venerdì 28 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Avvenire.it, 27 maggio 2010 – VATICANO - Il Papa ai vescovi: «Risvegliamo la passione educativa»
2) DISCORSO DEL PAPA AI VESCOVI ITALIANI RIUNITI IN ASSEMBLEA GENERALE - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI nell'incontrare nell’Aula del Sinodo i partecipanti all’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
3) L’ESPERIENZA DELLA SOFFERENZA, UN ABBANDONO NELLA FIDUCIA - L’Arcivescovo Zimowski interviene alle Giornate genovesi di cultura cristiana - ROMA, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- L’esperienza della debolezza e della sofferenza è “un cammino spirituale non solo umano, nel quale Cristo, viene incontro all’uomo malato”. E' quanto ha detto mercoledì mons. Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, intervenendo in occasione delle Giornate genovesi di cultura cristiana, in corso a Roma dal 26 al 29 maggio nel complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia e al policlinico Agostino Gemelli.
4) Perché in tempo di crisi conviene amare la vita - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 26 maggio 2010
5) Dietrich von Hildebrand, l'"Essenza dell'amore" e "La trasformazione in Cristo" - Dal 27 al 29 maggio alla Pontificia Università della Santa Croce si svolge il convegno "The Christian Personalism of Dietrich von Hildebrand. Exploring his Philosophy of Love" organizzato dal Dietrich von Hildebrand Legacy Project. Pubblichiamo il testo di una delle relazioni. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
6) A tu per tu con la moglie Alice - Un filosofo serio lo riconosci dalla gioia - di Lodovica Maria Zanet - Università Cattolica del Sacro Cuore - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
7) Esce in Italia "The Road" di John Hillcoat, trasposizione sul grande schermo dell'omonimo libro di Cormac McCarthy - Finalmente un'apocalisse non spettacolare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
8) Allarme natalità: l'Italia diventerà un Paese islamico, solo loro fanno figli. Tv e cinema mortificano la sacralità del matrimonio. Le trasmissioni la smettano di invitare divorziati come fossero dei campioni, danneggiano la fede - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
9) ISLAM SEMPRE PIÙ FONDAMENTALISTA E INVASIVO. Le dichiarazioni del Premier Australiano, un esempio per tutti i Governi - On.le Alessandro Pagano (Camera dei Deputati) – dal sito pontifex.roma.it
10) Avvenire.it, 28 maggio 2010 - Dosi d’urto di messaggi in inglese. E di interrogativi - Checché ne dica certa pubblicità il mondo non è degli stupidi - Domenico Delle Foglie
11) Avvenire.it, 28 maggio 2010 - Ai giovani servono misure alte - Per indicare la strada verso la felicità - Marina Corradi


Avvenire.it, 27 maggio 2010 – VATICANO - Il Papa ai vescovi: «Risvegliamo la passione educativa»
Risvegliare nelle comunità cristiane la «passione educativa». Lo ha chiesto oggi Benedetto XVI ai vescovi italiani incontrandoli nella aula sinodale in Vaticano dove sono riuniti per l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Il Papa ha sottolineato, andando a braccio, che sono due le sfide culturali di fronte alle quali si pongono oggi gli educatori. La prima è «la falsa idea di autonomia di se stessi» che si registra soprattutto nelle nuove generazioni quando invece è «essenziale» per la persona umana diventare se stessi in relazione al «tu e al noi».

L’uomo, infatti, ha proseguito Benedetto XVI, «è creato per il dialogo» e «solo l’incontro con il Tu e il noi apre l’io a se stesso». L’altra sfida è «lo scetticismo e il relativismo». Educare, ha detto oggi il Papa, non è «imporre» ma «aprire» la persona «al Tu di Dio». «Pur consapevoli del peso di queste difficoltà – ha concluso il Santo Padre -, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione. Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci». «Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa», che non si risolve in una didattica». «Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa».

«Non perdere mai la fiducia nei giovani». E’ l’altra indicazione data oggi ai vescovi italiani da papa Benedetto XVI, parlando loro del tema dell’eduzione. «La sete che i giovani portano nel cuore – ha detto il Papa - è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita».

I giovani hanno bisogno di «una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili».

Ecco perché la proposta cristiana passa «attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia». Il papa ha quindi incoraggiato i presuli ad andare «incontro» ai giovani, «a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo – ha detto il Papa -, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza».

«La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri», ha detto
il papa. «Questa umile e dolorosa ammissione - ha proseguito - non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti». Secondo il
Pontefice, «l'anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un'opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale».

Nel contempo, ha proseguito, «ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti
- sull'esempio del Curato d'Ars - si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità». In questa luce, ha aggiunto il Papa, «ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, dall'altra la necessità della giustizia».


DISCORSO DEL PAPA AI VESCOVI ITALIANI RIUNITI IN ASSEMBLEA GENERALE - CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì da Benedetto XVI nell'incontrare nell’Aula del Sinodo i partecipanti all’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
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Venerati e cari Fratelli,
nel Vangelo proclamato domenica scorsa, Solennità di Pentecoste, Gesù ci ha promesso: "Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Gv 14, 26). Lo Spirito Santo guida la Chiesa nel mondo e nella storia. Grazie a questo dono del Risorto, il Signore resta presente nello scorrere degli eventi; è nello Spirito che possiamo riconoscere in Cristo il senso delle vicende umane. Lo Spirito Santo ci fa Chiesa, comunione e comunità incessantemente convocata, rinnovata e rilanciata verso il compimento del Regno di Dio. È nella comunione ecclesiale la radice e la ragione fondamentale del vostro convenire e del mio essere ancora una volta con voi, con gioia, in occasione di questo appuntamento annuale; è la prospettiva con la quale vi esorto ad affrontare i temi del vostro lavoro, nel quale siete chiamati a riflettere sulla vita e sul rinnovamento dell’azione pastorale della Chiesa in Italia. Sono grato al Cardinale Angelo Bagnasco per le cortesi e intense parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti: il Papa sa di poter contare sempre sui Vescovi italiani. In voi saluto le comunità diocesane affidate alle vostre cure, mentre estendo il mio pensiero e la mia vicinanza spirituale all’intero popolo italiano.
Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni. Tale orizzonte temporale è proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa. E mi sembra necessario andare fino alle radici profonde di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida. Io ne vedo soprattutto due. Una radice essenziale consiste - mi sembra - in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’"io" diventa se stesso solo dal "tu" e dal "voi", è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il "tu" e con il "noi" apre l’"io" a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo "tu" e "noi" nel quale si apre l’"io" a se stesso. Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un "io" completo in se stesso, mentre diventa "io" anche nell’incontro collettivo con il "tu" e con il "noi".
L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura secondo la Rivelazione. Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso. La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o - si dice - forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro. Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri. E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare. Così, in questo "concerto" – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’"io" al "tu", al "noi" e al "Tu" di Dio.
Quindi le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma, pur consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione. Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge. Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’"io" per il "tu", per il "noi", per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi. Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.
I giovani portano una sete nel loro cuore, e questa sete è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita. È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili. La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, "chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo" (Gaudium et spes, 41). L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.
Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, "fontana del villaggio", luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane. In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà fondamentali.
La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri. Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità. In questa luce, ciò che è motivo di scandalo, deve tradursi per noi in richiamo a un "profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia" (Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010).
Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo. Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza. Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno. La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.
Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica. Sarebbe illusorio – questo vorrei sottolinearlo – pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra. Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa e ritorna alle vere fonti dei valori. Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese. Questa prospettiva, ampiamente sviluppata nel vostro recente documento su Chiesa e Mezzogiorno, troverà ulteriore approfondimento nella prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, prevista in ottobre a Reggio Calabria, dove, insieme alle forze migliori del laicato cattolico, vi impegnerete a declinare un’agenda di speranza per l’Italia, perché "le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili" (Enc. Deus caritas est, 28). Il vostro ministero, cari Confratelli, e la vivacità delle comunità diocesane alla cui guida siete posti, sono la migliore assicurazione che la Chiesa continuerà responsabilmente ad offrire il suo contributo alla crescita sociale e morale dell’Italia.
Chiamato per grazia ad essere Pastore della Chiesa universale e della splendida Città di Roma, porto costantemente con me le vostre preoccupazioni e le vostre attese, che nei giorni scorsi ho deposto – con quelle dell’intera umanità – ai piedi della Madonna di Fatima. A Lei va la nostra preghiera: "Vergine Madre di Dio e nostra Madre carissima, la tua presenza faccia rifiorire il deserto delle nostre solitudini e brillare il sole sulle nostre oscurità, faccia tornare la calma dopo la tempesta, affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore, che ha il nome e il volto di Gesù, riflesso nei nostri cuori, per sempre uniti al tuo! Così sia!" (Fatima, 12 maggio 2010). Di cuore vi ringrazio e vi benedico.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


L’ESPERIENZA DELLA SOFFERENZA, UN ABBANDONO NELLA FIDUCIA - L’Arcivescovo Zimowski interviene alle Giornate genovesi di cultura cristiana - ROMA, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- L’esperienza della debolezza e della sofferenza è “un cammino spirituale non solo umano, nel quale Cristo, viene incontro all’uomo malato”. E' quanto ha detto mercoledì mons. Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, intervenendo in occasione delle Giornate genovesi di cultura cristiana, in corso a Roma dal 26 al 29 maggio nel complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia e al policlinico Agostino Gemelli.
Nella prolusione ai lavori della Giornate intitolate: “Io sono il Signore, colui che ti guarisce (Esodo 15,26). Malattia versus religione tra antico e moderno”, mons. Zimowski ha spiegato che “la malattia è più di un fatto clinico, medicalmente circoscrivibile” per cui “chi soffre è facilmente soggetto a sentimenti di timore, di dipendenza e di scoraggiamento”; e a “causa della malattia e della sofferenza sono messe a dura prova non solo la sua fiducia nella vita, ma anche la sua stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre”.
Dopo aver evidenziato il legame tra malattia e peccato personale presente nella Bibbia, il presule ha indicato nel superamento di questa concezione un punto qualificante dell’insegnamento e della prassi messianica di Gesù.
“Quando Gesù guarisce un lebbroso o proclama la parabola del buon Samaritano – ha spiegato –, dimostra compassione per coloro che soffrono, ma c’è di più: il suo gesto annuncia la vita nuova del Regno, la guarigione totale e permanente della persona umana in tutte le sue dimensioni e relazioni”.
“I guariti possono ammalarsi di nuovo – ha proseguito –; Lazzaro, il rianimato, morirà ancora. Rimane però la certezza definitiva della vittoria sulla morte e sulla malattia. Non è che la malattia e la morte debbano scomparire dal mondo, ma la forza divina che le vincerà nell’eschaton si è manifestata già nel tempo presente”.
“La guarigione dei malati – ha affermato l'Arcivescovo Zimowski – costituisce un elemento del mandato con il quale, dopo la risurrezione, Cristo ordina ai suoi apostoli di andare per il mondo a predicare il Vangelo”; e rappresenta quindi “il mandato di Gesù alla sua Chiesa, con prospettive che vanno tuttavia oltre gli aspetti fisici della malattia: la guarigione è conversione”.
Il presule ha quindi delineato il cammino spirituale del malato cristiano: “La malattia non è oggetto di libera scelta” e l’atteggiamento di fronte ad essa deve essere caratterizzato dalla lotta contro le sue cause e conseguenze” e dall' “adeguamento della vita spirituale a quanto appare ineluttabile”.
“Primo dovere del malato è allora la ricerca della guarigione, con l’accettazione della sua situazione di vita – ha chiarito –. In ciò si santifica, compiendo la volontà di Dio”.
Allo stesso tempo la malattia “è la necessità o l’urgenza di compiere un viaggio interiore” in cui “si è costretti ad incontrare le proprie paure, a prenderne coscienza e cercare di ricomporre la propria unità interiore: solo allora la guarigione è possibile”.
“La sofferenza – ha spiegato – non smentisce l’amore di Dio, ma ne rivela le misteriose profondità: si tratta di una situazione provvidenziale da decifrare, che permetterà al malato di purificare la propria conoscenza di Dio, come Giobbe ha potuto dire: 'Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto'” (Gb 42,5).
“In una visione cristiana, quindi, la sofferenza ha in sé un potere di santificazione: per essere più precisi, non la sofferenza che, in quanto tale resta un male, ma la sofferenza unita all’offerta”.
Accanto alle diverse prospettive che si offrono al malato, “il cristianesimo parla della solidarietà della croce, nella quale Dio si fa conoscere come colui che ha sofferto per amore, partecipando come vero uomo al destino umano e condividendolo”.
“Questo fa sì che l’imparare a soffrire in un ottica cristiana significhi l’elevazione del dolore nella condivisione di Dio, più che la sua depressione sotto una croce erroneamente intesa soltanto come giogo dell’esistenza cristiana”, ha osservato.
E quando la disperazione prende il sopravvento e le parole sembrano “vuote” è “riconoscendo le 'mani di Dio' nella presenza e il gesto di un operatore professionale o pastorale” che “Dio può essere di nuovo riconosciuto e amato”.
“Il tempo della malattia può divenire così il tempo di un rapporto più profondo con Dio, un abbandono, un liberarsi, un accettare ciò che è definitivo”, ha continuato il presule.
Allo stesso tempo, però, “il superamento della malattia rappresenta solo una parte dell’azione risanatrice cristiana. Se ci si fermasse qui, con una simile interpretazione della guarigione, che riconosce solo la risoluzione della malattia, si potrebbe quasi affermare che Dio accetta solo le persone sane”.
Al contrario, ha precisato, “il risanato in senso cristiano, non è chi raggiunge la guarigione del corpo, anche se questa, lo ripetiamo, rientra tra gli obiettivi della terapia cristiana, ma chi è in grado di riconquistarsi 'la forza di essere uomo o donna', cioè la forza di affrontare e gestire la situazione di vita minacciata dalla sofferenza, dalla disabilità, dalla morte”.
“Così – ha concluso –, dopo una sofferta maturazione spirituale, il malato potrà sentire il conforto dell’azione di Dio, il conforto promesso da Gesù: 'Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò' (Mt 11,28)”.


Perché in tempo di crisi conviene amare la vita - Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - mercoledì 26 maggio 2010
Raccontare che oltre 2 mila residenti pavesi hanno sottoscritto una petizione promossa da un Comitato, “Pavia Città per la Vita”, sorto spontaneamente, può sembrare un fatto curioso. Soprattutto di questi tempi in cui ogni aspetto del vivere è sottoposto a un calcolo spietato e spesso cinico. Eppure, martedì 18 maggio il Consiglio comunale ha approvato il conferimento della cittadinanza onoraria di Pavia a Massimiliano Tresoldi ed ai suoi genitori, con 26 voti favorevoli su 27 votanti. Un gesto simbolico, gratuito, più importante di tutti i nostri calcoli, quelli che la vita scombussola sempre, perché straripa, testarda, da ogni angolo. A 19 anni la vita di Max sembrava essersi fermata, bloccata in quella misteriosa condizione che lascia sgomenti e che la medicina non sa ancora qualificare fino in fondo. Stato vegetativo. Ma, contro ogni previsione, Max si è svegliato dopo 10 anni, nel frattempo è diventato un uomo e ora comunica, seduto sulla sedia a rotelle, con la mamma e il papà che non lo hanno mai lasciato, nemmeno un secondo. Per amore a lui, per quell’ostinata passione per la vita che ci portiamo dentro e che non ci abbandona, nemmeno di fronte a un corpo inerte. Chi li ha conosciuti, chi ha visto Max alzare il braccio per salutare, chi lo ha ascoltato mentre articola con fatica una risposta, ha capito che non si trattava solo di lasciarsi colpire da un fatto pur commovente. C’è di più in questa storia. C’è tutta la ragionevolezza di una posizione umana, la stessa che la Dottrina Sociale della Chiesa propone quando affronta il tema della difesa della vita umana in ogni stadio e condizione. Benedetto XVI ha recentemente affermato che “ciò che è fondamentale e prioritario, in vista dello sviluppo dell’intera famiglia dei popoli, è l’adoperarsi per riconoscere la vera scala dei beni-valori. Lo sviluppo integrale è dato specialmente dall’incremento di quelle scelte buone che sono possibili quando esista la nozione di un bene umano integrale, quando ci sia un telos, un fine, alla cui luce viene pensato e voluto lo sviluppo. La nozione di sviluppo umano integrale presuppone coordinate precise, quali la sussidiarietà e la solidarietà”. Questa scelta buona per la vita che ci porta simbolicamente ad accogliere Max è per tutti. nella seduta del consiglio, il Sindaco Alessandro Cattaneo ha dichiarato: “stasera abbiamo parlato del valore della vita umana; ricordiamoci che tutto ciò che trattiamo in questa aula dovrebbe essere a servizio della persona. Sono contento di votare a favore di questa iniziativa e ringrazio il Comitato di cittadini. Non si fa mai abbastanza per le famiglie in difficoltà, occorre rinnovare il nostro impegno in tale settore. Ma, con questo gesto, sono certo che d’ora in poi le famiglie pavesi sentiranno le istituzioni un po’ più vicine”.

La cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria è prevista per venerdì 28 maggio, ore 17, presso la sala consiliare del Comune. Alle 21 la famiglia Tresoldi ringrazierà la popolazione pavese e darà ancora la propria testimonianza all'Happening dei giovani presso il Castello Visconteo. Tutta la cittadinanza è invitata.


Dietrich von Hildebrand, l'"Essenza dell'amore" e "La trasformazione in Cristo" - Dal 27 al 29 maggio alla Pontificia Università della Santa Croce si svolge il convegno "The Christian Personalism of Dietrich von Hildebrand. Exploring his Philosophy of Love" organizzato dal Dietrich von Hildebrand Legacy Project. Pubblichiamo il testo di una delle relazioni. - di Cristiana Dobner - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
L'Essenza dell'amore versus La trasformazione in Cristo. Richiamiamo così due opere del grande fenomenologo realista Dietrich von Hildebrand (1889-1977), il cui segno nella storia del pensiero e nella storia della relazione della persona con Dio deve ancora essere scoperto nella sua piena originalità e compattezza e riproposto, quale garanzia dell'identità cristiana, del vertice dell'Amore e dell'amore nella comunione silenziosa del cristiano con la grandezza e la debolezza, con la gloria e la sofferenza di Dio. Specie in un mondo irreligioso e ormai del tutto secolare quale il nostro.
L'elemento essenziale si palesa all'istante: non si tratta solo di un lascito esclusivamente scrittorio ma, di più e meglio, di un lascito testimoniale di una persona pensante che ha avuto il coraggio di vivere, da filosofo, per la gloria di Dio; di una persona che ha osato, con l'acribia professionale di un pensatore rigoroso, affrontare l'irruzione di Dio nella storia e nella persona.
Ed è questo il focus esaltante di un'esistenza pensante e di una svolta con impegno teoretico nella solidità di un impianto indiscutibile e, simultaneamente, il suo temperante cromatico.
Non abbiamo commesso un errore cronologico invertendo i titoli e i dati situativi: è risaputo infatti che Essenza dell'amore - l'opus magnum - è stata stampata nel 1971, nella piena maturità filosofica dell'autore e costituisce la summa della sua riflessione, mentre La trasformazione in Cristo risale al periodo in cui, fuggito agli artigli del nazismo, von Hildebrand viveva a Vienna in situazioni precarie, come scrive la moglie Alice: "Malgrado le tensioni distruttive pesassero su di lui durante questo periodo, von Hildebrand fece in modo di scrivere una delle sue opere più enduring, La trasformazione in Cristo, un'esplorazione del radicale cambiamento che avviene in una persona attraverso la grazia", opera in cui "il tono sereno inganna sulle circostanze ansiose in cui fu composto".
Furono pubblicate infatti in Svizzera, con lo pseudonimo Peter Ott, le conferenze che von Hildebrand tenne nel monastero di San Francesco a Firenze nelle estati 1936-1937, grazie all'iniziativa di un gruppo di stretti amici tedeschi che sovvenzionò il suo viaggio in Italia e affittò San Francesco, tanto era stata avvertita la sua mancanza dopo la fuga da Monaco.
L'inversione quindi cronologica è del tutto intenzionale perché intendiamo evidenziarne la cerchiatura qualitativa e filosofica e indicare come l'amore, nella sua struttura intima di dono (Gabe), e di donazione (Zuwendung), sia fonte di felicità, frutto di libertà, alimento dell'affettività, vertice della moralità, perché "nell'amore apriamo le braccia della nostra anima per abbracciare l'anima dell'amato", e come tutta la sua articolazione si fondi sulla trasformazione (Umgestaltung), cui peraltro tende in continua dinamica e osmosi.
Nella grande amicizia, ricca di "affinità elettive" con il nunzio a Berlino Eugenio Pacelli emersero queste correnti sotterranee che avrebbero poi preso corpo; sottolinea infatti Alice von Hildebrand che "egli voleva gettare luce sulla trasformazione della vita umana e dei valori umani attraverso la "santa invasione" del soprannaturale nell'esistenza terrena dell'uomo. Egli sempre pose l'amore al centro della sua vita, considerando nulla - carriera, professione, ricerca - più importante dell'amore e del matrimonio".
Von Hildebrand ha sperimentato, in tempo reale, quanto André Glucksmann ha espresso, a posteriori, a chiare lettere ne L'11 ° comandamento: "Hitler si scaglia contro un sentimento più generale, non ignorato da alcune civiltà: l'àidos greco, il pudore che fa arrossire e segnala gli atti da non commettere. Il registro dei gesti malfamati varia secondo le latitudini, ma non la convinzione che esiste l'indegno e che a volte si abbia ragione di indignarsi. Dietro ogni "Tu devi" c'è un "Non devi". E dietro il "Non devi" non c'è qualche celeste Castigamatti, ma lo spettacolo assillante delle cose inumane. Ciò che Hitler voleva eliminare non era Dio, che egli rimuove, ricolloca, sostituisce, bensì i nostri occhi, aperti sull'inumano. Così è divenuto inumano". Von Hildebrand aveva gli occhi aperti e, ben prima che la maggioranza se ne avvedesse, aveva colto il senso distruttivo di quanto con il nazionalsocialismo stava avvenendo nella storia dell'umanità, e non volle allinearsi con l'inumano, ma volle esplicitamente e provocatoriamente essere umano e perciò difforme dalla deriva allora corrente. Per questo però poté intuire l'assoluto della rivelazione di Dio in Cristo e la vera natura dell'uomo.
L'èthos quindi e l'èthos soprannaturale, nuovo qualitativamente nella sua essenza, e nei suoi cardini principali espresso in Essenza dell'amore conosce una duplice dinamica perché promana e insieme è in movimento: promana cronologicamente dall'opera La trasformazione in Cristo; e muove verso l'opera La trasformazione in Cristo, poiché non si tratta solo di pensieri articolati e distinti, ma dell'opera stessa dello Spirito nella persona. Un coagulo vivo di vis centrifuga e centripeta, un atteggiamento profondo di fondazione della persona, con uno stile molto controllato e cesellato in cui s'intravvede un modus sculpendi, retaggio del figlio d'arte, che, togliendo dalla pietra della natura, approda alla trascendenza di Dio e a quella pietra viva che è Cristo, con cui l'autore propone una riflessione personale, profonda, non una trattazione limitata del problema ad modum unius.
Non è in atto un mutamento di prospettiva, bensì la considerazione dello sviluppo e della fioritura di tale dinamica nelle sue componenti nella sfera dello spirito, divenute strutturanti, passando dai principi metafisici a uno statuto paradigmatico di vita, perché ormai "effetto - scrive in La trasformazione in Cristo - della vita soprannaturale nell'èthos della persona, ossia nel formarsi in noi di quella vita che è illuminata dal volto dell'uomo nuovo in Cristo". Non è l'uomo la meta, ma la spinta oltre l'uomo, verso Cristo e in Cristo verso la Trinità, confutando completamente il gott ist tot. Es lebt der Übermensch.
L'essenziale di un pensiero filosofico è come il rovescio silenzioso degli enunciati che lo esprimono, il non-detto essenziale in questo caso è l'esercizio della libertà in cui la persona si conosce, l'esercizio della filosofia, intesa nella modalità di von Hildebrand, nella sfida audacissima di servirsi e di utilizzare tutta la strumentazione, propria e ben tarata, di chi di "mestiere" pensa, riflette e conosce la storia del pensiero, in quell'autonomia quale progressiva conquista dell'agire umano, ma che si radica, simultaneamente, in una fede profonda che costituisce l'oltre ma che, soprattutto, incontra l'Oltre. Una vita in cui il senso è diventato scelta e tutto è permeato dal dono dell'essere come pienezza di senso, quale amore che pervade la struttura del dono nel dono libero della inesauribile divina Bontà.
Scatta quindi nell'irruzione di Dio nella persona, la dinamica alterocentrica nella sua intenzionalità e orientamento alla persona stessa, resa capace di cercare il bene di chi ama, quale slancio, consapevole e oggettivo, al di fuori della propria immanenza, del proprio egoismo: "La dedizione a Cristo presuppone la volontà di lasciarci da Lui completamente trasformare, non opponendo ostacolo alcuno alle modifiche che occorreranno nella nostra natura" (La trasformazione in Cristo).
La diversa, ma simile postura di Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, in un von Hildebrand impregnato di francescanesimo, nella somiglianza, differenza, superamento, continuità/discontinuità, conduce a riflessioni feconde che pongono in rilievo l'originalità del suo pensiero in alcuni aspetti fondanti la persona e il suo èthos. La persona come fulcro della relazione con Dio nella risposta di amore, nel valore non solo morale, etico, ma nella Gesamtschönheit, la bellezza complessiva della persona che può rispondere affettivamente, cioè con il cuore, ad un'altra Persona. Perché "ci sono due dimensioni della donazione di sé. La prima è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare volendolo, che è una pura voce del cuore. La seconda è il sanzionamento della presa di posizione donativa, affettiva dell'amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione di sé raggiunge il suo carattere pieno". E noi siamo creati per l'amore di Dio.
Vi è poi la comune insistenza sull'orazione quale antitesi radicale di ogni ansia di attività e il trasferimento nell'attività periferica, perché "la relazione personale a Cristo che sta al centro della propria vita, il rapporto intimo con Cristo, costituisce una trasfigurazione qualitativa della vita privata". E ancora: il perire personale per divenire e la costruzione del mondo morale per cui è necessario un rinnegamento di fronte a quanto è impossibile annullare. Dietrich von Hildebrand tratteggia chiaramente la valenza di questo perire personale che, di primo acchito, sembra essere duplice, mentre è soltanto accentuato in modo diverso: il primo aspetto è quello di voler diventare un uomo nuovo in Cristo, l'essere conquistati, "eliminando inesorabilmente tutto ciò che non può sussistere al cospetto di Lui che viene a essere superato in questa vita nuova nel Cristo (...) come un dono letificante"; il secondo, ma pur sempre complementare, il perdersi di noi stessi che si incontra nella mistica: "La morte interiore che Giovanni della Croce descrive nella "Notte oscura" va assai più oltre di quello che abbiamo considerato come "il morire a noi stessi" nel procedimento della trasformazione in Cristo. È un "morire dell'anima" - che si può paragonare con l'esperienza di chi precipita d'un tratto nel buio più profondo - e questo morire avviene affinché possiamo risuscitare in Cristo completamente rinnovati". Il contatto con Cristo è immediato, senza diaframmi.
In lui poi troviamo l'amore come risposta e le conseguenti forme tipiche dell'atteggiamento mentale contemplativo, con il vivo senso dell'uomo peccatore e spirituale: "Sì, infatti dobbiamo imparare ad amare veramente e questo richiede di vivere nella profondità, di riservare alla contemplazione il suo vero posto nella vita, il ritornare sempre di nuovo a un reale confronto con Dio". La creazione quindi di un'altra logica, di una passione profonda, che se è cognizione è soprattutto nuova relazione che dona pace e sicurezza, anche nelle traversie peggiori. Infine l'aver attraversato, nel senso sanjuanista e teresiano del Hay que pasar, la notte oscura della storia, in un cammino doloroso, senza arrendersi alle circostanze, senza considerarle un destino ineluttabile, senza smarrire il senso della vita e dei valori, non restando nell'oscurità essendone avvinti ma trovando proprio nelle tenebre la vera Luce. La "trasformazione" (Umgestaltung), quindi come valore esistenziale ed evento di grazia nell'attiva partecipazione all'opera di risanamento nella vigilia del terzo millennio. Perché, come afferma lo stesso von Hildebrand in Essenza dell'amore: "Noi siamo creati per l'amore di Dio perché a Dio è dovuto questo amore e non perché attraverso questo amore dobbiamo trovare noi stessi. Siamo creati per quest'amore, perché esso rende gloria a Dio attraverso il suo valore. Che noi con ciò giungiamo al nostro autentico essere, è un di più e un dono sovrabbondante", solo nell'amore infatti la persona umana si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell'amore attualizza la pienezza della sua essenza.
I mistici di von Hildebrand perciò non sono i mistici Musil che vogliono vivere di "solo sale", ma del sale sapienziale dell'Amore e della fedeltà nell'Amore e all'Amore nelle parole versate sulla carta.
L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010


A tu per tu con la moglie Alice - Un filosofo serio lo riconosci dalla gioia - di Lodovica Maria Zanet - Università Cattolica del Sacro Cuore - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
Correva l'anno 2004 e negli Stati Uniti nasceva il Dietrich von Hildebrand Legacy Project: un centro di studio e di ricerca che avesse la finalità prima di far conoscere la straordinaria figura di quello che a detta di molti - oggi - sarebbe "il maggior filosofo cattolico del Novecento". L'idea viene al figlio di uno degli studenti americani di Hildebrand, John Henry Crosby. Questi riesce, giovanissimo, a raccogliere il consenso di alcuni grandi studiosi di fama mondiale. Con l'idea di portarli a un confronto con la proposta speculativa di questo singolare filosofo, tedesco di famiglia, fiorentino di nascita, austriaco per adozione nei difficilissimi anni del regime nazionalsocialista di cui fu primissimo oppositore in Europa; quindi prima svizzero, poi francese e infine americano, al termine di una lunga quanto dolorosa peregrinazione per un'Europa in crisi, nella quale la libertà di pensiero era allo stesso tempo un bisogno vitale e un traguardo reso sempre più difficile dalle circostanze storiche. Dietrich von Hildebrand uomo del suo tempo è riuscito per prima cosa a saldare una personalissima ricerca di verità e la concretizzazione di questa verità nella vita: nel cuore, centro della persona dal quale si originano le decisioni che "fanno" una vita; e nel quale anche la verità diventa verità tangibile, "sentita" e "vissuta" ben prima che professata attraverso un gioco di concetti tanto forse erudito quanto in realtà sterile. Come John Henry Crosby ha detto al termine di una serrata intervista, il Legacy Project non si vuole limitare a raccontare chi sia Dietrich von Hildebrand, o a ottenere un esplicito assenso alla sua filosofia. Vuole, all'opposto, risvegliare nell'interlocutore la prontezza di una presa di posizione personale: di una presa di posizione efficace nella sola misura in cui libera. Per John H. Crosby la verità ha una sua forza trasfigurante a patto che sia "vera": testimoniata nei fatti, e vissuta nella consapevolezza di un'intelligenza non certo sminuita, ma illuminata e perfezionata dal decisivo contributo della fede. Testimone del tutto unica di questa riflessione esistenziale attestata da Von Hildebrand è la moglie Alice: nessuno come lei avrebbe potuto raccontare, partendo dalla concretezza di una vita condivisa, chi Dietrich sia stato e quale impatto la sua filosofia oggi possa avere su ciascun uomo pensante del nostro tempo.

Dietrich von Hildebrand persona del suo tempo e maestro per l'oggi?

Sì. Tuttavia non si può comprendere chi sia Dietrich von Hildebrand, mio marito, senza ripercorrere, almeno per tappe, i momenti cardine della sua vita. Una vita che inizia a Firenze, nella casa paterna dove Dietrich viene al mondo nell'autunno del 1889: una "dimora perfetta" - l'ex convento francescano dedicato a San Francesco di Paola - acquistato dal padre di Dietrich e trasformato in dimora di famiglia. I von Hildebrand sono una famiglia circondata dalla bellezza: dal culto per la bellezza artistica in tutte le sue possibili forme.

Bellezza artistica, bellezza dell'anima? Quale impatto ha avuto questa bellezza sull'animo di Dietrich?

La famiglia di Dietrich viveva di un "raffinato paganesimo". Una casa di non-praticanti. Nessuno - salvo il giovane von Hildebrand che arriva però dopo cinque sorelle ed è quindi considerato il piccolo di famiglia - è religious minded. Un episodio tra tutti lo illustra in modo meraviglioso.

Vale a dire?

La conversazione che ebbe con una delle sorelle maggiori all'età di quattordici anni. I due giovani prendono posizione in modo radicalmente diverso circa il senso del mondo e della vita. Per la sorella tutto è relativo: parlare di una verità come "della" verità non ha senso. Agli occhi di Dietrich questo relativismo assume i tratti di una provocatoria inconsistenza. Si inizia a delineare la sua anima credente, che si tradurrà a distanza di alcuni anni nella conversione al cattolicesimo.

Che cosa significa credere? Come si può attestare nei fatti la propria fede?

Credere significa per prima cosa credere che Dio esiste. E che Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo. Vuol dire radicarsi nella tradizione e nel magistero della Chiesa. E vivere quanto creduto e proclamato. Da questo punto di vista, l'incontro di von Hildebrand con l'amico Max Scheler è determinante. Scheler è sì credente, ma la sua vita è spesso lontana dalla Chiesa.

Una coerenza che in von Hildebrand parrebbe invece brillare.

Sì. Anche e soprattutto nei momenti in cui per mantenersi fedele al magistero della Chiesa gli è stato necessario prendere le distanze dal proprio modo di pensare. In questi casi la risposta è sempre stata esemplare: un gioioso passo indietro rispetto alla propria soggettiva opinione.

Dietrich filosofo cattolico, che pare oggi dimenticato. Le ragioni?

Ha dovuto più volte ripartire da zero. Attivo oppositore dei totalitarismi novecenteschi, ha peregrinato attraverso moltissimi Paesi. Ogni volta, i suoi manoscritti e i suoi appunti andavano persi. Ricostruiva dalla povertà più totale. Non si è mai imposto come "grande nome"; si è invece reso presente attraverso il vivo di alcuni incontri. Ha sempre iniziato a incidere sul contesto in cui si trovava: studenti, colleghi, amici. Lasciando un segno e portandone molti alla conversione.

Si direbbe che in Dietrich verità e amore procedano in una inscindibile unità.

Veritas et amor si co-appartengono. Se la verità resta astratto gioco di concetti è sterile. La verità deve diventare vita.

Cuore "centro della persona"?

Sì. Nel rispetto però di una ben precisa gerarchia di valori e di beni. Non tutto sta sullo stesso piano: alcune cose - si pensi al comandamento nuovo dell'amore - ne precedono altre. Alcune seguono. Altre ancora devono essere rifiutate in modo esplicito.

Un motto per concludere? Un lascito che diventi mandato?

Joy in faith, la gioia nella fede e della fede. Il cristiano si riconosce dalla gioia. Una cosa che non ha certo impedito a Dietrich von Hildebrand di essere pensatore serio e rigoroso: un filosofo al cento per cento.
(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010)


Esce in Italia "The Road" di John Hillcoat, trasposizione sul grande schermo dell'omonimo libro di Cormac McCarthy - Finalmente un'apocalisse non spettacolare - di Emilio Ranzato - L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010
Un uomo e il suo figlioletto (Viggo Mortensen e il piccolo Kodi Smit-McPhee, entrambi ottimi, il primo per esperienza, il secondo per angelico physique du rôle) sono tra i pochi sopravvissuti di una non meglio identificata calamità che ha ridotto in macerie l'intero pianeta. Trascorrono le giornate alla ricerca di mezzi di sostentamento, mettendosi nel frattempo al riparo da orde di uomini divenuti cannibali loro malgrado.
Ma se l'adulto si porta dietro anche la zavorra dei ricordi condivisi con la moglie scomparsa (Charlize Theron), il bambino, che non ha mai conosciuto un mondo diverso da quello che ha di fronte, saprà forse affrontare il futuro con fiducia.
Non sorprende che il film dell'australiano John Hillcoat negli Stati Uniti abbia ricevuto un'accoglienza ai limiti dell'ostracismo, soprattutto in tempi in cui il cinema hollywoodiano ha deciso di puntare tutto sulle proprie attitudini spettacolari. Una reazione muscolare, peraltro, tipica dei periodi di maggiore crisi creativa.
Più che un horror esistenzialista, l'enigmatico The Road - dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy - si presenta infatti prima di tutto come una serpe in seno al genere catastrofico e post-apocalittico, che proprio quelle caratteristiche pirotecniche di solito solletica. Qui invece abbiamo a che fare con un antidoto a 2012 e a The day after tomorrow. Stavolta l'apocalisse non è il puerile pretesto per uno spettacolo fracassone in cui un manipolo di sopravvissuti cerca di salvare il mondo. Ma né più né meno di quello che potrebbe essere veramente: un'infinita distesa di aridità e desolazione umana. Non c'è nemmeno spazio per gli effetti speciali, perché tutto quello che doveva distruggersi è già stato distrutto. L'apocalisse, insomma, stavolta non è divertente. Che strana idea.
Sgombro da qualsiasi orpello superficialmente accattivante, lo stile di Hillcoat si fregia così di un'atmosfera d'altri tempi, quasi da cinema classico, in cui i movimenti di cinepresa sono parsimoniosi e sempre protesi a un significato, e in cui si recupera quel rapporto fra personaggio e ambiente circostante che era il cuore pulsante del grande cinema americano. Ma è lecito supporre che a turbare le coscienze d'oltreoceano sia stato soprattutto ciò che alla penna di McCarthy riesce meglio, ovvero interrogarsi sul ruolo della violenza nella cultura americana, senza però aspirare alla dimensione facile e in fondo rassicurante della metafora.
Come già capitato nella precedente e ben più fortunata trasposizione di una sua opera, Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen (2007), non è affatto difficile scorgere oltre la filigrana di questa simbologia misteriosa la trasfigurazione di un'iconografia e di una narrativa tipicamente western, genere con cui non a caso sia McCarthy che Hillcoat in passato si sono misurati. C'è la famiglia orfana di un genitore, tipica della selezione naturale del Far West; c'è la simbologia della carovana in costante pericolo di assalto, qui rappresentata dal carrello della spesa; ci sono i nemici armati di frecce; c'è il riferimento a un prima e un dopo storico, che segna una demarcazione fra i due protagonisti attribuendogli diversi modi di rapportarsi al mondo e agli altri: più diffidente e conservatore il primo, più ingenuo e fiducioso il secondo. Ma soprattutto, c'è la strada del titolo, cupo contraltare della mitica Frontiera. Se quella era una distesa selvaggia da conquistare con ogni mezzo, coordinata obbligata di una civiltà tutta in fieri, questa è un sentiero cieco e reso arido dall'asfalto, simbolo di una civiltà in disfacimento. La potente visione di McCarthy, che prende forma piano ma inesorabilmente fino a divenire intollerabile, soprattutto per chi se ne sente investito, consiste nell'adombrare che la seconda sia la diretta discendente della prima. E che il fil rouge che le lega abbia lo stesso colore del sangue.
(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010)


Allarme natalità: l'Italia diventerà un Paese islamico, solo loro fanno figli. Tv e cinema mortificano la sacralità del matrimonio. Le trasmissioni la smettano di invitare divorziati come fossero dei campioni, danneggiano la fede - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
Nella sua prolusione, il cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, ha denunciato il rischio, anche serio, di una crisi delle natalità in Italia, situazione che in buona parte si deve anche al numero decrescente di matrimoni. Chiediamo a Monsignor Alfeo Giovanni Ducoli, arcivescovo di Belluno- Feltre, un commento su queste parole del cardinale: " sono del tutto in sintonia con lui. Se da un lato i governi, tutti, non fanno molto per aiutare le famiglie, specie in tempi di grave crisi economica, é anche vero e forse lo é ancor di più, che oggi esiste una cultura generalmente ostile al matrimonio e alla procreazione". In che senso?: " molto dipende da una mentalità edonista del sesso che lo ha trasformato in oggetto e strumento di solo piacere al posto di metodo di riproduzione della specie, come invece dovrebbe essere. L' atto sessuale é frutto e figlio di una volontà di amore volta alla procreazione e mai alla ricerca del ...

... piacere smodato e spesso disordinato, che contrasta con ogni sana logica di etica e moralità".

Che cosa rischia di accadere in Italia?: " se continuiamo su questa china relativa alla natalità, rendiamoci conto che diventeremo un paese islamico visto che loro oggi, sono i soli che procreano. Con tutti i rischi anche sotto il profilo della fede e della cultura, che ne derivano".

Molti attribuiscono la scarsa natalità alla crisi economica: " in parte questo é vero, ma non é una scusante totale. Ci sono nazioni più povere che hanno la gioia di procreare e creare figli. Noi invece no. Viviamo in una mentalità egosista, chiusa, che ha paura del bimbo, del nuovo arrivato lo vede come una minaccia alla serenità. Oggi si teme il matrimonio in quanto forma di stabilità e assunzione di responsabilità e si preferisce la convivenza che é una cosa transitoria, passeggera. Ecco i frutti amari del relativismo etico".

Parliamo della convivenza: " indipendetemente dal fatto che coloro i quali convivono more uxorio sono in stato di peccato mortale e fuori della grazia di Dio, va considerato che i conviventi pensano che la loro scelta possa durare un giorno o dieci anni, ma non mettono nel conto la definitività e radicalità delle loro scelte. Hanno paura dell' impegno definitivo, della fedeltà. E dunque in questa situazione di incertezza, anche giuridica( considerate che le coppie conviventi non hanno alcuna tutela giuridica) diminuisce la voglia e la necessità di procreare per continuare la specie".

Crede che Tv e cinema abbiano una dose di responsabilità?: " certo. Molte trasmissioni, specie pomeridiane, della Tv sono diventate una passerella di divorziati e questo stato spesso disdicevole e di peccato, viene glorificato ed esaltato, giudicato normale e coma une cosa lecita. Ecco i gravi e nefasti effetti della Tv e dei reality, autentica scuola di immoralità e di rifiuto dell' etica".

Che cosa suggerisce ai mezzi di comunicazione?: " alla Tv, basta con il ridicolizzare il matrimonio e questo accade anche nei film del cinema, parlate anche di valori poisitivi. Poi non lamentiamoci della conseguenze".
Bruno Volpe


ISLAM SEMPRE PIÙ FONDAMENTALISTA E INVASIVO. Le dichiarazioni del Premier Australiano, un esempio per tutti i Governi - On.le Alessandro Pagano (Camera dei Deputati) – dal sito pontifex.roma.it
Sul trimestrale dell’associazione cattolica “Tradizione, Famiglia, Proprietà” numero 3/2009, si legge: “Nell’Unione Europea la popolazione musulmana è raddoppiata nell’ultimo trentennio e raddoppierà ancora entro il 2015. Nel 2050 sarà di fede islamica un cittadino europeo su cinque. Oggi è già musulmano il 25% degli abitanti di Marsiglia e di Rotterdam, il 20% di quelli di Malmo, il 10% dei parigini e dei londinesi. In alcune città città come Birmingham e Leicester, gli europei saranno in minoranza già nel 2026”. Questi sono dati che difficilmente possono essere contestati. In contraltare sappiamo però che anche il cristianesimo cresce nei paesi arabi a tradizione islamica. Il deputato Suad Sbai cita le statistiche ufficiali ed evidenzia che in Marocco il numero dei Cattolici crescerà nel prossimo quinquennio fino ad arrivare al 10% della popolazione. Solo quest’anno a convertirsi al Cattolicesimo sono stati 45.000, e anche ...

... le chiese evangeliche crescono. Le statistiche ufficiali pubblicate dal Governo marocchino parlano di 150.000 Cristiani Evangelici. Tutta questa popolazione non si riunisce in chiese perché le stesse sono ormai soggette ad una sorta di controllo e anche gli evangelizzatori di cittadinanza non marocchina vengono espulsi. Questo dato è abbastanza sorprendente, in considerazione della buona fama di cui gode il regno del Marocco da tutti giudicato, da me il primo, tra i più illuminati del mondo arabo.

Però la scelta del Marocco è stata chiara: le libertà individuali dei cattolici e dei cristiani, in campo religioso, sono uguali agli altri Credo, ma i loro diritti civili sono fortemente limitati. Insomma, essere cattolico o in generale cristiano in Marocco equivale ad essere cittadino di serie B. Lasciamo immaginare cosa succede negli altri paesi arabi. In Europa la situazione è ancora peggio: chi si converte al cristianesimo viene considerato apostata e condannato alla fatwa, cioè è condannato a morte. Ne sa qualche cosa Magdi Cristiano Allam che vive sotto scorta H24 ormai da anni. L’intolleranza verso i convertiti è assoluta, tanto è vero che in Italia Suad Sbai, dati alla mano, parla di decine e decine di migliaia di islamici che in Italia si sono convertiti al Cristianesimo, ma che sono costretti a vivere nell’assoluto anonimato.

A parte la gravità dei gesti, visto che questi cittadini rischiano la vita tutti i giorni, è evidente che questo fatto non ci deve lasciare indifferenti perchè se già oggi c’è questa violenza mentre i Musulmani sono assolutamente minoritari, tremo al pensiero di quello che potrebbe succedere tra 30 anni quando costoro saranno più numerosi. Già oggi nessuno può sentirsi immune di essere minacciato dagli islamici fondamentalisti che non perdono occasione per disprezzare il nostro Paese e il nostro stile di vita.

E questo non accade soltanto in Italia ma in tutto l’Occidente: il caso di Sanaa Dafani, massacrata dal padre con la complicità di tutta la sua famiglia islamica solo perché lei aveva un fidanzato italiano e teneva uno stile di vita occidentale.

Diciamo le cose come stanno: l’Occidente non ama più se stesso e gli Italiani non amano più l’Italia. Per recuperare mi permetto di citare l’esempio del Primo Ministro Australiano John Howard: “sono gli immigrati che si devono adattare al nostro stile di vita, non gli australiani al loro ! Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è sviluppata attraverso lotte e vittorie conquistate da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà. La nostra lingua ufficiale è l’inglese.

La maggior parte degli australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo ma è un fatto che questa Nazione sia stata fondata su principi cristiani. È quindi appropriato appendere sui muri delle nostre scuole e dei nostri uffici pubblici il Crocifisso. Se Dio vi offende, vi suggerisco di prendere in considerazione un’altra parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi vi domandiamo di accettare la nostra cultura e di vivere in armonia con noi. Questo è il nostro Paese, la nostra terra e il nostro stile di vita e vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, le nostre credenze cristiane e il nostro stile di vita allora vi incoraggio fortemente ad approfittarne di un'altra grande libertà: il diritto ad andarvene. Non vi abbiamo forzati a venire qui, se volete stare qui ci dovete rispettare”.

Per la cronaca: la fermezza di Howard ha avuto il 78% di approvazione dei cittadini australiani e la sua popolarità è cresciuta di ben 5 punti.
On.le Alessandro Pagano (Camera dei Deputati)


Avvenire.it, 28 maggio 2010 - Dosi d’urto di messaggi in inglese. E di interrogativi - Checché ne dica certa pubblicità il mondo non è degli stupidi - Domenico Delle Foglie
Cos’hanno in comune una nota marca olandese di birra, una multinazionale italiana del jeans glamour e la più nota griffe internazionale di occhiali da sole? La risposta è semplice: hanno mandato in soffitta l’italiano per sposare (definitivamente?) l’inglese. Così è facile imbattersi, a ogni angolo di strada, nella cartellonistica gigante, in cui compaiono i nuovi "claim". Per dirla con un linguaggio più abbordabile, i "messaggi" che accompagnano ogni campagna pubblicitaria che si rispetti.

E così è tutto un susseguirsi di immagini forti, evocative e suggestive, accompagnate da "Are you still with us?" ("Sei ancora dei nostri?"), da un perentorio "Be stupid" ("Siate stupidi") o da un sornione "Never hide" ("Mai nascondersi"). Nel primo dei casi descritti, se farete un po’ d’attenzione, scoprirete che già scorrono sugli schermi televisivi gli spot pubblicitari in cui un gruppo di giovani racconta, naturalmente riferendosi al prodotto, come "essere dei nostri".
Non entriamo nella valutazione dell’efficacia complessiva di queste campagne. Tanto per dirne una, già nella Rete emergono giudizi assolutamente negativi su quel "Be stupid" con tutto il suo armamentario di allusioni. Qualcuno l’ha già definito "un sistema di valori da Natale a Miami", in cui mancano all’appello "le pernacchie solo perché non si possono fotografare". Tutto il resto, invece, dalle smorfie agli attributi sessuali, è in esposizione, a rafforzare la convinzione che il mondo sia degli stupidi che "in realtà sarebbero definiti tali solo dai saputelli". Per la serie: se sei ignorante, un po’ cialtrone e non pianifichi il futuro… la vita scorrerà fra le emozioni, se solo vestirai quel particolare capo d’abbigliamento. Insomma, un’edizione pubblicitaria, riveduta e corretta, della "Pupa e il secchione" o di certe improponibili gare televisive, o delle scorciatoie facili facili da Grande Fratello.

Ma ciò che conta, dentro questo immaginario deformato, è che tutto suoni in inglese. Il che, vuoi mettere, fa la differenza. Forse parla più direttamente al popolo di Internet e all’esercito dei "messaggisti", prevalentemente giovani e giovanissimi che hanno decretato il successo della telefonia mobile in Italia. Utenti-clienti abituati a districarsi con facilità fra le insidie dell’inglese tecnologico-commerciale di ultima generazione, e quindi più pronti a cogliere il messaggio pubblicitario in lingua. Messaggio che fa anche della leggerezza e della spendibilità virtuale la sua forza.

Il trionfo dell’inglese come lingua veicolare della pubblicità ci interroga. Sembra di capire che certi pubblicitari abbiano fatto questa svolta pensando al pubblico giovanile. Già dei loro genitori non importa molto. Sono loro, i giovani, che acquistano jeans, bevono birra a fiumi e inforcano gli occhiali da sole più trendy. Come si armonizzi tutto questo con la stretta sui conti dello Stato, con la mancanza cronica di lavoro, e soprattutto con gli affanni delle famiglie, è ancora tutto da capire. E purtroppo non basterà un buon corso di inglese a trovare una risposta alla "question".
Domenico Delle Foglie


Avvenire.it, 28 maggio 2010 - Ai giovani servono misure alte - Per indicare la strada verso la felicità - Marina Corradi
Educare, cos’è? È suscitare la passione dell’io per ciò che lo circonda: per l’altro, dunque, per il "tu"; per gli uomini, per Dio – dice il Papa. Educare, è un coltivare il desiderio che ci spinge verso il reale. È, in fondo, un contagio di passione per l’uomo. Quella passione, dice il Papa, che dobbiamo risvegliare fra noi.

Nell’Aula del Sinodo Benedetto XVI parla ai vescovi italiani in assemblea generale. Due anni sono passati da quando denunciò la profondità della "emergenza educativa". Oggi la Cei mette al centro della pastorale della Chiesa italiana dei prossimi dieci anni l’educazione. (Come chi, davanti a una casa che sembra instabile, decida di mettere mano alle fondamenta; a ciò che sta sotto, a ciò che viene prima).

E simmetricamente Benedetto, in un discorso che è lezione magistrale e augurio, va alle radici di quella difficoltà opaca, che però chi ha dei figli conosce. Quella strana resistenza a trasmettere ciò che abbiamo di buono, e prima di tutto il senso del vivere; come se qualcosa confusamente ci remasse contro, come se l’anello fra generazioni fosse incrinato. Che cosa è stato, a infrangere una trasmissione, di padre in figlio, antica, così che i padri balbettano, e i figli sembrano spesso incapaci di continuarne la storia? Per Benedetto XVI – ma ci verrebbe da dire per il professor Ratzinger, tale è la lucidità dell’analisi pure in poche righe – le radici di questo male oscuro sono due. Primo, «una falsa idea di autonomia dell’uomo», come di un «io completo in se stesso»; secondo, «la esclusione delle due fonti che da sempre orientano il cammino umano»: natura e Rivelazione. Se la natura non è più creazione di Dio, e la Rivelazione è soltanto figura di un remoto passato, vacillano gli architravi su cui poggia l’Occidente. E non c’è da stupirsi se, in questo humus ereditato, i figli disorientati cercano, senza trovarli, una direzione, e degli argini, come un fiume smarritosi sulla strada del mare.

Ma qui il professor Ratzinger passa la mano al padre: e sollecita a ritrovare la passione dell’educare. A liberare l’io dalla gabbia della fasulla autonomia in cui la modernità l’ha chiuso, e a spingerlo di nuovo al suo destino. Che è altro da sé: è la faccia, per prima, della madre, e poi i mille volti dell’altro, e quel Dio che sta dietro quei volti, e domanda di essere liberamente riconosciuto. E no, «non è una didattica, o una tecnica», educare: è abitare famiglie, scuole, parrocchie dove si incontrino facce credibili nell’annunciare che c’è un destino per ognuno, ed è buono.

Poi, la lezione di Benedetto si fa ancora più audace. Torniamo, dice, «a proporre ai figli la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione». Vocazione al matrimonio come al sacerdozio; "vocazione", comunque, a significare che la vita è risposta a una chiamata, è adesione a un disegno non nostro. E certo, questa è l’antica visione della Chiesa; ma provate, oggi, in un crocchio di ragazzi fuori da una scuola, ad affermare che la vita non è «autorealizzazione» ma vocazione, adesione al disegno di Dio su ciascuno. Tanti vi guarderebbero come dei poveri folli; perché, cresciuti nella idea dell’uomo «come un io completo in se stesso», sono magari generosi, entusiasti, altruisti; e però in un espandersi, comunque, di un io che si concepisce come origine e orizzonte di ogni gesto. Poche cose sono lontane da noi, gente del terzo millennio, come la parola "vocazione"; come l’idea che la felicità possa essere nell’adesione ai piani di un Altro.

Eppure, non è forse proprio questo il nodo più profondo della opaca fatica di educare? Siamo "nostri", o apparteniamo a un Padre? Siamo monadi proprietarie di sé, o figli, e fratelli, chiamati insieme a un destino? La sfida accolta dalla Chiesa italiana nel mettere davanti a tutto, per dieci anni, l’educazione, è grande. A questa Chiesa il Papa indica un orizzonte radicale. Educare cristianamente è testimoniare ai figli, nella dittatura dell’io, nel trionfo orgoglioso dell’umana scienza e potenza: bambino, tu sei di Dio, e quella felicità che fin dai primi passi insegui e cerchi – come a tentoni, ostinatamente – abita, davvero, solo in Lui.
Marina Corradi