosa del passato, bensì sorgente primaria di futuro.

c. Ciò comporta una conversione (teshuva) della vita, della mente, del cuore. Ciò richiede che tutta l’umanità dell’uomo sia investita. La vita di fede e la vita morale sono parimenti chiamate in causa.

d. Il giogo della Torah non si porta da soli. Nel libro del Profeta Sofonia si parla di un servizio del Signore «sotto lo stesso giogo» (3, 9), «con una sola spalla» (shechem echad, humero uno), cioè, spalla a spalla. Coloro che accolgono la Torah possono e devono collaborare.

Il più grande lavoro che ebrei e cristiani possono compiere insieme «con una sola spalla» è quello di rendere presente la realtà e la potenza del Patto nella storia degli uomini.

Solo una volta che si sia reso storicamente ed esperienzialmente presente il realismo del Patto si potrà far risplendere il Decalogo in tutta la sua luce.

La modernità si è infatti per larga parte affermata su due separazioni sequenziali: quella delle Tavole dall’Alleanza (da Dio), quella della seconda tavola dalla prima. L’ultimo passaggio è stato poi quello della riduzione delle ultime cinque Parole a prescrizioni morali e legali. Anche questa fase in Occidente è terminata ed ora non ha più tenuta nemmeno l’aspetto semplicemente normativo.

Era facilmente prevedibile una simile linea di sviluppo. L’esaltazione della fratellanza dopo l’uccisione del Padre era infondata, come lo è il tentativo di affermazione di leggi che non poggiano sull’autorità riconosciuta e riconoscibile di un Legislatore.

Noi, ebrei e cattolici, possiamo ricordare a tutti che non c’è moralità vera senza Patto e che non c’è Patto senza Dio.

e. Il Signore che istituisce il Patto è il Creatore del cielo e della terra e di tutto quanto si trova in essi. Coloro che non stanno dentro il Patto non possono neppure, dopo la caduta dei progenitori, riconoscere e rispettare la verità dell’ordine creazionale e, in particolare, la verità dell’opera del sesto giorno, la verità dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio quale maschio e femmina.

Oggi, in modo radicale, si tende a negare la verità creazionale dell’uomo quale maschio e femmina.

Ciò porta anche a sfigurare la conseguente paternità e maternità. La Parola che fa da cerniera tra la prima e la seconda Tavola richiama proprio il padre e la madre perché è attraverso la vis generationis consegnata all’unità stabile di uomo e donna, che si perpetua il rapporto di Dio con l’uomo e, quindi, responsorialmente dell’uomo con Dio, sia dal punto di vista personale, sia da quello della realtà del popolo. È infatti mediante la paternità e la maternità che ogni uomo è introdotto nella vita di cui solo Dio è il Signore. Ma è nella paternità e nella maternità che il popolo, che sta nell’Alleanza, permane nel tempo e nella storia.

La messa in discussione, attraverso la teoria del gender, della verità creazionale con la quale il Creatore ha suggellato la Sua opera (l’opera del sesto giorno è la più vicina al «riposo di Dio») scardina dal fondamento: da un lato rescinde il nesso dell’uomo con Dio, dell’uomo in quanto persona e, dall’altro, spezza la catena generazionale che lega le generazioni al Patto. Negazione della realtà della Creazione e del Patto in un colpo solo.

All’inizio del terzo millennio è per noi sufficientemente chiaro quello che al Sinai il Signore stesso ha palesato:non si potrà sostenere la verità della Creazione se non entrando nel Patto.


CARLO ACUTIS: UN RAGAZZO DEI NOSTRI TEMPI DEVOTO ALLA MADONNA - Don Marcello Stanzione – dal sito Pontifex.roma.it
In questo mese di Maggio che la devozione cattolica consacra alla Vergine Maria è opportuno presentare dei modelli di riferimento di nostri contemporanei particolarmente legati a Maria Santissima. Ai nostri recenti giorni, molto devoto alla Madonna è stato il giovanissimo Carlo Acutis (1991-2006), morto, ad appena 15 anni di età a causa di una leucemia fulminante, in concetto di santità perché ha offerto la sua vita per il papa e per la Chiesa. Nato a Londra il 13 maggio 1991 da Andrea e Antonia Salzano, entrambi ricchissimi, che si trovavano nella capitale inglese perché lavoravano nel mondo dell’alta finanza ed il 18 maggio riceve il battesimo in una chiesa intitolata alla Madonna di Fatima che si festeggia esattamente il giorno della sua nascita dopo qualche mese rientra con la sua famiglia a Milano. Molto intelligente, ma non secchione, era particolarmente portato verso l’informatica, tanto che sia i suoi ...

... amici che gli adulti lo consideravano un genio in questo campo. A soli sette anni riceve la prima comunione nel monastero delle Romite di S. Ambrogio ad Nemus, di Perego, e da allora sempre più alimenta un grande amore al Santissimo Sacramento dell’Altare.

Frequenta le scuole della elite benestante di Milano, le elementari e le medie presso le suore Marcelline ed il liceo Classico Leone XIII gestito dalla Compagnia di Gesù.

Carlo è affettuoso, vuole molto bene ai suoi nonni ed ai suoi genitori, pur essendo ricco non fa assolutamente mai sentire sugli altri alcun complesso di superiorità dovuto alla sua estrazione sociale ma è estremamente alla mano ed affabile con tutti, iniziando dai domestici di casa fino ai mendicanti lungo la strada.

Ha un temperamento di base socievole ed attira facilmente le simpatie altrui per la sua gentilezza e bontà. Viene educato in ambienti profondamente cristiani, ma è lui che sceglie liberamente di seguire Cristo e di vivere da ragazzo cattolico, andando controcorrente contro la mentalità di oggi che è corrotta. E’ fondamentale per Carlo accostarsi quotidianamente all’Eucarestia, in particolare si comunica tutti i primi venerdì del mese.

Ogni giorno recita il santo rosario in onore della Vergine. I suoi compagni sono concordi nell’affermare che Carlo è stato un vero annunciatore di Gesù e testimone del Vangelo spesso parla del rischio di potersi perdere con il peccato mortale nella dannazione eterna. Verso i cinque anni durante un pellegrinaggio a Pompei, si consacra alla Madonna del Rosario e da allora inizia con i suoi parenti a recitarlo regolarmente. Nel percorso spirituale di Carlo la devozione mariana è stata fondamentale ed aveva accresciuto in lui il desiderio di recarsi a Fatima, luogo del Portogallo dove la Madonna era apparsa ai tre pastorelli.

Nel 2006, pochi mesi prima della sua morte, i suoi genitori lo accontentano. Poco dopo aver compiuto questo pellegrinaggio, Carlo si ammala e dietro a quella che appariva in un primo momento come una banalissima influenza si nasconde una leucemia fulminante. Qualche giorno prima di essere ricoverato in ospedale afferma risoluto: “ Offro tutte le sofferenze che dovrò patire al Signore per il Papa e per la Chiesa… e per andare diritto in cielo”. Stroncato da un’emorragia cerebrale, muore il 12 ottobre 2006.
Don Marcello Stanzione


Facciamo chiarezza sull'Esorcismo – Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.) - dal sito Pontifex.roma.it
In giro, nei bar, nei circoli, nelle associazioni e finanche nelle Chiese, se ne sentono di "tutti i colori" circa l'Esorcismo ... cos'è, chi può farlo e tante altre domande. Seguirà un breve ed ortodosso articoletto che ha finalità educative e di catechesi. L'esorcismo è un sacramentale, una forma di Preghiera Pubblica e Solenne che si fa in nome e con l'autorità della Santa Chiesa, per mezzo di un sacerdote per l'appunto esorcista che abbia ricevuto un espresso mandato dal vescovo, o per mezzo del vescovo stesso (tutti i vescovi sono esorcisti), al fine di liberare persone, oggetti e case dall’influenza o dalla possessione diabolica, ossia dall'azione straordinaria del maligno, e sottrarre così i soggetti e/o gli oggetti dal suo dominio. Un esorcista può essere "aiutato" da laici o gruppi di preghiera (come ad esempio i gruppi di "preghiera e liberazione" di cui il vescovo esorcista Andrea Gemma è stato più volte promotore), ...

... ma resta chiaro il fatto che per poter effettuare un esorcismo ci vuole il sacerdote esorcista, solo lui può compiere il rito esorcistico e nessun altro! . L’esorcista, inoltre, ha il dovere di "usare circospezione e prudenza; non deve credere vessato dal diavolo chi invece soffre di una qualche malattia psichica". Il diavolo, beninteso, rimane lo stesso di sempre e, così, i segni della sua presenza nell’individuo che sono "il parlare lingue sconosciute, mostrare una forza fisica non conforme all’età o allo stato di salute, ed esprimere con la blasfemia un’avversione viscerale a Dio". Ciò non toglie, però, che laddove si possa credere di avere a che fare con una possessione diabolica, si abbia in realtà più spesso a che fare con una malattia psichica; un bravo esorcista saprà certamente discernere in merito. Oggi, poi, sono sempre di più gli esorcisti che utilizzano come strumento di indagine (in merito alla possibilità di una possessione o meno) il rito esorcistico stesso, magari con l'esorcismo breve di Leone XIII.

Perché l'esorcismo, poi, possa essere efficace e realmente di aiuto al posseduto, c'è bisogno che questi abbia la volontà di essere liberato: Dio, nella sua infinita misericordia, è dispensatore di infinite Grazie, ma non può imporci la Grazia. Solo la volontà di conversione e la costanza nella preghiera e nella frequenza ai Sacramenti consente l'efficacia dell'esorcismo. Diversamente si dimostra un'inutile fatica.

Non a caso Gesù ci ammonisce: "Quando lo spirito immondo esce da un uomo, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito. E tornato la trova vuota, spazzata ed adorna. Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora; e la nuova condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione perversa" (Mt. 12,43).

La durata di un esorcismo è variabilissima; sempre secondo il settantaquattrenne padre Amorth, che ha all’attivo circa 40 mila esorcismi: "E’ rarissimo l’esito in qualche mese, raro in un anno o due; per un caso di media gravità occorrono 4 o 5 anni, con un esorcismo alla settimana".

Solo con l’avvento di Cristo anche l’esorcismo acquista piena efficacia. Perché Gesù è venuto «per distruggere le opere di Satana» (1 Gv 3,8), è venuto, come afferma lo stesso Signore, per distruggere il regno del demonio e instaurare il regno di Dio (cf Lc 11,20). Quando Pietro riassume l’opera di Gesù alla presenza di Cornelio, il primo pagano che si converte al cristianesimo, si limita a dire: «Passò facendo del bene e liberando coloro che erano schiavi del demonio» (At 10,38). Satana, «principe di questo mondo», come lo chiama Gesù (Gv 14,30) e «dio di questo mondo», come lo chiama Paolo (2 Cor 4,4), era il forte, padrone di tutti i regni della terra, che si sentiva sicuro del suo dominio. Gesù è il più forte, che lo disarma (Lc 11,21-22).

Il Maestro Divino ha dato degli insegnamenti precisi e dei poteri precisi contro il demonio, chiarendo dubbi che anche al suo tempo erano ricorrenti, sulla stessa esistenza del maligno: i farisei ci credevano, i sadducei no. Ha messo in chiaro l’azione di Satana contro Dio; si pensi, ad esempio, alle spiegazioni che lui stesso ha dato alla parabola del buon grano e della zizzania e alla parabola del seminatore. Ha liberato gli indemoniati, distinguendo con chiarezza la liberazione dal demonio dalla guarigione dei malati; saranno certi teologi e biblisti di oggi a confondere e negare la chiarezza evangelica, per cercare di imporre la loro incredulità.

Ricorda: il demonio è un essere concreto che: "va in giro per il mondo come un leone ruggente, cercando le anime da divorare". Il diavolo è sempre in agguato ed occorre essere sempre guardinghi. Il Concilio Vaticano II è chiaro al proposito: "Tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo e destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno". (Gaudium et spes, 37).
Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.)


Cattolici, perchè? - Lorenzo Albacete - mercoledì 5 maggio 2010 – ilsussidiario.net
Il problema della “riforma delle leggi sull’immigrazione” è certamente uno dei più aspramente dibattuti negli Stati Uniti in questi giorni, alimentato anche dalla controversa legge appena adottata dallo Stato dell’Arizona. Il provvedimento consente alle forze dell’ordine statali di richiedere agli individui sospettati (“ragionevolmente”, qualunque cosa significhi) di immigrazione clandestina di fornire le prove della loro presenza legale nel Paese, e di segnalarli alle autorità federali nel caso in cui non ne forniscano.
La discussione si è incentrata sulla questione del “profilamento razziale o etnico”, dal momento che la maggior parte dei sospetti clandestini in questa regione di confine è di origine messicana o centroamericana. La maggioranza degli immigrati è di religione cattolica, motivo per cui la Chiesa cattolica, la cui dirigenza è considerata pro-immigrati, è ampiamente coinvolta nel dibattito.
Infatti, un recente studio sui cattolici ispanici (“Sondaggio sull’Identificazione Religiosa degli Americani 2008”, anche noto come ARIS, condotto dall’Istituto per lo Studio della Secolarizzazione nella Società e nella Cultura, o ISSSC, presso il Trinity College di Hartford in Connecticut) mostra che gli ispanici, o latino-americani, costituiscono una percentuale sempre più significativa della Chiesa cattolica americana. Secondo un ricercatore dell’ISSSC, “negli ultimi 18 anni, ci sono pochi fenomeni che hanno cambiato l’America e la religione americana più della crescita della popolazione latino-americana”.
Ad esempio, l’aumento di 11 milioni nella popolazione cattolica statunitense dal 1900 al 2008 è dato in gran parte dai nove milioni di cattolici ispanici; di conseguenza, il 32% dei cattolici statunitensi è ora ispanico, rispetto al 20% del 1900.
Tuttavia, c’è ora uno sviluppo altrettanto importante che comincia a preoccupare la leadership ispanica della Chiesa Cattolica, inclusi i vescovi. Anche se nell’attuale dibattito sull’immigrazione si insiste da parte di tutti sulla necessità che i latino-americani imparino a parlare inglese correntemente e acquisiscano la cultura degli Stati Uniti, i leader cattolici sono preoccupati dei possibili risultati di questo processo di assimilazione.
Ad esempio, il sondaggio ARIS mostra chiaramente che più gli immigrati si assimilano alla società americana e meno si identificano come cattolici. Nel 1900, il 66% degli ispanici si definivano cattolici. Nel 2008, la percentuale è scesa al 60%. Inoltre, si è verificato un aumento del numero di latino-americani che non seguono alcuna religione, dal 6% nel 1900 al 12% nel 2008. Quest’ultima sembra essere, di fatto, la tendenza religiosa con la crescita più importante nella popolazione ispanica degli Stati Uniti.
Più a lungo un latino-americano ha vissuto negli USA e meno tende ad identificarsi come cattolico.
In più, coloro che hanno una maggiore padronanza dell’inglese tendono a qualificarsi come membri di Chiese cristiane conservatrici, oppure come non appartenenti ad alcuna religione.
I Testimoni di Geova e altre sette protestanti, come gli Avventisti e i cristiani ecumenici, hanno triplicato i propri aderenti, mentre l’appartenenza alle comunità pentecostali ha solo tenuto il passo con la crescita della popolazione.
La maggioranza delle persone senza religione e dei membri delle sette protestanti ha meno di 30 anni. Le persone senza religione hanno una maggior probabilità di avere un titolo universitario, mentre quelle nelle sette protestanti hanno la minore formazione universitaria.
Il sondaggio ARIS mostra altri risultati che confermano questa tendenza, portando alla conclusione che l’assimilazione degli immigrati ispanici, legali o illegali, danneggia la loro identità cattolica.
Economicamente, i latino-americani che appartengono alle principali chiese protestanti hanno il reddito familiare più elevato. Dal punto di vista politico, i cattolici latino-americani e quelli senza religione si identificano con il Partito Democratico, mentre i cristiani non cattolici preferiscono il Partito Repubblicano.
Riassumendo, il professor Barry A. Kosmin del Trinity College conclude che “mentre gli immigrati latino-americani stanno contribuendo significativamente alla stabilità del cattolicesimo americano, le generazioni più giovani e quelle nate negli Stati Uniti tendono a orientarsi verso un abbandono della religione, oppure verso tradizioni cristiane conservatrici”.
I vescovi americani e i leader cattolici ispanici sono consapevoli di tutto questo ed hanno provato ad affrontare il problema tentando di sostituire un processo che chiamano “integrazione” a quello di assimilazione. Hanno quindi iniziato ad opporsi alle riforme delle leggi di immigrazione volute dai politici, che enfatizzano la necessità dell’assimilazione.
Ma è davvero questa la risposta più appropriata dei cattolici al problema? A mio avviso, invece di dedicare molte energie a trovare il processo di socializzazione più adeguato, i vescovi e i leader cattolici ispanici dovrebbero concentrarsi su programmi pastorali che aiutino i cattolici ispanici a capire che cosa fa sì che i cattolici siano cattolici, nella relazione tra le loro tradizioni storiche e la fede cristiana in Gesù Cristo. È questo l’unico modo in cui i programmi di evangelizzazione porteranno frutti culturali davvero nuovi ed adeguati alle sfide del tempo presente.


150 ANNI/ Con buona pace di Cavour, è il Papa che unisce l’Italia. Parola di Dostoevskij - Renato Farina - mercoledì 5 maggio 2010
La domanda è semplice. Perché la Chiesa, in particolare la Chiesa italiana (anche se i puristi direbbero “la Chiesa che è in Italia”) adesso è la più forte sostenitrice dell’unità di questo Paese, quando a suo tempo la visse come un sopruso? È impazzita? Ha cambiato la sua essenza e il suo giudizio? Lo fa per convenienza? O per che altro?
C’è una risposta che discende dall’amore per il popolo, per la sua ricchezza. Provo ad analizzare.
L’unità d’Italia fu cercata certo in nome - da parte di molti, anche da intellettuali cattolici - dell’amore per il suo destino, perché non fosse più in balia dello straniero. Ma la mossa politica e ideologica fu a partire da un disegno illuministico e massonico, tale per cui il popolo in grande maggioranza cattolico andava emancipato dal suo attaccamento a ciò che ostacolava un nuovo ordine, comandato da interessi finanziari di sottomissione della povera gente, e per strappare Dio dalla vita pubblica consegnandolo ad una sfera privata, senza peso nel costruire la società. E ostacolo a questo era il papato. Una chiesa fatta di carne, di iniziativa sociale costruita al di fuori del controllo dei poteri forti. I libri cosiddetti revisionisti ricordano come furono incarcerati vescovi e sacerdoti solo perché non agitarono il turibolo al nuovo Dio che era lo Stato. Il Papa fu fatto prigioniero in casa sua. I beni della Chiesa erano in realtà i beni del popolo. Furono confiscati e rivenduti, impoverendo in particolare il nostro Sud, da cui fu drenato il risparmio intero della Sicilia e del mezzogiorno. Il modello era quello napoleonico. Lo Stato come fonte di ogni diritto. La Chiesa invece, essendo contro il liberalismo che arricchiva i lupi, stava a favore della libertà.
Estremizzo, ovvio. Ma va detto. C’era Dio in prigione, come si faceva a stare dalla parte del suo aguzzino?
La Chiesa - e in particolare Pio XI - ha ottenuto alla fine quel che voleva: con il Concordato e soprattutto i Patti Lateranensi poté avere un minimo territorio (a lui bastava un metro quadrato) che fosse sottratto alla potestà temporale, con la facoltà di imbavagliarlo.
Il tempo passa. La storia si sviluppa. Il popolo - dopo le due grandi guerre - si è trovato dinanzi alla possibilità di dar forma democratica ai suoi ideali. Si è generata una solidarietà. Un sentimento patrio, l’idea di una comunanza basata proprio sul suo sentimento profondo cristiano. È stato questa percezione di sé a permettere la ricostruzione.
Di queste cose ho molto discusso con un grande cattolico liberale e statista: Francesco Cossiga. Mi disse una volta: «Mi interessa l’Italia. Le volte che ho detto “Viva-l’Italia-Viva-la-Repubblica!” sono state tante. E ho sempre pensato allo Stato, a questo Stato, mentre lo dicevo. Ma anche a qualche cosa di più forte e intimo. All’Italia che senza questo Stato ora non ci sarebbe, eppure è più grande dello Stato. Ha un destino spirituale unico. C’è in questa Patria nostra, nei popoli che la costituiscono, un compito universale. Papa Giovanni Paolo II non ha mai compreso questa stranezza italiana. Questa frammentazione di popoli e la Chiesa che amava così tanto l’Italia da non desiderare l’unità nazionale. Un giorno, si decise a chiedermelo. “Senta, lei mi deve spiegare: come mai la Chiesa italiana era contro l’unità nazionale?” Per un polacco era inconcepibile. Io risposi: “Santo Padre, il giorno che Antonio Rosmini verrà fatto beato sarà una cosa molto più importante della conciliazione tra la Santa Sede e lo Stato italiano, perché sarà la conciliazione tra la nazione italiana e la Chiesa italiana”. Perché Rosmini aveva in mente un’Italia che fosse insieme Stato e la Chiesa non fosse libera “in” esso. Ma libera “con” lo Stato. Così come il popolo non era da lui fatto coincidere con lo Stato. È stato fatto beato Rosmini. La Chiesa ora riconosce pienamente l’Italia, si è riconciliata anche simbolicamente con la nazione italiana». Fin qui Cossiga.
Da parte mia sto con Fëdor Dostoevskij, citato dal cardinal Giacomo Biffi. Ricordo che Joseph Ratzinger ha definito questo meraviglioso genio russo come “il più grande letterato cristiano del XIX secolo”. E non era certo papista, da slavofilo ortodosso.
In una sua pagina tratta dal Diario di uno scrittore scrive: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e che cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.
Io credo che l’Italia debba ricordarsi di essere questa intensità unica al mondo. Essere piccoli rispetto a tanti numeri, ma coscienti di essere il luogo dove il particolare può diventare universale: nell’arte, nella scienza, anche nella visione politica.

Continua a irrorare ogni italiano, credente o ateo, di questo spirito universale. Qualche idiota vorrebbe strappare questo segno dall’Italia. Invece è questa presenza che può renderci unici, alla maniera intuita da Dostoevskij. Anche quando il Papa è polacco o tedesco, il Papato è italiano in essenza e per saecula saeculorum. Ed incarna e diffonde quell’idea e quella pratica di universalità, di cuore grande, di mente che non si ferma a Chiasso o a Capo Passero, ma come Ulisse che era di una piccolissima isola, però andava al largo, era mosso da qualcosa di impalpabile per cui gli batteva il petto: così noi. Ulisse voleva tornare a casa, ma non resisteva al desiderio più forte della volontà di prendere vento, e andare, andare come dei pazzi, come Cristoforo Colombo, come Amerigo Vespucci. Come Dante negli inferi e in cielo. Pensando allo Stato, a questo Stato, che oggi ha bisogno dell’unità, dentro una forma federale, ma conservando insieme unità e slancio universale. Per questo sentiamo l’appello del cardinale Angelo Bagnasco all’unità d’Italia come la cosa più bella sentita di questi tempi sul nostro Paese e sul suo futuro.


Avvenire.it, 5 MAGGIO 2010 - LA PROVOCAZIONE - Ma i cristiani sono gente «felice»? - Enzo Bianchi
Che senso ha oggi leggere le beatitudini? Perché meditare su queste paradossali parole di Gesù? Innanzitutto, credo, per una ragione umanissima. Nel contesto socioculturale in cui viviamo, noi cristiani siamo chiamati, oggi più che mai, a mostrare con la nostra vita cammini di umanizzazione e di salvezza percorribili da tutti gli uomini.

Ora, la maniera più efficace per scoprire questi cammini consiste nel praticare la ricerca del senso, esercizio che ai nostri giorni pare sempre più raro: è diventato difficile, soprattutto per le nuove generazioni, dare senso alla vita e alle realtà che la costituiscono, tanto che da più parti si levano voci che denunciano la «crisi del senso». In questa situazione noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità.

Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)? In realtà mi pare che spesso ci meritiamo ancora il rimprovero rivolto ai cristiani da Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa: [I cristiani] dovrebbero cantarmi canti migliori perché io impari a credere al loro redentore: più gioiosi dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli! Certamente la via cristiana è esigente, richiede fatica e sforzo al fine di «entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24; cfr. Mt 7,13) ed essere conformi alla chiamata ricevuta. Non serve ricordare le tante esortazioni pronunciate da Gesù in questo senso, condensate nel suo monito: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 e par.).

D’altra parte, secondo l’insegnamento di Gesù e, ancor prima, secondo il suo esempio, la vita di chi si pone alla sua sequela non solo vale la pena di essere abbracciata ma è causa di beatitudine, è fonte di felicità. È proprio qui che si situa l’annuncio delle beatitudini, che potremmo definire il cuore dell’etica cristiana: un’etica – va detto con chiarezza – che non è tanto una legge o, peggio, una morale da schiavi, quanto uno spirito e uno stile, quello annunciato e vissuto da Gesù nella libertà e per amore, quello in cui Gesù ha trovato la felicità.

Sì, le beatitudini sono una chiamata alla felicità. Sappiamo bene che solo quando gli uomini conoscono una ragione per cui vale la pena perdere la vita, cioè morire, essi trovano anche una ragione per spendere quotidianamente la vita e, di conseguenza, sono felici. Ebbene, le beatitudini aiutano a scoprire questa ragione e così consentono di dare un senso alla vita, anzi conducono al «senso del senso»: Gesù proclama beati uomini e donne i quali vivono alcune precise situazioni in grado di rendere pieno di senso il loro cammino umano sulla terra e, per quanti hanno il dono della fede, in grado di facilitare il loro cammino verso la comunione con Dio.

Ma il primo e più elementare senso delle beatitudini – lo ribadisco – è la felicità, la gioia di scoprire che grazie all’assunzione consapevole di un atteggiamento, di un comportamento, si può vivere un’esistenza che, pur a caro prezzo, ha i tratti di una vera e propria opera d’arte: la povertà in spirito, il pianto, la mitezza, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’azione di pace, la persecuzione subìta a causa della giustizia, sono situazioni capaci di produrre beatitudine già qui, in questa vita, e poi nel «mondo che verrà», quello in cui Dio regna definitivamente. Insomma, per rendere realtà la buona notizia del Vangelo occorre vivere le beatitudini.

A tale riguardo, lungo i secoli c’è sempre stato chi si è interrogato sull’attuabilità delle beatitudini, sull’effettiva possibilità che queste fossero qualcosa di più di semplici parole utopiche, prive cioè di un «luogo», di una realizzazione storica, a livello personale o comunitario. Vi è chi ha affermato che le beatitudini valevano solo per i contemporanei di Gesù e per la prima generazione cristiana, ossia per coloro che hanno vissuto in modo irripetibile l’urgenza escatologica; vi è chi, in seguito alla svolta costantiniana e poi con particolare insistenza nel secondo millennio, ha letto le beatitudini come «consigli» riservati solo ai monaci e ai religiosi, coloro che «abbandonano il mondo»; e potremmo continuare nell’elenco di queste interpretazioni riduttive.

Oggi, come in ogni generazione, siamo chiamati a lasciar risuonare la nuda domanda: è possibile vivere le beatitudini qui e ora? A mio avviso tale interrogativo ha sempre ricevuto e può ancora ricevere una risposta positiva, non però in modo trionfale o sovraesposto, non attraverso forme eclatanti che si impongano agli occhi degli altri uomini, bensì nelle vite quotidiane, sovente nascoste, di tanti uomini e donne: persone che, nonostante le loro contraddizioni e il loro peccato, hanno cercato e cercano di seguire il Signore Gesù vivendo il suo stesso stile di vita, lo stile «scandaloso » delle beatitudini. Sì, è sempre stato e sempre sarà possibile vivere le beatitudini:
Enzo Bianchi