Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: “C’È BISOGNO DI POLITICI AUTENTICAMENTE CRISTIANI” - Nell'udienza ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici
2) Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
3) L’eutanasia umanitaria: «È per donare organi...» - In che modo ammantare di dignità un atto intrinsecamente malvagio come l’eutanasia? Facendolo passare come uno strumento per fini umanitari…- AVVENIRE 20 maggio 2010
4) Evoluzionismo: il tramonto di un'ipotesi - Fausto Carioti, 4-11-2009. Da: libero-news.it – dal sito pontifex.roma.it
5) Gli esorcismi, le benedizioni e le guarigioni - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
6) Avvenire.it, 21 Maggio 2010 - DIBATTITO - Cacciari, Dio e ilmistero del tre - Piero Coda
7) La vita mistica della beata di Foligno - Leggere Angela con Angela - Giovedì 20 maggio Claudio Leonardi ci aveva fatto pervenire, attraverso l'amico monsignor Fortunato Frezza, questo articolo che resta come il suo ultimo contributo alla conoscenza di una storia da lui tanto studiata e amata. I funerali di Leonardi saranno celebrati martedì 25 alle ore 11 nella basilica fiorentina di San Miniato al Monte. - di Claudio Leonardi - L'Osservatore Romano - 23 maggio 2010
8) INCHIESTE, INFORMAZIONE, PRESUNZIONE D’INNOCENZA - Intercettazioni: il cuore del problema - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 23 maggio 2010
9) «C’è l’antidoto all’eutanasia» - DA ROMA - C’ è un antidoto all’eutanasia. E si chiama compassione. - «È la compassione Il malato chiede di morire solo se si sente abbandonato» spiega il filosofo Francesco D’Agostino – Avvenire, 23 maggio 2010
10) movimento per la vita «Sull’aborto no all’inquinamento dei dati» - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 23 maggio 2010
11) Chi si cela dietro ai panni della grande figura dei «Promessi sposi»? Il mistero su cui in passato si sono confrontate decine di critici e studiosi pare finalmente svelato - L’Innominato ha un nome: Alessandro Manzoni - da Bologna Stefano Andrini – Avvenire, 23 maggio 2010
BENEDETTO XVI: “C’È BISOGNO DI POLITICI AUTENTICAMENTE CRISTIANI” - Nell'udienza ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici
ROMA, venerdì, 21 maggio 2010 (ZENIT.org).- Di fronte a una dialettica democratica sempre più indebolita dall' “individualismo utilitaristico ed edonista” i laici sono chiamati a riscoprire la loro vocazione a una cittadinanza attiva, illuminati dagli insegnamenti della Chiesa.
E' quanto ha detto questo venerdì Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti alla 24.ma Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, in corso a Roma dal 20 al 22 maggio sul tema: Testimoni di Cristo nella comunità politica.
Pur ricordando che la Chiesa non pretende di intromettersi nelle questioni politiche il Papa ha tuttavia ribadito la necessità della tutela dei “diritti fondamentali della persona” e della “salvezza delle anime” nonché della promozione di quei valori che garantiscono un autentico sviluppo della società.
“Spetta ai fedeli laici – ha sottolineato – mostrare concretamente nella vita personale e familiare, nella vita sociale, culturale e politica, che la fede permette di leggere in modo nuovo e profondo la realtà e di trasformarla; che la speranza cristiana allarga l’orizzonte limitato dell’uomo e lo proietta verso la vera altezza del suo essere, verso Dio; che la carità nella verità è la forza più efficace in grado di cambiare il mondo; che il Vangelo è garanzia di libertà e messaggio di liberazione”.
“Compete ancora ai fedeli laici – ha continuato – partecipare attivamente alla vita politica, in modo sempre coerente con gli insegnamenti della Chiesa, condividendo ragioni ben fondate e grandi ideali nella dialettica democratica e nella ricerca di un largo consenso con tutti coloro che hanno a cuore la difesa della vita e della libertà, la custodia della verità e del bene della famiglia, la solidarietà con i bisognosi e la ricerca necessaria del bene comune”.
La politica, ha evidenziato il Papa, “richiama i cristiani a un forte impegno per la cittadinanza, per la costruzione di una vita buona nelle nazioni, come pure ad una presenza efficace nelle sedi e nei programmi della comunità internazionale”.
“C’è bisogno di politici autenticamente cristiani – ha osservato ancora il Santo Padre –, ma prima ancora di fedeli laici che siano testimoni di Cristo e del Vangelo nella comunità civile e politica. Questa esigenza dev’essere ben presente negli itinerari educativi delle comunità ecclesiali e richiede nuove forme di accompagnamento e di sostegno da parte dei Pastori”.
A questo proposito ha affermato che l’appartenenza dei cristiani ad associazioni e movimenti “può essere una buona scuola per questi discepoli e testimoni, sostenuti dalla ricchezza carismatica, comunitaria, educativa e missionaria propria di queste realtà”.
E' necessario, ha continuato, “recuperare e rinvigorire un’autentica sapienza politica; essere esigenti in ciò che riguarda la propria competenza; servirsi criticamente delle indagini delle scienze umane; affrontare la realtà in tutti i suoi aspetti, andando oltre ogni riduzionismo ideologico o pretesa utopica”.
Tenendo sempre a mente che “la politica è anche una complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi”, ha concluso infine il Papa, occorre che i giovani si impegnino in una vera “rivoluzione dell’amore”, “un impegno fondato non su ideologie o interessi di parte, ma sulla scelta di servire l’uomo e il bene comune, alla luce del Vangelo”.
Precedentemente, nel suo indirizzo di saluto il Cardinale Stanislaw Rylko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, aveva sottolineache “oggi è davvero urgente restituire alla politica l'anima che le è propria, recuperando il significato del servizio al bene comune, ricostruendo una sensibilità morale e una solida base di valori condivisi, promuovendo soprattutto il concetto di una laicità davvero aperta, non ostile a Dio né timorosa di farlo entrare nella vita pubblica”.
Pentecoste sul Monte Athos - Viaggio sulla santa montagna della Chiesa ortodossa. Compiuto e raccontato la prima volta nel 1997. Cioè ora, quest'anno. Perché sull'Athos i tempi della terra fanno tutt'uno con l'oggi eterno del cielo - di Sandro Magister
MONTE ATHOS – Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell'Athos. Perchè lì sono cose d'altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l'Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L'ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d'esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell'Athos, un'icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS
Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all'ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l'extraterritorialità dell'Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d'un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d'ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d'imbarco. Perché nell'Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell'Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS
A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d'incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell'autobus e una trattoria. C'è anche un telefono pubblico, che ha tutta l'aria d'essere il primo e l'ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz'ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo.
GRANDE LAVRA
Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l'angelo dell'Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz'ora, ristorandovi con un bicchier d'acqua fresca, un bicchierino di liquor d'anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l'asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare. I monasteri dell'Athos non sono come quelli d'Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull'Athos c'è di tutto e per tutti. C'è l'eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po' a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s'avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C'è profumo d'Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C'è aroma di cipresso e d'incenso, fragranza di cera d'api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell'Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant'Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell'anno 1000 ma appena ieri, come se l'avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d'oro e d'argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s'accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell'iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch'esso l'architettura di una chiesa ed è anch'esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L'igúmeno prende posto al centro dell'abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l'uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI
Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall'Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell'Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d'un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l'aristocrazia dell'Athos. Dice solenne l'igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: "L'Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo". Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev'essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell'Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un'iconostasi fulgentissima d'ori e d'icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note.
E poi le luci. C'è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch'esso parte del rito. In ogni katholikón dell'Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all'iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c'è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un'ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l'onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell'Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d'iniziare a simili misteri e d'infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d'oggi. All'Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza di umanizzare Dio, le Chiese d'Occidente lo fanno sparire. "Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale", sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. "Un Dio che non deifichi l'uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell'ondata di ateismo in Occidente".
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell'altro monastero di Ivíron: "In Occidente comanda l'azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l'embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi".
SIMONOS PETRA
Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell'Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l'igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo "prigioniera di un sistema", troppo "istituzionale".
L'Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All'Athos "il logos si sposa alla praxis", la parola ai fatti. "Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci".
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell'Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un'ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d'una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un'apparizione. Con la folgorante bellezza d'una Nike di Samotracia.
L’eutanasia umanitaria: «È per donare organi...» - In che modo ammantare di dignità un atto intrinsecamente malvagio come l’eutanasia? Facendolo passare come uno strumento per fini umanitari…- AVVENIRE 20 maggio 2010
In che modo ammantare di dignità un atto intrinsecamente malvagio come l’eutanasia? Facendolo passare come uno strumento per fini umanitari. È il trucco adottato da due ricercatori di Oxford, Dominic Wilkinson e Julian Savulescu, che in un articolo sulla rivista scientifica Bioethics spiegano come l’eutanasia potrebbe essere una soluzione per la penuria di donatori d’organo. I due ricercatori partono da una considerazione che muove a pietà: migliaia di pazienti ogni anno muoiono in attesa di trapianto (18 al giorno negli Usa).
A questo dato ne aggiungono un altro: 5mila pazienti ogni anno nel Regno Unito cessano di vivere a seguito dell’interruzione volontaria dei trattamenti sanitari salvavita. E concludono ricordando che molti di questi malati decidono di donare gli organi una volta che sono morti.
Da qui la proposta: ma se è lecito prelevare gli organi postmortem a chi ha deciso di morire, perché non anticipare questo prelievo quando è ancora in vita? Gli organi espiantati da cadavere spesso sono di qualità peggiore o inutilizzabili. Meglio sarebbe mettere sotto anestesia il paziente che ha già deciso di morire e procedere al prelievo degli organi 'freschi', ancora irrorati dal sangue. Anzi, così facendo i pazienti soffrirebbero meno rispetto alla morte lenta e dolorosa a seguito dell’interruzione dei mezzi di sostentamento vitale. In tal modo si allargherebbe la platea dei donatori, si rispetterebbe l’autodeterminazione del paziente e a fronte della morte di un donatore si salverebbero 9 vite (leggi: 9 organi). Il procedimento, battezzato Organ Donation Euthanasia, sarebbe applicabile anche alle persone in stato vegetativo o affette da gravi patologie. Nell’impossibilità di esprimere un consenso valido, all’espianto ci penserebbero i parenti.
Ma ecco altre soluzioni già in uso o solo ipotizzate. In Belgio si può provocare l’eutanasia attraverso un arresto cardiaco e dopo 10 minuti prelevare gli organi. I ricercatori Spital ed Erin in un articolo del 2002 sull’ American Journal Kidney Diseases appoggiano invece la proposta della donazione obbligatoria una volta che si è passati a miglior vita, consenso o non consenso. Oppure c’è chi consiglia di prelevare dal morente o dalla persona in stato vegetativo organi non essenziali per vivere (come un rene). Un’altra soluzione è quella di alimentare tutti gli organi fuorchè cuore, polmoni e cervello: si provoca la morte del paziente e si può procedere all’espianto di organi 'freschi'. Cosa è peggio?
di Tommaso Scandroglio
AVVENIRE 20 maggio 2010
Evoluzionismo: il tramonto di un'ipotesi - Fausto Carioti, 4-11-2009. Da: libero-news.it – dal sito pontifex.roma.it
In occasione del bicentenario della nascita di Darwin e a centocinquant’anni dalla prima pubblicazione dell’Origine delle specie, alcuni autorevoli studiosi di diverse appartenenze culturali e disciplinari si sono confrontati sulla fortuna delle teorie darwiniane, mettendone in luce le diverse criticità. Dai loro contributi è nato il libro Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, a cura di Roberto de Mattei (Cantagalli 2009, pagine 260, euro 17,00). Il volume, che sarà presentato a Roma, all’Hotel Columbus (via della Conciliazione, 33), il prossimo 6 novembre alle ore 18, raccoglie gli atti di un convegno svoltosi di recente a Roma per iniziativa della Vice Presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Da queste pagine l’evoluzionismo emerge come una teoria scientifica e filosofica, due aspetti che si sostengono a vicenda, incapace però di rispondere ad alcune questioni basilari riguardanti l’origine della vita e il mistero dell’esistenza umana. ...
... L’evoluzionismo appare inoltre come una “cosmogonia” che pretende di descrivere la storia del mondo partendo da postulati scientifici inverificabili, una dottrina spesso imposta come un “dogma”, che invece dovrebbe essere sottoposta al rigoroso vaglio della critica nazionale e scientifica, attraverso un libero confronto tra gli studiosi.
Gli autori del volume sono: Guy Berthault, paleontologo, membro dell’Associazione Internazionale dei Sedimentologi (Francia); Roberto de Mattei, storico, professore all’Università Europea di Roma e Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche; Jean de Pontcharra, fisico, ricercatore in nano-elettronica all’Università di Grenoble (Francia); Maciej Giertych, genetista, membro dell’Accademia Polacca delle Scienze e, fino al 2009, deputato del Parlamento Europeo (Polonia); Josef Holzschuh, fisico, ricercatore di geofisica alla University of Western Australia; Hugh Miller, chimico, dottorato alla Ohio State University, Columbus, Oh (USA); Hugh Owen, scrittore, presidente del Kolbe Center negli Stati Uniti; Pierre Rabischong, biologo, professore emerito dell’Università di Montpellier, già Direttore dell’unità di ricerca in biomeccanica dell’INSERM e decano della Facoltà di Medicina (Francia); Josef Seifert, filosofo, rettore dell’International Academy for Philosophy del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia della Vita (Germania); Thomas Seiler, fisico, dottorato in fisico-chimica all’Università di Monaco, ingegnere per i sensori elettrochimici nel Dipartimento Innovazione della Robert Bosch GmbH (Germania); Dominique Tassot, Direttore del Centre d’Etudes et de Prospectives sur la Science (Francia); Alma von Stockhausen, filosofo, presidente della Gustav-Siewerth-Akademie (Germania).
(C) Famiglia Domani
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Fosse una ipotesi scientifica come le altre, l’evoluzionismo sarebbe finito già da tempo, se non nell’obitorio della scienza, quantomeno nel reparto dei malati gravi, viste le tante discordanze che le conseguenze di questa teoria hanno con l’osservazione empirica. Ma l’evoluzionismo non è più una teoria qualunque, da sottoporre a rischio di falsificazione, come richiesto dall’epistemologo Karl Popper per distinguere ciò che è scienza da ciò che non lo è. Esso è un dogma al quale si può aderire solo mediante atto di fede. Una metafisica, insomma. Proprio come quel “creazionismo” che degli evoluzionisti è il grande nemico. Con la differenza che chi difende l’ipotesi della creazione di solito lo fa con la Bibbia in mano, e non pretende di parlare in nome della scienza.
La stessa comunità scientifica è tutt’altro che concorde con le ipotesi sviluppate da Charles Darwin nell’"Origine delle specie". La novità è che molti di questi scienziati adesso iniziano a rendere pubbliche le loro critiche. Un libro importante uscirà nei prossimi giorni per le Edizioni Cantagalli. Si intitola (e il titolo già dice tutto) Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, ed è stato curato da Roberto de Mattei, vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche. Il volume, che Libero ha potuto leggere in anteprima, raccoglie gli interventi tenuti in un convegno a porte chiuse che si è svolto a Roma lo scorso febbraio nella sede del Cnr. Un’occasione che ha visto a confronto biologi, paleontologi, fisici, genetisti, chimici, biologi e filosofi della scienza di livello internazionale.
La tesi illustrata 150 anni da Darwin e portata avanti dai suoi epigoni è riassumibile in tre assiomi. Primo: «Tutti gli esseri organici che hanno vissuto su questa terra sono derivati da una singola forma primordiale, nella quale la vita è stata per la prima volta infusa» (come scritto dallo stesso Darwin nell’"Origine delle specie"). Secondo: la selezione naturale è stata «il più importante, anche se non esclusivo, strumento di modificazione» attraverso il quale le forme di vita più complesse si sono evolute da quelle più semplici. Terzo, non esiste alcun “progetto”: le mutazioni sono casuali e alcune rendono certi individui più adatti alla sopravvivenza; trasmettendole ai loro eredi, rendono possibile l’evoluzione.
Un corpus teorico che, secondo i documenti che il Cnr sta per rendere pubblici, fa acqua da tutte le parti. Il fisico tedesco Thomas Seiler mette il darwinismo alla prova della seconda legge della termodinamica, secondo la quale l’entropia, che può essere definita come il caos in natura, non può mai diminuire. E «l’ipotetico emergere della vita da processi materiali indiretti, come suggerito dalla teoria evoluzionistica, non è conforme» a questa legge. Ma anche «la successione di piccole variazioni genetiche che portano alla costruzione di un organo completamente nuovo tramite selezione naturale», prevista dal darwinismo, «è una processo da escludere di entropia decrescente». Non a caso, nota Seiler, malgrado siano stati descritti più di 1,3 milioni di tipi di animali, «nessun organismo mostra segni di essere in evoluzione verso una complessità maggiore. Come previsto, l’entropia biologica non sta diminuendo». Insomma, la fisica stessa si ribella all’ipotesi darwiniana.
L’evoluzionismo presuppone inoltre lunghissimi tempi geologici, nei quali - come affermano i suoi sostenitori, «l’impossibile diviene possibile, il possibile probabile e il probabile virtualmente certo». La sequenza degli strati dei fossili marini, ad esempio, secondo i darwinisti confermerebbe processi durati milioni di anni. Ma il paleontologo francese Guy Berthault sostiene che, calcolato con nuovi metodi più attendibili, il periodo di sedimentazione dei fossili si rivela assai più breve di quanto creduto sinora e il tempo degli sconvolgimenti geologici si accorcia drasticamente. Tanto da essere «insufficiente per l’evoluzione delle specie, come risulta concepita dai sostenitori dell’ipotesi evoluzionista».
Dominique Tassot, che in Francia dirige il Centre d’Etudes et de prospectives sur la Science, invita a non confondere tra «micro-evoluzione» e «macro-evoluzione». Nel primo caso rientrano le mutazioni adattative accertate, che riguardano caratteri secondari come il colore, lo spessore della pelliccia di un animale, l’altezza, la forma del becco e così via. Ma «è paradossale», sostiene, «estendere il significato della parola “adattamento” per indicare l’evoluzione di nuovi organi del corpo», come «il passaggio dalle squame alle piume o dalle pinne alle zampe», esempi di macro-evoluzione: fenomeno «che manca di qualsiasi verifica empirica o di base teorica».
Il genetista polacco Maciej Giertych sottolinea che «siamo a conoscenza di molte mutazioni che sono deleterie» e anche «di mutazioni biologicamente neutrali», ma le cosiddette «mutazioni positive», che consentirebbero l’evoluzione delle specie, «sono più un postulato che una osservazione». L’esempio che più di frequente viene fatto, l’adattamento di certe erbacce al diserbante atrazina, «in nessun modo aiuta a sostenere la teoria dell’evoluzione», perché si tratta di un adattamento «positivo soltanto nel senso che protegge funzioni esistenti», ma «non fornisce nuova informazione, per nuove funzioni o organi». A conti fatti, secondo Giertych, «l’evoluzione dovrebbe essere presentata nelle scuole come un’ipotesi scientifica in attesa di conferma, come una teoria che ha sia sostenitori che oppositori. Per di più, sia gli argomenti a favore della teoria che quelli contrari dovrebbero essere presentati in modo imparziale».
La verità, banale e meravigliosa allo stesso tempo, è che, come scrive de Mattei, «dal punto di vista della scienza sperimentale, entrambe le ipotesi sulle origini, sia l’evoluzionista che la creazionista, sono inverificabili. Su questi temi ultimi non è la scienza, ma la filosofia, a doversi pronunciare».
Gli esorcismi, le benedizioni e le guarigioni - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
Non mi stancherò mai di ripetere a tutti voi che, a mio parere, tutte le risposte necessarie alla nostra salvezza le ritroviamo nella Sacra Scrittura. I Vangeli, per esempio, riferiscono in molte pagine che Gesù si scontrò frequentemente con il demonio e che, nel contempo, liberò dalle influenze del Maligno tanti ossessi. I Vangeli sinottici, nella fattispecie, dedicano numerose parti alla descrizione del ministero di esorcista svolto da Gesù; leggiamo attentamente quanto segue: “Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: “Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio”. E Gesù lo sgridò: “Taci! Esci da quell'uomo”. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (Marco 1, 23-26); “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì ...
... molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (Marco 1, 32-34); “Egli disse loro: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni” (Marco 1, 38-39); “Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma Egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero” (Marco 3, 11-12);
“Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: “Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”. Gli diceva infatti: “Esci, spirito immondo, da quest'uomo!”. E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti”. E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”. Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare. I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto” (Marco 5, 1-14);
“Nella sinagoga c'era un uomo con un demonio immondo e cominciò a gridare forte: “Basta! Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? So bene chi sei: il Santo di Dio!”. Gesù gli intimò: “Taci, esci da costui!”. E il demonio, gettatolo a terra in mezzo alla gente, uscì da lui, senza fargli alcun male” (Luca 4, 33-35).
I Vangeli sono colmi di tante altre citazioni narranti di esorcismi, ma, per questioni di spazio e, per evitare di offendere la vostra intelligenza, mi fermerò alle succitate. E’ chiaro, quindi, che Gesù scacciava veramente i demoni e, non si trattava di allucinazioni di massa o di disturbi di doppia personalità, ma del diavolo in persona.
Un altro argomento, molto delicato, è quello delle malattie e dell’accentuazione diabolica. Premetto dicendo che in materia vi sono notevoli discrepanze teologiche e filosofiche ma, come sempre, il mio parere si riconduce precisamente a ciò che la Sacra Scrittura e gli esorcisti mi hanno insegnato. Come sappiamo il genere umano è sconvolto da tantissime malattie che spaziano in tutte le più fantasiose sintomatologie. Non è sempre così, ma in molti casi, dietro le apparenti malattie fisiche o psicologiche, non c’è altro che l’influenza del Maligno. Il Vangelo ci parla di una donna che aveva uno spirito immondo da 18 anni e che, il predetto diavolo, la costringeva in una situazione di infermità. Ella era curva e non riusciva in nessun modo a drizzarsi, ma ecco che Gesù:
“Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: “Donna, sei libera dalla tua infermità”, e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato”. Il Signore replicò: “Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto legata diciotto anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?”. Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute” (Luca 13, 10-17).
L’Evangelista Matteo, invece, ci parla di un cieco e muto, così perché indemoniato, che viene finalmente liberato da Gesù:
“In quel tempo gli fu portato un indemoniato, cieco e muto, ed Egli lo guarì, sicché il muto parlava e vedeva” (Matteo 12, 22).
L’Evangelista Luca, essendo tantissimi i casi di guarigione, si mantiene sul vago e dice:
“Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti” (Luca 6, 17-19);
“Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed Egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano demoni gridando: “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma Egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo” (Luca 4, 40-41);
“In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi” (Luca 7, 21).
Lo stesso San Paolo, certamente non era indemoniato, ma aveva uno spirito diabolico che lo vessava in un disturbo sicuramente malefico:
“Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me” (2 Corinzi 12, 7-8).
Questi infelici non erano realmente posseduti, ma avevano la presenza di un demonio che provocava loro gravi disturbi fisici e morali. Una volta scacciato il demonio, i menomati fisici riacquistano la salute. La malattia rappresenta il disordine nell’ordine primordiale creato da Dio; Egli, difatti, se avesse notato qualcosa di sbagliato nella sua creazione, sicuramente non si sarebbe compiaciuto dicendo “e vide che era cosa buona”. Col peccato originale, purtroppo, diventiamo vulnerabili e corruttibili e, con il peccato quotidiano, noi apriamo deliberatamente anima e corpo alla malattia. Del resto è la stessa Sacra Scrittura a rivelarci che, a causa del peccato, sono entrati nel mondo la malattia, il male e la morte. E’ ovvio che a volte il demonio genera od incrementa le malattie, questo capita principalmente quando il malcapitato è un peccatore incallito, un operatore dell’occulto, un non-credente o quando si è colpiti da malefici volontari. E’ ovvio che, come già accennavo in uno dei capitoli precedenti, vi sono tanti casi di malattie in cui il peccato è alla base ma, per guarire, o si riceve il miracolo o bisogna rivolgersi alla medicina che, anch’essa, è un dono di Dio (se applicata per amore e non per superbia e vanità di soldi e di successo). Rimane fondamentale, comunque, riconosce che la più grande medicina è la Fede; la Preghiera, è quell’Arma gratuita che, se fatta con vero sentimento, può garantire all’uomo ogni fattore necessario alla sua salvezza. Nel mio caso, per esempio, se non avessi avuto una malattia, non mi sarei mai rivolto ad un sacerdote guaritore e, se anche non sono totalmente guarito, però ho scoperto la fede che è in me e, per questo, mi ritengo un miracolato. In ogni caso, quindi, è fondamentale pregare, perché, come ho già detto, Dio non si può opporre alle nostre richieste fatte con fede vera.
“In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 19-20).
La malattia, come detto, è spesso accentuata da un’azione di Satana e dei suoi angeli decaduti, visto che il Maligno ha come scopo quello di portarci all’esasperazione e di nascondersi; egli, difatti, cela la sua nefasta influenza dietro la malattia che, già di per sé, abbassa le nostre difese di fede e ci induce allo scoraggiamento. Matilde Maria Cassano, nel suo libro dedicato alla memoria del noto esorcista campano don Leone, riporta le seguenti parole tratte da un discorso del prelato: “In alcuni casi l’intervento dell’esorcista non basta, come non può bastare quello del medico. Ecco perché è importante che la scienza non escluda la religione. L’epilettico indemoniato, è un malato che ha manifestazioni di epilessia, ma che spezza le catene e gira di notte nei cimiteri, è evidente che si tratta di accentuazione diabolica oltre che di malattia. La prima, l’epilessia, curabile con la medicina; la seconda, l’accentuazione diabolica, curabile ricorrendo a Dio. Questo fatto è stato forse il motivo che ha indotto il professor Cancrini a pronunciarsi favorevolmente per l’avvenuta chiusura dei manicomi. Una scelta giusta, che io stesso da esorcista cattolico condivido pienamente, richiamando tuttavia l’attenzione delle istituzioni e la collaborazione dei colleghi esorcisti affinché le scienze religiose possano servire all’assistenza successiva del malato psichico, dimesso dal manicomio. Il noto luminare professor Cardarelli, ad esempio, si consigliava con San Giuseppe Moscati dicendo: - Peppino, come mai imbrocchi sempre ogni diagnosi, è nell’umano sbagliare … - Il Santo medico allora rispondeva: - Io non visito mai un ammalato affidandomi solo alla scienza, ma chiedo al paziente anche la sua collaborazione attraverso la preghiera ed i sacramenti -. Dunque questo escludere Dio da parte di molti medici ed ammalati non credenti, è un grande danno, perché non si tiene conto dei limiti, delle carenze e delle colpe che esistono nell’umano”.
Carlo Di Pietro
Avvenire.it, 21 Maggio 2010 - DIBATTITO - Cacciari, Dio e ilmistero del tre - Piero Coda
Scrivere un libro a quattro mani con Massimo Cacciari, e su un oggetto come il primo comandamento: Io sono il Signore Dio tuo (il Mulino), è stato cogliere l’occasione per proseguire un dialogo di larghi orizzonti che ormai procede da più di vent’anni. A cose fatte, dopo aver letto il saggio scritto dal noto filosofo per questa occasione, mi è spontaneo annotare qualche riflessione e proporre qualche quesito. La prima cosa che mi pare doveroso sottolineare è che ci troviamo tra le mani un saggio significativo e impegnativo. Il filosofo indaga da par suo «le condizioni o ragioni per così dire a priori che rendono possibili» i "diversi destini" del monoteismo: la lotta per preservarne la purezza e assolutezza e insieme la relazione con l’esserci nella sua finitezza. «Tutto muta – egli precisa – se tale relazione è intesa come immanente allo stesso Uno-Dio, o se l’Uno-Dio viene equiparato alla pura sostanza, all’Essere-degli-esseri, o ancora se l’Uno-Dio viene exaltatum sopra ogni determinazione di essenza». In questa prospettiva, Cacciari rimarca che il significato rivoluzionario e universale della rivelazione mosaica non sta nel testimoniare l’irrompere di un Dio in lotta per l’egemonia ma nell’«identificare con questo Unico l’essenza stessa del theion (il divino)».
La questione nasce quando, muovendo da quest’assunto, si cerca «da filosofo» di «dare ragione del Dio vivente biblico». È a indagare questo formidabile problema che è chiamata il logos dell’uomo: si tratti del logos greco e di quello ebraico della diaspora ellenistica prima, di quello cristiano dei secoli fondatori dell’identità ecclesiale poi, di quello infine della modernità. Cacciari esamina e decostruisce, in particolare, le proposte teoretiche di quest’ultima: quella di Spinoza, quella di Hegel e soprattutto quella di Schelling, evidenziandone le rispettive aporie. Non mi soffermo su questa serrata scorribanda teoretica. Vengo subito, piuttosto, al punto di vista guadagnato da Cacciari, che condivido senz’altro come approdo e punto di un nuovo inizio. Si tratta della straordinaria invenzione (nel senso classico del concetto: e cioè come ritrovamento di un dato offerto al pensare nella rivelazione) del Deus Trinitas proposta dai Padri della Chiesa. «Tre ipostasi, una sola sostanza, ousía. Tour de force impossibile, grida la "ragione". Ma non si tratta di un teorema logico, si tratta di corrispondere con la massima esattezza al senso del Revelatum» poiché «è la stessa novitas dell’Annuncio [di Gesù e della Chiesa su di lui] a imporlo». È questa un’affermazione cruciale: la dottrina del Deus Trinitas è la via segnata dall’Annuncio di Gesù alla risoluzione – teoretica e pratica – del "problema" del monoteismo.
Fin qui la consonanza. Ma a questo punto si profila un’ulteriore, e delicata questione: quella di una pertinente intelligenza del Deus Trinitas. A questo riguardo capisco certo la formidabile e inaggirabile istanza cui Cacciari vuol rispondere: occorre salvaguardare, a un tempo – e proprio per rispetto al Revelatum – l’abisso del mistero di Dio e la libertà della relazione che in Dio vive, insieme alla libertà della creatura cui la relazione gratuitamente si rivolge. Ciò, a parere di Cacciari – e una ragione almeno in parte egli ce l’ha, per la negligenza di un certo pensare teologico – non è garantito quando la persona dello Spirito Santo, il terzo tra il Padre e il Figlio, è «ridotto, come si continua sostanzialmente a sostenere, a simbolo della relazione amorosa, reciprocamente accogliente, tra le altre due Persone... Non si comprende la Vita intradivina dell’Unico Dio senza caratterizzare il volto dello Spirito, che ne rappresenta il segreto più intimo». Ma qual è la caratterizzazione pertinente? «Lo Spirito – argomenta Cacciari – è il "volto" della Relatio che mostra "ciò" che la eccede. (...) Nella Relatio l’ipostasi dello Spirito è il fondamento della Persona paradossale che si ri-volge all’arché comune e inattingibile, all’eterno Passato dell’eterno Presente di quell’"Io sono" trasformatosi nell’"Unum sumus"», e cioè nell’«Io e il Padre siamo Uno» di Gesù nel quarto vangelo (cfr. Gv 10,30).
È qui, mi pare, che va posta la questione decisiva: la salvaguardia della relazione in Dio come libertà è collocata con pertinenza quando la si coglie nel riferimento alla differenza smisurata dell’Inizio (in Dio stesso) come libertà? La mia risposta è: penso di no. Lo Spirito non va "sciolto" dalla relazione per garantire la libertà e l’inesauribilità di Dio, ma va piuttosto seguito nel suo guidarci a penetrarne il mistero nel segno dell’amore: quell’amore-agape che è Dio stesso (cf. 1Gv 4,8.16) rivelato da Gesù Crocifisso e Risorto. Egli, lo Spirito, non è certo, come rischia certa ermeneutica teologica addomesticata di farci fraintendere, il "chiuso" soddisfatto della relazione tra Padre e Figlio, ma è piuttosto il non ritorno su di sé che in essa si esprime – da parte dell’uno e dell’altro – e, per questo, è lo sguardo e il soffio del e verso l’inesauribile di Dio nel segno di ciò che è sempre nuovo e aperto e al di là: nel donarsi e condividersi sempre di nuovo, in una pienezza che è sempre più piena, ma mai definitivamente raggiunta e posseduta dalla creatura.
In consonanza con questa discriminante precisazione, vengo a un ultimo spunto che mi pare del massimo rilievo per la prosecuzione del dialogo. Esso concerne la nozione di Revelatum a partire dalla quale Cacciari muove nella sua ricerca. Tale nozione, intesa così come mi sembra da lui intesa, rischia di pensare la rivelazione solo come un factum, un positum di cui occorre tener conto, indiscutibilmente: ma senza entrarvi dentro, senza prendervi parte. Il che significa, inevitabilmente, esercitare l’intelligenza rispetto al Revelatum senza però essere determinati (gratuitamente e liberamente) dall’evento stesso che la Revelatio è. Prendiamo il detto del Paraclito che troviamo nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi della cena: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò cha avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15). In questo detto, lo Spirito è presentato come colui che prende tutto ciò che Gesù ha ricevuto dall’Abbà e lo distribuisce con libertà e liberalità in vista della koinonía dei molti nell’Uno. Egli si mostra così come l’intimo di Dio che ne è al contempo l’estremo. È il darsi dell’Abbà nel Logos fatto carne e pane che è offerto dallo Spirito e nello Spirito come dono a chi lo riceve in quanto questi, a sua volta, lo possa comunicare.
Forse, Cacciari mi ribatterebbe citando 1Cor 2,10ss: dove si parla dello Spirito che scruta ogni cosa, anche «le profondità di Dio». Tale Spirito però – precisa subito Paolo – è proprio ciò che Dio ci ha donato per conoscere tutto ciò che da Dio viene, in «parole dello Spirito». È possibile dunque intelligere questo Revelatum senza che esso non stia più semplicemente "di fronte" al pensare, ma entri "nel" pensare stesso?
Piero Coda
La vita mistica della beata di Foligno - Leggere Angela con Angela - Giovedì 20 maggio Claudio Leonardi ci aveva fatto pervenire, attraverso l'amico monsignor Fortunato Frezza, questo articolo che resta come il suo ultimo contributo alla conoscenza di una storia da lui tanto studiata e amata. I funerali di Leonardi saranno celebrati martedì 25 alle ore 11 nella basilica fiorentina di San Miniato al Monte. - di Claudio Leonardi - L'Osservatore Romano - 23 maggio 2010
Nella notte tra il 3 e il 4 gennaio 1309 moriva a Foligno, dove era nata, Angela, la grande mistica, forse la più grande mistica italiana. Tra le più straordinarie testimonianze nel mondo sulla convivenza uomo-Dio e Dio-uomo. Si sono tenute celebrazioni, congressi, cerimonie religiose. Ma il libro di monsignor Giovanni Benedetti, vescovo emerito della stessa città di Foligno - La teologia spirituale di Angela da Foligno (Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2009, pagine xx+376, euro 48) - è probabilmente il migliore risultato che la ricorrenza centenaria ha suscitato. Si tratta di uno studio monografico, in cui sono ripresi anche alcuni saggi precedenti, e che ha molti meriti. Innanzitutto quello di affrontare il racconto della sua esperienza, che Angela dettava a un francescano suo parente o riferiva nelle lettere e istruzioni a discepoli e fedeli, secondo un criterio: poiché il resoconto mistico parla solo ed esclusivamente di una esperienza di Dio, quale altro strumento è da usare per comprendere un discorso circa Dio?
Ma l'indagine di monsignor Benedetti ha un altro e singolare merito: in ogni pagina la sua esposizione teologica sull'esperienza mistica di Angela è accompagnata in apparato da una lunga serie di testimonianze di molti Padri, greci e latini, tra i molti si ricordano Origene e Agostino, ma anche Simeone il Nuovo Teologo e Gregorio Magno; come da una serie di teologi e mistici medievali: da Anselmo d'Aosta a Bonaventura e Tommaso, da Isacco della Stella e Francesco d'Assisi a Guglielmo di Saint-Thierry. Questo corpus testuale (assieme a relativamente poche citazioni da studiosi moderni) viene a costituire una frontiera di confronto importante, e mai sinora proposta, alla comprensione di Angela.
Lei era ignorante: la sua cultura era quella di un'analfabeta intelligente, che faceva proprio quanto udiva nella liturgia e nella predicazione. Questi testi non sono certo le sue fonti, non è ricorrendo ad esse che Angela ha dettato i suoi resoconti, che sono invece esclusivamente mistici, sono ispirazioni, locuzioni, illuminazioni e visioni, tutte di origine divina. Quello che viene da lei viene da Dio, non da testi precedenti, neppure dalla Bibbia. Ma questo corpus vuole mostrare come nella tradizione cristiana, dal ii secolo di Ireneo di Lione in poi, la vita di Dio e in Dio che Angela ha sperimentato, ha riferimenti possibili e accettabili.
Il pregio maggiore di questa monografia, che gli studiosi di Angela non potranno trascurare, è tuttavia quello di avere costruito una vera e propria biografia della mistica di Foligno, sulla base naturalmente del suo Liber (composto dal Memoriale e dalle Instructiones), che viene continuamente citato, ma accompagnandolo continuamente con la riflessione teologico-spirituale, con grande attenzione a spiegare, fin dove è teologicamente possibile, la vita mistica altissima di Angela.
Questo tipo di biografia - si potrebbe dire quasi un leggere Angela con Angela - non era mai stato tentato in termini così sistematici e convinti. Il volume entra subito in medias res, dopo una breve prefazione di un altro folignate, l'arcivescovo Giuseppe Betori, e una preziosa premessa storica dovuta a Mario Sensi, l'attuale maggiore storico della città, che traccia anche la primissima fortuna del Liber (pp. xi-xx), e dedica tutta la prima parte del lavoro alla "conversione" di Angela.
Può sorprendere che si intenda come periodo della conversione un periodo così lungo, dal 1285 ad oltre il 1291, e oltre il suo pellegrinaggio ad Assisi. Angela sperimenta già Dio, in questo periodo, secondo due modalità, quella del dolore e quella dell'amore. Del dolore perché si sente attratta dal Crocefisso, da Gesù passionato, come lo chiama, il Cristo della passione e della morte. Il suo sempre più pieno immedesimarsi a Cristo passionato equivale a una sempre più piena trasformazione di Angela in Cristo (la parola trasformazione torna spesso nel suo linguaggio): ella avverte che la sua anima con il dolore entra in Dio e il suo corpo partecipa a questa condizione di dolore.
Una delle tante citazioni possibili: "mentre stavo pregando, Cristo mi si manifestò sulla croce con maggiore chiarezza (...) Mi chiamò e mi disse di avvicinare la mia bocca alla ferita del costato e mi sembrava di vedere e di bere il suo sangue, che usciva proprio in quel momento (...) Desiderai che per amor suo tutte le mie membra patissero una morte diversa dalla sua, cioè più spregevole" (p. 133), e ancora: "quando l'anima contempla l'ineffabile dolore del Dio e uomo Gesù Cristo, tanto si addolora e viene trasformata in dolore" (p. 151). Questa centralità cristica, in particolare del dolore di Cristo viene affiancata ben presto da un altro sentimento, l'amore per il Cristo. Il suo punto di origine o almeno di giustificazione è nella frase che Cristo un giorno rivolge ad Angela: ma non sai che mi sono incarnato per te, "per te ho sofferto tutto questo?" (p. 57).
La conversione, come viene qui descritta, è un lungo percorso tra il dolore-morte e l'amore-vita. Infatti per essere un solo spirito con Dio, come ha affermato Cristo stesso, è richiesto di rinunciare a se stessi.
Questa non è tuttavia opera possibile all'uomo, ma solo a Dio, che ha mandato il Figlio tra gli uomini e ha loro donato lo Spirito per aderire alla sua chiamata. Il sentimento profondo del dolore di Cristo crocefisso, che diventa il dolore di Angela, rappresenta questo "odio" e si associa sempre più all'amore per Cristo che è dato dallo Spirito: sono questi due doni che portano Angela a essere una con il Cristo e con il Verbo, la "via del dolore" e la "via dell'amore": "il mio cuore è il cuore di Dio" (p. 11); "tu sei per me e io sono per te" (p. 34). La conversione non sta dunque solo nella rinuncia al peccato o all'egoismo, sta nella morte a se stessi, che si realizza in un attimo ma richiede anche molti anni per realizzarsi pienamente.
In realtà l'esperienza di Angela è insieme cristologica e pneumatologica, e dunque sin dall'inizio implicitamente trinitaria, come lo sarà esplicitamente alla fine della sua esperienza. Ma ogni vera esperienza mistica è e non può che essere trinitaria: è solo per virtù di Spirito santo che l'uomo può unirsi a Dio e solo così diventare suo figlio, altro Verbo-fatto-carne, e in tal modo riconoscere il Padre celeste come proprio Padre.
Nel volume si nota che Angela è stata via via, sino alla prossimità della morte, colta dal dubbio che non fosse Dio che le parlava e che la presenza di Dio nella sua anima non fosse sempre tale. Ma era di volta in volta esplicitamente rassicurata. Certo la sua vita "da convertita" è una vita spirituale meravigliosa, di grandissima gioia e straordinaria dolcezza di spirito (che dice la presenza dello Spirito santo), con momenti di sgomento quando questa presenza sembra venire meno. Ma un giorno risponde al frate confessore: è in me "un fuoco d'amore dolcissimo e io non ho alcun dubbio, quando tale fuoco è nell'anima, perché l'anima conosce con sicura certezza che solo Dio può operare in quel modo e nessun altro" (p. 199).
In questa condizione tre aspetti in particolare mi sembra di dover segnalare per la loro eccezionalità. Il primo è raccolto nella frase: "questo mondo è pieno di Dio", dove tuttavia il latino praegnans può essere tradotto con "incinto": questo mondo è incinto di Dio (p. 224). La frase non è da intendere umanamente, come il creato potesse generare Dio nell'uomo, ma solo secondo un registro divino, per cui l'anima resa divina contiene in se il mondo e partecipa al desiderio di Dio di salvarlo. Una parola profonda e altissima.
Il secondo aspetto - che monsignor Benedetti egualmente sottolinea - è una problema più delicato per la teologia. Ha goduto Angela della visione di Dio? Ha visto veramente lui? Sono molti i passi in cui Angela racconta di vedere Dio, di vedere l'essenza divina, e almeno una volta si sente dire: "guardami" (p. 265), e allora guarda e vede Dio "con maggiore chiarezza di quanto si vede un altro uomo". Sarà una forma diversa, da quella propriamente paradisiaca, di visione beatifica, ma certo pare di dovere affermare che la gloria di Dio ha fatto parte dell'esperienza di Angela (una mistica del secolo scorso, Lucia Mangano, aveva quasi come missione la testimonianza che la visione beatifica è possibile anche su questa terra).
Il terzo aspetto è il rapporto di Angela con il Padre divino. Negli ultimi anni della sua vita mistica Angela va aldilà dell'esperienza del dolore e dell'amore, di questa inebriante vita di partecipazione al Cristo e allo Spirito: ha l'esperienza del Padre, che è un fatto non comune nella tradizione mistica: Angela vede ora Dio nella tenebra, non vede più il Crocefisso e non vede più neppure il suo Amore, vede "quella realtà indicibile" (p. 237), così che "l'anima è in modo perfettissimo in Dio" (p. 267). La tenebra le dice che Dio è oltre ogni conoscenza, ma proprio il vederlo nella tenebra, come le è concesso, è di per sé un abisso di conoscenza, una conoscenza e un amore oltre ogni conoscenza e ogni amore.
La coscienza di sé che ora Angela avverte, di essere per questo diventata "non-amore" (p. 291) è di fare l'esperienza del nulla, Dio le appare infatti come il "nulla sconosciuto" (p. 276), che è certo una purificazione (p. 282 e sgg.), ma è soprattutto un'esperienza mistica altissima, come in Teresa del Bambin Gesù: la tenebra che l'avvolge è infatti una tenebra divina. Ma questa tenebra si schiude infine nella consapevolezza di essere "avvolta nella divinità, raccolta pienamente nel Padre": il Padre "mi raccolse tutta in se stesso" (p. 302). Non solo Angela "giace nella Trinità", ma in lei "riposa tutta la Trinità" (p. 308).
Questa straordinaria vicenda di Angela riemerge continuamente dalle pagine di monsignor Benedetti, che riesce a raccontarla seguendo ogni momento della sua esperienza con le parole stesse di Angela. Caterina da Siena è stata per la sua straordinaria statura proclamata patrona d'Italia: perché non affiancarle Angela da Foligno? Non c'è un caso più alto in Italia di esperienza e di scrittura mistica. Può darsi che il semplice cristiano sia perplesso di fronte a una vita come quella di Angela, tanto più considerando la propria. Ma c'è un punto, ed è quello fondamentale, in cui lo splendore divino di Angela è proposto a tutti: tutti sono chiamati a passare dalla fede in Dio all'esperienza di Dio, che comincia sempre con il pentimento dei peccati e l'offerta di sé alla volontà di Dio. Questo basta a portare ogni cristiano in quella trasformazione non solo psicologica ma per dono di Dio anche ontologica: da uomo a uomo-in-Dio, a figlio di Dio, ad altro Verbo. Lo studio di monsignor Benedetti è un chiaro invito anche in questo senso.
(©L'Osservatore Romano - 23 maggio 2010)
INCHIESTE, INFORMAZIONE, PRESUNZIONE D’INNOCENZA - Intercettazioni: il cuore del problema - FRANCESCO D’A GOSTINO – Avvenire, 23 maggio 2010
Seguire i dibattiti politici e partitici in merito alla proposta di legge sulle intercettazioni si sta rivelando sempre più faticoso. La maggioranza stenta a esplicitare in modo convincente le sue ragioni e dà sempre più l’impressione che voglia legiferare solo per coprire interessi personali o di gruppo.
L’opposizione, a sua volta, si oppone alla legge esasperando indebitamente i toni del dibattito, quasi che ci sia da temere un ritorno al fascismo o lo strangolamento di ogni attività di indagine giudiziaria. Il risultato è che, ancora una volta, l’opinione pubblica rimane frastornata e non riesce a farsi un’idea chiara della sostanza della questione, che, pur essendo relativamente semplice, è vistosamente deformata dall’uso di troppi argomenti pretestuosi.
È vero che questa nuova legge sia una minaccia per la libertà (e per quella di stampa in particolare)? È indubbiamente vero che essa vuole introdurre nuovi divieti e quindi nuove forme di responsabilità penale. Ma questo non è un connotato esclusivo di leggi autoritarie o addirittura liberticide; è (ci piaccia o no) il connotato di qualsiasi legge che voglia tutelare le libertà civili. Se voglio che la mia sicurezza personale sia garantita, sarà necessaria una legge che proibisca ai cittadini di girare per strada con le armi in tasca. Se voglio garantire l’ecosistema, sarà necessario proibire o almeno limitare che alcuni cittadini pratichino caccia e pesca indiscriminate. Se voglio garantire l’eguaglianza e la dignità delle persone, devo severamente proibire a tutti di porre in essere pratiche discriminatorie, diffamatorie... Insomma, la vecchia idea che debba essere 'vietato vietare' o che possano esistere leggi esclusivamente permissive e non proibitive è infantile (o ipocrita): la legge può ben avere il dovere di limitare la libertà, purché lo faccia per ragioni adeguate e nel rispetto dei principi costituzionali. Questo è il cuore del problema.
Esistono motivazioni che possano giustificare in modo ovviamente adeguato un limite, anche drastico, alle intercettazioni e alla loro pubblicazione? Certamente sì: esse si riassumono nel principio costitutivo del diritto penale moderno (purché lo si voglia prendere sul serio) e di ogni libertà civile: la presunzione di innocenza di chi sia non solo sospettato, ma anche indiziato o addirittura formalmente imputato di reato. È intollerabile, perché segno di inaccettabile ipocrisia, continuare a rendere omaggio al garantismo penale e nello stesso tempo svuotarlo dal di dentro di ogni significato tollerando la divulgazione indiscriminata di notizie che violano la privacy individuale.
Che le intercettazioni siano utilissime ai fini delle indagini penali è evidente, così come è evidente che esse sono irrinunciabili. Ma è altrettanto evidente che l’uso soprattutto mediatico che ne viene fatto ormai da anni non sempre è finalizzato all’ accertamento della verità, ma è volto a produrre (intenzionalmente o meno, questo è irrilevante ai fini di questo discorso) una vera e propria distruzione dell’immagine del cittadino al cospetto dell’opinione pubblica. Se concordiamo col diritto penale moderno, quando sostiene che è meglio un colpevole impunito che un innocente sanzionato, dobbiamo ammettere che la sanzione mediatica cui continuano a essere sottoposti fin troppi cittadini è semplicemente intollerabile.
Quanto detto non implica naturalmente che si debbano proibire in modo ottuso tutte le intercettazioni (o introdurre modalità che le rendano inutili o quasi) e nemmeno che vada interdetta la loro pubblicazione.
Significa semplicemente che bisogna elaborare tecniche per difendere adeguatamente la privacy dei cittadini intercettati e inquisiti. È del tutto legittimo criticare il disegno di legge del governo, ma bisogna riconoscere che le sue istanze di principio sono fondate. Spiace vedere tanti politici e tanti giuristi impegnati eludere il cuore del problema, quello di individuare quali possano essere le tecniche ottimali per una concreta difesa della presunzione di innocenza.
Perché, la lotta contro la criminalità deve restare in primissimo piano, ma quantomeno allo stesso livello d’importanza deve essere posta la lotta per il diritto, cioè per la tutela degli innocenti contro ogni forma di diffamazione e umiliazione mediatica: è su questo punto, prima che su ogni altro, che si gioca oggi l’autenticità della democrazia.
«C’è l’antidoto all’eutanasia» - DA ROMA - C’ è un antidoto all’eutanasia. E si chiama compassione. - «È la compassione Il malato chiede di morire solo se si sente abbandonato» spiega il filosofo Francesco D’Agostino – Avvenire, 23 maggio 2010
La parola è risuonata più volte nel dibattito seguito alla lectio magistralis del filosofo Francesco D’Agostino sulla 'Sofferenza come problema relazionale' alla IV Assemblea generale dell’associazione Scienza & Vita. «La richiesta di eutanasia proviene dal malato in stato di abbandono. Il quale quando percepisce questo è come se dicesse 'Se volete abbandonarmi, uccidetemi'». Diverso il problema che riguarda le dichiarazioni anticipate di trattamento. Nelle quali, comunque, in gioco c’è fortemente l’alleanza terapeutica. Con le Dat e il consenso informato è il «tripode » su cui si basa il testo di legge che a giugno sarà discusso in aula alla Camera. L’immagine è del relatore Domenico Di Virgilio. C’è chi teme che l’alleanza possa essere inficiata dal rimando al giudizio di un collegio in caso di contrasto del curante con il fiduciario. «Ma è sempre una valutazione clinica fatta da medici», spiega Di Virgilio a margine dell’incontro. E le Dat non sono vincolanti né per il medico curante né per il collegio. Anzi, «c’è uno spazio per applicare i progressi della scienza e sempre per il bene del paziente». All’incontro c’erano il consigliere regionale del Lazio Olimpia Tarzia, l’ex parlamentare Maria Burani Procaccini (che ha rilanciato l’idea di una riforma della legge 180), nonché rappresentanti di associazioni laicali (Acli, Ac, Sant’Egidio, Confederazione dei consultori). A portare il saluto della Cei, il direttore dell’Ufficio di pastorale della salute, don Andrea Manto, che ha sottolineato l’esigenza che gli operatori di questo settore si «riapproprino di certe categorie che gli appartengono per esperienza, tradizione e presenza radicata». E le declinino «in una consapevolezza educativa ad ampio raggio».
movimento per la vita «Sull’aborto no all’inquinamento dei dati» - DA ROMA PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 23 maggio 2010
Rassegnarsi? Mai. Nel secondo dei tre giorni di riflessione organizzati a Roma per il 32° anniversario dell’approvazione della legge 194, il Movimento per la Vita (MpV), insieme al Forum delle famiglie e a Scienza&Vita, rilancia il monito della Chiesa italiana pronunciato quel 22 maggio 1978 e richiama i media alla responsabilità della difesa dei nascituri. Oggi presenza a Piazza San Pietro per ricevere la benedizione del Papa e davanti al Senato, dove avvenne l’approvazione definitiva della legge, con 50 carrozzine vuote a ricordare 5 milioni di aborti.
Lo scopo dell’incontro, spiega il presidente del Mpv Carlo Casini, è contrastare quell’«inquinamento ambientale» che domina su questi temi. Gli atti del convegno, annuncia il presidente del Forum, Francesco Belletti, saranno inviati «a tutti i giornalisti italiani, incontrando anche i presidenti dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione della stampa e il Garante per le comunicazioni ». «L’affermazione, ripetuta fino ad oggi dai mezzi di informazione, che la 194 ha determinato una forte diminuzione degli aborti è falsa», argomenta il vicepresidente del Mpv Pino Morandini, puntando il dito sulla «abortività nuova, tanto più nascosta quanto più precoce», cioè la pillola del 'giorno dopo' di cui ogni anno sono utilizzate 370mila confezioni, per cui è ragionevole ipotizzare per questa via 30-40mila aborti. Poi i dati sulla clandestinità riportati annualmente nelle relazioni del ministro della Giustizia continuano a dimostrare un dato costante, facendo sospettare un maggior numero di interventi non accertati. Comunque, aggiunge Morandini, non ha fondamento l’asserzione secondo cui sarebbe la contraccezione a far diminuire le interruzioni volontarie di gravidanze, come dimostra il fatto che in Francia e nel Regno Unito dove è ampiamente praticata, gli aborti continuano a crescere. «Dunque la causa della riduzione degli aborti è l’azione del volontariato ed il magistero della Chiesa», conclude il vicepresidente del Mpv.
Bruno Mozzanega documenta i 120mila bambini strappati dall’aborto dall’attività dei Centri di aiuto alla vita (Cav) in 35 anni, pari al 20% del totale degli aborti legali. Delle gestanti che si sono presentate nel 2009 ai Centri con il certificato per abortire, l’83% ha proseguito la gravidanza. Delle madri incerte o intenzionate ad interrompere la gravidanza, il 79% ha dato alla luce il proprio figlio. Preoccupa il fatto che i consultori non inviino le madri in difficoltà ai Cav e che nelle minorenni gli aborti registrati come spontanei crescano del 67%, mentre è minimo il loro ricorso ai Centri.
Il demografo Giancarlo Blangiardo mostra come senza gli aborti la popolazione degli italiani sarebbe rimasta sostanzialmente stabile, mentre il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, in un intervento registrato, individua nella denatalità le cause della crisi economica. Il magistrato Giuseppe Anzani chiede la modifica del primo articolo del Codice civile in modo da riconoscere la capacità giuridica fin dal concepimento, capacità già affermata da una sentenza della Corte di Cassazione nel maggio del 2009. Una modifica in questo senso del primo articolo della 194 è sollecitata in conclusione da Casini. «È necessaria per evitare quell’'inquinamento ambientale' – dice il presidente del MpV – che induce in inganno le coscienze », per difendere l’impianto della legge 40, l’obiezione di coscienza, e per tutelare la dimensione internazionale del diritto alla vita.
Chi si cela dietro ai panni della grande figura dei «Promessi sposi»? Il mistero su cui in passato si sono confrontate decine di critici e studiosi pare finalmente svelato - L’Innominato ha un nome: Alessandro Manzoni - da Bologna Stefano Andrini – Avvenire, 23 maggio 2010
«L’Innominato sono io» Parola di Alessandro Manzoni. La rivelazione, inedita, è stata lanciata dall’italianista Ezio Raimondi nel corso delle Giornate dell’Osservanza organizzate a Bologna per ricordare il centenario della conversione dell’autore dei Promessi sposi avvenuta nel 1810. Un’occasione per affrontare il tema della metanoia e della conversione sia sotto il profilo filosofico (Massimo Cacciari) e linguistico (il rettore dell’Università Ivano Dionigi).
Raimondi ha ricordato che Manzoni non amava parlare della sua caduta da cavallo avvenuta il 2 aprile 1810, quando in mezzo alla folla la moglie svenne e lui si ritrovò in una chiesa dove fu investito da una nuova epifania. «Non c’è da meravigliarsi – ha affermato l’italianista – di questo suo pudore.
Qui pesa l’umiltà dello scrittore: preferiva i temi romantici, dire 'noi' piuttosto che 'io', non aveva neanche come il cardinale Newman il riferimento malizioso agli scrittori. Eppure introduce nel romanzo ben due conversioni: quelle di fra Cristoforo e dell’Innominato». Un elemento singolare nello scrittore, ha sostenuto Raimondi, che «ha portato la sua interiorità quasi a trasfigurarsi nei due personaggi. Ma non solo: due personaggi coinvolti in conversioni entrambe dal dirompente effetto pubblico». Che questa sia trasfigurazione sia il modo prescelto per conciliare le sue affabulazioni e la sua situazione personale lo confermano certe pagine dei Promessi sposi. «Per esempio – ha raccontato Raimondi – introduce la notte dell’Innominato che non era presente nella precedente edizione di Fermo e Lucia. Forse la pagina più shakespeariana di tutta la sua opera. Qui sono rilanciate sensazioni forti che Manzoni non può non aver mutuato dai suoi ricordi». Di più: «Quello che il cardinale afferma diventa quasi un archetipo. Ecco allora la svolta. I suoi personaggi religiosi non sono convenzionali.
Perché fanno proprie le cose che dicono. Il suo è un romanzo in cui i laici sono vicini ai religiosi, anche se rimane un romanzo laico che usa temi religiosi». Un percorso che avrà delle ricadute incredibili nella poesia dopo la conversione, nella Pentecoste ma soprattutto nel clamoroso finale religioso del 5 maggio . Ha proseguito Raimondi: «Manzoni si rendeva conto che voleva scrivere un libro cattolico anche per i non cattolici. Tutto affonda le radici nella sua esperienza ma proprio per questo non vuole fare trasparire i suoi nuovi sentimenti». Anche fra Cristoforo, in qualche modo rientra in questa prospettiva. «Di lui – secondo Raimondi – racconta la giovinezza, il fatto di essere diventato per rancore protettore degli oppressi, ma con un’angoscia irrisolta: per raggiungere questa finalità doveva far ricorso ai bravi». E qui la corrispondenza biografica con lo scrittore diventa più evidente. «Per quella che sembrava fantasia e diventò risoluzione». In una lettera del settembre dello stesso anno ad un amico francese Manzoni confida: «Riprendo l’abitudine di parlare del mio lavoro, mi occupo dell’oggetto più importante seguendo le idee religiose che Dio mi ha dato a Parigi; quanto più avanzo il mio cuore è contento e lo spirito è soddisfatto». E diventa con l’amico quasi capace di una proposta cristiana. «Posso esprimere la speranza che anche voi vi occupiate di questi temi?».
Confermandosi così un singolare illuminista che sente il disagio dell’immanenza. In un altra lettera Manzoni è ancora più esplicito.
Scrive a un sacerdote: «Pregate per me che piaccia al Signore di scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da un tepidezza che mi tormenta, un castigo per chi non solo dimenticò ma ebbe l’ardire di negarlo». La conclusione di Raimondi è che «la conversione di Manzoni non è il passaggio da una religione ad un’altra ma la riscoperta della sua religione d’origine. Ricupera qualcosa del passato e lo scopre con nuove ragioni. Alla trasformazione dell’uomo, con la sua esperienza religiosa, si aggiunge una nuova scrittura. La sua resta una rivoluzione interiore dove il vecchio scrittore è osservato dal nuovo. Il risultato è un abbandono della classicità per abbracciare il sistema biblico evangelico, come la stesura degli Inni sacri clamorosamente conferma».