martedì 4 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) NONOSTANTE I "PECCATI", LA CHIESA ANTICIPA LA GERUSALEMME CELESTE - Omelia di Benedetto XVI ai funerali del Cardinale Mayer
2) “Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”. – S.E. Card. Angelo Scola - L’omelia del Patriarca a Rimini in occasione degli esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione - Apr 25, 2010
3) PREGARE FA BENE ALLA SALUTE - di padre Piero Gheddo*
4) La grande "scommessa". Come rifondare da capo la Legione - Le colpe di Maciel. Il sistema di potere che copriva la sua vita indegna. Le autorità vaticane accusano. E dettano l'agenda della ricostruzione. Con i pieni poteri affidati a un cardinale delegato dal papa - di Sandro Magister
5) BENEDETTO XVI SVELA IL VALORE DELLA SINDONE - La sua corrispondenza con il racconto della Passione nei Vangeli - di Jesús Colina
6) I novantacinque anni del rabbino capo emerito di Roma - Toaff il traghettatore - L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010
7) TIZIANA ROCCA, SUPERMAMMA - Parla la più famosa “pierre” italiana, autrice di un libro di consigli per le giovani mamme - di Renzo Allegri
8) SINDONE/ Il racconto: così il Papa ha risvegliato la mia laica Torino – Redazione - martedì 4 maggio 2010 – ilsussidiario.net
9) V° Anniversario dell'elezione di Papa Benedetto XVI - Omelia di Mons. Luigi Negri - 29/04/2010 - Cattedrale di Pennabilli, Lunedì 19 Aprile 2010
10) LOGICA/ Dio esiste? Anche la matematica dice di sì... - Alberto Strumia - martedì 4 maggio 2010 – ilsussidiario.net
11) Avvenire.it, 4 maggio 2010 - Il dramma dei cristiani iracheni - Perché si accetta la pulizia «confessionale»? - Andrea Lavazza
12) Avvenire.it, 4 Maggio 2010, A Cannes il martirio di Tibhirine - Lorenzo Fazzini
13) Avvenire.it, umanesimo e scienza - 4 MAGGIO 2010 - Il filosofo Maiocchi - E Prometeo vada a scuola di filosofia - Luigi Dell’Aglio


NONOSTANTE I "PECCATI", LA CHIESA ANTICIPA LA GERUSALEMME CELESTE - Omelia di Benedetto XVI ai funerali del Cardinale Mayer
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 3 maggio 2010 (ZENIT.org).- Malgrado i "limiti" e i "peccati" che la possono caratterizzare, la Chiesa anticipa la Gerusalemme celeste, ha affermato Benedetto XVI questo lunedì mattina nell'omelia della liturgia esequiale del Cardinale benedettino Paul Augustin Mayer.
La Messa è stata celebrata presso l'Altare della Cattedra della Basilica vaticana dal Cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio, insieme agli altri Cardinali. Il Papa ha presieduto la liturgia esequiale e ha tenuto l'omelia e il rito dell'Ultima Commendatio e della Valedictio.
Ogni celebrazione esequiale, ha ricordato il Pontefice, "si colloca sotto il segno della speranza: nell'ultimo respiro di Gesù sulla croce, Dio si è donato interamente all'umanità, colmando il vuoto aperto dal peccato e ristabilendo la vittoria della vita sulla morte".
"Per questo, ogni uomo che muore nel Signore partecipa per la fede a questo atto di amore infinito, in qualche modo rende lo spirito insieme con Cristo, nella sicura speranza che la mano del Padre lo risusciterà dai morti e lo introdurrà nel Regno della vita", ha aggiunto.
"La grande e indefettibile speranza, fondata sulla solida roccia dell'amore di Dio, ci assicura che la vita di coloro che muoiono in Cristo non è tolta, ma trasformata; e che mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel cielo", come ricorda il Prefazio dei Defunti.
In un'epoca come quella attuale, in cui "la paura della morte getta molte persone nella disperazione e nella ricerca di consolazioni illusorie", il cristiano "si distingue per il fatto che pone la sua sicurezza in Dio, in un Amore così grande da poter rinnovare il mondo intero", ha osservato il Pontefice.
Ricordando che "la visione della nuova Gerusalemme esprime il realizzarsi del desiderio più profondo dell'umanità: quello di vivere insieme nella pace, senza più la minaccia della morte, ma godendo della piena comunione con Dio e tra di noi", ha spiegato che "la Chiesa e, in particolare, la comunità monastica, costituiscono una prefigurazione sulla terra di questa meta finale".
"E' un anticipo imperfetto, segnato dai limiti e dai peccati, e dunque bisognoso sempre di conversione e purificazione; e, tuttavia, nella comunità eucaristica si pregusta la vittoria dell'amore di Cristo su ciò che divide e mortifica".
Benedetto XVI ha quindi avuto parole di ricordo per il Cardinale Mayer, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e presidente emerito della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", che per tutta la vita "ha cercato di realizzare quanto San Benedetto dice nella Regola: 'Nulla si anteponga all'amore di Cristo'".
Papa Paolo VI lo nominò Segretario della Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari e volle personalmente consacrarlo Vescovo il 13 febbraio 1972, mentre nel 1984 Giovanni Paolo II gli affidò l'incarico di prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, creandolo poi Cardinale nel Concistoro del 25 maggio 1985 e assegnandogli il Titolo di Sant'Anselmo all'Aventino.
In seguito, Papa Wojtyła lo nominò primo presidente della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei". Anche in questo "nuovo e delicato incarico", ha commentato Benedetto XVI, "il Cardinale Mayer si confermò zelante e fedele servitore, cercando di applicare il contenuto del suo motto: 'L'amore di Cristo ci ha raccolti nell'unità'".
Il Santo Padre ha quindi ricordato che "la nostra vita è in ogni istante nelle mani del Signore, soprattutto nel momento della morte".
Allo stesso modo, ha affermato di non poter non rivolgere il suo pensiero al Santuario della Madre delle Grazie di Altötting, la cittadina tedesca nella quale era nato il Cardinale Mayer.
"Egli nacque presso quel Santuario, ha conformato la sua vita a Cristo secondo la Regola benedettina, ed è morto all'ombra di questa Basilica vaticana. La Madonna, San Pietro e San Benedetto accompagnino questo fedele discepolo del Signore nel suo Regno di luce e di pace", ha concluso.


“Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”. – S.E. Card. Angelo Scola - L’omelia del Patriarca a Rimini in occasione degli esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione - Apr 25, 2010
RIMINI – Il giorno 24 aprile il Patriarca ha presieduto la Santa Messa a Rimini in occasione degli esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Viene pubblicato qui di seguito il testo dell’omelia:

1. «Dio, nell’acqua del Battesimo hai rigenerato coloro che credono in te». Così ci ha fatto pregare l’Orazione di Colletta. All’interno di questi Esercizi Spirituali cui prendono parte, in vari modi, membri della Fraternità di Comunione e Liberazione di numerosi Paesi del mondo, l’azione eucaristica che stiamo celebrando rende presente l’unico ed irripetibile evento salvifico di Gesù Cristo. Siccome la rigenerazione che salva può avvenire solo nel presente, allora l’amata persona di Cristo, presente qui ed ora, sta rigenerando, sta salvando proprio me, proprio te qui ed ora. Sono io, sei tu il rigenerato, «l’uomo nuovo di cui Cristo parlava a Nicodemo, l’uomo che nasce dall’alto: dall’alto, cioè dall’Altro!» dice Don Giussani. E continua: «Si tratta realmente di una “concezione” di sé, di una concezione generata dal riconoscimento e dall’accettazione dell’Altro come l’attrattiva che mi costituisce» (cfr Certi di alcune grandi cose, 218).

Don Giussani fa leva sul doppio significato della parola concezione: nel Battesimo ogni uomo è concepito di nuovo come figlio nel Figlio e da qui ha origine per lui una nuova concezione di sé. E Benedetto XVI così la descrive, in modo lapidario: «“Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della novità cristiana chiamata a trasformare il mondo» (Omelia al Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006).

Anche dopo tanti anni di cammino cristiano è impossibile non percepire l’urto, starei per dire lo sconquasso che queste affermazioni di radice paolina provocano in noi, se non altro per l’oceano di distrazione in cui normalmente siamo immersi, forse anche qui, in questo momento.

L’uomo è concepito come cristiano nel Battesimo. Ma, soprattutto se l’ha ricevuto da bambino, il Battesimo fiorisce in una nuova concezione di vita quando avviene il suo incontro personale con Cristo nella Chiesa.

Questo incontro è dovuto alla grazia del carisma che rende persuasiva la grazia del Battesimo e dell’istituzione ecclesiale. Lo ha precisato il Venerabile Giovanni Paolo II: la grazia sacramentale (istituzione) «trova la sua forma espressiva, la sua modalità operativa, la sua concreta incidenza storica mediante i diversi carismi che caratterizzano un temperamento ed una storia personale» (Discorso ai sacerdoti partecipanti a un corso di Esercizi spirituali promosso da Comunione e Liberazione, 12 settembre 1985).

Ogni cristiano dovrebbe compiere l’esercizio di rinvenire con precisione nella propria vita il quando ed il come di questo incontro personale e riandarvi continuamente per restarvi fedele.

Tutti noi sappiamo che ogni grazia – ciò vale per il sacramento e vale per il carisma – non può essere posseduta come si possiede un oggetto. Perciò ognuno di noi, se appena è autentico, può riconoscersi in Nicodemo, combattuto tra lealtà e scetticismo. Pensiamo a quando si riaffaccia maligna la nostra misura nell’uso della ragione – «Come può nascere un uomo quando è vecchio?» (Gv 3,4); o quando la libertà si impunta – ottusa, o addirittura capricciosa – «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Vangelo, Gv 6,60) -. Allora la realtà ci sfugge come la luce se volessimo trattenerla nelle nostre mani impotenti.

2. Chi ci libererà da questa ultima tristezza di vita? Solo il “testimone fedele” (Ap 3, 14). Così l’Apocalisse definisce Gesù. Lui e quanti Lo seguono, come si segue una presenza che diventa il centro affettivo di tutta l’esistenza. Il carisma vive nell’incontro storico con il testimone in cui splende la novità del Risorto. È data così all’uomo la possibilità di ri-nascere come avvenne fisicamente, in forza del testimone Pietro, per Tabità (Gazzella) risuscitata (Prima Lettura).

La testimonianza è il metodo di conoscenza più adeguato della verità perché è il modo con cui essa si comunica. E una verità è veramente conosciuta solo quando è comunicata.

La ri-nascita battesimale consente l’incontro di tutto l’io con tutta la realtà perché apre ed accompagna la libertà a quella relazione buona per eccellenza che è la comunione con Cristo e, in Lui, con i fratelli. Il cristianesimo è realmente la nuova parentela, più forte di quella della carne e del sangue.

Ma la comunione è a tal punto “dall’alto” che in mille modi noi le opponiamo resistenza. Pertanto la provocatoria domanda di Gesù nel Vangelo di oggi: «Volete andarvene anche voi?» poco o tanto è rivolta a tutti noi qui riuniti. La vitalità del carisma, a cinque anni dalla morte di Don Giussani, domanda testimoni tesi ad una umanità riuscita. Il carisma incalza la libertà di ciascuno dei membri di Comunione e Liberazione perché giunga, come quella di Simon Pietro, fino alla verifica della convenienza della sequela: «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,69).

3. Come può credere e riconoscere Cristo come il Salvatore, cioè rinascere dall’alto, dall’Altro, l’uomo di oggi, l’uomo post-moderno, tentato di cercare la salvezza nelle strabilianti scoperte delle tecnoscienze in campo evolutivo, biologico, neuroscientifico, considerando, non di rado, la fede religiosa al massimo come una soggettiva opportunità consolatoria?

L’unica condizione, anche nell’attuale frangente storico resta l’incontro con testimoni di una umanità redenta, perciò piena e conveniente, quindi ben radicata nella post-modernità.

Vivere da uomini redenti non significa essere impeccabili, ma “amare la vita nuova” perché siamo amati da Colui che ci ama per primo. «Deus prior dilexit nos». Afferma Agostino: «Non amiamo se prima non siamo amati… Cerca per l’uomo il motivo per cui ama Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato» (Disc. 34, 1-3; 5-6).

Un simile, credibile testimone si riconosce dall’unità della sua persona. L’unità è il valore su cui si fonda l’esperienza elementare dell’io. Ma l’unità dell’io si sostanzia di relazioni buone. A partire da quelle primarie col papà e con la mamma, fino ad includere tutte le relazioni in cui l’uomo ri-nasce scoprendo ogni volta, anche dopo la caduta o i naufragi, che il disegno buono del Dio fedele non cessa di rispondere alla promessa di compimento destata dall’incontro con Cristo. È il fenomeno dell’autorevolezza, dell’affiorare della santità, che non può stare e non sta mai senza l’autorità costituita. L’autorità costituita è la figura umana attraverso la quale si segue «il disegno dello Spirito di Dio nella storia e nella nostra vita» (Don Giussani, Da quale vita nasce Comunione e Liberazione).

Unità dell’io, unità della Chiesa guidata dal Successore di Pietro e dai successori degli Apostoli. E unità con chi nella compagnia vocazionale, nata dal carisma a cui si partecipa, ha ricevuto la responsabilità oggettiva di guida. L’unità vissuta come abito permanente e virtuoso dice più di tutto il resto la novità dell’uomo redento ed assicura il permanere della Chiesa e di ogni carisma nella Chiesa. È per questo che l’unità non teme mai la correzione, comunque nasca, perché nulla può intaccare il fatto che l’unità, in quanto donata dall’alto, sempre ci precede mobilitandoci.

4. «Che cosa renderò al Signore per tutti i suoi benefici?» abbiamo ripetuto col Salmo responsoriale. La preferenza, dimostrata dal Signore con il dono della fede e con la partecipazione al carisma di Don Giussani, rende più acuta la consapevolezza e struggente la passione che, come ci documenta il Libro degli Atti, condusse i primi sulle strade del mondo. A questo proposito è utile che non ci lasciamo sfuggire quello che solo apparentemente è un dettaglio della Prima Lettura. Descrivendo la vita e la missione di Pietro, dice infatti il Libro degli Atti: «E avvenne che Pietro, mentre andava a far visita a tutti…».

In questo «far visita a tutti» sono espressi l’orizzonte e la natura propria della missione della Chiesa e di ciascuno di noi. Non c’è circostanza né situazione dell’umana esistenza estranea al dono del Risorto. Per questo la missione chiede un’apertura alla realtà a tutto campo e assegna a ciascuno di noi una ben precisa responsabilità. Ci è chiesto di assumere, come uomini nuovamente concepiti nello Spirito, le circostanze vocazionali personali e comunitarie, sempre concrete e storicamente situate, fatte di tempo e spazio, di stato di vita, di affetti, lavoro e riposo, di gioie e dolori, di speranza e di problemi… documentando la convenienza suprema dello spendere la propria esistenza “in Cristo”. La missione si gioca in ogni luogo e in ogni momento e non potrà mai essere immaginata come la riproposizione meccanica di formule o iniziative. La vita ti è data per essere donata. Se non la doni il tempo te la ruba.

Unità e missione sono l’espressione della gratitudine al Signore e a coloro che ci hanno preceduto e accompagnato nella Sua sequela. Anzitutto al carissimo Don Giussani .

5. Affidiamo alla Vergine Maria, Mater Ecclesiae, il nostro cammino. Ella è la madre dei redenti. Il Suo “sì” è sorgente del mondo trasfigurato, ambiente di vita degli uomini liberi, liberi perché sempre e di nuovo liberati dall’alto. Amen


PREGARE FA BENE ALLA SALUTE - di padre Piero Gheddo*
ROMA, lunedì, 3 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pregare fa bene alla salute. Non è un dogma, ma semplicemente un’esperienza mia e credo di molti altri. Da pochi giorni è iniziato il mese di maggio, nella tradizione cattolica dedicato alla Madonna. Fin dai nostri primi anni tutti noi credenti siamo imbevuti della devozione a Maria, la nostra fede in Cristo è strettamente congiunta alla devozione mariana, Cristo richiama Maria e Maria ci rimanda a Cristo.
Uno dei più bei ricordi che ho conservato dei cinque anni trascorsi nel Seminario diocesano di Moncrivello (Vercelli) per il ginnasio (1940-1945) è l’appuntamento serale alla Grotta di Lourdes al fondo del grande orto e cortile. Dopo la cena e la ricreazione, si andava tutti assieme alla Grotta dove dicevamo “le preghiere della buona notte” a Maria. Con breve fervorino mariano e canto finale nell’ora del tramonto e nel silenzio e pace della campagna, col frinire dei grilli in sottofondo, che invitava alla riflessione e alla commozione pregando e pensando alla Mamma del Cielo.
Erano anni di guerra e il seminario sorgeva a poche decine di chilometri da Torino: a volte di sera e di notte andavamo in terrazza a vedere i lampi e tuoni dei bombardamenti e a pregare per quei poveri torinesi che morivano sotto le bombe; e poi eravamo in zona di guerriglia partigiana fra le risaie vercellesi e le colline del Canavese. Sentivamo racconti di violenze, vendette, fucilazioni, torture, agguati, perquisizioni notturne, di giorno e di notte passavano in seminario gruppetti di partigiani o di militi fascisti che suscitavano in noi ragazzini un senso di paura e di pietà. Anni di scarso e a volte disgustoso cibo (le amarissime rape bianche bollite coltivate nell’orto, che dovevamo mangiare!). E poi, alla sera, il rifugio della preghiera fra le braccia della Mamma, che ci mandava a letto sereni e pacificati con la vita.
Dobbiamo riprendere le devozioni del mese di maggio: il Rosario e il “fioretto” quotidiani, cioè la mortificazione che ci si impone per controllare la nostra volontà e sensibilità e orientarle a Dio. “Bisogna mortificarsi nelle cose lecite – diceva mio padre Giovanni – per poter resistere alle cose illecite”. L’amore e la devozione a Maria devono crescere perché, come diceva Paolo VI in un discorso del 1971, “occorre introdurre il ricordo di Maria, il suo pensiero, la sua immagine, il suo sguardo profondo nella cella della religiosità personale, della pietà segreta e intima dello spirito”.
In altre parole, non basta una devozione formale, il mese di maggio può portare ciascuno di noi ad amare Maria con cuore sincero e filiale, in modo che diventi davvero il nostro rifugio nell’ora della tentazione, della stanchezza, della depressione, della sofferenza e sostenga la nostra volontà nella scelta del meglio, nella costanza dell’impegno, nella capacità del sacrificio. E’ un’esperienza molto concreta che ciascuno può fare, impegnandosi nel mese di maggio a dare un po’ del nostro tempo e della nostra preghiera a Maria.
Perché il Rosario? Per tanti motivi, ma per me è la preghiera più facile e immediata, più meditativa e affettiva, che mi permette in ogni momento della mia giornata di elevarmi a Maria e a Cristo e praticare quella “preghiera continua” che è indispensabile per giungere a sentire vivamente la presenza di Dio in noi. Questo sentimento fa bene alla salute, perché relativizza le cose materiali, ci fa vivere, pur immersi nel mondo e nelle fatiche quotidiane, in una dolce unione con Dio che ci mantiene sereni in tutte le vicende della vita.
Ogni tanto, qua o là, si legge di un ritorno al devozionalismo, si critica il Papa perché, così dicono alcuni, vuole tornare al passato e far risorgere pratiche tradizionali considerate alienanti. Così il Rosario è spesso bollato per devozionalismo o conservatorismo. Ma nessun santo ha praticato un cristianesimo senza devozioni, né la Chiesa ha mai insegnato questo. Il Rosario non è certo essenziale alla fede, ma si manifesta ancor oggi come uno strumento importante per portare i fedeli a vivere la fede. Diceva Giovanni XXIII, che del Rosario era devotissimo: “Il Rosario è un esercizio avvincente, insostituibile di preghiera”.


La grande "scommessa". Come rifondare da capo la Legione - Le colpe di Maciel. Il sistema di potere che copriva la sua vita indegna. Le autorità vaticane accusano. E dettano l'agenda della ricostruzione. Con i pieni poteri affidati a un cardinale delegato dal papa - di Sandro Magister
ROMA, 3 maggio 2010 – Il comunicato emesso due giorni fa dalla Santa Sede a proposito dei Legionari di Cristo è di portata notevolissima. È riprodotto integralmente più sotto e va letto dalla prima riga all'ultima. Ma per essere capito a fondo esige qualche nota esplicativa.

LA GENESI DEL COMUNICATO

I cinque vescovi che hanno compiuto la visita apostolica nella Legione – tutti di primo piano nei rispettivi paesi – hanno consegnato i loro rapporti alle autorità vaticane alla metà dello scorso mese di marzo, dopo sette mesi di indagini nelle rispettive aree geografiche.

Sulla base dei loro rapporti e citandoli ampiamente, la segreteria di Stato vaticana ha predisposto un documento di lavoro.

Richiamati in Vaticano alla fine di aprile, i cinque visitatori hanno lavorato intensamente, per tutta la giornata di venerdì 30 aprile e la mattina di sabato 1 maggio, sulla traccia del documento. L'hanno fatto sotto la presidenza del cardinale Tarcisio Bertone e assieme al cardinale William J. Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, al cardinale Franc Rodé, prefetto della congregazione per i religiosi, e all'arcivescovo Fernando Filoni, sostituto della segreteria di Stato.

La stesura del comunicato finale è stata anch'essa parte dei lavori.

IL RUOLO DEL PAPA

Benedetto XVI ha assistito per un'ora e mezza, in silenzio, ai lavori del gruppo, la mattina di venerdì 30 aprile. Prima di lasciarli, ha incoraggiato i presenti a presentargli proposte concrete, sulle quali egli avrebbe preso le sue decisioni.

Ma questo è stato solo l'ennesimo atto di un ruolo da assoluto protagonista svolto da Joseph Ratzinger nel caso dei Legionari di Cristo. Alla fine del 2004 fu lui a ordinare un'indagine sul loro fondatore, Marcial Maciel Degollado, contro la generale convinzione innocentista di tutta la curia dell'epoca e dello stesso papa Giovanni Paolo II. Fu lui, da papa, a emettere nel maggio del 2006 la sentenza di condanna di Maciel. Fu lui nell'estate del 2009 a ordinare la visita apostolica nella Legione.

IL GIUDIZIO SU MACIEL

Il comunicato esplicita per la prima volta in un documento vaticano ufficiale le colpe del fondatore dei Legionari, colpe che nemmeno la condanna del 2006 aveva formulato.

Esse vengono identificate in "comportamenti gravissimi e obiettivamente immorali" e talora in "veri delitti", atti a configurare "una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso".

LA COMPLICITÀ DEI CAPI

Severissimo e senza precedenti è anche il giudizio che il comunicato emette sul "sistema di relazioni" costruito attorno a Maciel, sul "silenzio dei circostanti", sul "meccanismo di difesa" della sua vita indegna.

Scrivendo che "di tale vita era all’oscuro gran parte dei Legionari", il comunicato afferma implicitamente che altri invece sapevano.

Non ci sarà quindi nessuna indulgenza per il "sistema di potere" che ha fatto blocco attorno a Maciel prima e dopo la sua morte, cioè per gli attuali capi centrali e territoriali della Legione.

In particolare, è del tutto illusorio che la scure possa risparmiare i due capi supremi, il direttore generale Álvaro Corcuera e il vicario generale Luís Garza Medina.

Quest'ultimo, fino ad oggi il vero numero uno della Legione sotto il profilo finanziario, ha fatto di tutto in queste ultime settimane per configurarsi come un nuovo Talleyrand, capace di restare in sella anche nel Termidoro dopo aver assecondato il Terrore.

Ma anche Maciel appariva "inattaccabile" – come ricorda il comunicato – e alla fine è sprofondato.

LA "SCOMMESSA" SUL FUTURO

Con molto realismo, il documento di lavoro su cui si è discusso non dava per sicuro il buon esito dell'opera di ricostruzione che la Legione dovrà compiere. Circa il futuro, usava la parola "scommessa".

Un elemento di fiducia – a detta del comunicato – è dato dal "gran numero di religiosi esemplari" incontrati dai visitatori, animati da "zelo autentico per la diffusione del Regno di Dio".

Ma degli 800 sacerdoti della Legione sono all'incirca solo 100, oggi, quelli che già agiscono consapevolmente per un "cammino di profonda revisione". La maggior parte sono tuttora smarriti, traumatizzati dalle rivelazioni sul fondatore, sottomessi all'autorità dei capi in cui vedono l'unico loro ancoraggio.

LA PROSSIMA AGENDA

Oltre alla nomina di un commissario, le autorità vaticane annunciano nel comunicato due altri provvedimenti.

Il primo era già previsto e sarà una visita apostolica supplementare relativa al Regnum Christi, l'associazione laicale che affianca i Legionari, anch'essa fondata da Maciel.

Il secondo provvedimento è invece nato dalla discussione dei giorni scorsi. Sarà costituita una commissione indipendente di studio sulle costituzioni della Legione, in particolare per "rivedere l’esercizio dell’autorità".

CHI SARÀ IL COMMISSARIO

Quanto al commissario, o meglio, al "delegato" papale che assumerà i pieni poteri nella fase di ricostruzione della Legione, si prevede che Benedetto XVI lo nominerà prima dell'estate.

Nella riunione se ne è discusso. Se ne sono descritte le qualità auspicabili. E si è fatto un nome, uno solo finora: quello del cardinale messicano Juan Sandoval Íñiguez, arcivescovo di Guadalajara.

Il cardinale Sandoval conosce bene la Legione, che ha in Messico la sua patria storica. È anche titolare, a Roma, della chiesa di Nostra Signora di Guadalupe, di proprietà dei Legionari. Ma non si è mai mescolato a loro e alle loro trame, né con Maciel né con gli attuali capi. Ha 77 anni ed è in procinto di lasciare la guida della diocesi per superati limiti di età: potrà quindi dedicarsi a tempio pieno alla causa. In Vaticano è membro della congregazione per i religiosi, di quella per l'educazione cattolica e della prefettura per gli affari economici della Santa Sede. Inoltre, fa parte della commissione cardinalizia di vigilanza dell'Istituto per le Opere di Religione. È persona giudicata molto risoluta e di sicura affidabilità.

UNA SVOLTA COMUNICATIVA

Un'ultima notazione. Con questo comunicato, la Santa Sede ha rovesciato lo schema dominante in questi tempi nei media sulla pedofilia. Invece che farsi dettare l'agenda dai giornali, invece che rispondere caso per caso al martellamento delle accuse, la Santa Sede ha questa volta preso essa l'iniziativa.

Nel caso dei Legionari, sono i media che devono inseguire le decisioni delle autorità vaticane, in primo luogo del papa. E sono decisioni difficilmente contestabili. Decisioni tipicamente di Chiesa, che nessun tribunale terreno può surrogare. Decisioni atte non solo a punire, ma soprattutto a sanare, confortare, purificare, ricostruire. In quell'ordine della grazia di cui la Chiesa è depositaria e custode.

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COMUNICATO DELLA SANTA SEDE
1 maggio 2010
1. Nei giorni 30 aprile e 1 maggio il Cardinale Segretario di Stato ha presieduto in Vaticano una riunione con i cinque Vescovi incaricati della Visita Apostolica alla Congregazione dei Legionari di Cristo (mons. Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid; mons. Charles Joseph Chaput, OFM Cap., Arcivescovo di Denver; mons. Ricardo Ezzati Andrello SDB, Arcivescovo di Concepción; mons. Giuseppe Versaldi, Vescovo di Alessandria; mons. Ricardo Watty Urquidi, M.Sp.S., Vescovo di Tepic). Ad essa hanno preso parte i Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica e il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato.

Una delle sessioni si è svolta alla presenza del Santo Padre, al quale i Visitatori hanno presentato una sintesi delle loro Relazioni, già anteriormente inviate.

Nel corso della Visita sono stati incontrati personalmente più di 1.000 Legionari e sono state vagliate diverse centinaia di testimonianze scritte. I Visitatori si sono recati in quasi tutte le case religiose e in molte delle opere di apostolato dirette dalla Congregazione. Hanno ascoltato, a voce o per iscritto, il giudizio di molti Vescovi Diocesani dei Paesi in cui la Congregazione opera. I Visitatori hanno anche incontrato numerosi membri del Movimento "Regnum Christi", benché esso non fosse oggetto della Visita, in particolare uomini e donne consacrate. Hanno ricevuto anche notevole corrispondenza da parte di laici impegnati e di familiari di aderenti al Movimento.

I cinque Visitatori hanno testimoniato l’accoglienza sincera loro riservata e lo spirito di fattiva collaborazione mostrato dalla Congregazione e dai singoli religiosi. Pur avendo agito indipendentemente, sono giunti ad una valutazione ampiamente convergente e ad un giudizio condiviso. Essi hanno attestato di avere incontrato un gran numero di religiosi esemplari, onesti, pieni di talento, molti dei quali giovani, che cercano Cristo con zelo autentico e che offrono l’intera loro esistenza per la diffusione del Regno di Dio.

2. La Visita Apostolica ha potuto appurare che la condotta di P. Marcial Maciel Degollado ha causato serie conseguenze nella vita e nella struttura della Legione, tali da richiedere un cammino di profonda revisione.

I gravissimi e obiettivamente immorali comportamenti di P. Maciel, confermati da testimonianze incontrovertibili, si configurano, talora, in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso. Di tale vita era all’oscuro gran parte dei Legionari, soprattutto a motivo del sistema di relazioni costruito da P. Maciel, che abilmente aveva saputo crearsi alibi, ottenere fiducia, confidenza e silenzio dai circostanti e rafforzare il proprio ruolo di fondatore carismatico.

Non di rado un lamentevole discredito e allontanamento di quanti dubitavano del suo retto comportamento, nonché l’errata convinzione di non voler nuocere al bene che la Legione stava compiendo, avevano creato attorno a lui un meccanismo di difesa che lo ha reso per molto tempo inattaccabile, rendendo di conseguenza assai difficile la conoscenza della sua vera vita.

3. Lo zelo sincero della maggioranza dei Legionari, emerso anche nelle visite alle case della Congregazione e a molte loro opere, non da pochi assai apprezzate, ha portato molti in passato a ritenere che le accuse, via via divenute più insistenti e lanciate qua e là, non potessero essere che calunnie.

Perciò la scoperta e la conoscenza della verità circa il fondatore ha provocato, nei membri della Legione, sorpresa, sconcerto e profondo dolore, distintamente evidenziati dai Visitatori.

4. Dai risultati della Visita Apostolica sono emerse con chiarezza, tra gli altri elementi:

a) la necessità di ridefinire il carisma della Congregazione dei Legionari di Cristo, preservando il nucleo vero, quello della "militia Christi", che contraddistingue l’azione apostolica e missionaria della Chiesa e che non si identifica con l’efficientismo a qualsiasi costo;

b) la necessità di rivedere l’esercizio dell’autorità, che deve essere congiunta alla verità, per rispettare la coscienza e svilupparsi alla luce del Vangelo come autentico servizio ecclesiale;

c) la necessità di preservare l’entusiasmo della fede dei giovani, lo zelo missionario, il dinamismo apostolico, per mezzo di un’adeguata formazione. Infatti, la delusione circa il fondatore potrebbe mettere in questione la vocazione e quel nucleo di carisma che appartiene ai Legionari di Cristo ed è loro proprio.

5. Il Santo Padre intende rassicurare tutti i Legionari e i membri del Movimento "Regnum Christi" che non saranno lasciati soli: la Chiesa ha la ferma volontà di accompagnarli e di aiutarli nel cammino di purificazione che li attende. Esso comporterà anche un confronto sincero con quanti, dentro e fuori la Legione, sono stati vittime degli abusi sessuali e del sistema di potere messo in atto dal fondatore: ad essi va in questo momento il pensiero e la preghiera del Santo Padre, insieme alla gratitudine per quanti di loro, pur in mezzo a grandi difficoltà, hanno avuto il coraggio e la costanza di esigere la verità.

6. Il Santo Padre, nel ringraziare i Visitatori per il delicato lavoro da essi svolto con competenza, generosità e profonda sensibilità pastorale, si è riservato di indicare prossimamente le modalità di questo accompagnamento, a cominciare dalla nomina di un suo Delegato e di una Commissione di studio sulle Costituzioni.

Ai membri consacrati del Movimento "Regnum Christi", che lo hanno richiesto con insistenza, il Santo Padre invierà un Visitatore.

7. Infine, il Papa rinnova a tutti i Legionari di Cristo, alle loro famiglie, ai laici impegnati nel movimento "Regnum Christi", il suo incoraggiamento, in questo momento difficile per la Congregazione e per ciascuno di loro. Li esorta a non perdere di vista che la loro vocazione, scaturita dalla chiamata di Cristo e animata dall’ideale di testimoniare al mondo il suo amore, è un autentico dono di Dio, una ricchezza per la Chiesa, il fondamento indistruttibile su cui costruire il futuro personale e quello della Legione.


BENEDETTO XVI SVELA IL VALORE DELLA SINDONE - La sua corrispondenza con il racconto della Passione nei Vangeli - di Jesús Colina
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 3 maggio 2010 (ZENIT.org).- La visita di Benedetto XVI a Torino, questa domenica, è servita a far sì che i cristiani comprendano meglio il valore della Sacra Sindone.
Il Pontefice non ha usato il termine "reliquia". Nella sua meditazione davanti al sudario ha parlato invece di "icona scritta col sangue" "in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù".
Il Santo Padre non ha parlato in alcun momento degli studi scientifici sulla datazione della tela, che in alcuni ambienti suscitano polemiche. Come aveva spiegato il Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, la fede dei cristiani nella resurrezione di Gesù non dipende da questo lenzuolo, che secondo la tradizione ha avvolto il corpo di Cristo nel Santo Sepolcro.
Padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, aveva già spiegato nell'ultimo editoriale di "Octava Dies", settimanale del Centro Televisivo Vaticano, il motivo per il quale il Papa presenta questo lenzuolo di più di quattro metri come un'"icona".
"Non è tanto l'origine misteriosa di questa immagine ad attrarre, quanto la sua rispondenza impressionante, in numerosissimi particolari, al racconto della Passione di Cristo dei Vangeli: le piaghe, il sangue colato, le ferite della corona di spine, i colpi dei flagelli", constatava.
"E al centro il volto solenne del crocifisso, un volto che corrisponde agli schemi più antichi dell'iconografia cristiana e a sua volta la conferma e la ispira", affermava padre Lombardi.
Visitando il 24 maggio 1998 la Cattedrale di Torino, neanche Giovanni Paolo II aveva parlato della Sacra Sindone come di una reliquia, ma piuttosto come di una "provocazione all'intelligenza" per gli interrogativi che pone ai ricercatori, così come di "specchio del Vangelo", per la sua capacità di riflettere i segni visibili della Passione e morte di Cristo.
Le meditazioni dei due Pontefici si sono unite per offrire ai milioni di pellegrini che visitano la Sacra Sindone dal 10 aprile al 23 maggio il suo profondo valore, indipendentemente dagli studi scientifici che alcuni esperti rivendicano per continuare a chiarire i dubbi.
"Come parla la Sindone?", si è chiesto il Papa. "Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un'Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro".
"Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell'acqua parlano di vita. E' come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla", ha concluso.
In questo modo, ha osservato padre Lombardi, i pellegrini che accorrono a Torino hanno un obiettivo molto specifico: "Desideriamo conoscere Dio e lo possiamo conoscere attraverso il volto di Cristo".


I novantacinque anni del rabbino capo emerito di Roma - Toaff il traghettatore - L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010
In occasione del novantacinquesimo compleanno di Elio Toaff, rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001, viene presentato lunedì 3 maggio a Roma il volume Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia (Torino, Zamorani, 2010, pagine 130, euro 18) dal quale pubblichiamo l'introduzione della curatrice e, sotto, un intervento del nostro direttore. Nell'ambito delle celebrazioni, inoltre, il rabbino emerito ha rilasciato interviste che sono state pubblicate sulle riviste "Pagine Ebraiche", mensile di attualità e cultura dell'Unione delle comunità ebraiche italiane diretto da Guido Vitale, e "Shalom", mensile ebraico di informazione e cultura diretto da Giacomo Kahn. A Toaff è stata per l'occasione intitolata una fondazione, varata nell'ottobre scorso e presieduta da Ermanno Tedeschi, che viene presentata nello stesso appuntamento romano nel corso del quale viene anche proiettata l'anteprima di un filmato realizzato da Emanuele Ascarelli e Mirko Duiella sulla vita di Elio Toaff.

di Anna Foa
Questa raccolta di saggi vuole essere un primo contributo allo studio della figura e del percorso di Rav Elio Toaff, rabbino capo di Roma per cinquant'anni, dal 1951 al 2001, oltre che personaggio di primo piano della vita italiana nella seconda metà del Novecento. Colui, in sostanza, che ha traghettato il mondo ebraico italiano nell'Italia di oggi, dopo gli anni difficili del dopoguerra: un quarto del rabbinato italiano distrutto dalla Shoah, gli ebrei impegnati in una ricostruzione difficilissima, dopo gli anni della persecuzione delle vite e quelli, quasi altrettanto disastrosi dal punto di vista dell'organizzazione comunitaria e della coesione interna, della discriminazione sancita dalle leggi del 1938.
Elio Toaff si è posto, se non immediatamente certamente dagli anni Settanta in poi, come il protagonista del reingresso totale e pieno degli ebrei nella società e nella cultura italiana. Egli ha saputo, certo non da solo ma sicuramente in un ruolo primario, reinserire il mondo ebraico in due nuovi contesti che si aprivano, quello della costruzione della memoria della Shoah e quello dei nuovi rapporti che si erano determinati, a partire dal concilio Vaticano ii e dalla dichiarazione Nostra aetate, fra ebrei e Chiesa Cattolica. Ha saputo cioè cogliere il nuovo, fin dai suoi primi germi, aderirvi senza timori né paure, spingere un mondo ebraico periferico e numericamente ultramarginale nella società italiana su posizioni sempre più egemoni culturalmente e politicamente. Una spinta innovatrice sempre, evidentemente, mantenuta dentro i binari dell'osservanza della tradizione. "Un preciso orientamento tra modernità e tradizione", come sottolinea in queste pagine Rav Riccardo Di Segni, suo successore alla cattedra rabbinica di Roma. Ma non si trattava, vorrei porvi l'accento qui, né di un'operazione facile né di un'operazione scontata. Il legame tra il compito portato avanti da Toaff nel suo ruolo di rabbino di Roma e quello di italiano impegnato in un'opera di mediazione e di costruzione di nuovi rapporti tra la piccola minoranza ebraica e il mondo esterno di cui è parte integrante: è la chiave di questa raccolta di contributi. Una chiave volta ad approfondire la funzione di Toaff, proprio in quanto rabbino, nella società e nella cultura italiana. Per questo, il libro è orientato a sottolineare soprattutto il ruolo di Toaff nel rapporto con l'esterno, la sua immagine esterna. Non si tratta di un volume destinato ad approfondire la sua esperienza formativa ebraica e i suoi indirizzi rabbinici, qui solo accennati nel saggio di Di Segni e in quello di Marco Morselli.
Molta attenzione dedichiamo invece al suo rapporto con il mondo esterno, alla sua paziente e coraggiosa tessitura di rapporti, incontri, alla creazione insomma di quell'immagine di Toaff su cui finora assai poco si è detto e scritto, a parte la formula ormai un po' abusata di "papa degli ebrei". Qual è l'immagine che la società italiana in trasformazione, intenta a rivedere i suoi rapporti con il mondo ebraico e a edificare tanta parte della sua identità sulla memoria della Shoah, ha avuto del rabbino capo di Roma, fino alla visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga nel 1986? E quanto ha influito, in quest'immagine, l'apertura di Toaff, il coraggio nell'affrontare il cambiamento, la capacità di tenere insieme i fili di più mondi, di riannodarli, la sua indiscussa capacità diplomatica e politica? Perché, insisto nel ribadire questo punto, non era affatto scontato che il mondo ebraico italiano del dopo Shoah fosse in grado di reggere i cambiamenti esterni, di comprenderli, di farli suoi. E forse, senza l'apporto del rabbino di Roma, questi cambiamenti stessi sarebbero stati assai più lenti e difficili.
Ecco quindi che i contributi di questo volume, affidati a storici e studiosi tanto ebrei che non ebrei, affrontano temi quali il ruolo di Toaff negli anni Trenta e Quaranta, nel rigoroso e documentato saggio di Tommaso Dell'Era; il dopoguerra e i nessi che legano la ricostruzione del mondo ebraico a quella della società italiana, nel bel saggio sulla cultura ebraica italiana del dopoguerra di Gadi Luzzatto Voghera; la stentata memoria della Shoah nella società esterna e le prime reazioni del mondo ebraico intento a contare i suoi caduti, nel saggio di Manuela Consonni e di Miriam Toaff Della Pergola; l'apporto di Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, nel contributo di Marco Morselli che rievoca i primi passi del dialogo e il ruolo avutovi da Toaff, e in quello di Andrea Riccardi, che analizza il passaggio del mondo cattolico dall'indifferenza alla simpatia verso gli ebrei; e poi la ricezione del concilio Vaticano ii, un tema importante e poco dibattuto, dal momento che gli studi toccano normalmente la ricezione cattolica del cambiamento e non quella ebraica, qui ampiamente trattato da Alberto Melloni; gli intensi e complessi rapporti tra cattolici ed ebrei e il consolidarsi dell'immagine esterna di Toaff, come il "papa degli ebrei", fino alla visita in Sinagoga del 1986, nel contributo storico di Andrea Riccardi, che queste vicende ha vissuto anche da protagonista. Sullo sfondo, l'immagine dell'anziano rabbino che, avvolto nel talet, in via Catalana saluta Benedetto XVI nella sua recente visita alla Sinagoga di Roma, sempre fiducioso nel dialogo, ancora disponibile a percorrere la strada, lunga e complessa, da lui stesso aperta in anni ormai lontani.
Ancora una parola sul titolo di questo volume. Certo, il ruolo di Elio Toaff è significativo nella seconda parte del Novecento, e solo a partire da allora. Ma, mentre il protagonista di questo lavoro compie novantacinque anni e si affaccia alla soglia del secolo, ci sia permesso di alludere nel titolo alla sua importanza in quella che è stata l'intera storia del secolo, il secolo dei genocidi e della violenza, ma anche il secolo del cambiamento e delle speranze nella costruzione di un mondo migliore. Cambiamenti e speranze che Elio Toaff ben rappresenta.
(©L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010)


TIZIANA ROCCA, SUPERMAMMA - Parla la più famosa “pierre” italiana, autrice di un libro di consigli per le giovani mamme - di Renzo Allegri
ROMA, lunedì, 3 maggio 2010 (ZENIT.org).- Il mondo dello spettacolo e della pubblicità è, in genere, piuttosto svagato riguardo ai valori educativi e in particolare a quelli religiosi. Ma guai ad emettere giudizi generalizzati. Anche in quel mondo si trovano persone eccezionali e ammirevoli.
Tiziana Rocca, quarantenne, napoletana di nascita, romana di adozione, madre di tre bambini, moglie del regista e attore Giulio Base, è il numero uno delle Pubbliche Relazioni in Italia, donna famosa, ma anche donna e mamma straordinaria. Aziende, attori, cantanti, politici, industriali, manager, campioni dello sport si affidano a lei per farsi conoscere al grande pubblico e per far conoscere la loro attività. E Tiziana, da quasi vent’anni a capo di una propria efficientissima organizzazione, crea eventi, prepara feste, convegni, conferenze stampa, spot pubblicitari, con una abilità impareggiabile, ottenendo sempre grossi risultati e per questo i media l’hanno incoronata con il titolo di “Regina delle Pierre”.
Donna di mondo, sempre alla ribalta, in tv, sui giornali, ma donna ricca di valori, di convinzioni radicate, di autentica fede religiosa. Una cattolica praticante, che la domenica va a messa con marito e figli e tutti i giorni, mattina e sera, recita, con la famiglia, le preghiere. Lo confessa candidamente e serenamente lei stessa in un magnifico libro che si intitola “Mamma dalla A alla T”, pubblicato, qualche tempo fa, in Italia dal “Messaggero” di Padova, e, ora, uscito negli Stati Uniti.
Un libo dedicato alle mamme, che ha anche un sottotitolo: “Manuale di sopravvivenza per le donne di oggi”. Frase che fa venire in mente quelle guide, tra il serio e il faceto, che servono per soddisfare curiosità superficiali. Ma, appena si inizia la lettura, ecco la sorpresa: ci si trova di fronte a un testo che affascina proprio per la qualità dei valori che propone e per la sincerità e l’entusiasmo con cui li propone. Solo una donna profondamente convinta del ruolo di madre può scrivere in quel modo. "Avere dei figli e una famiglia", afferma Tiziana Rocca "è quanto di più bello esista, qualcosa di unico, in grado di arricchire la propria esistenza come niente altro al mondo".
Dinamica, infaticabile lavoratrice, ha una preparazione professionale solida, ricca di lunga esperienza e di traguardi invidiabili conseguiti sul campo. Ha scritto vari libri riguardanti la sua professione, tiene corsi di perfezionamento, è una donna di quelle che contano molto nel mondo del business e dello spettacolo, ma afferma con decisione che le più grandi soddisfazioni le ha dagli affetti familiari e dal suo impegno nel sociale, in difesa delle persone meno fortunate. Ed è orgogliosa di essere stata nominata dallo Stato Pontificio “Domina Ordinis Santci Gregori Magni” e di aver ricevuto dall’ONU il titolo di “The United Nations High Commissioner for Refugees”.
"Anche questo libro mi sta dando grandi soddisfazioni", dice. "L’ho scritto con il cuore, e di getto. L’ho dedicato a tutte le donne che come me sono anche mamme. In Italia ha venduto bene e mi auguro che succeda anche negli Stati Uniti, e questo perché, essendo un libro al di fuori della mia professione, ho devoluto tutti i diritti d’autore in beneficenza, al progetto della Caritas Antoniana per le mamme africane".
Libro che si legge d’un fiato, e che apre una sorprendente finestra sulla vita privata di questa donna e sulla sua famiglia. E sta qui, la sorpresa. Si è portati a pensare che Tiziana Rocca, impegnata a costruire successi, carriere, conquiste economiche per le grandi aziende e per i vip, abituata a vivere tra i protagonisti del mondo dello spettacolo, della televisione, dei ricevimenti, dei party, abbia una mentalità e uno stile di vita consoni con quel mondo, in genere egoista, cinico, frivolo, attento all’apparire, al successo, ai soldi. Invece, no. Ogni pagina del libro è traboccante di saggezza, di un modo di vivere semplice, misurato, naturale, tutto volto a creare una famiglia armoniosa, unita, allegra, affiatata, ricca dei valori culturali e religiosi, perché convinta che solo questo tipo di famiglia possa aiutare a costruire una società migliore.
E non si tratta di un libro “teorico”, costruito a tavolino. E’ un libro pratico, dove l’autrice racconta le proprie esperienze, si confessa con candore e semplicità e il libro diventa così una specie di diario, un reality in famiglia, animato da personaggi veri, che non “recitano”, ma “vivono”. Pagina dopo pagina, veniamo a conoscere i componenti della famiglia di Tiziana: Cristiana, 12 anni, Vittorio, che ne ha 7 e Valerio, 6. Entrano in scena, di tanto in tanto, anche il marito, Giulio, il nonno, Claudio, le baby sitter.
Ogni argomento, suggerito da una lettera dall’alfabeto, viene annunciato brevemente e poi illustrato con esempi sperimentati di persona. L’autrice “racconta” come si è comportata nelle specifiche situazioni che intende illustrare, spiega “perché” ha scelto quel comportamento, “come” è riuscita a trasmetterlo ai bambini e quali risultati ha ottenuto.
I temi affrontati, le situazioni descritte, i consigli e i suggerimenti si ispirano a una qualità di esistenza sana e impegnata. Gli ideali che l’autrice si propone e che consiglia, sono quelli che nobilitano le persone e la società, valori umanissimi, aperti al confronto, all’accoglienza del diverso, rispettosi dell’altro, pronti ad aiutare chi è meno fortunato.
Perché il libro si intitola “Mamma dalla A alla T”, e non dalla “A alla Z”?
Tiziana Rocca: Non volevo peccare di presunzione. Sono consapevole che, anche con il massimo impegno, nel lavoro di mamma non si arriva mai alla perfezione, non si finisce mai di imparare. Così, idealmente, mi sono fermata alla “T”, e non alla “Z”.
Tra i valori positivi da trasmettere ai figli, quale ritiene più importante?
Tiziana Rocca: Tutti i valori sono importanti. Metto al primo posto il sentimento religioso, perché da esso, vissuto bene, con vera a maturata convinzione, traggono linfa tutti gli altri. Credo sia importante insegnare ai bambini a pregare già quando sono ancora molto piccoli. I miei figli sono abituati a dire la preghiera prima di mangiare e prima di andare a dormire. Alla domenica mio marito ed io andiamo a Messa portando con noi i bambini. L’esempio è fondamentale. La fede è un qualche cosa che ha un valore unico. Noi genitori cerchiamo di segnare una strada, di dare un esempio, ma abbiamo e avremo sempre massimo rispetto per le scelte dei figli, anche se diverse dalla nostre.
Qual è, secondo lei, il comportamento che i figli fin da piccoli devono evitare?
Tiziana Rocca: L’egoismo. Mortifica e umilia la natura umana. E’ la radice dei vizi. Mio marito ed io stiamo molto attenti a richiamare l’attenzione dei nostri figli sulle persone bisognose, invitandoli a donare loro una monetina o una parola di conforto. Nel nostro bilancio familiare è compresa anche l’adozione a distanza di una bambina indiana che di tanto in tanto ci invia letterine e foto. E’ un modo per dare ai nostri bambini un esempio di solidarietà e responsabilizzarli su quello che hanno.
Secondo certe statistiche, nella vita moderna è la televisione il vero educatore dei bambini, in quanto essi passano più ore davanti al piccolo schermo che con i genitori. Che ne pensa?
Tiziana Rocca: E’ purtroppo un dato di fatto, ma deleterio. Come tutti i mezzi di conoscenza e di informazione moderni, la televisione è molto importate, se usata bene. Io sono convinta che i bambini devono soprattutto parlare molto con i genitori. Il dialogo è il mezzo principale per una buona educazione. In famiglia, noi lo teniamo al primo posto. A volte, le giornate volano e per dialogare cerchiamo di adottare degli escamotage come spegnere la televisione quando siamo insieme e cercare di raccontarci come si è vissuto durante la giornata.
Tutti i bambini sono affascinati dai videogame: come giudica questi passatempi?
Tiziana Rocca: Il gioco è molto importante perché sviluppa l’intelletto e aiuta a crescere. Ma deve essere un gioco costruttivo. I videogame non lo sono. In casa nostra non sono mai entrati. E’ chiaro che dai loro amici, i miei figli giocano e quando tornano a casa li chiedono. Ma Giulio ed io spieghiamo loro che noi desideriamo che i nostri figli vivano una vita “reale” e non “virtuale”. Per cui, se si vuole fare una partita a tennis, a calcio, andare a cavallo, possiamo organizzarci per farlo veramente, all’aria aperta, e non nel video della Tv.
I suoi bambini ascoltano?
Tiziana Rocca: Se i genitori hanno acquistato la fiducia e la stima dei loro figli, i bambini ascoltano certamente. Riflettono, dialogano, presentano delle obiezioni, e alla fine assimilano l’insegnamento. Ma è importante dare loro l’esempio. Molti genitori pensano che per educare i figli sia sufficiente mandarli a scuola. Non è assolutamente vero. La scuola è certamente importantissima nell’educazione, ma la famiglia e l’insegnamento che si dà in famiglia lo sono molto di più.


SINDONE/ Il racconto: così il Papa ha risvegliato la mia laica Torino – Redazione - martedì 4 maggio 2010 – ilsussidiario.net
“Un uomo può rinascere quando è vecchio?” chiedeva Nicodemo a Gesù. La risposta di Gesù fu un sì. Sì, ma non solo per Nicodemo; possiamo applicare quella risposta di Gesù a tutte le situazioni, a tutte le persone.
È ciò che è accaduto la domenica 2 maggio alla città di Torino, che ha ricevuto il Papa “pellegrino alla Sindone” sotto un cielo grigio e piovoso, nell’abbraccio di un popolo immenso che di ora in ora è stato conquistato dal carisma petrino di Benedetto XVI. “Non vedi come cambia la faccia della gente, quando non è più centrata su di sé, ma guarda un Altro?”, mi faceva notare don Silvino Dalcolmo, parroco in uno dei "Bronx" della città.
In effetti, dal primo istante della sua apparizione in Piazza San Carlo, “il salotto di Torino”, un evento si è imposto, come l’apparizione del Risorto nel Cenacolo e la giornata è trascorsa, correndo dietro al Papa, ai suoi gesti, alle sue parole, mentre l’onda della commozione è andata crescendo come quel primo giorno dopo la Resurrezione di Cristo. Un fatto, un evento, non dei pensieri, non i nostri pensieri.
Oggi nel mondo non c’è una novità più grande del Papa a cambiare il sentimento che abbiamo di noi stessi. Con un tocco di umanità e di intelligenza, raro oggi nei politici, il sindaco Chiamparino nel saluto al Papa ha detto: “Ragione e fede la accolgono”. Ed è così: i cinque discorsi pronunciati a Torino, l’omelia durante la Santa Messa, il saluto mariano al Regina Coeli, l’incontro con i giovani, la riflessione davanti alla Santa Sindone, il commovente incontro con i malati del Cottolengo sono una vera e propria Enciclica alla città e alla Chiesa che è in Torino.
La speranza è che non vengano dimenticati presto, ma segnino la storia di una città che dopo essersi rifatta il look dei suoi eleganti palazzi ha bisogno di riattingere dalla ragione e dalla fede una rinascita civile e religiosa. Il nuovo presidente della Regione Roberto Cota ne sembra convinto, ma soprattutto sono i giovani che sperano nel segnale dato loro dal Papa. Si sono autopuniti i gruppuscoli di radicali e di anarchici che hanno manifestato “No Ratzinger. No Sindone”, puniti dalla commiserazione del popolo.
All’omelia della Messa il Papa ha ripreso la frase di Gesù: “Vi dò un comandamento nuovo”. Qual è la sua novità si è chiesto il Papa? Essa sta in “una aggiunta molto importante”: “Come io ho amato voi, così amatevi gli uni agli altri…. Tutto il nostro amare è preceduto dal suo amore e si riferisce a questo amore, si inserisce in questo amore, si realizza proprio per questo amore. Ciò che è nuovo è proprio questo amare come Gesù ha amato (…)Anche nel ricco e variegato mondo dell’Università e della cultura non manchi la testimonianza dell’amore di cui ci parla il Vangelo odierno, nella capacità dell’ascolto attento e del dialogo umile nella ricerca della Verità, certi che è la stessa Verità che ci viene incontro e ci afferra”.

Senza entrare nel penoso tema della pedofilia, il Papa ha rivolto una parola di incoraggiamento ai sacerdoti, il cui lavoro nella vigna del Signore può essere faticoso e ha indicato loro dove attingere quotidianamente: preghiera, rincentrarsi sull’essenziale, la comunione e la fraternità all’interno del presbiterio.
Più pesanti sono state le due ore del pomeriggio passate in attesa del Papa che ritornava in Piazza a incontrare i giovani che erano lì ad attendere dalle 7 del mattino. Queste “animazioni urlanti” per destare l’entusiasmo nei giovani sono sempre più difficili da reggere. A essi invece il Papa ha parlato di scelte definitive, di un uso diverso della libertà: in un contesto culturale che induce a rapporti sempre più superficiali. “Con Cristo è possibile una vita bella e grande”. Il Papa li ha invitati a scoprire l’Amore vero: Colui che li ama per primo e desidera il loro amore e ha indicato a tutti come esempio il Beato Pier Giorgio Frassati invitando a fare proprio il motto della “Compagnia dei Tipi Loschi” fondata con i suoi compagni del Politecnico: “Vivere e non vivacchiare”.
L’occasione della visita del Papa era l’Ostensione della Sindone ed è davanti al “simbolo dell’umanità oscurata del XX secolo” e nell’incontro con i malati del Cottolengo che il Papa ha toccato il cuore di tutti. Benedetto XVI ha confessato di essere diventato con il passare degli anni ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria icona, “forse perché sono qui come successore di Pietro e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità”.
C’è già chi specula sulla differenza fra la parola Icona e reliquia. Abbiamo sentito in proposito don Roberto Gottardo, vicepresidente del Comitato per la Sindone: “Non si tratta di una svalutazione della Sindone, è lo stesso termine usato da Giovanni Paolo II nel 1998 ed entrato ormai nel linguaggio sindonico. Benedetto XVI ha aggiunto che si tratta di una Icona scritta con il sangue”.
La meditazione del Papa ha accostato il mistero della Sindone al mistero del Sabato Santo, “giorno del nascondimento di Dio”, “del grande silenzio” e della solitudine. “Le tragedie del secolo scorso hanno reso l’umanità particolarmente sensibile al Mistero del Sabato Santo, perché il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo… come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre più”.
“La frase di Nietzsche: ‘Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso’ è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana…. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo. Ma la Sacra Sindone - ha aggiunto il Papa - si comporta come un documento fotografico dotato di un positivo e di un negativo.... Il mistero più oscuro della fede è il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla è perché in essa non vedono solo il buio ma anche la luce. Questo è il potere della Sindone, Icona scritta con il sangue”.
Il Papa si è soffermato in particolare sul sangue e l’acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana. “Quel sangue e quell’acqua parlano di vita; è come una sorgente che mormora in silenzio e noi possiamo ascoltarla”.

Il culmine di questo giorno straordinario è avvenuto quando il Papa, passando sotto l’arco della Divina Provvidenza, ha fissato con gli occhi le parole di San Paolo, assunte come motto dal Cottolengo: “Caritas Christi urget nos”. Ed è entrato nella calda Chiesa accolto da un entusiasmo travolgente. Alle tre congregazioni fondate dal Cottolengo (prete che non si è limitato a protestare contro l’inefficienza del sistema sanitario del suo tempo, ma ha edificato con una tenacia incredibile la Piccola Casa che oggi piccola non è con i suoi 2000 ospiti) il Papa ha tracciato le linee essenziali del carisma cottolenghino: il privilegio di servire Cristo nei poveri. Tutto si impara ai piedi della Croce, diceva il Cottolengo.
E qui il motto di questa ostensione “Passio Christi, passio hominis” è un fatto tradotto in metodo famigliare. “I poveri sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli… Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma quelli che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme”. Chiunque entra in questa Piccola Casa avverte un clima di famiglia dove ogni aspetto dell’umano viene valorizzato. “Recupero della dignità personale per San Giuseppe Benedetto Cottolengo voleva dire ristabilire e valorizzare tutto l’umano: dai bisogni fondamentali psicosociali a quelli morali e spirituali, dalla riabilitazioni delle funzioni fisiche alla ricerca di un senso per la vita, portando la persona a sentirsi ancora parte viva della comunità ecclesiale e del tessuto sociale….Tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte - ha detto il Papa - non sentitevi estranei al destino del mondo, ma tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo”.
Il sigillo di questa giornata trascorsa a Torino il Papa lo ha portato a casa da un caloroso bacio sulle guance ricevuto da Angela, una donna che è entrata nella Piccola Casa a 7 anni, da bambina, e ora ne ha 69. È cieca, sorda e muta, comunica soltanto con suor Giancarla attraverso pressioni sulla mano. Suor Giancarla le ha spiegato che la persona che ha davanti è il Papa e lei se lo è baciato e abbracciato. Queste sono le cose nuove, i cieli e la terra nuova che incontriamo già su questa terra.
(Don Primo Soldi)


V° Anniversario dell'elezione di Papa Benedetto XVI - Omelia di Mons. Luigi Negri - 29/04/2010 - Cattedrale di Pennabilli, Lunedì 19 Aprile 2010
Sia lodato Gesù Cristo.
Lo Spirito Santo del Signore ci educhi a vivere il gesto profondo, semplice e drammatico di affezione incondizionata al Santo Padre Benedetto XVI, nella gratitudine al Signore e allo Spirito che lo hanno scelto come guida certa e amabile di tutta la Chiesa. Il brano tratto dal Vangelo di San Giovanni, che la Chiesa ci ha fatto proclamare ieri, racconta la concretezza di una esperienza vissuta, il formarsi della funzione di Pietro e di tutti i suoi successori. Così si rivolse a lui il Signore: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21,15). Per tre volte la risposta di Pietro è stata senza incertezze, senza condizionamenti ed egli ha amato non sul presupposto della sua intelligenza: molte volte infatti nei brani del santo Evangelo emergono delle difficoltà di comprensione del mistero di Cristo. Lui che nel breve spazio di poche ore, nel momento tragico del tradimento, tre volte aveva rinnegato il Signore, non ha amato sul presentimento dell’intelligenza o sulla previsione di una forza. E il Signore, presenza definitiva nella vita di Pietro, ha accettato il bene incondizionato che gli veniva offerto.

Per Pietro non c’era altro che Cristo, non poteva esserci altro che Cristo, che avrebbe giudicato i suoi errori, soprattutto che li avrebbe perdonato, che nei Suoi confronti lo avrebbe rimesso continuamente nell'atteggiamento giusto. Atteggiamento della fede, cioè dell’ amore, perché in Pietro la fede è amore e raggiunge il massimo della profondità, della semplicità, il massimo della chiarezza. Pietro per parte sua è la roccia di questo amore che diventa dedizione al popolo di Dio nella misura in cui la sua vita è dedita al mistero di Cristo. La vita di Pietro è dunque la funzione di Pietro, è la responsabilità affidatagli di rappresentare il Signore, di renderLo presente nel Suo popolo come fondamento e contenuto della fede, di renderLo presente come forma di vita nuova, di comunione vissuta, di carità vissuta, come la grande presenza da sperimentare e proporre a tutti gli uomini.

Fin dai primi decenni della vita della Chiesa il Vescovo di Roma è già significativamente riconosciuto come colui che ha la responsabilità di guidarla nell'unità e nella carità. Succede immediatamente e direttamente a Pietro, ogni Papa è suo successore, chiamato quindi a rivivere l’amore incondizionato a Cristo e la totale dedizione alla Chiesa. Ogni Papa custodisce l’unità della fede, l’unità della comunione e rende, con la sua presenza, la Santa Chiesa di Dio nella varietà delle sue forme, dei suoi modi, delle sue comunità, delle sue esperienze. Senza l’unità in Pietro non esisterebbero la Chiesa e la sua obiettiva unità, sarebbe rimasta interdetta la capacità di convivenza fra questa radicale unità e la varietà delle forme con cui è stata vissuta nel corso dei secoli. Per questo, quando la Chiesa aveva forse una maggiore consapevolezza del suo mistero di comunione con Cristo e di missione verso gli uomini, il nome del Papa veniva pubblicamente preceduto dall'espressione misteriosa e profondissima Santità di Nostro Signore Gesù Cristo. Con la sua vita umana, col suo temperamento, con la sua storia, con la sua cultura, il Papa rendeva e rende ancora presente, qui ed ora, la santità di Nostro Signore Gesù Cristo. Serve in modo assolutamente personale questo mistero di dedizione a Cristo e alla Chiesa.

Questa sera guardiamo così Benedetto XVI, il grande Papa che il Signore ci ha dato in un grave periodo della vita della Chiesa e dell'umanità. Colui che seppe presentarsi al mondo con infinita umiltà, come un lavoratore nella vigna del Signore senza altri meriti se non quello di aver seguito puntualmente, appassionatamente, quotidianamente e ordinatamente i compiti che la Chiesa, in una delle stagioni della sua vita e del suo servizio ecclesiale, gli aveva proposto. Questo umile operaio della vigna del Signore è apparso fin dall’inizio, e in ogni istante della sua testimonianza, come una personalità gigantesca nella dedizione a Cristo, inflessibile nella proclamazione e nel continuo ritorno a Cristo, nella continua proclamazione del Figlio di Dio incarnato, unica possibilità di verità e di salvezza per gli uomini di tutti i tempi.

In questi cinque anni la proclamazione del Signore e la presentazione del mistero della Sua morte e resurrezione, attraverso cui ciascuno è chiamato a sperimentare concretamente la redenzione, hanno occupato interamente le preoccupazioni del Sommo Pontefice, fino ad aver trovato una forma di comunicazione inedita e per certi aspetti eccezionale. Le pagine del volume su Gesù di Nazareth lo hanno visto impegnato nello sforzo di ripresentarne la storicità come qualche cosa di indiscutibile contro le troppe tentazioni di sostituirla con la pertinenza dei messaggi o degli atteggiamenti morali. Colpisce la fermezza di Benedetto XVI nel proclamare il Signore, nel difendere la coscienza autentica del mistero di Cristo dinnanzi alle riduzioni, alle devianze che affliggono il corpo della Chiesa, anzitutto nei punti che si vogliono più acculturati o che si presentano come tali; nel difendere il mistero di Cristo che incontra l'uomo, il cristianesimo, cioè l'incontro con Cristo e non dunque una idea religiosa, non un programma etico, ma l'incontro con la Sua persona da seguire e da amare senza porre condizioni.

Nella fede, in questa sequela del mistero di Cristo riproposto con radicalità e compiutezza nella difesa dell'organismo del dogma della Chiesa cattolica, il Papa rivela in maniera straordinaria una corrispondenza, la corrispondenza fra Cristo e il cuore dell'uomo e la sua attesa. Egli proclamando l’ avvenimento di grazia e di dono dell'irruzione della misericordia del Signore Iddio dentro la nostra vita, lo declina al contempo come accoglienza incondizionata, come riedificazione, come possibilità per l'uomo di approfondire e vivere integralmente la sua umanità.

Cristo non toglie nulla, restituisce tutto, per di più con una misura oltre ogni misura, oltre ogni previsione, oltre ogni ristrettezza, ogni diffidenza, facendo fiorire l'umanità in tutte le sue dimensioni, i suoi aspetti. Pensate a quanto Benedetto XVI ci ha insegnato negli ultimi cinque anni relativamente alla ragione, alla larghezza della ragione, all’uso nuovo, ampio, umano della ragione, che proprio nell'impatto con il Signore è chiamata a ritrovare la sua natura profonda, la sua vera grandezza, il suo intimo desiderio di misurarsi col mistero e di non chiudersi in se stessa, magari inseguendo inutilmente un’ adeguata conoscenza scientifica della realtà o la manipolazione tecnologica di essa fino della realtà degli uomini che ci circondano. È davvero una redenzione la grande restituzione dell’uomo alla sua vera natura, alla sua vera identità in una esaltazione che diventa esperienza positiva e bella.

Il Papa Benedetto affermando che solo la vita di chi crede è una vita bella ed è povera e brutta quella di chi invece -negando il mistero di Cristo- fa apostasia da Cristo, smarrisce il senso della sua identità ed è renitente a vivere una vita autenticamente umana e quindi gioiosamente cristiana, ha sfidato l’umanità. Lo ha fatto ancora un volta nella proclamazione del mistero di Cristo, nella difesa dell’ unità della Chiesa affermata e vissuta come posizione di tutte le esperienze che intendono riconoscersi così rappresentate e significate dal Padre.

È insieme una testimonianza amabile e impossibile da non amare: con tutta evidenza diventa in lui cambiamento, insegnamento a tutti i cristiani di come la nostra umanità possa cambiare nell'esperienza della fede in Cristo e, soprattutto, di quanto possa essere singolarmente bella la vita dei cristiani. D’altronde che l’esperienza della bellezza e pertanto dell'arte è la sintesi suprema della verità, lo splendore della verità, ce lo ha insegnato in modo puntuale ed elementare Benedetto XVI stesso in ripetuti interventi.

Questo è il Papa che ci guida, irremovibile nei principi, nella difesa dell’ unità della Chiesa cattolica, nel tentativo di raccogliervi dentro tutte le esperienze che accettano di riconoscere e di vivere questa unità, nel tentativo infine di contraddire in maniera esplicita i pregiudizi, le prove di discriminazione reciproca all’interno della Chiesa. È il Papa che vuole di recuperare la varietà dell’esperienza del cattolicesimo all’umiltà, garanzia della valorizzazione di tutte le differenze.

Eppure l’ inflessibilità sul dogma e sulla morale, la sua difesa appassionata di una concezione nuova della vita personale e sociale (mirabilmente sintetizzata nell'insegnamento sui valori non negoziabili, che nessuna presenza cristiana potrà mai mettere in discussione, pena l’inincidenza della Chiesa sul piano della cultura e della società) questa inflessibilità -dicevamo- ha il volto dell'uomo mite che non ha altra forza che la saldezza dei principi, dove la verità si fa carità. La terza Enciclica, Caritas in Veritate, con la necessaria sintesi, con quella essenziale circolarità fra carità e verità, è certamente uno dei punti più alti del suo magistero.

In lui questa sera ci rifugiamo, convinti che il nostro è un abbraccio profondamente critico, intento cioè a capire che cosa egli sia nella vita della Chiesa in questo momento, quale sia la sua funzione, quale la sua testimonianza, la sua sofferenza, il suo martirio. Ai successori dell'apostolo Pietro, il Signore infatti molte volte non ha risparmiato il martirio. Similmente a Benedetto XVI, nella Sua imperscrutabile volontà, non sta risparmiando un’esistenza che -come ho ribadito in più circostanze- dal martirio è tutta intensamente segnata. Non sta risparmiando una testimonianza della Verità e della Libertà cristiana che spezza la sua vita, la sua sensibilità, spezza la sua intelligenza, e più di ogni altra cosa il suo cuore.

Noi lo abbracciamo perché riteniamo che senza di lui tutto è finito. Un grande laico, Marcello Pera, mi ha scritto una frase che mi sono permesso di ricordare nella lettera aperta al Santo Padre: “ma come è possibile che un miliardo di cristiani assistano impotenti e silenziosi a questo tentativo di distruzione dell’ immagine e della presenza del Papa, senza capire che se cade non c'è più salvezza per nessuno?”
Di certo il Papa non cade, non può cadere, non cadrà, è difeso singolarmente e totalmente dal mistero e dalla protezione di Cristo. Tuttavia in questo frangente noi dobbiamo sentirci chiamati a testimoniargli la nostra incondizionata devozione perché del suo insegnamento viviamo, della sua testimonianza viviamo. Dalla sua testimonianza siamo ogni giorno confortati, nella straordinaria esperienza di cambiamento della vita, senza la quale non avrebbe nessun senso non solamente il cristianesimo, ma la vita umana. Se il Signore non ci avesse redento non sarebbe valsa la pena di nascere. Questa grande espressione di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano, trova una sua icastica conferma nella vita, nella testimonianza e nella presenza di Benedetto XVI.

Siamo certi, fratelli miei, che questo nostro gesto, vissuto in comunione profonda con lui, in unità totale con lui, è certamente un vanto. D’altro canto la Chiesa della Diocesi di San Marino- Montefeltro, anche quando era unicamente Diocesi del Montefeltro, è stata sempre caratterizzata da una granitica ed indiscussa fedeltà a Roma, tanto che il Papa ha sempre potuto contare sui suoi Vescovi e sulla loro comunione con il Pontefice. In forza di questa grande tradizione che ci precede, ci sostiene e ci conforta diciamo a Benedetto XVI -come una volta gli ho scritto- che saremmo disposti a dare la vita per lui. La nostra Chiesa è disposta a dare la vita perché il Papa è la rappresentanza viva e concreta del mistero del Signore Gesù Cristo e della comunità cristiana, che è misteriosamente e radicalmente connessa con l'unità della Chiesa da Pietro significata. Ebbene, perché questa realtà ci sia ed esista e continui a sostenere il cammino dei cristiani, siamo disposti a mettere in gioco tutto, anche la nostra vita, affinchè il Papa possa essere perennemente il punto cardinale della nostra intelligenza e del nostro cuore, il sostegno della quotidiana fatica e il testimone di Cristo agli uomini di questo tempo.

Che il Signore Gesù ci consenta dunque di partecipare alla letizia della vita cristiana, di partecipare finalmente all’espressione del Salmo la cui verità si lascia comprendere nel Papa: “Il Signore sta sempre dinanzi ai miei occhi: se sta alla mia destra non vacillerò. Per questo è lieto il mio cuore”. (Salmi 15,9)
E così sia.

+Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro


LOGICA/ Dio esiste? Anche la matematica dice di sì... - Alberto Strumia - martedì 4 maggio 2010 – ilsussidiario.net
Pubblichiamo il seguito di un precedente articolo di Alberto Strumia, Da Godel a Benedetto XVI, così la logica smonta il relativismo, dedicato al tema della ricerca di un fondamento oggettivo del sapere matematico, compiuta da uno dei più grandi logici di tutti i tempi, Kurt Gödel (1906-1978).
Ai nostri giorni occorre mettere a punto una razionalità capace di elaborare una “teoria dei fondamenti” e una “teoria della conoscenza” che dia spessore alla verità oggettiva, interrogandosi sul «se e come la verità possa tornare ad essere “scientifica”» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, p. 201). Non è più un problema da teologi e da filosofi, ma da scienziati.
Vale la pena almeno accennare a come internamente al percorso storico e logico della matematica stessa sia venuta maturando questa esigenza di ricerca di un suo fondamento oggettivo universale, motivato da una “irrinunciabilità logica”. Si tratta di un percorso compiuto dalla matematica nell’arco di circa venticinque secoli: un percorso che va dall’“esperienza” del mondo “reale” al mondo “mentale”, ad una “logica” espressa con un formalismo totalmente distaccato dalla realtà; accompagnato da uno staccarsi da ogni “equivocità” e “analogia”, proprie del linguaggio comune, per tendere alla più totale e rigorosa “univocità” del linguaggio simbolico formalizzato.
Sommariamente possiamo dire che la matematica nasce dalle esperienze, in certo modo elementari, del contare (che ha condotto all’aritmetica con i suoi sviluppi) e del misurare (con la geometria, a partire dalla misura dei terreni come suggerisce l’etimologia della parola stessa); si distacca progressivamente dall’esperienza del mondo fisico reale spostandosi sempre più sul piano della logica, nel mondo mentale, coinvolgendo via via anche la creatività di quanti l’hanno elaborata. Agli assiomi e quindi all’intero sistema assiomatico non si richiede di essere “veri”, di fornire una teoria rispondente alla realtà “fisica”, ma semplicemente di essere non contraddittori, cioè “coerenti”.
Tutto prosegue senza seri problemi in questo progressivo viaggio di andata dal mondo reale a quello mentale, dall’esperienza alla logica, fino a quando non si giunge alla teoria degli insiemi di Cantor e all’ambizioso quanto conseguente “programma” di Hilbert (1862-1943) di dimostrare la completezza e la coerenza dell’intero sistema assiomatico che regge la matematica. Dove “completezza” significa che ogni enunciato che può essere formulato, rispettando le regole, con il linguaggio simbolico del sistema assiomatico deve poter essere dimostrato (cioè dedotto dagli assiomi), oppure deve essere dimostrato il suo contraddittorio.
Con la teoria degli insiemi si incominciano a scoprire, un po’ alla volta, una serie di paradossi che sembrano minare seriamente questa, per altro affascinante, idea di ampliare l’oggetto della matematica dal solo campo dei numeri e del calcolo simbolico al più vasto mondo delle collezioni di oggetti di qualsiasi natura (insiemi e classi) mettendo a punto una sorta di “ontologia” simbolica per queste entità. Con i teoremi di Gödel, (1) di incompletezza e (2) sulla indecidibilità delle coerenza viene dimostrata l’esistenza di proposizioni formalmente “indecidibili” all’interno di un sistema assiomatico sufficientemente complesso come quello dei Principia Mathetatica di Russell e Whitehead. Un risultato che sarà esteso successivamente a tutti linguaggi in cui si possano formulare enunciati autoreferenziali e che sembra comportare un inevitabile “regresso all’infinito”.
Da che cosa dipende l’insorgere di questi paradossi e dell’indecidibilità? È possibile superarli e come? Russell arrivò a rispondere alla prima domanda con la sua “teoria dei tipi” e Gödel, in una maniera ancora più semplice ed elegante, con la distinzione tra “classi proprie” e “classi improprie”. Senza esserne consapevoli avevano riscoperto nel contesto della moderna teoria assiomatica una forma di quella che per Aristotele e Tommaso era l’“analogia dell’ente” (analogia entis).
Alla seconda domanda sulla questione della decidibilità sembra che i matematici stiano arrivando in tempi ancora più vicini a noi tornando a rivolgersi alla realtà extramentale alla quale si attinge decidendo mediante l’“esperienza”. Alcuni tra loro, infatti, hanno notato come «i paradossi dell’autoriferimento sono noti da millenni. I teoremi di Gödel ci costringono a vederne il loro lato positivo, mostrandoci che la contraddizione nasce solo se ci si appiattisce ad un unico [univocità] livello di astrazione» (G. Sambin, “Incompletezza costruttiva”, in G. Lolli, U. Pagallo, La complessità di Gödel, Giappichielli Editore, Torino 2008, p. 125-142). E anche: «A mio giudizio [...] i moderni risultati sull’incompletezza [...] spingono nella direzione di una prospettiva “quasi empirica” della matematica» (G.J. Chatin, “L’incompletezza è un problema serio?”, in Lolli/Pagallo, p. 68).
Per ovvi motivi non è il caso di entrare qui nei dettagli tecnici, ma quanto detto dovrebbe essere sufficiente a mostrare che si tratta di un problema che nasce dall’interno della scienza come un problema scientifico. Un problema che riscopre in chiave logico-matematica qualcosa che era già bene noto ai greci e ai medievali: quello della “non univocità dell’ente”.
Joseph Bochenski (1902-1995), logico e storico della logica del XX secolo, ha notato come l’impossibilità, rilevata da Aristotele, di parlare dell’ente come un “genere” [insieme] universale univocamente definito, senza incorrere in una contraddizione, si ricolleghi proprio a quello che noi oggi conosciamo come «problema della classe universale. Egli [Aristotele] lo risolse con una brillante intuizione, sebbene, come ora sappiamo, con l’aiuto di una dimostrazione imperfetta. Il passo relativo si trova nel terzo libro della Metafisica: “Non è possibile che l’essere o l’unità siano un singolo genere di oggetti” (B3, 998b 22-27)» (J.M. Bochenski, La logica formale, Einaudi, Milano 1972, vol. I, p. 77).
Tommaso d’Aquino, commentando Aristotele, rilevava che gli antichi filosofi «cadevano in errore, perché utilizzavano la nozione di ente come se corrispondesse ad una unica definizione e ad una sola natura, come fosse la natura di un unico genere; ma questo è impossibile. Infatti ente non è un genere, ma si dice di realtà diverse secondo accezioni diversificate» (Commento alla Metafisica di Aristotele, Libro I, lettura. ix, n. 6).
Con il senno di poi, si può dire che l’analogia dell’ente è stata intravista da Gödel quando ha scoperto la necessità di distinguere tra classi “proprie” e “improprie”, e da Russell con la teoria dei “tipi”, grazie al fatto che le “classi” e gli “insiemi” sono un “caso particolare di ente”, che si presenta come una collezione di oggetti. Ma questo loro carattere di enti particolari è sufficiente a far emergere la diversificazione dei loro “modi di essere” (definiti), per evitare contraddizioni.
Ai nostri giorni viene così ad aprirsi la strada in vista del passaggio da una “teoria degli insiemi” a una più generale “teoria degli enti”: si tratta di una teoria dei fondamenti logici e ontologici delle scienze, talvolta chiamata “ontologia formale”. Non è irrilevante notare come utilizzando l’analogia i medievali avevano messo a punto le loro dimostrazioni dell’esistenza di Dio (come le cinque vie di san Tommaso d’Aquino e altre prove ancora) e lo stesso Gödel ha formalizzato la prova ontologica di sant’Anselmo.
A conclusione di questo tracciato vorrei evidenziare come quanto abbiamo detto richiami alla mente la sfida che fu lanciata già da Giovanni Paolo II alla fine degli anni del secondo millennio: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento» (Lettera enciclica Fides et ratio, n. 83).


Avvenire.it, 4 maggio 2010 - Il dramma dei cristiani iracheni - Perché si accetta la pulizia «confessionale»? - Andrea Lavazza
Sparare contro ragazzi che vanno all’università è raccapricciante. La misura dell’atrocità l’ha data un sacerdote: le vittime non erano soldati o miliziani, ma studenti che portavano con libri e quaderni i loro sogni di crescere e di servire il proprio Paese. Ma ad aggiungere orrore su orrore c’è la motivazione più odiosa, quella dell’intolleranza religiosa, la negazione del primo diritto umano, la libertà di professare la propria fede senza impedimenti. E senza rischiare la vita come accade ogni giorno ai cristiani iracheni, minoranza tra le minoranze, non "degna" che di poche righe sulle agenzie di stampa quando finisce sotto il fuoco dei fondamentalisti musulmani, determinati a imporle un esodo forzato dalle terre in cui risiede da molti secoli.

L’attacco di domenica a Mosul contro un convoglio di universitari siro-cattolici, nel caos politico di un dopo-elezioni particolarmente tormentato, non ha meritato nemmeno un messaggio di solidarietà da parte delle autorità di Baghdad. Silenzio anche nell’Occidente tanto solerte per altre cause, pur altrettanto nobili, ma selettivamente distratto quando si tratta di difendere i cristiani presi di mira in quanto tali. Qualche lodevole eccezione nel panorama italiano, ma le ripetute sollecitazioni partite da Roma non trovano echi a Bruxelles, dove nessuno sembra troppo preoccupato della sorte degli iracheni fedeli alla Chiesa.

E si sa che l’apatia e l’indifferenza sono i migliori alleati dei carnefici. In sette anni di guerra e di travagliato post-Saddam sono stati centinaia i cristiani uccisi, decine di migliaia quelli costretti alla fuga, prima da Baghdad verso il Nord e poi all’estero, nei Paesi confinanti o in Europa, America e Australia. I loro spazi di manovra sempre più ridotti: luoghi di culto distrutti, attività economiche soffocate, violenze e minacce diffuse. Tutto denunciato e documentato; tutto spesso ignorato e regolarmente sottovalutato.

L’attentato agli studenti è avvenuto nel breve spazio di un chilometro, tra due posti di blocco, uno delle forze americane e irachene, l’altro della polizia locale curda: una dimostrazione che per la minoranza più perseguitata c’è soltanto una "terra di nessuno", in cui si può impunemente colpirla senza che vi sia una doverosa mobilitazione per la sua sicurezza. Il convoglio dei ragazzi aveva, in testa e in coda, un paio di vetture di scorta, poca cosa per la forza e la feroce determinazione degli estremisti musulmani contrari a ogni forma di tolleranza e di convivenza.

Ieri il vescovo Casmoussa ha invocato l’intervento di un contingente delle Nazioni Unite per la protezione della mese dopo mese più esigua presenza cristiana. Non si ripeterà mai troppe volte che un Iraq liberato dalla dittatura ma privo di una delle sue componenti religiose e sociali più antiche testimonierebbe la sconfitta di un progetto democratico che doveva estendere la sua influenza anche ai Paesi vicini. Al contrario, il contagio di una "pulizia confessionale" implicitamente accettata potrà diffondersi pure oltreconfine, in una regione dove gli estremismi non sono certo sopiti.

Se per qualche inconfessabile pregiudizio anti-cristiano si rinunciasse alla difesa attiva dei fedeli che ancora resistono nel Paese, non solo si verrebbe meno a un dovere di giustizia, ma verrebbero aperte le porte al fanatismo. Quello che, poi, ci indigna e ci spaventa quando raggiunge le nostre nazioni e le nostre città. Pensiamoci, il tempo a disposizione per i cristiani iracheni continua drammaticamente a diminuire
Andrea Lavazza


Avvenire.it, 4 Maggio 2010, A Cannes il martirio di Tibhirine - Lorenzo Fazzini
Tra i sedici lungometraggi che da settimana prossima si contenderanno l’ambita Palma d’oro al festival del cinema di Cannes vi è anche un film "monastico". Il suo titolo è Des hommes et des Dieux e racconta la drammatica vicenda dei sette monaci trappisti assassinati a Tibhirine, in Algeria, nel 1996. Una vicenda, questa, che scosse la laicissima Francia e che ancora oggi rimane oggetto di indagini, giudiziarie e giornalistiche, nell’Esagono. Già, perché la ricostruzione classica di quella strage, nel contesto della guerra civile algerina (centocinquantamila morti in pochi anni), inizia a scricchiolare: secondo la tesi ufficiale, i monaci vennero rapiti dal Gia (Gruppo islamico armato) nella notte tra il 26 e il 27 marzo del ’96, per poi essere uccisi nelle settimane successive. Ma i loro corpi non vennero mai rinvenuti, se non le teste, decapitate, il 30 maggio.

Che qualcosa sia ancora oscuro lo testimoniano i diversi dettagli che la stampa francese – se ne sono occupati in diverse riprese "Le Figaro", "Le Monde" e "La Croix" – rivela di tanto in tanto. Fondamentale la dichiarazione dell’incaricato militare dell’ambasciata francese ad Algeri in quegli anni, il generale François Buchwalter, che in una fase processuale (lo scorso anno) ha qualificato come «un errore dell’esercito algerino» il massacro dei sette religiosi. A produrre la sceneggiatura di Des hommes et des Dieux è stato Étienne Comar, il quale si è avvalso di una consulenza monastica particolare, ovvero quella di Henry Quinson, un religioso di Marsiglia balzato alla notorietà per il suo singolare iter di vita: da operatore di borsa a New York a frate cattolico, il tutto raccontato in Dallo champagne ai Salmi. L’avventura di un banchiere di Wall Street diventato monaco di periferia (San Paolo).

Tibhirine e i suoi monaci martiri, dunque, sbarcano a Cannes: regista del film – coprodotto da Why Not Productions, Armada Films e France 3 Cinéma – è il francese Xavier Beauvois, quarantadue anni, già vincitore di un premio a Cannes per il suo N’oublie pas que tu vas mourir. «Sono rimasto molto colpito quando mi sono documentato sulla storia di questi religiosi – ha spiegato al quotidiano "Le Parisien" –. È un soggetto forte e molto sensibile. Questi sette monaci erano molto apprezzati nella regione dove abitavano, erano rispettati dalle altre comunità, avevano ottime relazioni con i musulmani». La produzione è stata girata tra dicembre e gennaio in Marocco, precisamente nel vecchio monastero di Meknès, visto che la situazione in Algeria non era ancora sicura. Tra i protagonisti, si segnala l’attore Lambert Wilson (già impegnato in Matrix Reloaded dei fratelli Wachowski nel 2003), che offre il suo volto alla personalità più forte della comunità di Notre-Dame d’Atlas (questo il nome del complesso monastico), ovvero il priore Christian de Chergé, autore di quella celebre preghiera di Ad-Dio in cui adombrava già la propria morte violenta. Il film prende in esame la vita quotidiana dei monaci durante il periodo "caldo" della guerra civile algerina, ovvero dal 1993 (anno in cui i terroristi del Gia diedero uno sfratto ultimativo agli stranieri residenti nel Paese nordafricano) al marzo 1996, quando i trappisti furono rapiti dal loro monastero.

«Da loro ho imparato cosa vuol dire il sacrificio cristiano, visto che restarono a fianco della gente normale, loro amica, rischiando la vita»: così rievoca i sette monaci René Guitton, autore del recente Cristianofobia (Lindau) e ora impegnato in una nuova edizione del suo Si nous taisons dedicato al "martirio dei monaci di Tibhirine" (Calmann-Lévy), a suo tempo insignito del premio Montyon dell’Académie française. Fu proprio la decisione dei sette trappisti di restare a Tibhirine mentre imperversava la bufera del terrorismo islamista ciò che rese la loro testimonianza di solidarietà drammaticamente eloquente anche nel panorama francese. E per il momento le reazioni al film di Beauvois sono state, in sostanza, positive: «Se la sceneggiatura ci ha deluso – afferma Hubert de Chergé, fratello di Christian, il priore di Tibhirine – bisogna riconoscere che il film trasmette qualcosa del messaggio che i fratelli ci hanno lasciato».

E Pierre Laurant, nipote di frére Luc, un altro dei monaci assassinati, ammette: «Devo riconoscere al film una qualità: resta fuori dalle polemiche politico-giudiziarie e chiarisce, senza idealizzare nulla, il senso di questa presenza monastica che si è spinta in avanti fino al martirio». Sul sito MissiOnLine.org del Pime padre Jean Marie Lassausse, della Mission de France, da dieci anni a Tibhirine, scrive: «Questo film insiste sulla fedeltà dei monaci a questa popolazione e a questa terra. Fedeltà che presuppone la durata. Questa pellicola, che ripropone la vita, la scelta e il dramma dei monaci i Tibhirine, insistendo sulla fedeltà sino al sangue, rilancia una sfida che continua a interpellarci. Il "vivere-con" ha questo prezzo ed è sempre d’attualità».
Lorenzo Fazzini


Avvenire.it, umanesimo e scienza - 4 MAGGIO 2010 - Il filosofo Maiocchi - E Prometeo vada a scuola di filosofia - Luigi Dell’Aglio
«Prometeo è stato liberato, ma forse ancora non conosce tutta la forza del fuoco. È drammaticamente urgente una formazione degli scienziati che permetta loro di valutare a fondo tutte le implicazioni etiche, culturali, economiche e sociali delle proprie ricerche. Ormai l’intreccio tra scienza e tecnica è troppo profondo. Lo scienziato deve rendersi conto dell’enorme peso che grava sulle sue spalle: non può più scaricarlo sulla tecnologia. L’avvenire dell’umanità dipende da lui». Roberto Maiocchi, ordinario di Storia della Scienza alla Cattolica di Milano, con la sua esperienza professionale e di vita è la dimostrazione che scienza e filosofia sono entrambe essenziali per l’uomo e che nessuna delle due può fare a meno dell’altra. Maiocchi è ingegnere elettronico (con laurea al Politecnico) ma è stato affascinato dalla filosofia e a questa disciplina ha dedicato un brillante percorso accademico. Quando ha dovuto fare la scelta, non si è nascosto i rischi: abbandonava una carriera da ingegnere, «sicura e remunerativa», per una da filosofo «incerta ed economicamente depressa». Nei primi anni può coltivare gli studi filosofici perché sfrutta contemporaneamente il diploma di ingegnere, per far fronte alle «volgari necessità materiali». Poi passa totalmente sulla riva di Aristotele e Kant ma opta per un’area di confine, strategica, dalla quale può osservare il rapporto tra filosofia e scienza e vedere in una luce nuova anche i suoi studi passati.


Professore, la formazione globale degli scienziati è carente perché nella scuola viene ridimensionato il ruolo delle materie umanistiche?
«Per il Liceo classico (che è pur sempre il canale principale di formazione della futura classe dirigente) il progetto di riforma non prevede tagli all’insegnamento del latino e del greco, né un ridimensionamento dello studio dei classici. Anzi, fatti i conti, mi sembra che questi ne ricavino un leggero vantaggio. L’Italia resta pur sempre il solo Paese al mondo in cui nell’istruzione secondaria si studiano, con un certo impegno, greco e latino. Naturalmente occorre poi vedere in che modo si affrontano i classici: molte volte tutto si riduce allo studio della lingua, utile ginnastica della mente, che però è lontano dall’essenza dell’umanesimo».

La carenza si registra più in alto, a livello universitario?
«Preoccupa la riduzione delle materie umanistiche operata nei corsi destinati alla formazione scientifico-tecnica. Se si considerano poi le caratteristiche dell’insegnamento nelle università tecnico-scientifiche, si deve ammettere che nella formazione dello scienziato e del tecnico l’insegnamento delle scienze umane ha un ruolo del tutto marginale. In questo campo il confronto internazionale non è certo favorevole all’Italia. In molte università scientifiche straniere esistono dipartimenti dedicati alla storia e alla filosofia della scienza. Nelle nostre facoltà scientifiche, invece, gli esami filosofici o storici sono una rarità, e i corsi di storia della scienza e di filosofia della scienza si tengono nelle facoltà di filosofia, sono cioè rivolti a studenti che nulla sanno di scienza».

È l’enorme potere acquisito dalla scienza a rendere necessaria una formazione globale, anche umanistica, dello scienziato? In caso contrario, più che anti-umanistica, la scienza potrebbe risultare «anti-umana»?
«È in corso un processo storico profondo e irreversibile. Oggi è impossibile mantenere la distinzione tra scienza pura e tecnologia, che è sempre stata una separazione comoda e rassicurante per gli scienziati: i quali potevano giustificare i loro studi come ricerca pura e disinteressata, scaricando su altri soggetti (militari e capitalisti) la responsabilità di tutte le conseguenze spiacevoli per l’umanità che potevano derivarne. Per la verità, la scoperta dell’energia atomica aveva cominciato a erodere questa posizione, suscitando un vivace dibattito. Allora molti si sono chiesti se sia eticamente corretto studiare un problema scientifico pur sapendo che questa ricerca potrebbe in seguito essere impiegata per la costruzione di armi di distruzione di massa. I rapporti sempre più numerosi e complessi che nel secondo dopoguerra si sono venuti a creare tra ricerca di base, attività industriali, sviluppo degli armamenti e pratica medica, hanno reso via via sempre più evanescente il confine tra ricerca pura e applicata. È stato lanciato un nuovo termine, quello di "tecno-scienza", per indicare che la scienza si identifica con la tecnica, o meglio l’attività scientifica è ridotta alla pratica operativa. La logica della scienza diventa la logica del successo pragmatico, scompare ogni altro orizzonte che non sia quello del "fare tutto ciò che si è imparato a fare". E, se non è più lecito per nessuno dichiararsi scienziato "puro", se ogni progetto di ricerca è inesorabilmente portatore di conseguenze nella sfera delle applicazioni, diventa un obbligo valutarne preliminarmente l’impatto sull’ambiente, sulla società, sull’uomo».

La maggior parte degli scienziati rivendica la più assoluta libertà di ricerca.
«Appare chiaro che spesso la decisione di intraprendere o meno un progetto scientifico implica un giudizio morale. Le attività scientifiche non sempre sono assiologicamente neutre. Decidere di dedicarsi allo studio della clonazione umana, ad esempio, è un atto che non può essere giustificato con il semplice appello alla "libertà di ricerca" come valore supremo: tante e tali sono le questioni etiche e religiose che quella scelta mette in gioco che solo uno scienziato "disumano" e grottesco, per ora fortunatamente immaginario, potrebbe scrollarsele di dosso con un’alzata di spalle».

Il nuovo umanesimo è contro lo scientismo, non contro la scienza.
«Il primo umanesimo (che fu un movimento italiano) era antiscientifico. I primi umanisti non avevano interessi naturalistici. Rimase ben vivo un filone di umanesimo letterario antitetico alla scienza, che ha poi avuto una fortuna ininterrotta (ancora oggi, specialmente in Italia, moltissime persone colte, che si vergognerebbero di confessare la propria ignoranza in merito al futurismo o alla musica dodecafonica, con autocompiacimento dichiarano di non sapere nulla di Einstein, se non che portasse i baffi). Il motivo è sempre lo stesso: non si riconosce alla scienza la capacità di rispondere alle domande fondamentali sull’origine e lo scopo della vita. Così però si finisce per confondere la scienza con lo scientismo, il quale è una filosofia che afferma che ogni problema, anche se etico o religioso, debba essere risolto dal pensiero scientifico».

E per fare argine allo scientismo scende in campo il nuovo umanesimo?
«A me sembra che lo scontro attuale non avvenga, in prima istanza, tra scientismo e umanesimo ma tra un umanesimo laico, che difende i valori in nome dell’autonomia dell’uomo, e un umanesimo religioso che difende valori (non necessariamente differenti dai precedenti) in nome della concezione dell’uomo quale creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Tuttavia – e questo è un punto su cui si fa spesso confusione – l’umanesimo laico non è necessariamente scientista, può essere anche relativista».

Con quale differenza?
«Lo scientismo afferma che solo la scienza è capace di produrre verità, che le sole verità accessibili all’uomo sono quelle scientifiche; dunque si contrappone inevitabilmente alle altre forme culturali che si proclamano portatrici di verità, in primo luogo le religioni. Il relativismo, all’opposto, parte dall’idea che neppure la scienza è in grado di raggiungere una conoscenza obiettiva, che ogni pretesa verità altro non è che l’espressione di un punto di vista parziale, soggettivo. È evidente che si tratta di due atteggiamenti culturali che possono certo allearsi costituendo un fronte unico antireligioso, ma partendo da presupposti antitetici».
Luigi Dell’Aglio