giovedì 6 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI E LA MISSIONE DI SANTIFICARE DEI SACERDOTI - Catechesi all'Udienza generale in piazza San Pietro
2) BENEDETTO XVI: IL MATRIMONIO, STRUMENTO DI SALVEZZA PER LA SOCIETÀ - Messaggio ai partecipanti a un congresso sulla famiglia che si terrà in Svezia
3) Papa Leone XIII e la Preghiera a San Michele Arcangelo - Dopo aver letto l'articolo di Don Marcello Stanzione "LA DURA LOTTA SPIRITUALE DEL CRISTIANO CONTRO SATANA" e dell'ottima iniziativa intrapresa dall'Associazione Milizia di San Michele Arcangelo per il ritorno della preghiera di San Michele a fine Messa, ho ripensato allo straordinario ma anche spaventoso evento che portò Papa Leone XIII a redigere questa preziosa preghiera in protezione della Chiesa. – dal sito Pontifex.roma.it
4) Intervista a Carlo Cardia sulla decisione della Corte di Strasburgo - Il crocifisso tra identità e sussidiarietà - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010
5) Una visione islamica dei rapporti con ebraismo e cristianesimo - La compassione chiave del dialogo tra le fedi - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010 - "Le prospettive islamiche sull'ebraismo e sul cristianesimo" è il titolo della conferenza che la direttrice del Centro per gli studi sull'islam dell'università di Glasgow, in Scozia, ha tenuto nel pomeriggio di mercoledì 5 a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino. Pubblichiamo una sintesi dell'intervento della studiosa, musulmana e d'origine pakistana, nota per il suo sostegno al dialogo tra le religioni e per un lavoro teologico che sottolinea il valore delle fedi monoteiste. - di Mona Siddiqui
6) Il bacio di Angela un lampo nel buio - PAOLO GRISERI - © Copyright Repubblica (Torino), 3 maggio 2010
7) SUD AFRICA: CATTOLICI CONTRO L'INDUSTRIA DEL SESSO - Il Card. Napier parla del rischio della tratta umana durante i Mondiali di calcio - di Mariaelena Finessi
8) VIETNAM: LA LIBERTÀ RELIGIOSA IN PERICOLO? - Rapporto della Commissione statunitense sulla Libertà Religiosa
9) Le meditazioni sulla morte della madre nel diario del semiologo francese - Il romanzo mai scritto di Roland Barthes - di Federico Mazzocchi - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010
10) 05/05/2010 - INDIA – ISLAM - Predicatore musulmano: I cristiani hanno diritto a predicare la loro fede nei Paesi islamici - Abdul Rasheed, della Tablighi Jamaat, sostiene la reciprocità. Apprezza il papa e il Sinodo per il Medio oriente, che parlerà della libertà religiosa nei Paesi islamici. Il musulmano sunnita è andato due volte in Europa a predicare l’islam in Svezia, Spagna e Portogallo.
11) Avvenire.it, Cultura - 2010-05-05 – ANNIVERSARI - La mistica nascosta di Baget
12) Avvenire.it, Cultura - 6 MAGGIO 2010 – ANNIVERSARI - A Firenze un Tolstoj «ecumenico» - Vincenzo Arnone
13) Avvenire.it, 6 Maggio 2010 - Il nuovo volto chimico dell’aborto e un imperativo che resta: non uccidere - Il dovere di non arrendersi alla banalità del male - Giorgio Campanini
14) Tempo di riforme E il diritto alla vita? - legge 194/1978 - Per salvare dall’aborto i bambini non ancora nati occorre riconoscere che sono bambini anche prima della nascita - DI CARLO CASINI – Avvenire, 6 maggio 2010
15) Un esempio dalla Puglia progetto gemma – Avvenire, 6 maggio 2010
16) «Viaggia su Internet l’allarme pedofilia» - Dati preoccupanti delle associazioni: un giro d’affari di 4 miliardi di dollari - DA MILANO VIVIANA DALOISO – Avvenire, 6 maggio 2010
17) Stati Uniti - di Lorenzo Schoepflin - Via libera alla lobby delle embrionali - Tredici nuove linee cellulari diventano oggetto della ricerca sugli embrioni, «spinta» dalle aziende. Con i soldi dei contribuenti – Avvenire, 6 maggio 2010
18) Medico-paziente, un’alleanza «soprannaturale» - di Alfredo Anzani - argomenti - Riconoscere nel volto del malato un volto più grande, quello del Cristo sofferente: da lì nasce un rapporto ben al di là di una prestazione tecnica - Pubblichiamo stralci del discorso che terrà domani a Lourdes Alfredo Anzani, vicepresidente della Fede razione europea dei medici cattolici, nel corso del Con gresso mondiale Fiamc. – Avvenire, 6 maggio 2010
19) invece noi... - «Niente tecniche: educazione all’affettività» - «La Bottega dell’Orefice» propone agli studenti del Sud laboratori per riflettere sull’amore Con risultati sorprendenti – Avvenire, 6 maggio 2010

BENEDETTO XVI E LA MISSIONE DI SANTIFICARE DEI SACERDOTI - Catechesi all'Udienza generale in piazza San Pietro
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 5 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro e dedicato alla missione di santificare gli uomini affidata ai sacerdoti.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
domenica scorsa, nella mia Visita Pastorale a Torino, ho avuto la gioia di sostare in preghiera davanti alla sacra Sindone, unendomi agli oltre due milioni di pellegrini che durante la solenne Ostensione di questi giorni, hanno potuto contemplarla. Quel sacro Telo può nutrire ed alimentare la fede e rinvigorire la pietà cristiana, perché spinge ad andare al Volto di Cristo, al Corpo del Cristo crocifisso e risorto, a contemplare il Mistero Pasquale, centro del Messaggio cristiano. Del Corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia (cfr. Rm 12, 5), noi, cari fratelli e sorelle, siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci. Oggi, in questa catechesi, vorrei ritornare ai compiti specifici dei sacerdoti, che, secondo la tradizione, sono essenzialmente tre: insegnare, santificare e governare. In una delle catechesi precedenti ho parlato sulla prima di queste tre missioni: l'insegnamento, l'annuncio della verità, l'annuncio del Dio rivelato in Cristo, o — con altre parole — il compito profetico di mettere l'uomo in contatto con la verità, di aiutarlo a conoscere l'essenziale della sua vita, della realtà stessa.
Oggi vorrei soffermarmi brevemente con voi sul secondo compito che ha il sacerdote, quello di santificare gli uomini, soprattutto mediante i Sacramenti e il culto della Chiesa. Qui dobbiamo innanzitutto chiederci: Che cosa vuol dire la parola «Santo»? La risposta è: «Santo» è la qualità specifica dell'essere di Dio, cioè assoluta verità, bontà, amore, bellezza — luce pura. Santificare una persona significa quindi metterla in contatto con Dio, con questo suo essere luce, verità, amore puro. È ovvio che tale contatto trasforma la persona. Nell'antichità c'era questa ferma convinzione: Nessuno può vedere Dio senza morire subito. Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l'uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive. D'altra parte c'era anche la convinzione: Senza un minimo contatto con Dio l'uomo non può vivere. Verità, bontà, amore sono condizioni fondamentali del suo essere. La questione è: Come può trovare l'uomo quel contatto con Dio, che è fondamentale, senza morire sopraffatto dalla grandezza dell'essere divino? La fede della Chiesa ci dice che Dio stesso crea questo contatto, che ci trasforma man mano in vere immagini di Dio.
Così siamo di nuovo arrivati al compito del sacerdote di «santificare». Nessun uomo da sé, a partire dalla sua propria forza può mettere l'altro in contatto con Dio. Parte essenziale della grazia del sacerdozio è il dono, il compito di creare questo contatto. Questo si realizza nell'annuncio della parola di Dio, nella quale la sua luce ci viene incontro. Si realizza in un modo particolarmente denso nei Sacramenti. L'immersione nel Mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo avviene nel Battesimo, è rafforzata nella Confermazione e nella Riconciliazione, è alimentata dall'Eucaristia, Sacramento che edifica la Chiesa come Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo (cfr. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores gregis, n. 32). È quindi Cristo stesso che rende santi, cioè ci attira nella sfera di Dio. Ma come atto della sua infinita misericordia chiama alcuni a «stare» con Lui (cfr. Mc 3, 14) e diventare, mediante il Sacramento dell'Ordine, nonostante la povertà umana, partecipi del suo stesso Sacerdozio, ministri di questa santificazione, dispensatori dei suoi misteri, «ponti» dell'incontro con Lui, della sua mediazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio (cfr. po, 5).
Negli ultimi decenni, vi sono state tendenze orientate a far prevalere, nell'identità e nella missione del sacerdote, la dimensione dell'annuncio, staccandola da quella della santificazione; spesso si è affermato che sarebbe necessario superare una pastorale meramente sacramentale. Ma è possibile esercitare autenticamente il Ministero sacerdotale «superando» la pastorale sacramentale? Che cosa significa propriamente per i sacerdoti evangelizzare, in che cosa consiste il cosiddetto primato dell'annuncio? Come riportano i Vangeli, Gesù afferma che l'annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un «discorso», ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di sé, come abbiamo sentito oggi nella lettura del Vangelo. E lo stesso vale per il ministro ordinato: egli, il sacerdote, rappresenta Cristo, l'Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la «parola» e il «sacramento», in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola. Sant'Agostino, in una lettera al Vescovo Onorato di Thiabe, riferendosi ai sacerdoti afferma: «Facciano dunque i servi di Cristo, i ministri della parola e del sacramento di Lui, ciò che egli comandò o permise» (Epist. 228, 2). È necessario riflettere se, in taluni casi, l'aver sottovalutato l'esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell'efficacia salvifica dei Sacramenti e, in definitiva, nell'operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo.
Chi dunque salva il mondo e l'uomo? L'unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell'azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell'Eucaristia, che rende presente l'offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr. po, 5). È importante, quindi, promuovere una catechesi adeguata per aiutare i fedeli a comprendere il valore dei Sacramenti, ma è altrettanto necessario, sull'esempio del Santo Curato d'Ars, essere disponibili, generosi e attenti nel donare ai fratelli i tesori di grazia che Dio ha posto nelle nostre mani, e dei quali non siamo i «padroni», ma custodi ed amministratori. Soprattutto in questo nostro tempo, nel quale, da un lato, sembra che la fede vada indebolendosi e, dall'altro, emergono un profondo bisogno e una diffusa ricerca di spiritualità, è necessario che ogni sacerdote ricordi che nella sua missione l'annuncio missionario e il culto e i sacramenti non sono mai separati e promuova una sana pastorale sacramentale, per formare il Popolo di Dio e aiutarlo a vivere in pienezza la Liturgia, il culto della Chiesa, i Sacramenti come doni gratuiti di Dio, atti liberi ed efficaci della sua azione di salvezza.
Come ricordavo nella santa Messa Crismale di quest'anno: «Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di Sé. (...) Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali (...) che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell'incontro tra noi e Lui stesso» (S. Messa Crismale, 1 aprile 2010). La verità secondo la quale nel Sacramento «non siamo noi uomini a fare qualcosa» riguarda, e deve riguardare, anche la coscienza sacerdotale: ciascun presbitero sa bene di essere strumento necessario all'agire salvifico di Dio, ma pur sempre strumento. Tale coscienza deve rendere umili e generosi nell'amministrazione dei Sacramenti, nel rispetto delle norme canoniche, ma anche nella profonda convinzione che la propria missione è far sì che tutti gli uomini, uniti a Cristo, possano offrirsi a Dio come ostia viva e santa a Lui gradita (cfr. Rm 12, 1). Esemplare, circa il primato del munus sanctificandi e della giusta interpretazione della pastorale sacramentale, è ancora san Giovanni Maria Vianney, il quale, un giorno, di fronte ad un uomo che diceva di non aver fede e desiderava discutere con lui, il parroco rispose: «Oh! amico mio, v'indirizzate assai male, io non so ragionare... ma se avete bisogno di qualche consolazione, mettetevi là... (il suo dito indicava l'inesorabile sgabello [del confessionale]) e credetemi, che molti altri vi si sono messi prima di voi, e non ebbero a pentirsene» (cfr. Monnin A., Il Curato d'Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. i, Torino 1870, pp. 163-164).
Cari sacerdoti, vivete con gioia e con amore la Liturgia e il culto: è azione che il Risorto compie nella potenza dello Spirito Santo in noi, con noi e per noi. Vorrei rinnovare l'invito fatto recentemente a «tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui “abitare” più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell'Eucaristia» (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). E vorrei anche invitare ogni sacerdote a celebrare e vivere con intensità l'Eucaristia, che è nel cuore del compito di santificare; è Gesù che vuole stare con noi, vivere in noi, donarci se stesso, mostrarci l'infinita misericordia e tenerezza di Dio; è l'unico Sacrificio di amore di Cristo che si rende presente, si realizza tra di noi e giunge fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio, abbraccia l'umanità e ci unisce a Lui (cfr. Discorso al Clero di Roma, 18 febbraio 2010). E il sacerdote è chiamato ad essere ministro di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Se «la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l'efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate», ciò non toglie nulla «alla necessaria, anzi indispensabile tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale»: c'è anche un esempio di fede e di testimonianza di santità, che il Popolo di Dio si attende giustamente dai suoi Pastori (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congr. per il Clero, 16 marzo 2009). Ed è nella celebrazione dei Santi Misteri che il sacerdote trova la radice della sua santificazione (cfr. po, 12-13).
Cari amici, siate consapevoli del grande dono che i sacerdoti sono per la Chiesa e per il mondo; attraverso il loro ministero, il Signore continua a salvare gli uomini, a rendersi presente, a santificare. Sappiate ringraziare Dio, e soprattutto siate vicini ai vostri sacerdoti con la preghiera e con il sostegno, specialmente nelle difficoltà, affinché siano sempre più Pastori secondo il cuore di Dio. Grazie.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


BENEDETTO XVI: IL MATRIMONIO, STRUMENTO DI SALVEZZA PER LA SOCIETÀ - Messaggio ai partecipanti a un congresso sulla famiglia che si terrà in Svezia
ROMA, mercoledì, 5 maggio 2010 (ZENIT.org).- “Il matrimonio è uno strumento di salvezza non solo per gli sposati, ma per tutta la società”. Lo ha ricordato Benedetto XVI durante l'Udienza generale di mercoledì in piazza San Pietro, rivolgendosi ai partecipanti a un congresso sulla famiglia dal titolo “Amore e Vita”, che si terrà a Jönköping, in Svezia.
L'incontro, che avrà luogo dal 14 al 16 maggio, è organizzato dalla diocesi di Stoccolma in collaborazione con la Conferenza episcopale della Scandinavia.
Il congresso si aprirà con l’indirizzo di saluto di mons. Anders Arborelius, OCD, Vescovo di Stoccolma e proseguirà con la Lectio magistralis del Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, sul tema “Il piano di Dio per l’uomo e per la donna nel Sacramento del Matrimonio. La mistica sponsale”.
Nella mattinata conclusiva di domenica 16 maggio, i partecipanti si raccoglieranno in diversi luoghi per la preghiera del Santo Rosario, cui farà seguito una processione per le strade cittadine e la Santa Messa conclusiva presieduta dal vescovo Arborelius.
“Solo l'amore di Dio – ha ricordato il Papa questo mercoledì – può soddisfare pienamente i nostri bisogni più profondi, e tuttavia, attraverso l'amore tra marito e moglie, l'amore tra genitori e figli, l'amore tra fratelli, ci viene offerto un assaggio dell'amore sconfinato che ci attende nella vita che verrà”.
“Come ogni obiettivo che vale davvero la pena perseguire – ha poi sottolineato –, esso comporta esigenze, ci sfida, ci chiede di essere pronti a sacrificare i nostri interessi per il bene dell'altro. Ci chiede di esercitare la tolleranza e di offrire il perdono. Ci invita a nutrire e a proteggere il dono della vita nuova”.
“Coloro tra noi che sono abbastanza fortunati di nascere in una famiglia stabile scoprono in essa la prima e più importante scuola per una vita virtuosa e le qualità per essere buoni cittadini”, ha quindi osservato.
“Incoraggio tutti voi nei vostri sforzi per promuovere l'adeguata comprensione e l'apprezzamento del bene inestimabile che il matrimonio e la vita familiare offrono alla società umana”, ha concluso infine.


Papa Leone XIII e la Preghiera a San Michele Arcangelo - Dopo aver letto l'articolo di Don Marcello Stanzione "LA DURA LOTTA SPIRITUALE DEL CRISTIANO CONTRO SATANA" e dell'ottima iniziativa intrapresa dall'Associazione Milizia di San Michele Arcangelo per il ritorno della preghiera di San Michele a fine Messa, ho ripensato allo straordinario ma anche spaventoso evento che portò Papa Leone XIII a redigere questa preziosa preghiera in protezione della Chiesa. – dal sito Pontifex.roma.it
Questo eroico Papa, al secolo Gioacchino Pecci, ebbe uno dei più lunghi pontificati della storia, nacque a Carpineto Laziale nel 1810, luogo dove la sua famiglia, originaria di Siena, si era trasferita qualche secolo prima. Studiò sotto la guida dei gesuiti. Dopo aver conseguito la laurea in teologia nel 1832 e perfezionatosi presso l'Università della Sapienza venne consacrato sacerdote nel 1837, iniziando una brillante carriera curiale. Si distinse con estremo valore a Benevento, per l'inesorabile lotta al brigantaggio ... e a Perugia dove combatté carbonari e liberali. Nel 1843 nominato Arcivescovo andò nunzio a Bruxelles. Nominato Vescovo a Perugia nel 1846, nel 1853 divenne Cardinale, nel 1877 Camerlengo di Santa Romana Chiesa e finalmente fu eletto Papa nel Febbraio del 1878. Il pontificato di Leone XIII fu denso di prestigiosi provvedimenti: con l'enciclica Aeterni Patris del 1879 il Tomismo venne dichiarato filosofia “ufficiale" della Chiesa Cattolica, furono incoraggiati gli studi biblici e vennero ribadite le dottrine del Concilio Vaticano I.
La posizione papale contro socialismo, liberalismo e protestantesimo fu sempre salda.
Scrisse 86 Encicliche ricche di validi e sempre attuali insegnamenti, tra le quali la famosa Rerum Novarum e formulò i fondamenti della Dottrina Sociale della Chiesa.
Il pontificato leonino si svolse sempre in un clima acceso, si trovò ad affrontare con difficoltà attacchi da tutte le parti; la persecuzione anticattolica di Bismarck, l' anticlericalismo della Terza Repubblica francese, l' ostilità del governo italiano verso i cattolici, ecc...

In questa atmosfera "sulfurea" pregna di attacchi diabolici alla Chiesa, il Santo Padre si trovò ad essere protagonista di un fatto sconvolgente che avvenne durante la celebrazione della Santa Messa del 13 Ottobre del 1884: egli udì una sorta di dialogo soprannaturale che delineava le sorti della Chiesa nel corso dei cent'anni da li a venire.

Leone XIII sentì due voci che sembravano provenire da vicino al tabernacolo, una serena e gentile, l’altra roca e piuttosto aspra.
Comprese subito che la voce dolce e gentile era quella di Nostro Signore mentre l'altra era quella dell'avversario.

Ecco il dialogo:
la voce gutturale, vantandosi con Gesù.
"Potrei distruggere la Tua Chiesa!"
La voce gentile di Nostro Signore:
"Si? Allora procedi, fallo!"
satana:
"Per farlo avrei bisogno di più tempo e di più potere".
Nostro Signore.
"Quanto tempo e quanto potere?"
satana:
"Da 75 a 100 anni e un grande potere a tutti coloro
che saranno al mio servizio ".
Nostro Signore:
"Avrai il tempo e avrai questo potere.
Fai con loro ciò che vuoi ".

Tale fu lo sgomento e l'impressione, che Leone XIII si affrettò a redigere una preghiera rivolta a San Michele Arcangelo per la protezione dell'intera Chiesa.
Gesù nella sua Misericordia aveva voluto chiaramente avvisarci.

"San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, contro la malvagità e le insidie del diavolo sii nostro aiuto. Ti preghiamo supplici: che il Signore lo comandi! E tu, Principe delle milizie celesti, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione delle anime".

Il Pontefice volle che questa potente preghiera venisse sempre recitata al termine di ogni Santa Messa, purtroppo tale essenziale disposizione venne disattesa con l'avvento delle riforme liturgiche degli anni '60 che la soppressero.
Giorgio Mastropasqua


Intervista a Carlo Cardia sulla decisione della Corte di Strasburgo - Il crocifisso tra identità e sussidiarietà - di Giuseppe Fiorentino - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010
Identità religiosa e culturale d'Europa. La questione del crocifisso è il titolo del saggio presentato martedì 4 maggio a Palazzo Giustiniani dal presidente del Senato italiano, Renato Schifani. Ne è autore Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico e Diritto delle istituzioni religiose all'Università di Roma Tre, che in quest'intervista a "L'Osservatore Romano" spiega l'infondatezza e la pericolosità della sentenza con cui, il 3 novembre scorso, la Corte di Strasburgo ha proibito l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

La decisione della Corte è stata molto criticata in quanto contrasterebbe con la giurisprudenza della Corte stessa e con il principio di sussidiarietà rispetto ai singoli Stati. Può spiegare perché?

La Corte ha costantemente affermato che le autorità statali sono meglio situate rispetto al giudice internazionale per valutare le situazioni specifiche, e ha aggiunto che occorre tener conto dell'appartenenza religiosa della popolazione di un territorio e dei sentimenti religiosi popolari. Su questa base ha legittimato la tassa ecclesiastica obbligatoria presente in alcuni Paesi del nord Europa, ha accettato la proibizione del velo islamico, in quanto coerente con la laicità rigorosa propria di Paesi come la Francia e la Turchia. Invece, sulla questione del crocifisso ha dimenticato un po' tutti questi principi, e non ha tenuto conto della laicità positiva e accogliente della nostra Costituzione. Si è verificata, così, una scossa sismica, una grande contraddizione, rispetto alla giurisprudenza consolidata della stessa Corte.

La sentenza sembra trascurare il ruolo centrale del cristianesimo nella formazione della identità religiosa e culturale italiana. Non c'è il rischio d'imporre una sorta di centralismo che non rispetta i principi dei popoli e degli Stati membri del Consiglio d'Europa?

Si è trascurato non solo il ruolo del cristianesimo nella formazione dell'identità religiosa e culturale italiana, ma anche per tutto il resto d'Europa. Le radici cristiane sono scritte nelle costituzioni, nelle leggi fondamentali sulla libertà religiosa, e nei concordati della stragrande maggioranza dei Paesi d'Europa. L'ortodossia è riconosciuta e valorizzata da leggi russe, dalla Costituzione bulgara, dalla legislazione romena, e naturalmente dalla Costituzione greca. Nel nord protestante (che tra l'altro esibisce la croce nelle bandiere nazionali) leggi vecchie e nuove affidano un ruolo centrale alle confessioni anglicana o evangelica luterana. Nei Paesi cattolici, i concordati esprimono con forza la riconoscenza per l'impegno della Chiesa nella resistenza al totalitarismo (a est) e riconoscono ampiamente le radici culturali cattoliche in Spagna, Portogallo, Italia e via di seguito. La sentenza sul crocifisso non dice nulla su una tematica che è decisiva per comprendere il perché della presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici.

C'è chi vede un principio confessionalista alla base della disciplina che regola l'esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici italiani, mentre essa nasce da una storia avviata già nel Risorgimento e proseguita negli anni della Repubblica. Come stanno le cose?

Questo è uno degli errori più seri della sentenza. Il crocifisso è previsto da un decreto del 1860, in attuazione della legge Casati del 1859 (che, tra l'altro, laicizzava la scuola italiana). Ma il regno sardo-piemontese era già diventato separatista e laico dal giugno 1848, con la legge Sineo che equiparava la condizione dei culti, le leggi Siccardi che abolivano il foro ecclesiastico nel 1850, e con la legge del 1855 che sopprimeva gli ordini religiosi contemplativi. E per queste leggi il re, Cavour e i ministri responsabili erano stati censurati e scomunicati dalla Chiesa. Altro che Stato confessionale. Inoltre, il crocifisso è stato confermato da un decreto del 1908 quando ormai il separatismo era diventato l'abito giuridico dell'Italia unita. La verità è che i liberali prima, e poi tutti i governanti dell'Italia, nel periodo autoritario, e nell'epoca repubblicana, hanno sempre fondato la presenza del crocifisso sulla tradizione religiosa e sui sentimenti della popolazione, non sul confessionalismo dello Stato. Al punto che di esso non si parla né nel Concordato del 1929, né nell'accordo di revisione del 1984.

Nella sentenza si sottolinea che il crocifisso è un simbolo cattolico, mentre in esso si riconoscono anche le Chiese ortodosse e molte confessioni protestanti. Come spiega questo evidente errore di prospettiva?

Credo che la sentenza sia stata elaborata senza tener conto dell'importanza dell'argomento, della sua centralità europea, diciamo pure con qualche superficialità. Teniamo presente che alcune delle proteste più forti sono giunte proprio dai Paesi ortodossi, preoccupati per il carattere laicista e potenzialmente espansivo della sentenza. Ma il punto vero è un altro, la croce è il simbolo e il cuore della fede cristiana per eccellenza e, se posso dire così, appartiene alla cristianità intera, da quando fu diffuso il Vangelo e da quando Paolo ne sottolineò la centralità nell'opera di redenzione di Gesù per tutti gli uomini. Il grande teologo protestante Karl Barth ha fatto della theologia crucis il cuore della riflessione nel suo celebre commento alla lettera ai Romani di Paolo, testimoniando come essa sia presente in ogni comunità cristiana nel mondo.

La sentenza pare essere frutto di un malinteso senso della laicità dello Stato secondo il quale per non offendere le sensibilità altrui si rifiuta qualsiasi riferimento religioso o culturale. Quali rischi si nascondono dietro questo atteggiamento?

Qui si annida un rischio vero, il rischio che la laicità sia intesa come preclusione verso ciò che è religioso, e tenda per così dire a ricacciare la religione nel privato negandole quella visibilità sociale e pubblica che ha in quasi tutti i Paesi del mondo. Il simbolo religioso non può essere interpretato come elemento di divisione, altrimenti i giovani saranno educati in uno spirito di diffidenza e di conflitto con chi è di idee diverse. La laicità vera, quella che viene dagli Stati Uniti, ma che ormai è prevalente in quasi tutta Europa, è una laicità positiva e inclusiva. Con il criterio laicista, per fare un esempio fuori dell'Europa, gli Stati Uniti dovrebbero abolire tutte le forme di presenza pubblica della religione che riguardano la Casa Bianca, l'insediamento del Presidente, l'apertura delle sessioni parlamentari, eventi tutti segnati da una forte simbologia religiosa.

È solo l'Italia a essere colpita da questa sentenza o essa coinvolge di fatto anche gli altri Stati membri del Consiglio d'Europa?

Questo è l'aspetto più delicato della questione, perché se passasse il criterio della sentenza del 2009, esso avrebbe una capacità espansiva quasi in ogni parte d'Europa. Basterebbe che una persona, o una associazione, avviasse una controversia fino ad arrivare a Strasburgo e dopo un po' di tempo dovrebbero scomparire i crocifissi, e altri simboli religiosi (comprese le croci dalle bandiere nazionali), un po' dovunque. Sarebbe un terremoto che colpirebbe sentimenti popolari profondi che vivono in ogni parte d'Europa, e offuscherebbe una caratteristica dei Paesi europei che chiunque viene da altre parti del mondo conosce e apprezza. Sarebbe come se si chiedesse di togliere le statue di Buddha il compassionevole dall'Asia. Un oscuramento incomprensibile, al limite dell'autolesionismo.

Nel 1988, Natalia Ginzburg su "l'Unità" - allora organo del più grande partito comunista d'occidente - scriveva che il crocifisso non genera discriminazione, perché è l'immagine della rivoluzione cristiana che ha diffuso l'idea dell'eguaglianza tra tutti gli uomini. Non si corre il rischio, con la sentenza, di andare in direzione opposta, discriminando i cristiani?

Non solo Natalia Ginzburg, ma tanti intellettuali laici, come Claudio Magris e Massimo Cacciari, hanno reagito negativamente nei confronti della sentenza di Strasburgo del 2009, e già nel xx secolo grandi personalità come Gandhi hanno sottolineato il significato universale che la croce ha per tutti gli uomini di buona volontà. Ma in Italia abbiamo una grande tradizione laica di rispetto e di riconoscimento per il ruolo di civilizzazione svolto dal cristianesimo, una tradizione che va da Aristide Gabelli a Ruggero Bonghi, da Gentile a Croce, a Luigi Einaudi che usa parole bellissime verso la trasmissione del credo cristiano. Il problema della discriminazione verso i cristiani esiste anche per un'altra ragione. Nel momento in cui, attraverso il fenomeno della multiculturalità, la scuola italiana (e di altri Paesi) si apre alla presenza e ai simboli di altre religioni, sarebbe veramente incomprensibile, quasi surreale, che si togliesse proprio il crocifisso che riflette il nucleo più intimo della nostra identità storica e religiosa.

Quali sono le prospettive davanti alla Grande Chambre, che si riunirà alla fine del prossimo giugno per riesaminare la sentenza?

Sono convinto che le ragioni a favore della presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici siano così tante che la Grande Chambre - che già ha compreso la delicatezza della questione dichiarando "ricevibile" il ricorso dell'Italia - potrà rivederla in modo saggio e lungimirante. Sanando una contraddizione nei confronti della propria stessa giurisprudenza trentennale, e tenendo conto che la sua decisione investe i sentimenti spirituali e morali della gran parte delle popolazioni degli Stati europei. Occorre, a questo scopo, che gli Stati e le grandi confessioni religiose facciano sentire la propria voce, con misura ma anche con fermezza, sottolineando la centralità di una decisione che deve rassicurare tutti circa una Europa rispettosa delle tradizioni e delle identità di ciascun popolo e ciascuna Nazione.
(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)


Una visione islamica dei rapporti con ebraismo e cristianesimo - La compassione chiave del dialogo tra le fedi - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010 - "Le prospettive islamiche sull'ebraismo e sul cristianesimo" è il titolo della conferenza che la direttrice del Centro per gli studi sull'islam dell'università di Glasgow, in Scozia, ha tenuto nel pomeriggio di mercoledì 5 a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino. Pubblichiamo una sintesi dell'intervento della studiosa, musulmana e d'origine pakistana, nota per il suo sostegno al dialogo tra le religioni e per un lavoro teologico che sottolinea il valore delle fedi monoteiste. - di Mona Siddiqui
Nella mia ricerca religiosa, sempre più mi accorgo che la conoscenza, intesa nella sua accezione più ampia, è un dono divino, non confinato in una religione in particolare. E che il perseguimento della conoscenza in tutte le grandi fedi è inestricabilmente legato alle grandi virtù della giustizia, della speranza e dell'amore. Il perseguimento della conoscenza è un esercizio nobile, ma questa diviene perfetta solo quando si fa anche ciò che è giusto e buono. La fede religiosa stessa può essere svuotata del dogma e della dottrina, ma considererà sempre le buone azioni come valori nobili in sé. Le buone azioni sono ciò che Dio stesso vuole. Il Corano dice: "Se Dio avesse voluto, vi avrebbe riunito in una unica comunità. Quindi gareggiate in buone azioni, così che Egli possa mettervi alla prova con ciò che vi ha dato" (5, 48).
I musulmani hanno storicamente avuto atteggiamenti differenti verso le altre religioni, specialmente quella ebraica e quella cristiana. L'unitarietà e la diversità dell'umanità sono temi che coesistono nel Corano e possono essere interpretati a supporto tanto di rivendicazioni inclusiviste, quanto esclusiviste. Molti esegeti musulmani ne hanno derivato il presupposto che la religione primordiale di tutte le genti fosse l'islam e che tutto iniziò con Adamo, considerato essere il primo profeta.
La questione non riguarda tanto il riconoscimento delle religioni ebraica e cristiana, in quanto queste erano già presenti nel sesto secolo. Inoltre, i musulmani riconoscono i loro antichi profeti come parti del loro credo. Le tensioni risiedono, invece, su come devono essere percepite teologicamente, oltre che nelle relazioni sociali.
La domanda essenziale riguarda il come i musulmani intendono il loro essere cittadini di maggioranza o di minoranza nell'odierna realtà sociale. L'esperienza umana di vivere e lavorare con popoli e culture differenti sarà il fattore determinante per uno sviluppo del pluralismo all'interno dell'islam? Oppure, le varianti ai testi del Corano significheranno che il non credente, cioè il non musulmano, non potrà mai essere considerato come un uguale?
Ci si può chiedere se gli accademici e i rappresentanti religiosi sperino veramente d'influenzare i conflitti e la politica nel mondo. Tra quelli che hanno lavorato al dialogo interreligioso, sono sicura di non essere la sola a ritenere che dove c'è conflitto fra i popoli, il dialogo religioso da solo non può condurre alla pace e alla riconciliazione. Che funzione può avere il dialogo quando le persone vengono fatte saltare in aria e le loro famiglie e le loro case vengono distrutte? A meno che non sia sostenuto dalla volontà politica, il dialogo rimane solo un nobile esercizio con un effetto limitato.
Molti in Occidente ritengono che il dialogo non è una necessità, ma un'opzione, un privilegio. Il lavoro interreligioso può essere un simbolo di unità tra le civiltà e può anche essere sentito tra i seguaci delle fedi. Ma funziona meglio quando c'è sia il testo che il contesto. Molti musulmani e cristiani rimangono convinti che il dialogo sia fondamentalmente difettoso, non solo dal punto di vista teologico, ma anche in termini pratici. Come possono i musulmani e i cristiani parlare dello stesso Dio quando hanno concezioni tanto differenti dello stesso Dio? Se il dialogo non punta alla conversione a Cristo o al verificarsi del Corano, qual è il suo scopo reale? Per me l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam sono il compimento di un messaggio rivelato. Tutti noi abbiamo sbagliato a volte e continueremo a sbagliare se non pensiamo e non agiamo con compassione. La compassione non è un'astrazione teologica. Se Dio per me, come musulmana, è definito come l'essere più caritatevole, come posso allora io vivere quotidianamente quella pietà circondata per la maggior parte del tempo da gente di fede diversa o senza fede? La nostra ricerca di Dio non è una metafora. Essa richiede sacrificio e pazienza, ma soprattutto la gioia di saper condividere e vivere insieme, nonostante il conflitto, che è parte della condizione umana.
Il lavoro interreligioso non è mai stato, implicitamente o esplicitamente, finalizzato alla conversione. Da musulmana che ha vissuto gran parte della propria vita in Occidente, ho imparato che la fede parla in un processo d'apprendimento e accettazione, di dubbio e umiltà. La cosa più importante, è stata il comprendere che parlare d'umanità comune richiede una grande generosità nel fronteggiare la differenza pratica. Il dialogo è per me una estensione dell'ishan: "Agire sapendo che se tu non vedi Lui (Dio), Lui vede te".
(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)


Il bacio di Angela un lampo nel buio - PAOLO GRISERI - © Copyright Repubblica (Torino), 3 maggio 2010
LE DITA di Giancarla tambureggiano senza sosta sul palmo di Angela. Si capisce che Angela è contenta, tanto contenta. Si alza e muove la mano verso il nulla, verso il volto di un uomo che non vede ma che è invece vicinissimo. Angela bacia l'uomo sulla guancia. Tutti applaudono forte: sanno che lei è cieca, sorda e muta dalla nascita. Eppure oggi è riuscita a baciare il Papa.
ANGELA comunica con il mondo solo attraverso il tamburellare della dita di Giancarla. È una dei duecento ospiti del Cottolengo. Abita qui da più di cinquant'anni. È una dei dieci fortunati che ieri pomeriggio hanno avuto l'onore di andare incontro a Benedetto XVI.
Nella chiesa dell'istituto i malati hanno un posto in prima fila. Sono un centinaio quelli in carrozzina, sistemati di fronte all'altare. Un colpo d'occhio che raggela e dà speranza al tempo stesso. Eccola, schierata in cinque ordini di posti, nei volti trasfigurati dal dolore come quelli dei malati di Goya, eccola la Passio hominis, quella sofferenza umana che è stato il cuore del messaggio dell'Ostensione del 2010 e diventerà il momento culminante della visita di Papa Ratzinger a Torino. Più delle riflessioni teologiche di fronte al Telo del Duomo, più della messa del mattino in piazza San Carlo, rimarrà l'immagine di questa chiesa colma di dolore. Piena di storie come quella di Boigdan, il ragazzo albanese che una malattia gravissima costringe a rimanere sempre quasi orizzontale, obbligato a guardare il soffitto, condannato a contare le stelle. Per l'occasione la madre lo ha vestito a festa: gli ha messo un abito grigio e una cravatta, rischiando di renderlo buffo come tutti i bambini vestiti da adulti. Ma Boigdan non è per niente buffo. È, anzi, dignitosissimo proprio perché, forse, non si rende conto. Quando il Papa entra nella chiesa, poco prima delle 19, è il popolo delle carrozzine, il popolo dei tanti che non possono alzarsi in piedi ad acclamarlo, il vero protagonista della giornata: «Questi malati - dice il superiore generale, padre Aldo Sarotto - sono il nostro tesoro più prezioso». Ratzinger riprende il concetto: «Cari malati, vivendo le vostre sofferenze voi partecipate alla salvezza del mondo». Un messaggio certamente non facile da accettare anche per chi crede. Ma oltre il muro del Cottolengo è difficile trovare qualcosa di semplice da accettare. Tutto sembra straordinario e incomprensibile. La superiora delle cottolenghine, suor Giovanna Massé, sa bene di rivelare qualcosa di assurdo quando spiega che «in questo posto ci sono le suore che lavorano assistendo i malati e ci sono le sorelle del monastero di clausura». Com'è possibile chiudersi in clausura in mezzo a tanta sofferenza? «Non solo è possibile ma è anche utile. Senza l'aiuto delle nostre sorelle che pregano in clausura, noi non ce la faremmo a sopportare la fatica del nostro lavoro con i malati». Così anche le preghiere di chi non esce mai dalla sua cella entrano nel particolare ciclo produttivo di uno dei luoghi di cura più particolari al mondo. Attendendo Ratzinger nelle navate della chiesa, tutto ciò che sta oltre il portone, nella città che conosciamo, sembra cambiare di peso e di importanza. Che cosa sono le distinzioni e le baruffe quotidiane di fronte alla sofferenza estrema di una persona che rimane per ore sulla carrozzina, in prima fila, senza poter muovere braccia e gambe perché le ha perse chissà quanto tempo fa? Giuseppe, così si chiama, ha uno sguardo vivacissimo, parla e ragiona come tutti ma ha bisogno di qualcuno che gli presti il lavoro delle sue braccia e delle sue gambe per vivere.
È una vite senza tralci, la pietra scartata dai costruttori che qui diventa pietra d'angolo. Questa capacità di parlare al mondo attraverso la cura di chi soffre e sta in fondo alla scala sociale, è forse l'aspetto più apprezzato della chiesa cattolica anche nei tempi difficili che sta attraversando oggi. Il riscatto attraverso la cura della Passio hominis, soprattutto quando quella sofferenza è estrema, è uno dei possibili terreni di dialogo anche con la Torino laica. Perché sul far della sera, mentre il corteo del Papa e dei cardinali lascia la chiesa del Cottolengo per andare verso Caselle, la cosa più importante di tutte è che, alla fine, Angela ha sorriso. E non sa nemmeno che cosa voglia dire.
© Copyright Repubblica (Torino), 3 maggio 2010




SUD AFRICA: CATTOLICI CONTRO L'INDUSTRIA DEL SESSO - Il Card. Napier parla del rischio della tratta umana durante i Mondiali di calcio - di Mariaelena Finessi
DURBAN (SUD AFRICA), mercoledì, 5 maggio 2010 (ZENIT.org). - Le esperienze dimostrano che ogni grande evento sportivo, attirando numerosi turisti, si traduce in un aumento della domanda di prestazioni sessuali.
Per i Mondiali di Calcio 2010 (11 giugno - 11 luglio 2010), si prevede che saranno centinaia di migliaia i tifosi di calcio che arriveranno in Sud Africa: le organizzazioni a tutela dei bambini e dei diritti umani hanno avvertito che la situazione potrebbe peggiorare con il contrabbando di adulti e bambini che dall'Asia, dall'Europa orientale e da altre parti dell'Africa giungeranno nel Paese per alimentare l'industria del sesso.
In questa occasione, la Chiesa cattolica si prepara a ospitare le squadre e i visitatori, naturalmente, ma implementa anche varie iniziative per combattere il rischio di sfruttamento (vedi il sito Churchontheball.com).
Il Cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, in questa intervista a ZENIT spiega le attività che la Chiesa mette in campo in favore dei diritti umani, sostenendo che l'iniziativa di una più ampia distribuzione di preservativi non può funzionare nell'arginare la diffusione dell'HIV: «E' come dire che l'unico modo per curare l'alcolismo è quello di dare bevande gratuite a tutti gli alcolisti».
Eminenza, qual è il suo parere sul rischio che in occasione della Coppa del Mondo possa aumentare la prostituzione minorile?
Card. Napier: Esistono dei segnali che dimostrerebbero come i cartelli e le mafie dedite alla tratta degli esseri umani si sono già messi in azione. Così come crescenti sono anche le segnalazioni di bambini scomparsi e i casi di ragazzini e giovani adulti che restano intrappolati in opportunità lavorative "troppo belle per potervi resistere".

Ci sono attività specifiche che la Chiesa vorrebbe promuovere per questo evento?
Card. Napier: Stiamo facendo molto per sensibilizzare le persone, utilizzando – quando è necessario – dei casi concreti di vita vissuta. Allo stesso modo siamo impegnati con le scuole cattoliche e le associazioni femminili in un'attività di informazione ad ampio raggio sul tema della tratta degli esseri umani. Dal suo canto, devo dire che anche il Governo ha il merito di fare molto, mostrandosi aperto a collaborare con le organizzazioni non governative.

La Chiesa cattolica è l'unica ad intervenire?
Card. Napier: Altre Chiese e confessioni cristiane, come pure persone di altre fedi, sono sempre più coinvolte. Ad esempio, la Conferenza Mondiale per la religione e la pace, il Consiglio Interreligioso KwaZulu, il Forum nazionale dei Leader Religiosi.

La vera preoccupazione è dovuta al timore di una maggiore trasmissione del virus HIV a fronte della maggiore richiesta del mercato del sesso. Di recente la Gran Bretagna ha dichiarato che avrebbe dato 42 milioni di preservativi al Sud Africa facendo seguito ad una richiesta di questo stesso Paese, il quale ha istituito un programma di prevenzione dell'HIV appositamente per la Coppa del Mondo. Qual è il suo punto di vista?
Card. Napier: Il governo di Jacob Zuma non cessa mai di stupire! Da poche settimane è iniziata una campagna anti-HIV/AIDS molto pubblicizzata, il cui obiettivo è che 15 milioni di persone si sottopongano al test dell'HIV, ma il passo successivo di quello stesso governo è di accettare, o "richiedere e accettare", 42 milioni di preservativi dalla Gran Bretagna. È pazzesco!
Si dice che i preservativi sono per la Coppa del mondo: ma se sono soltanto 250.000-300.000 i tifosi di calcio attesi per l'evento e considerando ovviamente che non tutti hanno uno stile di vita promiscuo, a chi sono realmente destinati? Non è forse un altro esempio della decadenza dell'Occidente e della sua volontà di svendere la sua decadente merce alle decadenti elite emergenti?

Il dibattito riguarda il contesto e la legittimità dell'industria del sesso: gli esperti dicono che l'unico modo per prevenire il traffico di esseri umani è quello di depenalizzare la prostituzione e promulgare le leggi anti-traffico. A suo avviso cosa si potrebbe fare?
Card. Napier: E' come dire: "L'unico modo per curare l'alcolismo è quello di dare bevande gratuite a tutti gli alcolisti". Non ha nemmeno senso rimuovere le poche limitazioni giuridiche all'imponente traffico di ragazze e giovani donne. Le leggi anti-tratta, in ogni caso, devono essere dirette contro coloro che schiavizzano le persone vittime della tratta e contro coloro che ne traggono benefici, ovvero contro quegli stessi uomini che “usano” le prostitute.

Un'ultima domanda: come nasce la preghiera speciale per la FIFA World Cup 2010?
Card. Napier: La preghiera così come altri mezzi di cura spirituale delle Chiese sarà messa a disposizione durante la Coppa del Mondo, ed è frutto di un accordo tra vari livelli: Conferenze episcopali, Diocesi e parrocchie.


VIETNAM: LA LIBERTÀ RELIGIOSA IN PERICOLO? - Rapporto della Commissione statunitense sulla Libertà Religiosa
WASHINGTON, mercoledì, 5 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Commissione statunitense sulla Libertà Religiosa ha proposto di tornare a inserire il Vietnam nella lista dei "Paesi particolarmente preoccupanti in materia di libertà religiosa", a causa del peggioramento della situazione dei credenti.
La Commissione per la Libertà Religiosa nel Mondo ha presentato il 30 aprile il suo Rapporto sull'anno 2009 (dal giugno 2008 al giugno 2009). Il Vietnam è uno dei cinque Paesi che la Commissione propone di inserire nella lista di quelli in cui le violazioni della libertà religiosa sono più gravi.
Uno dei membri della Commissione statunitense, Scott Flinse, incaricato delle questioni relative all'Asia sud-orientale, ha spiegato questa decisione, informa Eglises d'Asie, l'agenzia delle Missioni Estere di Parigi.
Flinse ha dichiarato a Radio Free Asia che, se il progresso compiuto nelle relazioni tra Vietnam e Stati Uniti in vari settori - soprattutto nel campo del commercio, della sicurezza o della lotta alla droga - è stato notevole, è lungi dall'esserlo in materia di libertà religiosa.
La Commissione stima attualmente che il reinserimento del Vietnam nella lista dei "Paesi particolarmente preoccupanti" a causa della sua politica religiosa sarebbe una misura del tutto adeguata.
Quando il Vietnam è stato iscritto per la prima volta nella lista, nel 2004, si sono percepiti progressi sensibili, e si può pensare che la reiterazione di questa sanzione avrebbe effetti positivi.
La proposta della Commissione statunitense di reiscrivere il Vietnam nella famosa lista è giustificata dalle persecuioni che subiscono oggi i credenti, ha precisato Flinse.
A questo proposito, ha citato l'espulsione dei monaci buddisti dal loro monastero di Bat Nha, avvenuta in un clima di violenza e di odio.
Allo stesso modo, ha sottolineato le gravi difficoltà che devono affrontare i protestanti dell'altopiano del centro del Vietnam e di altri luoghi nell'esercizio del loro culto.
Nel Rapporto presentato al Dipartimento di Stato, una decina di pagine viene dedicata agli errori della politica religiosa del Vietnam. Oltre ai fatti già citati, il testo ripercorre le varie persecuzioni che hanno colpito le grandi religioni.
Si menzionano il severo controllo esercitato dalle autorità civili sul buddismo unificato, la repressione del buddismo Hoa Hao autentico e tutte le questioni che, nel 2008 e nel 2009, hanno affrontato le comunità cattoliche con le autorità civili, così come la repressione e il controllo dei protestanti.
La Commissione per la Libertà Religiosa nel Mondo è un'organizzazione indipendente del Governo statunitense con la funzione di consigliare il Presidente, gli Affari Esteri e i membri del Congresso degli USA sulle questioni relative alla libertà religiosa e ai diritti umani nel mondo. Il suo ruolo è unicamente consultivo. La lista dei Paesi particolarmente preoccupanti, redatta dalla Commissione, deve essere approvata dal Dipartimento di Stato per diventare effettiva. Nel 2009, il Governo del Presidente Obama non ha adottato i cambiamenti proposti alla lista dalla Commissione.
Il nome del Vietnam è stato introdotto nella lista del 2004 perché il Paese non aveva risposto alle richieste statunitensi di liberare un certo numero di personalità religiose in prigione o con residenza vigilata. Alla fine del 2006, poco prima che il Presidente George W. Bush visitasse Hanoi, il Vietnam venne ritirato dalla lista considerando i progressi compiuti dal Paese nel campo della libertà religiosa.
Negli anni 2006, 2007 e 2008, tuttavia, la Commissione aveva proposto al Dipartimento di Stato di reinserirlo nella lista, tenendo conto del peggioramento della situazione religiosa, proposta che non è stata accettata.
Nell'ottobre 2009, il rapporto annuale degli Affari Esteri statunitensi sulla situazione religiosa in 198 Paesi del mondo ha segnalato che il Vietnam continua a progredire in questo campo, ma che permangono numerosi problemi.
Per consultare il testo completo del rapporto: http://www.uscirf.gov/images/annual%20report%202010.pdf


Le meditazioni sulla morte della madre nel diario del semiologo francese - Il romanzo mai scritto di Roland Barthes - di Federico Mazzocchi - L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010
Per noi Roland Barthes è stato il critico, il linguista, il semiologo, lo studioso di miti e feticci, la quintessenza della moderna scienza letteraria. Per lui Henriette Ginger non era che "mam.", la madre. Eppure non sono i titoli a reggere di fronte all'evento inappellabile della morte, anzi i titoli sono i primi a essere messi a repentaglio, eclissati nella deriva silenziosa dell'anonimato. Il 13 agosto 1977, con la madre agonizzante, Barthes annota: "D'improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente". Di fronte all'evento di una morte incombente, lo scienziato della letteratura sveste il proprio camice e si presenta solo, nudo. Ed è così che lo ritroviamo nelle pagine di Dove lei non è (Torino, Einaudi, 2010, pagine 260, euro 18), vero e proprio diario di lutto scritto all'indomani della morte della madre tra il 26 ottobre 1977 e il 15 settembre 1979, e ora per la prima volta pubblicato in Italia.
Un insieme di piccole schede scritte a penna o a matita, l'ipotesi di un libro mai veramente finito. La perentorietà di un fatto che sorprende e ferisce: lo scandalo del "mai più", nel quale Barthes immediatamente ravvisa la contraddizione di questa "espressione da immortali", perché dire "mai più" vuol dire mettersi dalla parte di chi non morirà mai. O lo scandalo speculare del "lei non soffre più", dove un lei senza luogo si colloca in un presente senza tempo, entrambi gli azzardi necessari per constatare la permanenza e la durata di "mam." nel lutto.
Per Barthes la morte della madre è l'evento immobile, che si fa strada in un solco silenzioso, che apre, dall'interno del tempo, un varco sull'eterno. È la coscienza del proprio destino, della propria morte riflessa in quella della madre, e non più desunta da un "sapere preso in prestito". È quindi certamente la paura, ma più che la paura della negatività dell'esistenza è la paura di non essere all'altezza di quell'evento, di non saperlo preservare: la paura di banalizzarlo, di divenire insensibili, di farne della letteratura ma al contempo il riconoscimento che la letteratura nasce da questa eterna verità.
A nulla valgono i tentativi di auto-psicanalizzarsi, di misurare il decorso del lutto, di ridurlo a figurazioni dell'inconscio o prevederne le generalità. Non vi è ombra di nevrosi invece, o di una generalizzazione che equivarrebbe a un furto, a un'espropriazione, e lo stesso termine lutto, "troppo psicanalitico", nasconde il candore della parola tristezza. Così come, con delicata tenerezza, dispare la Madre freudiana per far posto alla mamma, o ancora più affettuosamente "mam."; e con essa "l'anonimato del cuore prende il sopravvento su quello della struttura, l'idilliaco trionfa sul simbolico, il privato fa il suo outing, il neutro scompare dal mondo" (Alain Finkielkraut, Noi, i moderni).
E vediamo aprirsi nell'intimo il cuore di Barthes, nel pianto ricorrente, nell'ammissione della solitudine, nella mancanza di un vivere minimale denso di significato, nel tentativo di "parlare" con la madre imitandola nelle sue abitudini, nella paura di non poter avere più paura per l'essere caro.
Mentre diminuiscono le cose da dire e il tempo attenua l'emotività, rimane quell'unica tristezza "inesprimibile e tuttavia dicibile", ed è in essa che Barthes desidera abitare, perché abitando in essa sa di abitare in "mam.", "nucleo irradiante, irriducibile". Si spiega perciò la volontà di dare un monumento alla madre: anche se non vi riuscirà nel romanzo mai realizzato Vita Nova, Barthes assolverà in parte a questo compito nel saggio sulla fotografia - forse il suo libro più noto - La camera chiara (1980), la cui seconda parte si apre proprio con il ritrovamento di una foto di "mam." all'età di cinque anni, che rinnova ed eterna il lutto di aver perduto "non l'indispensabile, ma l'insostituibile". Ma a divenire monumento alla madre è tutto ciò che Barthes ha scritto, poiché la madre è presente - presente, non allusa o figurata - dovunque vi sia "un'idea del Bene sovrano".
Ed ecco così che quel lutto, presentatosi in questo diario in così tante forme, viene finalmente compreso come "disponibilità dolorosa", come allerta per la venuta di un senso di vita, lontano dall'essere un effetto speciale della scrittura letteraria, ma anzi reclamando eternità quanto più lo scrittore si allontana dalla penna.
(©L'Osservatore Romano - 6 maggio 2010)


05/05/2010 - INDIA – ISLAM - Predicatore musulmano: I cristiani hanno diritto a predicare la loro fede nei Paesi islamici - Abdul Rasheed, della Tablighi Jamaat, sostiene la reciprocità. Apprezza il papa e il Sinodo per il Medio oriente, che parlerà della libertà religiosa nei Paesi islamici. Il musulmano sunnita è andato due volte in Europa a predicare l’islam in Svezia, Spagna e Portogallo.
Mumbai (AsiaNews) – Abdul Rasheed, predicatore musulmano sunnita, crede nella reciprocità. E siccome lui è libero di venire in Europa a predicare l’islam, non vede nulla di male nel permettere ai cristiani di predicare il Vangelo nei Paesi islamici.
Abdul Rasheed, piccolo imprenditore del distretto di Thane (Maharashtra), è membro della Tablighi Jamaat, un’organizzazione internazionale per la rinascita dell’islam e la sua diffusione nel mondo. Nei mesi scorsi, per la seconda volta, egli ha viaggiato in Europa, predicando e insegnando a gruppi di musulmani in Svezia, Spagna ( Barcellona) e Portogallo.
“In questi Paesi – dice ad AsiaNews - non vi è alcuna restrizione sulla preghiera e non vi sono restrizioni governative nel seguire i precetti dell’islam. Anche il burqa non è proibito in queste tre nazioni”.
Rasheed specifica: “In Svezia la nostra gente prega in locali specifici. Anche il mio insegnamento è avvenuto in questi luoghi, all’interno di aree residenziali messi a disposizione delle amministrazioni per lo sport e l’intrattenimento”. Proprio in Svezia e a Barcellona egli ha potuto incontrare diversi svedesi convertiti all’islam, divenuti “musulmani devoti e praticanti”.
In tutti i Paesi islamici è proibito il proselitismo e la missione dei cristiani. In diversi è proibito perfino portare una croce al collo, o radunarsi in privato per la preghiera. Abdul Rasheed sostiene invece la reciprocità è afferma che è giusto che i cristiani abbiano libertà di annunciare il Vangelo, soprattutto in Medio oriente. “Purtroppo – egli dice – in queste restrizioni vi è mescolata tanta politica. In molti Paesi mediorientali, tante cose contrarie all’islam sono legali, come ad esempio vendere liquori, o permettere certe forme di intrattenimento. Se i governi permettono cose così, perché si scatenano contro il Vangelo predicato dai cristiani?”.
Il prossimo Sinodo delle Chiese del Medio oriente, che sarà celebrato in Vaticano in ottobre, avrà a tema anche la piena libertà religiosa per i cristiani nei Paesi islamici e il loro diritto a predicare la fede alla pari con i musulmani.
Abdul Rasheed esprime apprezzamento per il Sinodo e per papa Benedetto XVI. “Rispettare i leader religiosi – spiega – fa parte dell’insegnamento di Maometto”


Avvenire.it, Cultura - 2010-05-05 – ANNIVERSARI - La mistica nascosta di Baget
«Egli era per me, ed io per lui, come l’altra parte di noi stessi, l’amico a cui si poteva parlare come ad un alter ego, con una comunicazione totale». Sono tanti ma tutti nitidi e ben collocati nel tempo i ricordi, le impressioni, le lunghe chiacchierate sulla mistica, la politica, la spiritualità che tornano alla mente – nello studio della sua abitazione fiorentina, affollato di libri e di una bell’immagine di Girolamo Savonarola – del medievista Claudio Leonardi nel rievocare l’amicizia, durata quasi 60 anni, con don Gianni Baget Bozzo.

A un anno dalla morte (avvenuta l’8 maggio del 2009) del suo amico tornano alla mente le sue grandi battaglie culturali, dalla fedele collaborazione con il cardinale Giuseppe Siri, soprattutto con la rivista Renovatio, al tentativo di interpretare correttamente il Concilio, al suo anticomunismo «tutt’altro che viscerale». «In tutto questo c’è la sua coerenza di uomo e di credente – rivela il professore Leonardi – più di quanto si creda. Lui in fondo è sempre stato il più "degasperiano dei dossettiani". E rileggendo il suo Novecento si intuisce che il suo anticomunismo non è affatto viscerale ma ragionato. E in fondo tutta la vita e l’impegno di Baget lo si può leggere come il contraltare della vita di Dossetti. In fondo don Gianni è sempre stato un uomo socievole e di dialogo ma attento a difendere la sua idea di verità. Il suo temperamento era un po’ simile al crocifisso di Santiago di Compostela che portava all’occhiello della sua giacca: un crocifisso che si trasforma in lancia, una spada della verità, quasi egli si sentisse un novello San Paolo».

Come nacque la sua amicizia con Baget Bozzo?
«La nostra amicizia risale al 1950 e fu lui a introdurmi a Roma presso la Chiesa Nuova dei padri filippini al circolo frequentato dai cosiddetti "professorini" Dossetti, La Pira, Fanfani, Lazzati e La Pira. Fu lui a farmi conoscere, per primo, la mistica e a farne la ragione della mia vita di studioso. Lo spunto fu il libro di Divo Barsotti Il mistero dell’anno liturgico. In quel testo c’è l’essenza del pensiero bagetiano dove "la fede in Cristo deve sperimentare Cristo per essere vera fede"».

Si parla spesso del Baget teologo e politico ma pochi conoscono la sua vera passione di studioso: la mistica, appunto
«Don Gianni ha avuto una profonda vita mistica, fatta, credo, soprattutto di locuzioni, e ha lasciato una serie di quaderni dove per anni ha registrato i colloqui con Dio. Tutto questo lo si evince da testi come Homo Dei, Vocazione e Dio creò Dio. I suoi modelli di riferimento sono stati Meister Eckhart, Caterina da Genova e l’amatissima Teresina di Lisieux. È stato un uomo che si sentiva guidato da Dio. Bastava sentire le sue prediche a Messa per accorgersene. Era, a mio giudizio, un uomo pieno di Dio».

Riflettendo su questo sacerdote consigliere di politici si pensa a un uomo influente nelle dinamiche dei Palazzi del potere. Baget Bozzo è stato veramente un uomo potente?
«Tutt’altro. A volte si rammaricava di essere usato. Pur essendo seguitissimo per le sue analisi politiche sui giornali. I suoi articoli hanno sempre avuto il pregio di vedere in prospettiva il futuro di questo Paese. Una qualità che io definirei profetica. Eppure mi confidava: "Vedi io faccio questi appunti per Berlusconi ma poi lui segue il pensiero di altri". Io stesso con lui mi facevo promotore di studi e ricerche sul Medioevo e la mistica, ma il mondo della politica non ci ha mai aiutato nelle cose che veramente stavano a cuore anche a don Baget Bozzo. Testimonianza di tutto questo sono stati i suoi funerali che hanno visto soprattutto la partecipazione dei suoi più stretti amici, anche politici e dei suoi parrocchiani. Non certo dell’Italia che conta».

Quanto dei suoi scritti e insegnamenti possono rappresentare un patrimonio per le generazioni future?
«Credo che il suo grande lascito sia stato nel credere a una sana laicità dello Stato, in senso degasperiano. Ha sempre difeso questo principio, lui prete e antistatalista, dalle ingerenze clericali. Sulla scia degli insegnamenti di San Tommaso e di Felice Balbo è sempre stato convinto "che gli Stati non si dirigono con la fede ma si dirigono con la ragione e le consuetudini storiche". Ogni sua azione politica è stata vissuta come se lui si sentisse "posseduto" da un compito profetico».

E a lei don Baget cosa ha lasciato?
«A me personalmente ha lasciato la sua biblioteca. Mi piacerebbe ora pubblicare il carteggio inedito degli anni 1966-67 intercorso tra me e lui. Don Gianni mi ha insegnato soprattutto che un cristiano deve "trapassare la fede cristiana nell’esperienza di Dio". Credo che la lezione di vita a cui ha sempre fatto più riferimento, e che amava spesso ripetermi, si trova nella massima di Ireneo di Lione: "Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio". In questo c’è tutto il don Baget che più ho amato e di cui avverto oggi una grande nostalgia».
Filippo Rizzi


Avvenire.it, Cultura - 6 MAGGIO 2010 – ANNIVERSARI - A Firenze un Tolstoj «ecumenico» - Vincenzo Arnone
Alle soglie del centenario della morte di Leone Tolstoj (avvenuta il 7 novembre 1910), ci si trova dinanzi a questo genio della letteratura come impreparati, complessati, quasi vinti dalle sue opere che rimangono nella memoria di ogni lettore. Tolstoj aveva fatto diversi viaggi in Italia e in Europa intorno al 1857. Nel 1891 vi ritornò e venne a Firenze.

Vi rimase alcuni giorni. Motivo del suo viaggio, questa volta, non era la curiosità turistica, o artistica o la brama di conoscere la cultura di nuovi Paesi, bensì la partecipazione a un convegno ecumenico internazionale che ebbe luogo nell’autunno di quell’anno in una sala del palazzo n. 34, viale Principe Amedeo, «per discutere argomenti relativi al miglioramento della società umana sia rispetto allo Stato che alla Chiesa». Motivazione tanto antica quanto nuova, tanto vecchia quanto moderna, tanto elitaria quanto popolare. Sembra di leggere, in certi passaggi delle relazioni, resoconti e verbali relativi ai nostri tempi.

Al convegno, dal titolo "Conferenze sulla fusione di tutte le Chiese cristiane", parteciparono intellettuali, politici ed ecclesiastici tra cui Ruggero Bonghi, Cesare Cantù, monsignor Isidoro Casini, il generale Booth dell’Esercito della salvezza, don Pietro Smudowski, della Polonia, altri e il conte Leone Tolstoj, lo scrittore già a quei tempi di fama mondiale. Il convegno fu di vertice, tra pochi intellettuali, non ebbe quindi quella risonanza popolare e di vasta opinione, però si conservano ancora i testi degli interventi dei vari relatori, che sono ancor oggi molto interessanti, stimolanti, direi attuali per le problematiche che presentano; alcuni sono datati, ma altri sono proiettati nell’orizzonte di tutte le stagioni.

Gli ultimi decenni dell’Ottocento costituivano un periodo di grandi trasformazioni politiche, sociali, religiose, industriali; c’era nell’aria il desiderio di nuovi orientamenti, di nuove strategie sociali al fine di prepararsi ai grandi mutamenti sociali che si preannunciavano. Non parve strano perciò, anzi spontaneo e ovvio, come osserva Giovanni Guidotti nel suo I tre papi, ossia la pace tra le chiese cristiane del 1893, che «uomini volenterosi, noti per fama, per operosità, per ingegno, e amanti della felicità dei popoli si riunissero insieme al fine di discutere sui prossimi avvenimenti e studiare i mezzi adatti ad avviarli alla buona meta e per allontanare dai popoli scosse e catastrofi».

L’intervento di Tolstoj tende ad unire ricordi personali e affermazioni di principio per avvalorare il messaggio di pace e di convivenza tra i popoli e il rigetto della guerra e di ogni violenza e l’unione tra le Chiese cristiane. Dice tra l’altro: «Una delle mie massime enunciate è: non opporsi al male. Di questo mio principio mi hanno fatto un titolo di accusa tacciandomi di rivoluzionario, o peggio; ma è questione di rassegnazione, di carità del prossimo, di commiserazione pei poveri di spirito…. Per questo medesimo principio ho dovuto dichiarerete un’iniquità la guerra, qualunque essa sia. E qualunque ne sia la causa: i popoli della terra sono fratelli e hanno a vivere in santa pace…. Come vedete, miei illustri colleghi, i miei principi hanno la loro base nell’Evangelo e perciò ho potuto accattare il lusinghiero invito a questa conferenza e ben volentieri sono venuto qui in mezzo a voi per trattare del modo di ricondurre la religione cristiana alle primitive sue fonti, pure e limpide, e di ricostruire una Chiesa unica che la esplichi e la rappresenti, trasformando e fondendo amorevolmente tutte le Chiese cristiane esistenti… Io applaudo dunque alla proposta di fondere le Chiese cristiane in una sola che abbia per capo il Papa di Roma e per base la sua organizzazione esteriore la formula cavouriana e per fondamento del suo pensiero le massime di Cristo e dell’Evangelo».
Vincenzo Arnone


Avvenire.it, 6 Maggio 2010 - Il nuovo volto chimico dell’aborto e un imperativo che resta: non uccidere - Il dovere di non arrendersi alla banalità del male - Giorgio Campanini
All’indomani del processo di Gerusalemme che condannò all’impicca-gione quell’Eichmann che è poi diventato il simbolo dei tanti boia dei lager nazisti, una delle menti più lucide del Novecento - Anna Arendt - dava alle stampe un piccolo libro dal titolo insieme enigmatico e inquietante, La banalità del male. Ciò che aveva più colpito – nelle testimonianze rese a questo processo – la grande intellettuale di origine ebraica non era stata tanto la negazione dell’uomo, in sé e per sé, avvenuta nei campi di sterminio, quanto il fatto di avere trasformato lo sterminio in una sorta di bene oliata ed efficientissima "catena di montaggio", nella quale ciascuno eseguiva il proprio compito, obbedendo agli ordini ricevuti, senza porsi alcun problema sul senso e dunque sulle inevitabili implicazioni etiche dei gesti che si stavano compiendo.

Quella triste pagina della storia del Novecento non può non venire alla mente di fronte all’altrettanto efficiente "catena di montaggio" che sta trasformando il dramma dell’aborto in un semplice affare di routine farmaceutica. Con tranquilla coscienza si importano i pacchi di "medicinali" e li si distribuiscono negli ospedali, con altrettanto tranquilla coscienza li si somministrano e li si assumono, attendendo che i "medicamenti" facciano il loro corso.

Vi è qualcuno che si domanda se non solo la lettera ma lo "spirito" della legge 194, che ha depenalizzato l’aborto, sia rispettato, ma poi si rassegna al presunto inevitabile; vi è chi eleva proteste di facciata ma ben presto si allinea; vi è chi vorrebbe opporsi, in verità senza troppa convinzione, ma poi si adegua.

Ciò che stupisce, e preoccupa, è appunto la banalizzazione del male (perché è questa forte parola, male, che il dramma dell’aborto dovrebbe evocare; un male da subire con sofferenza, e non da accogliere con l’allegro compiacimento di cui tante voci giornalistiche e televisive sono state espressione).

Di fronte a tutto ciò la comunità cristiana non trova ascolto né in una sinistra che tende ad indulgere alla sola logica dei «diritti soggettivi», tipica del radicalismo, e lascia in ombra i diritti sociali, primi fra tutti il diritto della società a perpetuarsi nel tempo (senza auto-distruggersi) e il diritto della famiglie a compiere scelte procreative autenticamente libere; né in una destra che (erede, del resto, anche di quei partiti socialista, repubblicano, liberale che a suo tempo votarono pressoché compatti a favore dell’aborto) si limita a proteste di facciata e pressoché nulla ha fatto, non si dice per abrogare la legge 194, ma almeno per restringerne l’applicazione a quello che avrebbe dovuto essere il suo specifico ambito, la soluzione dei (veri o presunti) "casi drammatici". Ma dov’è ormai il "dramma"? Ecco, ancora una volta, "la banalità del male".

Dopo che Freud e i suoi seguaci hanno coltamente e scientificamente teorizzato il "complesso di colpa" come una sorta di falsa coscienza da cui liberarsi, e dopo che troppi confessionali si sono svuotati di penitenti, nessuno spazio rimane, almeno in apparenza, per la presa di coscienza dell’esistenza del male, e per la consapevolezza che il male più grande è quello che attenta direttamente alla vita umana. È ben vero che le cronache, e la storia segreta di tante donne, è piena dei complessi di colpa, dei rimorsi, delle insopprimibili nostalgie per un figlio mai nato; ma tutto questo rimane in profondità, raramente emerge negli scenari di una pubblica opinione che cerca il più possibile di "rimuovere" (anche in questo caso, freudianamente) la spiacevole pagina dell’aborto.

Di questo passo, dopo il trionfale ingresso negli ospedali della nota "pillola", l’aborto farmacologico tenderà ad apparire, paradossalmente, una "cura" come tante altre, ed il figlio non voluto svolgerà il ruolo dell’ospite sgradito e ingombrante che si vuol mettere alla porta. In questo deserto – ma la Bibbia ci esorta alla speranza: anche il deserto potrà fiorire! – ferma rimane una parola che è nella Bibbia ebraica, nell’etica cristiana, ed anche nel codice penale: Non uccidere! È una parola scomoda, che si vorrebbe esorcizzare, che si carica di presunti significati "integralistici", che si vorrebbe espungere dal nuovo lessico della modernità, ma che rimane e che la Chiesa ha il diritto, e insieme il dovere, di pronunziare.
Giorgio Campanini


Tempo di riforme E il diritto alla vita? - legge 194/1978 - Per salvare dall’aborto i bambini non ancora nati occorre riconoscere che sono bambini anche prima della nascita - DI CARLO CASINI – Avvenire, 6 maggio 2010

Dopo l’episodio dell’abbandono di un bambino abortito a Rossano Calabro, rimasto vivo per molte ore, un amico medico, presidente di un Cav (Centro di aiuto alla vita) ha fatto circolare con la posta elettronica un duro e dolente commento che critica la stampa cattolica e me stesso perché avremmo «stigmatizzato» il fatto senza sottolineare «la barbarie di questa legge che ha legittimato questo aborto».

Poiché tra pochi giorni (22 maggio) ricorrerà il 32° anniversario della L.

194 e, come stiamo facendo da trentadue anni, dovremmo porci la domanda «che fare?», vale la pena riflettere sulla contestazione sostanzialmente rivolta dall’amico medico alla linea sin qui seguita dal Movimento per la vita e da gran parte del cosiddetto «mondo cattolico».

L’amico scrive: Se il bambino fosse morto subito nessuno si sarebbe scandalizzato, e bravi sarebbero stati quei medici «rispettosi» della legge. Ma è sopravvissuto e perciò essi sono da condannare, saranno oggetto di severa ispezione dagli Ispettori dell’on. Roccella, perché non hanno saputo fare un buon «lavoro». Quel bimbo che doveva morire di aborto, è stato invece lasciato agonizzante e bisognava rianimarlo. Non per pietà (lo si voleva morto!), ma per rispettare questa legge che qui mostra l’aspetto più diabolico…[…] Qualche ora prima, nel grembo materno, era considerato carne da macello, ancor più perché (forse) era malato. C’è da impazzire di fronte a questa spaventosa contraddizione: è come se si gridasse allo scandalo se, dopo averla massacrata di botte, un killer abbandonasse una persona agonizzante e anziché condannarlo per questa violenza, se ne deplorasse il mancato soccorso per rianimarla.

Chi è più coerente qui, il killer che omette il soccorso di una persona che voleva uccidere dopo averla ridotta in fin di vita, o chi, come 'Avvenire' non vuole riconoscere che il killer ha ricevuto piena legittimità a fare ciò che ha fatto da una legge dello Stato? Noi non vogliamo rispettare la 194, né applicarla meglio. La vogliamo abrogare!

Non si può nascondere l’orrore della contraddizione evidenziata in questo messaggio, anche se in questo caso una corretta applicazione della legge avrebbe impedito l’aborto, che non doveva essere effettuato in quanto esisteva quella «possibilità di vita autonoma» che, secondo l’art. 7 della legge, consentiva l’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) solo per il pericolo di vita della donna. Ma la contraddizione resta perché quel bambino restava bambino anche se l’aborto fosse intervenuto qualche settimana prima. Tuttavia è ingiusto sospettare di rassegnazione e di conseguente reticenza nel proclamare l’iniquità della legge il sottoscritto e 'Avvenire'. I fatti e la storia parlano da soli. Piuttosto bisogna riflettere sulla strategia da seguire affinché la «non rassegnazione» possa davvero esplicarsi in modo efficace.

Realismo, per non rassegnarsi

Il grido «noi non vogliamo rispettare la legge, né applicarla meglio. Noi la vogliamo abrogare» esprime davvero l’obiettivo ultimo?

Oppure lo scopo che giustifica l’impegno incessante dei pro Life è quello di salvare la vita dei bambini a qualsiasi costo, in qualsiasi circostanza, nonostante le più grandi difficoltà? Se per salvare la vita io debbo denunciare le violazioni della legge, io lo farò. Se immagino possibile una interpretazione della legge secondo uno spirito meno perverso di quello che fino ad ora ne ha determinato l’attuazione, io cercherò di imporre una tale diversa interpretazione.

Prima della recente riforma voluta da Zapatero, in Spagna e Polonia le leggi erano pressoché identiche, ma in Polonia gli aborti non superavano mai le mille unità all’anno mentre in Spagna galoppano oltre i 100.000. Perché?

Una diversa interpretazione della norma. Naturalmente non collaboreremo mai, in alcun modo, alla uccisione dei bambini. Perciò difenderemo l’obiezione di coscienza con tutte le nostre forze.

So benissimo che la legge, in non piccola misura anche a causa della sua ulteriormente perversa attuazione, produce aborti. Per questo il 22 maggio dimostreremo, ancora una volta, che se gli aborti sono diminuiti, come sostengono i difensori della legge, ciò è accaduto non per «causa» della legge, ma «nonostante» la legge per merito di quanti si oppongono alla legge. Di più: da uomo di legge e diritto quale sono, avverto profondamente il bruciore della ferita. Come si fa a considerare la dottrina dei diritti umani «come il fondamento moderno della giustizia e poi permettere l’uccisione dei più piccoli e poveri tra gli uomini» fino a tentare di includere un preteso diritto di aborto nel catalogo dei diritti umani fondamentali? E ancora: capisco la logica di appellarsi alla L. 194 per contrastare la Ru486, ma da qui a qualificare come «giusta» la legge ce ne corre. Nella mente della gente il giudizio sulla legge si traduce facilmente in giudizio sul fatto disciplinato dalla legge. Quante volte ci siamo sentiti replicare: «che stiamo a discutere? Se la legge lo permette significa che lo possiamo fare!». Così il giudizio legale diviene giudizio etico e viene distrutto l’ultimo baluardo della vita: la coscienza. Perciò è doveroso ricordare sempre l’ingiustizia della legge. Ma chi vuole difendere davvero la vita, chi non si rassegna, non si contenta dei gridi di protesta. Vuole davvero cambiare le cose. Cerca di guadagnare terreno con le unghie e con i denti. Se non può immediatamente raggiungere l’obiettivo finale, non si sente sconfitto se intanto ha potuto salire solo un gradino della scala. Per non essere inutile velleitarismo la non rassegnazione deve essere impregnata di realismo. Deve chiedersi: che cosa è possibile realisticamente fare?

Tra l’altro chi chiede sic et sempliciter l’abrogazione non vuole certamente l’eliminazione di qualsiasi legge regolatrice: nel vuoto l’aborto diventerebbe lecito sempre, ben oltre i limiti della 194.

Né sembra pensabile un ritorno al codice penale del 1931. Perciò chi vuole l’«abrogazione» deve pensare ad una «sostituzione» e deve perciò formulare la normativa desiderabile. Rispondo così anche a talune istanze di ricorrere nuovamente ad un referendum abrogativo che sento ripetere qua e là.

Punti di partenza per la riforma

Realisticamente a me pare di constatare due elementi positivi su cui è possibile far leva per cambiare le cose: la indiscussa proclamazione a livello teorico dei diritti umani, come parola d’ordine della modernità e il sentimento cresciuto della «preferenza per la ». Il primo dato è fortemente contraddetto dall’aborto legale.

Vedo però una salutare inquietudine quando la questione è posta non in termini di divieti o di morale, ma di uguaglianza, dignità umana, titolarità dei diritti umani.

Perciò, per quanto difficile e forse lunga sia la battaglia, credo nella possibilità di riuscire a scrivere all’ingresso dell’ordinamento giuridico italiano, nell’art. 1 del Codice Civile, che tutti, proprio tutti, fin dal concepimento sono riconosciuti come dotati di soggettività giuridica. La possibilità di un tale risultato è già dimostrata dall’art. 1 della L. 40/2004 sulla procreazione artificiale. La prospettata riforma, anche senza cambiare niente altro, influirebbe sulla interpretazione della L. 194 (eliminando la equivocità del suo art. 1), impedirebbe l’ultimo degrado delle coscienze, eserciterebbe un ruolo positivo anche a livello internazionale.

Il secondo dato – la preferenza per la nascita – in prevalenza non ha una motivazione forte. Il sentimento è suscitato sia dall’apprezzamento della non più ignorabile lodevole utilità dei Cav, sia soprattutto, della coerente consapevolezza del danno economico provocato dal crollo delle nascite. La paura della «bomba demografica» è divenuta paura dell’«inverno demografico».

Si aggiunge che qualsiasi persona di buon senso non può non avvertire lo stridore tra le centinaia di migliaia di bambini abortiti ogni anno in Italia e le decine di migliaia di coppie che non trovano bambini da adottare. Sembra perciò possibile trasformare la logica dei primi articoli della L. 194 intendendo l’intervento consultoriale e più in generale quello «colloquiale», non come uno strumento per constatare l’autodeterminazione della donna, ma come il mezzo per tutelare la vita del figlio non contro ma insieme alla madre. Anche a questo riguardo qualcosa si può fare sia sul piano legislativo sia su quello amministrativo. È giunto il momento di adempiere agli impegni assunti verso gli elettori dai governanti e dai parlamentari nelle elezioni politiche del 2008 e dai governanti regionali e dai consiglieri regionali nelle elezioni del marzo scorso.


Un esempio dalla Puglia progetto gemma – Avvenire, 6 maggio 2010
Sono saliti a 18.000 i bambini salvati dall’a borto procurato con l’«adozione a distanza» del le loro mamme. Questo è il bilancio aggiornato di «Pro getto Gemma», un modo davvero efficace per contra stare l’abortismo, un proget to nel quale hanno dimo strato di credere Rossella Cinquepalmi e Lillino Delli­turri di Noicàttaro (Bari), che il 13 aprile scorso hanno ce lebrato le loro nozze d’ar gento, sostenuti dall’affetto dei figli Sabrina, Liliana e Vi to. Durante la celebrazione eucaristica presso la Parroc chia 'Santa Maria della Pa ce' di Noicàttaro (Ba) hanno portato all’altare un cestino, rivestito con i colori verde e bianco, nel quale amici e pa renti avevano deposto le lo ro offerte, aderendo all’invi to dell’intero nucleo familia re a non fare regali e a soste nere piuttosto «Progetto Gemma», con la sottoscri zione di un’adozione prena tale a distanza di un bambi no non ancora nato.

Solo una grande gioia ha per messo di superare lo stupo re, l’emozione e la meraviglia che si è provato quando nel cestino si sono contati circa 1750,00 .

Una grande, solidale ed i nascita naspettata risposta ad una semplice proposta di con divisione per il valore della Vita.

A fronte di un risultato così bello e superiore ad ogni lo ro aspettativa, invece di do nare bomboniere ad ogni convenuto, all’unanimità, la famiglia ha deciso di com pletare il gesto integrando la somma necessaria per la sot toscrizione di un «Progetto Gemma».

Sarebbe molto bello ed au spicabile, se il gesto di que sta famiglia dovesse diven tare «contagioso» perché aiutando le mamma in diffi coltà, si diffonde la cultura della Vita.

Chiunque può fare queste a dozioni: singoli, famiglie, gruppi parrocchiali, di ami ci o di colleghi, comunità re ligiose, condomini e classi scolastiche. Dal sito del Mo vimento per la vita (www.mpv.org)si può scari care la «Dichiarazione di im pegno di adozione prenata le a distanza».



«Viaggia su Internet l’allarme pedofilia» - Dati preoccupanti delle associazioni: un giro d’affari di 4 miliardi di dollari - DA MILANO VIVIANA DALOISO – Avvenire, 6 maggio 2010

Un altissimo numero di casi non denunciati. Un abuso che trova il suo habitat naturale online, do ve si trasforma anche in un giro di affari stimato in oltre 4 miliardi di dollari. E poi in famiglia, dove troppo spesso i padri sono i 'carnefici' dei figli e dove in ge nerale manca consapevolezza e capacità di gestire l’emergenza degli abusi.

Nella seconda Giornata nazionale contro la pedofilia, che si è celebrata ieri, sono molti i dati allarmanti emersi sul feno meno. A partire dal dossier diffuso da Te lefono Azzurro, che ha preso in esame tutti i contatti e le richieste di aiuto rice vute dal gennaio 2008 al marzo 2010 e in base al quale gli abusi sessuali sui mino ri rappresentano il 4% di tutti i maltrat tamenti sui bambini. Non pochi, se si considera che la percentuale in questio ne è quella «contata» dagli operatori, dunque relativa ai soli casi che arrivano ad essere denunciati.

Ma c’è molto di più, nel bilancio fatto del l’associazione. Secondo cui, per esem pio, l’infanzia abusata in Italia non è af fatto quella emarginata e degradata ed è l’ambito familiare quello in cui si consu mano con più frequenza le violenze. Qui il presunto responsabile nel 29,4% dei casi è il padre, oppure un altro parente (13,5%), o ancora un amico o conoscen te (12,9%). Le segnalazioni relative a mo lestie subite da parte di insegnanti o e­ducatori sono state l’8,8% e quelle rela tive ad abusi commessi da religiosi l’1,2%. Altro dato allarmante, quello sull’età dei bambini: il 60% di quelli che hanno subì to abusi sessuali non hanno ancora com piuto i 12 anni. E se sono soprattutto le bambine e le adolescenti le principali vit time di abusi sessuali (si tratta del 66% dei casi), tuttavia una segnalazione su tre ri guarda minorenni maschi.

Capitolo a se stante merita poi l’'am biente' della Rete. È proprio relativa mente al Web che emerge infatti la per centuale più elevata di segnalazioni, qua si la totalità del campione: si riferisce a si ti Web l’86,5% di queste ultime. Numeri tanto più pesanti quando si incrociano con quelli registrati e presentati sempre ieri dal Moige (il Movimento italiani ge nitori) e dalla Microsoft. Il primo ha svol to un’indagine nel corso dell’aprile scor so tra i genitori con figli di età compresa tra i 5 e i 15 anni: secondo la ricerca, ol tre il 40% non si ritengono sufficiente mente informati e preparati per affron tare l’emergenza, soprattutto relativa mente ai nuovi mezzi di comunicazione e a Internet, mentre solo 2 genitori su 10 affiancano i propri figli nella navigazio ne. E cattive notizie sono arrivate anche dai dati registrati da Microsoft Italia, se condo cui sul Web il 26% dei ragazzi con divide il proprio indirizzo di casa, il 56% indica il nome della propria scuola, il 76% si scambia foto e video anche di amici e il 59% l’indirizzo di posta elettronica.

Una legame, quello tra la Rete e la pedo filia, su cui ieri non a caso sono tornati con forza tutti i rappresentanti delle isti tuzioni, dal ministro per le Pari oppor tunità Mara Carfagna al presidente del Senato Renato Schifani e della Camera Gianfranco Fini sino al direttore della po lizia postale e delle telecomunicazioni Antonio Apruzzese: tutti concordi nel sottolineare la necessità di interventi sempre più attenti e mirati sul Web e sul le sue insidie.



Stati Uniti - di Lorenzo Schoepflin - Via libera alla lobby delle embrionali - Tredici nuove linee cellulari diventano oggetto della ricerca sugli embrioni, «spinta» dalle aziende. Con i soldi dei contribuenti – Avvenire, 6 maggio 2010
Prima dalle pagine del Washington Post , poi con una nota ufficiale, il direttore dell’Isti tuto nazionale della Sanità degli Stati U niti, Francis Collins, ha annunciato che tredi ci nuove linee cellulari hanno ricevuto l’ap provazione per divenire oggetto della ricerca sulle staminali embrionali. Il via libera si in­serisce nel solco della nuova politica dell’am ministrazione Obama in me rito a questi tipo di ricerca, che ha segnato una forte disconti nuità rispetto a quella del pre decessore Bush. La novità so stanziale, introdotta nel mar zo del 2009 con un ordine e secutivo firmato dallo stesso Obama, riguarda la possibilità di accesso a finanziamenti pubblici per gli studi condot ti su embrioni che, una volta distrutti, rendo no disponibili le cellule staminali.


Nel luglio 2009, poi, furono pubblicate le linee guida dove venivano esplicitati i re quisiti necessari affinché degli embrioni potessero finire nei laboratori. Due passaggi che non hanno mancato si sollevare aspre po lemiche. Da un lato, il mondo pro life ame ricano non ha mancato di protestare per il fat to che soldi di cittadini possano finire per fi nanziare studi che implicano la distruzione di embrioni umani. Dall’altro, i ricercatori del set tore che lamentavano la lentezza dell’iter bu rocratico necessario per ottenere la certifica zione del rispetto delle linee guida per i loro studi.
A marzo scorso, era stato ancora il Wa shington Post a dare voce ad alcuni ricerca tori operanti in atenei statunitensi: addi rittura, era emerso che le novità introdotte da Obama avevano reso più complicata la ricer ca sulle staminali embrionali. «Piagnisteo», lo ha definito Da vid Prentice, professore di ge netica molecolare all’Univer sità dell’Indiana. Senza dub bio, le lamentele dei ricercato ri non sono rimaste inascolta te: tra le tredici nuove linee cel lulari destinate alla ricerca c’è anche quella denominata H9, che, pur oggetto di ricerca du rante l’era Bush, non aveva ancora ricevuto il via libera dopo l’emanazione delle linee gui da da parte dell’Istituto nazione di Sanità, la­sciando nell’incertezza alcuni ricercatori circa la possibilità di continuare il loro lavoro.

Nel frattempo, la Camera dei Deputati del Missouri, ha approvato un emendamento che vieta proprio il finanziamento della ricerca sulle staminali embrionali con denaro prove niente dalle sovvenzioni per l’Università del Missouri.


Medico-paziente, un’alleanza «soprannaturale» - di Alfredo Anzani - argomenti - Riconoscere nel volto del malato un volto più grande, quello del Cristo sofferente: da lì nasce un rapporto ben al di là di una prestazione tecnica - Pubblichiamo stralci del discorso che terrà domani a Lourdes Alfredo Anzani, vicepresidente della Fede razione europea dei medici cattolici, nel corso del Con gresso mondiale Fiamc. – Avvenire, 6 maggio 2010

Se il medico cristiano vuole essere degno dell’appellativo che lo fa riconoscere seguace di Cristo, deve dimostrare di assumere costantemente un atteggiamento interiore ed esteriore inequivocabile, tale da far dire a chi intrattiene rapporti con lui: egli è un altro Cristo. Il medico cristiano che si ispira alla parola di Dio, Mihi vivere Christus est (Fl 1,21; cf. Gt 2,20), sa che se vuol vedere il volto di Cristo nel malato ( Christus patiens ) deve prima vedere il volto di Cristo in se stesso come medico ( Christus medicus).

La professione medica alla luce della fede è una specie di ministero sacro che l’accomuna in un certo senso alla missione del sacerdote e fa del medico una particolare ripresentazione della missione terapeutica di Cristo.

Sant’Ignazio di Antiochia chiama Cristo «medico della carne e dello spirito». (...) Si apre per il medico un affascinante percorso. Egli è consapevole che il malato, proprio perché tale, attraversa un periodo triste e traumatico della sua vita, caratterizzato dalla sofferenza, dall’incertezza sul recupero della salute, dalla perdita improvvisa della sensazione d’invulnerabilità. Il medico sa bene che il malato ha bisogno di sollievo e rassicurazione che cerca e invoca da tutti quelli che gli passano accanto; innanzitutto dal medico. Per questo il rapporto medico-paziente è di una straordinaria importanza. (...) Non si dà cura se non si fa riferimento all’anima: c’è un tutto superiore alle parti. Ci si imbatte in qualcosa di indefinibile e dobbiamo averne cura.

Aver cura significa aver misericordia e cioè essere capaci di 'scardinarsi', di scardinare il proprio cuore di fronte all’ultimo. Fare fatica, avere angustia, angoscia nei confronti del prossimo.

Così il bello diventa sentire uno spasmo al cuore per il sovrasensibile. Bello è avere cura dell’anima curando il corpo: la cosa più difficile. Il prossimo del medico è il più lontano. Lì, nel più lontano urge avere il senso del bello, della salute che diventa ricerca. Chi ricerca se non il più lontano? La lontananza è quella del più prossimo.


Il modo con cui il malato vive le varie fasi della malattia che l’ha colpito è influenzato dalla gravità dei sintomi, dal dolore fisico, dalla preoccupazione per la prognosi. L’impatto psicologico della malattia è fortemente modulato dalla personalità, dall’ambiente culturale, dal supporto affettivo del malato; in questo contesto l’esistenza di una profonda fede rappresenta un conforto fondamentale, sia per sopportare il dolore fisico che per sperare in una prognosi favorevole. Il malato che soffre ha immediato bisogno di aiuto, di conforto e di supporto affettivo. La condivisione della sofferenza con il malato acuisce e arricchisce spiritualmente. L’ammalato ha sete di una parola, di uno sguardo di conforto. Confortare significa condividere la sofferenza, e proprio questa condivisione fa soffrire anche chi aiuta: non si può attenuare la sofferenza nel malato senza soffrire con lui. Il dolore incessante che impedisce di trovare una posizione per riposare, la mancanza di respiro, sono sensazioni terribili che bisogna provare ad immaginare per comprenderle a fondo.

Molte volte il medico giunge a chiedersi, senza mai trovare risposte: che cosa ha fatto di male l’uomo che ho davanti perché soffra così tanto? «In quei momenti – annota Attilio Maseri, medico cardiologo – penso al Cristo nella sua Passione e lo prego di aiutarlo a sopportare e a sperare, là dove io mi trovo impotente. Prima di sentirmi impotente, però, considero mio dovere, e dovere primario di ogni medico, usare sempre tutte le armi messe a disposizione dalla medicina per non fare soffrire il malato». (...) È necessario andare oltre; arrivare al fondamento del carattere 'assoluto' dell’imperativo morale, specificamente quello della carità cristiana. È così possibile vedere l’uomo con lo sguardo contemplativo, l’uomo nelle sue vere radici e nel suo autentico destino, l’uomo come creatura di Dio, destinato a condividere in modo pieno e definitivo la felicità stessa di Dio.

Possedere questo sguardo contemplativo ottiene straordinari risultati.

Il medico è chiamato, da questo sguardo, a preoccuparsi della persona malata nella totalità unificata dei suoi valori, delle sue esigenze, dei suoi bisogni. Tra questi, centrale è la domanda sul 'perché' della sofferenza. I malati debbono essere aiutati proprio su questo punto e il medico non li può aiutare se lui per primo non si è posto l’interrogativo e non si è data la risposta alla domanda sul senso del vivere, del soffrire e del morire.

In questa difficile e, a volte, straziante riflessione entra, quasi a forza, la problematica religiosa, il dubbio, la tentazione, la crisi, il rifiuto di Dio e del suo amore.

(...)
Il medico per vivere questo sguardo contemplativo sul malato ha bisogno di rivolgerlo, anzitutto, su se stesso e sulla sua professione. Ecco, allora, come sia possibile comprendere in toto che non è possibile vedere il volto di Cristo nel malato se non si vede il volto di Cristo in se stesso come medico. La visione del volto di Cristo nel malato è, indubbiamente, il frutto di una fede vissuta in mezzo alle difficoltà, alla fatica, alla stanchezza del lavoro quotidiano presso il malato. Proprio per questo il medico credente deve arricchirsi di una spiritualità specifica, il cui centro è dato dalla viva percezione della presenza di Cristo. Occorre ribadire che la presenza di Cristo è da riconoscersi e da viversi sia nel medico (come presenza del Christus medicus, di Cristo che si pone al servizio del malato), sia nel malato (come presenza del Christus patiens , di Cristo che continua la sua passione nella storia dell’umanità, di ogni uomo, di ogni malato).

La cultura antropologica oggi dominante, caratterizzata da una interpretazione riduttiva e deformata dell’uomo proprio perché ne misconosce la sua dimensione religiosa e trascendente, rende difficile questa testimonianza di fede. (...) Ogni gesto concreto del medico, di ogni medico, che esprime vicinanza, condivisione, servizio, cura al malato, unito a competenza professionale, senso di responsabilità morale, vero amore umano, indica che il termine ultimo e vero di tutto ciò, – anche se non conosciuto chiaramente o non riconosciuto esplicitamente – non è il malato stesso, ma Cristo presente in lui.


invece noi... - «Niente tecniche: educazione all’affettività» - «La Bottega dell’Orefice» propone agli studenti del Sud laboratori per riflettere sull’amore Con risultati sorprendenti – Avvenire, 6 maggio 2010

Non vogliono sentire una lezione su come si indossa un profilattico o su cosa si deve fare per accedere alla pillola del giorno dopo. No, piuttosto vogliono capire cosa vuol dire amore, quali sono i tempi e i gesti della relazione affettiva tra ragazzo e ragazza. Strano, in questi tempi di distributori di preservativi a scuola e di lezioni di sesso sicuro. Ma vero. È il risultato di una ricerca a tappeto condotta nelle scuole della Puglia e della Basilicata. A 500 docenti delle superiori è stato chiesto cosa pensavano potesse interessare ai loro studenti in un corso di educazione all’affettività: le malattie sessualmente trasmissibili, la contraccezione oppure la dimensione affettiva e relazionale? «In blocco i professori hanno scelto la terza opzione», informa Michela Di Gennaro, responsabile della sede di Puglia e Basilicata dell’associazione La Bottega dell’Orefice, che ha promosso l’indagine conoscitiva in collaborazione con l’Università di Bari. L’associazione è impegnata nella formazione ai metodi naturali, ma tra le attività «collaterali» svolge cicli di incontri sull’affettività e la sessualità nelle scuole medie e superiori del territorio. Con risultati sorprendenti.

«Abbiamo iniziato dieci anni fa nelle scuole e nelle parrocchie. Abbiamo seminato tanto, ora stiamo raccogliendo i frutti. All’inizio i ragazzi non sapevano esprimere la differenza tra sesso e amore, oggi invece le ragazze ci dicono che vogliono essere rispettate e non usate». Ma la strada da fare è ancora lunga, soprattutto perché attraversa mondi in cui il sesso è puramente tecnica e se c’è qualcosa da evitare sono le sue conseguenze indesiderate. «Molti giovanissimi non conoscono appieno il significato dei propri gesti corporei: se voglio bene a un ragazzo, posso dargli un bacio o avere un rapporto sessuale, che differenza fa? I ragazzi – riflette ancora Michela Di Gennaro – hanno bisogno di conoscere i doni di cui sono portatori in quanto maschi e femmine. Solo così si aprono al valore della vita e guadagnano uno sguardo sereno sulle relazioni sessuali, vissute però con responsabilità».


Quando vanno nelle scuole, la Di Gennaro e gli altri educatori de La Bottega dell’Orefice parlano, appunto, di responsabilità, del valore del tempo e dell’attesa, di sentimenti. Anche di contraccezione, certo, ma alla fine di un percorso che ha toccato ben altre tappe. «I consultori pubblici entrano nelle scuole più frequentemente di noi – riflette la Di Gennaro –. Ma non vanno oltre le informazioni tecniche: i preservativi, il sesso sicuro, la pillola del giorno dopo... È la soluzione più facile, in fondo: offuscare la dimensione fondante della sessualità, che è quella della possibilità di trasmettere la vita». E invece, secondo l’esperta, è proprio ciò di cui hanno bisogno i ragazzi: capire il valore della dimensione affettiva, della maturazione, del rispetto di sé e del tempo che a ciascuno è dato per maturare. «Nelle scuole parliamo anche di verginità, certo: diciamo che c’è un tempo per ogni cosa, e che l’atto sessuale completo è carico di responsabilità, che è giusto che non arrivi tutto e subito perché altrimenti se ne perde il valore e il senso». La reazione? «I ragazzi in genere tacciono, le ragazze vogliono saperne di più. E alla fine, interpellate, dicono di aver capito che l’amore è qualcosa che si 'guadagna' nel tempo e nella maturazione di sé». Antonella Mariani