domenica 30 maggio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 30/05/2010 – VATICANO - Papa: La Trinità abita in noi dal giorno del Battesimo, con l’aiuto del sacerdote - Dopo mesi in cui si parla dei sacerdoti solo per la questione dei preti pedofili, Benedetto XVI ricorda il valore del sacerdote nell’introdurre i fedeli e nel far crescere in loro la vita cristiana. Una nuova beatificazione. La richiesta di preghiere per il suo viaggio a Cipro, dove presenterà l’Instrumentum laboris per il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Un libro del card. Celso Costantini.
2) L'educazione antiautoritaria non è educazione - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 28 maggio 2010
3) Dio aiuti il Papa a convertire i vescovi – di Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010
4) Radio Vaticana - 29/05/2010 – Preghiera in San Pietro per l'espiazione degli abusi commessi da sacerdoti
5) Comunione materiale e comunione spirituale - In attesa di mangiare come gli angeli - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
6) Un lungimirante scritto del 1906 - Le carrube amare del socialismo reale - Anticipiamo un articolo che sarà pubblicato sul numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". Si tratta di un'opera giovanile di Sergej Bulgakov, scritta nel 1906 e pubblicata prima della rivoluzione. Proprio perché, a ragione della giovane età, manca ancora all'autore lo spessore doloroso dell'esperienza, stupisce la lucidità con cui coglie l'origine della crisi incombente. - di Sergej Bulgakov - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
7) Con la crisi della secolarizzazione ritorna la teologia politica - Nuove maschere del superuomo - di Paolo Becchi - Università di Genova - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
8) MESE MARIANO, LEZIONE DI UMANITÀ - DAVANTI ALLA MADRE SI TORNA A DOMANDARE - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 maggio 2010


30/05/2010 – VATICANO - Papa: La Trinità abita in noi dal giorno del Battesimo, con l’aiuto del sacerdote - Dopo mesi in cui si parla dei sacerdoti solo per la questione dei preti pedofili, Benedetto XVI ricorda il valore del sacerdote nell’introdurre i fedeli e nel far crescere in loro la vita cristiana. Una nuova beatificazione. La richiesta di preghiere per il suo viaggio a Cipro, dove presenterà l’Instrumentum laboris per il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente. Un libro del card. Celso Costantini.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “La Trinità divina.. prende dimora in noi nel giorno del Battesimo: ‘Io ti battezzo – dice il ministro – nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’”. Nella domenica della Trinità, tema della sua riflessione all’Angelus di oggi in piazza san Pietro, Benedetto XVI non ha cercato di spiegare il mistero di Dio con riflessioni teologiche o filosofiche, ma , come i Padri della Chiesa, ne ha indicato la presenza nella esistenza del cristiano. “La mente e il linguaggio umani – ha detto il papa - sono inadeguati a spiegare la relazione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
Ogni volta che tracciamo il segno della croce, egli ha aggiunto, noi ricordiamo “il nome di Dio nel quale siamo stati battezzati”. Il pontefice ha citato il teologo Romano Guardini, che a proposito del segno della croce, osserva: “lo facciamo prima della preghiera, affinché … ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato … Esso abbraccia tutto l’essere, corpo e anima, … e tutto diviene consacrato nel nome del Dio uno e trino” (Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia 2000, 125-126).
La coscienza e l’esperienza della Trinità si approfondisce grazie al sacerdote. Dopo mesi in cui si dibatte nei media solo il problema dei preti pedofili, il pontefice offre alcuni spunti positivi dell’opera dei sacerdoti nella Chiesa. Riferendosi al vangelo di oggi, in cui Gesù promette agli Apostoli che “quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13), il papa ha aggiunto: “Così avviene nella liturgia domenicale, quando i sacerdoti dispensano, di settimana in settimana, il pane della Parola e dell’Eucaristia. Anche il santo Curato d’Ars lo ricordava ai suoi fedeli: ‘Chi ha accolto la vostra anima – diceva – al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? … sempre il sacerdote’(Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale)”.
Dopo la preghiera mariana, Benedetto XVI, ha ricordato che oggi, nella basilica di S. Maria Maggiore a Roma è avvenuta la beatificazione di Maria Pierina De Micheli, religiosa dell’Istituto delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires: “Giuseppina – questo il suo nome di Battesimo – nacque nel 1890 a Milano, in una famiglia profondamente religiosa, dove fiorirono diverse vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. A 23 anni anche lei imboccò questa strada dedicandosi con passione al servizio educativo, in Argentina e in Italia. Il Signore le donò una straordinaria devozione al suo Santo Volto, che la sostenne sempre nelle prove e nella malattia. Morì nel 1945 e le sue spoglie riposano a Roma nell’Istituto Spirito Santo”.
Salutando poi i pellegrini di lingua francese, ha chiesto loro preghiere per la sua visita apostolica a Cipro dal 4 al 6 giugno prossimi, dove egli presenterà lo strumento di lavoro (Instrumentum laboris) in preparazione al Sinodo delle Chiese del Medio oriente il prossimo ottobre.
Infine, nei saluti ai pellegrini di lingua italiana, egli ha ricordato il gruppo di fedeli provenienti da Pordenone, giunti a Roma per onorare la memoria del card. Celso Costantini, del quale è stato presentato due giorni fa a Roma il volume del Diario, dal titolo Ai margini della guerra (1938-1947). “Questa pubblicazione – ha spiegato il papa - è di grande interesse storico. Il Cardinale Costantini, molto legato al Papa Pio XII, la scrisse quando era Segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Il suo Diario testimonia l’immensa opera compiuta dalla Santa Sede in quegli anni drammatici per favorire la pace e soccorrere tutti i bisognosi”. Il card. Costantini è stato nunzio in Cina dal 1922 al 1934.


L'educazione antiautoritaria non è educazione - Autore: Oliosi, don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 28 maggio 2010
Occorre sottolineare sia la “passione dell’io per il tu, per il noi, per Dio”, sia il “linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione”
Sul blog “Settimo cielo” e sul sito “www.chiesa” di Sandro Magister del 28 maggio 2010 viene riportato che Benedetto XVI, arrivato a parlare della “emergenza educativa” quale tema centrale del programma della CEI dei prossimi dieci anni, ha interrotto la lettura del suo discorso, ha girato il foglio, sul cui retro aveva scritto a mano degli appunti, e così ha proseguito a braccio:
«Mi sembra necessario andare fino alle radici di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida. Io ne vedo soprattutto due.
- Una radice essenziale consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo auto sviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’”io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’“io” a se stesso. Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un “io” completo in se stesso, mentre diventa “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”.
- L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura e la seconda fonte la Rivelazione. Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso. La Rivelazione viene considerata come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o – si dice – forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro.
Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero di natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri. E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare. Così, in questo “concerto” – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’“io” al “tu”, al “noi” e al “Tu” di Dio.
La domanda educativa esige di farsi carico delle nuove generazioni con un’opera di testimonianza unitaria, integrale e sinergica, che aiuti a pensare, a proporre e a vivere la verità, la bellezza e la bontà dell’esperienza cristiana. Non viene certo dallo Spirito Santo la tentazione che, a volte, induce genitori, insegnanti, catechisti e sacerdoti ad affievolire l’impegno educativo. Sono i momenti in cui sembrano prevalere la stanchezza, il senso di inadeguatezza e di inefficacia, l’affanno di fronte a ritmi di vita sempre più incalzanti. Un simile contesto culturale mette spesso in dubbio anche la dignità di ogni persona, la bontà di ogni vita, il significato stesso della verità e del bene. In effetti, quando al di là dell’individuo nulla è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei suoi bisogni immediati. Si fa, allora, ardua e improbabile la proposta alle nuove generazioni del “pane” della verità, per il quale valga la pena spendere la vita, accettando, quando necessario, il rigore della disciplina e la fatica dell’impegno».


Dio aiuti il Papa a convertire i vescovi – di Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010
La Chiesa è una cosa troppo importante (e troppo preziosa) per essere lasciata a preti, vescovi e prelati. Ci pensavo partecipando a una recente puntata di “Annozero” dove si parlava degli scandali della pedofilia (del clero) e un vescovo, mandato dalla Cei, ha fatto, poveretto, una figura desolante.

Non ha saputo rispondere alle domande più ovvie, appariva palesemente impreparato quando si trattava di difendere il papa e la Chiesa da accuse ingiuste, e non ha saputo dire parole cristiane a chi è stato vittima di abusi. Eppure gli bastava ripetere sinceramente le cose grandi e umili che ha detto Benedetto XVI.

Ma non voglio colpevolizzare il povero monsignore di Palestrina, fin troppo biasimato in questi giorni dai suoi confratelli che lo hanno mandato allo sbaraglio e che lì, nella fossa dei leoni, ha pensato di cavarsela distribuendo maldestre risate.

Non sono abituati, molti di loro, a esporre la faccia alle cannonate. Hanno vissuto sempre in sacrestia e non hanno mai rischiato qualche sprangata per annunciare Gesù Cristo. Non sanno dare ragioni.

Ma quel che è peggio pochi – fra i prelati – sembrano voler capire quello che il Papa sta dicendo, sta facendo e sta chiedendo. Molti sembrano intenzionati a far finta di nulla. Ignorando questa sua rivoluzione pericolosa per le loro poltrone e le loro ambizioni.

Dunque (lo dico da cattolico, da militante cattolico che è pronto a dare anche la vita per Gesù Cristo e per la Chiesa) non lasciamo la Chiesa nelle mani di una gerarchia oggi largamente inadeguata al momento grande e drammatico che viviamo.

Non è un caso che Benedetto XVI abbia messo la Chiesa nelle mani della Madonna a Fatima e che in un precedente viaggio in Australia abbia chiesto ai laici, al popolo cristiano, di aiutarlo a estirpare dalla Chiesa il cancro marcio della pedofilia del clero e degli abusi sessuali.

Che non sono un dramma a sé, ma sono la punta dell’iceberg di uno smarrimento generale, di un peccato che comprende tante altre cose. Come quell’ “abuso di autorità” e quel “carrierismo” che il Papa ha denunciato il 26 maggio scorso e che storicamente (anche nei nostri tempi) ha caratterizzato notevole parte della gerarchia.

Rivoluzione

E’ una vera rivoluzione quella che Ratzinger sta cercando di fare. Una declericalizzazione che vuole far risplendere la bellezza del volto di Gesù.

Oggi più che mai perciò è necessario aiutare il Papa che quasi ogni giorno tuona, chiedendo ai prelati e ai preti “penitenza e purificazione”, sottolineando la necessità di sradicare il “carrierismo” e ripetendo “la necessità della giustizia” per le vittime che hanno subito violenze da preti.

Si tratta di aiutare il Papa perché nella Curia romana e fra i vescovi non sembra di vedere schiere di penitenti vestiti di sacco con la cenere sulla testa. O almeno disposti a mettere in discussione seriamente se stessi e le proprie “ambizioni”.

Fra le poche eccezioni c’è il cardinale Bagnasco che nella sua prolusione alla Cei di tre giorni fa ha avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga.

E ieri, dopo l’ennesimo richiamo del Santo Padre, ha osato affermare che in Italia vi è “la possibilità” che ci siano state coperture anche di qualche vescovo su casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti. “Si tratta – ha detto – di una cosa sbagliata, che va corretta e superata”.

Il linguaggio ovattato e curiale può dar fastidio. Ma la prudenza stessa di questo inedito pronunciamento fa capire quanto forte sia la resistenza a questo umile riconoscimento.

E a questa sacrosanta necessità di fare giustizia. Che, fra l’altro, è il solo atteggiamento che rende poi credibili nel difendere altri preti che magari sono stati calunniati ingiustamente.

Ovviamente adesso si aspettano i fatti. Dovranno essere i vescovi a mostrare cosa significa seguire il papa e a chi si riferisce Bagnasco. Nell’attesa – che ci si augura breve – ci si può cimentare però con i casi già noti. Come quello di Firenze su cui un pronunciamento – e durissimo – della Santa Sede, che ha ridotto allo stato laicale quel personaggio, don Cantini, c’è già.

Scandalo fiorentino

Pronunciamento, arrivato nel 2008, che è anche un pesante giudizio su come ha agito la Curia fiorentina almeno dal 2004.

Eppure non risulta che vi sia mai stato – anche dopo la sentenza di Roma – un umile riconoscimento della propria inadeguatezza (per così dire, con un eufemismo) da parte del cardinale Antonelli che se n’è andato per limiti di età, mentre il vescovo ausiliario Maniago è ancora – incredibilmente – al suo posto.

Non risulta che la Curia di Firenze – le cui gerarchie hanno ripetutamente solidarizzato con se stesse – abbia mai chiesto ufficialmente e solennemente “perdono” alle vittime per quello che hanno subito da un prete.

Vittime che peraltro mostrano una coscienza cristiana commovente: per la loro sconvolgente capacità di perdono e per aver continuato a chiedere provvedimenti seri alla Chiesa come si fa con una madre, senza mai intentare cause civili miliardarie, come è stato fatto in altri Paesi.

Dobbiamo forse sospettare che sia proprio questa loro bontà ad aver provocato la sordità di coloro che dovevano intervenire subito? Si aspettano risposte serie.

Ma ora occorre dar seguito a ciò che Roma ha decretato, chiedendo oltretutto di aver cura materna delle vittime, che invece sembrano ancora essere considerate “nemiche”.

Occorre un grande atto di umiltà. Vorremmo vedere vescovi e cardinali capaci di gesti che la cristianità dei secoli passati sapeva fare (magari anche facendosi da parte: andando a servire in un lebbrosario del Terzo Mondo).

Vorremmo vederli piangere con chi piange, come il Papa a Malta, e inginocchiarsi davanti a coloro che, da bambini, subirono un orrore che portano ancora addosso e che vanno riconosciuti finalmente come il vero volto di Cristo crocifisso e non come nemici.


E’ stato il papa stesso, a Fatima, a dire che le loro sofferenze rappresentano la peggior persecuzione subita dalla Chiesa.

Il Re in ginocchio

Sarebbe bello che questa purificazione penitenziale cominciasse proprio da Firenze, una città di cui Gesù Cristo è stato dichiarato Re, dal Comune, molti secoli fa.

Perché lui, Gesù, il Nazareno, espresse la sua “regalità” proprio così: inginocchiandosi davanti a quei dodici esseri umani che aveva davanti, cioè davanti a ognuno di noi, indegnissimi peccatori. Inginocchiandosi – Lui, il Re dell’universo – davanti a ognuno di noi e lavando a ciascuno i piedi, come – a quel tempo – facevano gli schiavi.

Gesù comandò di essere come il Figlio di Dio “che non è venuto per farsi servire, ma per servire”.

Non è un’esagerazione evocare questo sconvolgente passo del Vangelo perché è stato il Papa stesso, nel discorso del 26 maggio, a citarlo per ribaltare il concetto di “gerarchia” e per rivoluzionare la Chiesa purificandola e rinnovandola.

“Gerarchia”, ha detto il Papa, in genere viene inteso in senso giuridico, come potere e questo – ha detto – è stato “storicamente causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso dell’autorità gerarchica”.

Il suo significato vero sta proprio in quel gesto di Gesù, nel “servire”. Preti, vescovi, cardinali dovrebbero cominciare a concepirsi come “servi”, non come padroni della fede e della Chiesa.

Il Papa e noi, popolo cristiano, li vorremmo finalmente umili, distaccati da ambizioni, soldi e potere.

Capaci di riconoscere i propri errori e di chiedere perdono. Uomini che puntano alla santità – come ha ripetuto il Papa – non a conservare o conquistare una miserabile poltrona, la cui sciocca gloria dura un attimo e poi è divorata dalle tarme.

Come diceva il grande Tommaso Moro: “è già un pessimo affare dare la propria anima per il mondo intero, figurarsi per la Cornovaglia…”.
Antonio Socci - Da “Libero”, 29 maggio 2010


Radio Vaticana - 29/05/2010 – Preghiera in San Pietro per l'espiazione degli abusi commessi da sacerdoti
Una mattina di adorazione eucaristica e di preghiera per l'espiazione degli abusi commessi da alcuni sacerdoti si è svolta questa mattina all'altare della Cattedra in San Pietro. Promossa dagli studenti delle università pontificie a Roma, come gesto di solidarietà nei confronti di Benedetto XVI, l'iniziativa è stata patrocinata dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica e vicario generale del Papa per lo Stato della Città del Vaticano. All’adorazione eucaristica è seguita la meditazione guidata da mons. Charles J. Scicluna, promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, che è partito dal duro monito di Gesù, come riportato dal Vangelo di Marco: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare”. Mons. Scicluna ha riproposto l'interpretazione che del passo diede San Gregorio Magno nella Regola Pastorale, al secondo capitolo della parte prima, dedicata ai “Requisiti del pastore d’anime”, e intitolato “Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio”. Nel commentare la frase di Gesù, San Gregorio Magno scriveva: “La macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile”.


Comunione materiale e comunione spirituale - In attesa di mangiare come gli angeli - di Inos Biffi - L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Il significato dell'Ultima Cena si trova ampiamente illustrato e approfondito nella grande "teologia" e catechesi eucaristica del sesto capitolo del vangelo di Giovanni. "Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me" (Giovanni, 6, 51-57, passim). È il frutto dell'Eucaristia: la comunione di vita con Gesù Cristo, in una vicendevole "immanenza".
Ma occorre comprendere esattamente che cosa significhi "mangiare" il corpo e "bere" il sangue di Cristo. Con questo atto non viene materialmente divorata la carne del Signore e consumato il suo sangue. E infatti meno appropriatamente, nella professione di fede prescritta nel 1059 a Berengario di Tours, si parlava del corpo di Cristo che "veramente e sensibilmente, e non solo sacramentalmente, viene toccato e spezzato dalle mani del sacerdote, e masticato dai denti dei fedeli". Tommaso d'Aquino chiarirà che Cristo è realmente presente nell'Eucaristia, ma nella modalità della "sostanza" (Summa Theologiae, iii, 75, 1, c; 76, 1, 3m). Cristo - egli scrive - è presente "spiritualmente" cioè "invisibilmente e in virtù dello Spirito" e "viene mangiato con una modalità spirituale e divina" (Super Ioannem, vi, viii, iv, n. 992).
Nel contesto eucaristico il "mangiare" e il "bere" assumono, di conseguenza, un'accezione affatto unica e singolare: significano, cioè, una comunione "spirituale", intendendo "spirituale" non come alternativo ma inclusivo del sacramento, che veramente contiene il Corpo e il Sangue del Signore. La conseguenza è evidente: solo una comunione in questo senso "spirituale" è destinata a "riuscire", mentre una comunione solamente "materiale", o "carnale", per quanto spesso ripetuta, non può essere efficace.
Va però anzitutto rilevato che il principio di questa comunione è l'amore offerto da Cristo, ossia il dono che egli fa della propria vita, proseguendo la "tradizione" della Croce. "Nel sacramento - insegna ancora Tommaso - mediante la verità del suo corpo e del suo sangue, egli ci congiunge a sé" (Summa Theologiae, iii, 75, 1, c). Ecco perché, sempre secondo l'Angelico, l'Eucaristia appare "il segno della più grande carità" e dell'"unione più familiare" di Cristo con noi (ibidem), col risultato di una adesione di vita: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue - sono le parole di Gesù, già sopra citate - rimane in me e io in lui. Colui che mangia di me, vivrà per me".
Ma, proprio perché comunione "spirituale", occorre in chi riceve l'Eucaristia la corrispondenza della fede e della carità, che, per l'opera dello Spirito Santo, dispongono il credente a ricevere il dono che Cristo fa della sua vita e della vita del Padre suo. Se manca questa adesione e accoglienza intima, il sacramento è destinato a non riuscire. L'indifferenza e la diffidenza rendono vana e inefficace la pura manducazione "carnale" del Corpo di Gesù.
San Tommaso insiste sulla necessità che la comunione sacramentale si risolva in comunione spirituale. Ci sono, infatti, due modi di ricevere il corpo e il sangue di Cristo, l'uno puramente sacramentale, l'altro anche spirituale. Col primo si riceve "solo il sacramento, senza il suo effetto"; col secondo si assume il sacramento e la sua realtà profonda, la sua res: allora abbiamo la "manducazione spirituale nella quale si percepisce l'effetto di questo sacramento, consistente nell'unione con Cristo attraverso la fede e la carità" (ibidem, iii, 80, 1, c). Diversamente, avremmo una comunione imperfetta e incompiuta: l'intenzione del sacramento resterebbe come innaturalmente monca e sospesa.
D'altra parte, quest'ultima è possibile anche attraverso il suo desiderio: "Ci sono alcuni - dichiara ancora Tommaso - che mangiano questo sacramento spiritualmente, prima di assumerlo sacramentalmente". Avviene - e vale anche per il Battesimo - quando ci sia il desiderio di ricevere l'Eucaristia; anche già prima della sua istituzione era però possibile comunicarsi a essa spiritualmente, secondo la dottrina di Paolo (1 Corinzi, 10, 2) sui Padri che hanno mangiato il "cibo spirituale" e bevuto la "bevanda spirituale" (Summa Theologiae, iii, 80, 1, 3m).
Certo, il Dottore angelico ha un concetto forte di desiderio, ben altro che una vaga e superficiale aspirazione. Ecco perché può affermare: "Tutti sono tenuti a mangiare almeno spiritualmente, dal momento che questo significa essere incorporati a Cristo. Senza il voto di ricevere questo sacramento non ci può essere salvezza per l'uomo" (ibidem, 11, c).
Tommaso si chiede persino se gli angeli assumano spiritualmente questo sacramento e risponde che vi è una "manducazione spirituale" non mediata dal sacramento e dalla fede e consistente nell'unione con Cristo attraverso la carità perfetta e la sua visione immediata: e questa è la manducazione spirituale degli angeli, non la nostra: "noi un pane simile lo aspettiamo nella patria" (ibidem, 2, c). Ma se è vero che gli angeli spiritualmente mangiano Cristo la manducazione spirituale che loro compete non è quella che avviene col desiderio del sacramento, com'è per noi.
Senza dubbio "alla comunità del Corpo mistico appartengono sia gli uomini sia gli angeli", ma questi "nell'aperta visione", quelli invece "nella fede", "che vede la verità "come in uno specchio e in maniera confusa" e a cui sono consoni i sacramenti (ibidem, 2m). Dove c'è la visione non c'è la mediazione della fede e del sacramento e quindi una manducazione spirituale di Cristo che avvenga col desiderio dell'Eucaristia. Ma un'altra considerazione di Tommaso è particolarmente originale e illuminante, quella in cui attribuisce alla manducazione spirituale di Cristo fruita dagli angeli la funzione di modello rispetto alla nostra manducazione sacramentale. La comunione eucaristica sacramentale - egli osserva - è ordinata, come a fine, alla comunione celeste con Cristo, già goduta dagli angeli.
Ecco, allora, che "la manducazione di Cristo con la quale lo assumiamo in questo sacramento in certo modo deriva dalla manducazione di Cristo di cui beneficiano gli angeli in patria. Perciò si dice che l'uomo mangia "il pane degli angeli"" (ibidem, 3m): questo, infatti, anzitutto e originariamente, riguarda gli angeli, che ne fruiscono secondo il suo aspetto proprio; è invece derivatamente pane degli uomini, che ricevono Cristo nella forma del sacramento (ibidem, 2, 1m). Quaggiù gli uomini colgono la presenza di Cristo mediante la fede; gli angeli lo avvertono presente con la visione immediata (ibidem).
Un primo punto interessante di questa dottrina è la natura cristologica della beatitudine degli angeli e quindi la loro aspirazione a lui: anch'essi sono saziati e appagati dalla visione di Gesù Cristo. Cristo è il Pane di tutti. Non vi è felicità che possa prescindere da lui o desiderio che non ne sia l'aspirazione. Un secondo punto è il carattere transitorio del sacramento eucaristico, che contiene realmente il Corpo e il Sangue di Cristo, ma come in uno stato di provvisorietà e di precarietà, "fin che venga" (1 Corinzi, 11, 26), in attesa cioè che la realtà del Signore e la comunione con lui (res del sacramento), da celate divengano manifeste, convertendosi in esauriente visione.
(©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010)


Un lungimirante scritto del 1906 - Le carrube amare del socialismo reale - Anticipiamo un articolo che sarà pubblicato sul numero in uscita della rivista "La Nuova Europa". Si tratta di un'opera giovanile di Sergej Bulgakov, scritta nel 1906 e pubblicata prima della rivoluzione. Proprio perché, a ragione della giovane età, manca ancora all'autore lo spessore doloroso dell'esperienza, stupisce la lucidità con cui coglie l'origine della crisi incombente. - di Sergej Bulgakov - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Chi è abituato a considerare in modo riflessivo la realtà che lo circonda e a prestare ascolto all'autentica voce della vita, al suo sussurro segreto e intimo che di solito, all'orecchio distratto, viene coperto dal rumore e dal baccano della piazza, difficilmente troverà inattesa e discutibile l'affermazione che nell'esistenza spirituale dell'uomo moderno ormai da lungo tempo c'è qualcosa che non va, sta maturando una crisi che forse è presagio di una svolta brusca e imminente. Questa crisi è stata preparata da tutta la storia moderna. A partire dalla fine del Medioevo la vita spirituale dell'umanità, che ha operato prodigi mai visti storicamente nel campo della tecnica e della cultura materiale in genere, che ha sviluppato a un livello senza precedenti il sapere scientifico, in particolare le scienze esatte, che ha manifestato una creatività sociale su scala mai vista, che ha portato il pensiero filosofico a vette di acume e di finezza mai raggiunte prima, che ha creato un'arte poderosa in tutte le sue diverse ramificazioni, tutta questa vita spirituale si è sviluppata sotto il segno di un principio di vita laico, extrareligioso e persino antireligioso, ha affermato un principio esclusivamente umano, antidivino, ha coltivato i precetti di un umanesimo unilaterale o astratto. In questo senso, a tutta la cosiddetta era moderna andrebbe attribuito il nome che è stato dato a una sola delle sue epoche iniziali: il secolo dell'umanesimo nel senso puramente naturalistico, pagano, nel senso della rivolta di un'umanità divenuta consapevole delle proprie forze, contro la visione del mondo ascetica medievale, erroneamente confusa con il cristianesimo autentico, cioè universale, contro il clericalismo medievale dell'inquisizione, erroneamente scambiato per la Chiesa di Cristo. Per la nostra patria l'epoca dell'umanesimo arriva solo nel xix secolo, soprattutto nella sua seconda metà: in parte come naturale riflesso dell'umanesimo occidentale, in parte, invece, come inevitabile protesta contro il catechismo di Filaret, scambiato per una descrizione precisa ed esauriente della dottrina cristiana, e contro il clericalismo poliziesco alla Pobedonoscevz, confuso con la vera vita della Chiesa. L'umanità ha rotto con la tutela patriarcale e ha abbandonato per sempre le volte opprimenti, ancorché maestose, del gotico medievale. Il figlio prende la sua parte di eredità e lascia la casa del padre, parte per un "paese lontano", per vivere in libertà.
Ed ecco che la libertà è gustata, la maturità spirituale acquisita con l'esperienza è raggiunta, ma la parte di eredità portata via da casa già si sta esaurendo, comincia il tempo delle carrube amare e della fame spirituale, nel quale affiora involontariamente alla memoria la casa del padre abbandonata. Il figlio prodigo dei nostri giorni sta appena cominciando, in segreto, nel profondo dell'anima, a sospirare la patria che ha lasciato, e forse non è ancora vicino il tempo in cui compirà l'atto di rinuncia a se stesso, vincerà l'esasperata affermazione di sé e dirà: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di Te".
Ma già da ora è fuori dubbio che l'umanità odierna non si nutre spiritualmente delle ricche vivande che si aspettava, bensì di carrube amare e indigeste, che danno solo un'illusione di sazietà senza placare la fame. "Angoscia di popoli in ansia" (Luca, 25-26): questo, per ora, l'esito finale della cultura contemporanea, che si imprime invisibilmente nella vita intima, nel punto più profondo della coscienza di tutta l'umanità. Basti solo pensare ai valori supremi e ultimi che la nostra epoca compiaciuta di sé eppure smarrita continua a riconsiderare. Non sono forse carrube amare l'impotenza del pensiero filosofico contemporaneo, ridottosi a un formale lavoro scolastico; oppure l'inguaribile nevrastenia intellettuale e morale dei suoi rappresentanti più esigenti, come Nietzsche, con il suo adogmatismo scettico elevato a dogma, con l'amoralismo trasformato in sistema morale; o, infine, lo scetticismo leggero e baldanzoso in salsa estetico-religiosa di Renan, con un romanzo d'appendice al posto del Vangelo? Anche la scienza moderna ha acuito straordinariamente la vista spirituale dell'umanità su tutto ciò che riguarda la scorza esteriore dei fenomeni, tuttavia, non ha sollevato di un pollice il velo di Iside, che cela la natura dei fenomeni stessi. La tecnica odierna ha reso l'uomo uno splendido artigiano, ha perfezionato e affinato il suo strumento di lavoro, ma l'uomo che vive in questo artigiano resta, come prima, con la mano tesa. L'arte contemporanea, con tutta la ricchezza e lo sfarzo delle nuove forme della tecnica artistica, si abbassa sino al morto naturalismo o a una tendenziosità suicida; mistica per sua natura, l'arte soffre soprattutto per lo sradicamento religioso che caratterizza quest'epoca. Tutta la cultura contemporanea, cresciuta come un albero rigoglioso e possente, sta cominciando ad avvizzire e a sbiadire per mancanza di alimento mistico e religioso. È nei rapporti vicendevoli che l'uomo contemporaneo ha dovuto assaggiare la maggiore amarezza. L'epoca dell'umanesimo ha messo in campo i grandi precetti cristiani, l'antica eredità paterna: gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, ma li ha messi in campo come una sua creazione e una sua proprietà, strappando questo splendido fiore dal suo stelo d'origine. Per incarnare questo ideale ha mobilitato enormi forze sociali, raccogliendo tutta l'armata internazionale del socialismo, che sta ingaggiando con successo una giusta lotta per questi stessi ideali. Vengono create nuove forme, sempre più perfette, di comunicazione e di aggregazione esterna fra le persone; nella costruzione del socialismo, dalle mura si è arrivati al tetto e non è lontano il tempo in cui la vittoria dei suoi principi diventerà (e già lo sta diventando) un fatto compiuto, e il mondo capitalista crollerà, per lasciare il posto a quello socialista. Ma ecco affiorare alla coscienza dell'uomo una domanda fatale e terribile: i frutti di questa vittoria non saranno anch'essi solo delle carrube amare? La vittoria esteriore del socialismo creerà davvero la solidarietà tra gli uomini? Le persone saranno più vicine fra loro? Si instaurerà fra loro non solo l'uguaglianza ma la fraternità? Crescerà l'amore sulla terra? Saranno veramente uniti da un legame interiore più forte coloro che appartengono a una sola unione, a un solo partito, e che si assumono il compito di fare del bene all'umanità tramite riforme esteriori? Pensiamo che una risposta sincera e onesta a questa domanda non possa essere positiva. Non è il riavvicinamento fra persone, sia pure unite esteriormente, a caratterizzare la nostra epoca, bensì l'isolamento e la solitudine: una sorta di parete di vetro, trasparente ma percettibile, separa i cuori umani. Pur con tutta la solidarietà esteriore predomina la solitudine spirituale, non abbiamo la fraternità ma un individualismo micidiale, senza vie d'uscita, e non abbiamo l'uguaglianza basata sull'umiltà interiore delle singole persone, ma la presunzione e la volontà di potenza (Wille zur Macht!): questa è la vera situazione spirituale dell'umanità.


Con la crisi della secolarizzazione ritorna la teologia politica - Nuove maschere del superuomo - di Paolo Becchi - Università di Genova - ©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010
Una delle grandi narrazioni su cui si è fondato l'Occidente moderno è quella che è stata presentata esemplarmente da Max Weber come il processo di razionalizzazione e disincantamento del mondo. Questo modello di auto comprensione secolare della modernità ha comportato come risultato non solo il dissolversi della metafisica nelle scienze particolari, ma altresì la riduzione della religione, e più in generale dei valori e delle norme morali, alla sfera privata della coscienza individuale. Al positivismo scientistico orientato al paradigma di razionalità di una scienza neutrale rispetto ai valori, ha fatto così da pendant la perdita della dimensione pubblica della religione, ridotta, in modo analogo all'etica, a questione privata. Di contro alla razionalità tecnico-scientifica, le scelte etiche e religiose erano decisioni individuali, frutto di sentimenti personali, in ultima istanza irrazionali.
Da tempo l'etica cerca di affrancarsi da questo schema. Sia sufficiente qui richiamare i tentativi posti in essere da John Rawls con la sua teoria della giustizia, da Hans Jonas con il suo principio di responsabilità, per giungere sino all'etica del discorso di Karl-Otto Apel, dove massimo è lo sforzo per sviluppare una fondazione ultima razionale dell'etica. Questi tentativi di "stabilizzazione della filosofia pratica" (con la parziale eccezione di Jonas) si stagliano in un orizzonte privo di presupposti trascendenti. Il buon Dio sembrava così continuare ad aver esaurito la sua funzione e il paradigma weberiano a non essere revocato in dubbio almeno per quel che riguardava la religione. L'etica poteva pure diventare pubblica, ma la religione restava confinata alla sfera privata.
Il fatto incontrovertibile dell'irruzione della religiosità che, in forme diverse, sperimentiamo negli ultimi anni sulla scena pubblica, ha messo in crisi questo modo di pensare. Da questo nuovo fenomeno scaturisce quella che si potrebbe definire la "riabilitazione della teologia politica". Per molti questo significa un pericoloso ritorno al passato e addirittura un grosso rischio per la democrazia. A dire il vero, credo che altri siano i rischi per la democrazia, se è appena sufficiente che un'agenzia di rating americana alzi un po' la voce per mettere in ginocchio l'Unione degli Stati europei. Come che sia, non passa quasi giorno che sui giornali non appaia un appello a favore della ragione laica, dove si rispolverano in senso neoilluministico cianfrusaglie ideologiche del tutto inadeguate a cogliere la realtà che abbiamo di fronte.
La questione cruciale può essere così formulata: l'Occidente è minacciato da questo ritorno della teologia politica o non è piuttosto il paradigma della secolarizzazione che spinto all'estremo rischia di collassare? Proponiamo un tentativo, sia pure soltanto abbozzato, di risposta. Si vuol riempire l'assenza di Dio, o quantomeno il suo ritrarsi dalle vicende umane, trasferendo la sua (perduta) onnipotenza all'homo creator. Questo è l'ultimo ardito passo della secolarizzazione. La volontà umana diventa la controfigura di quella divina. La liberazione della libertà da ogni dipendenza esteriore che la modernità ha tenacemente perseguito si rivela, nella tarda modernità in cui stiamo vivendo, come il delirio di una libertà assoluta che genera i mostri di una volontà di potenza nei confronti non più soltanto della natura esterna, ma persino di quella interna, della natura umana.
L'affrancamento dalla trascendenza, l'assolutizzazione dell'immanente, sta avendo come paradossale conseguenza il rimpicciolimento dell'uomo: per dirla con Nietzsche, "l'uomo è finito su un piano inclinato e ormai va rotolando, sempre più rapidamente, lontano dal punto centrale". Da soggetto di dominio l'uomo è divenuto oggetto del dominio, strumento passivo e inerte di sperimentazioni tecniche sempre più raffinate e sconvolgenti. Questo è il programma dell'ingegneria genetica e dei suoi molti adulatori, ed è questo il rischio più grande del nostro tempo, quello che mette seriamente a repentaglio la sopravvivenza dell'uomo sulla terra.
Siamo tutti in rete, ma anche tutti intrappolati nella rete. Dappertutto e in nessun luogo, abbiamo già perso la cognizione dello spazio. E ora stiamo rischiando di perdere anche la cognizione del tempo. La specie umana sembra arrivata al capolinea della sua evoluzione e già si delinea all'orizzonte una nuova realtà: il post-umano, la creazione di una nuova specie mediante l'intervento diretto sul codice genetico di quella esistente.
È possibile contrastare questa folle corsa verso il nulla? L'etica e il diritto dimostrano, al riguardo, tutta la loro fragilità: con il "patriottismo costituzionale" possiamo soltanto fare degli impacchi a un malato di cancro. Di fronte al pericolo estremo, infatti, c'è bisogno di un antidoto più efficace. L'apertura alla trascendenza, un rimosso in fondo sempre presente, non può forse di nuovo ritornare a offrire una importante risorsa motivazionale? Come fondare l'indisponibilità dell'integrità umana, se non recuperando, al limite nella forma di una teologia negativa, quella categoria del sacro troppo frettolosamente data per spacciata? Prima di assurgere a soggetto con Cartesio, l'uomo non ha mai trovato in sé, nel fundamentum inconcussum della propria certezza di sé, la misura che lo costituisce: l'ha trovata soltanto nello spazio religioso. Per impedire, oggi, che il processo di assolutizzazione dell'uomo, il mito del superuomo, paradossalmente si rovesci nel suo totale annichilimento, occorre recuperare il senso religioso del limite, riscoprire il brivido del sacro, come orizzonte ultimo di senso.
E il senso del sacro, per l'occidente giudaico-cristiano, comincia con Dio che crea l'uomo "a sua immagine", dotandoci in questo modo di una dignitas trascendente, che ci colloca in una posizione speciale nella natura. Il richiamo a questo residuo punto religioso può essere la nostra salvezza. La razionalità da sola non basta, ha bisogno di nutrirsi di sostanze che non riesce a generare da sé. Hic Rhodus, hic saltus!
(©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010)


MESE MARIANO, LEZIONE DI UMANITÀ - DAVANTI ALLA MADRE SI TORNA A DOMANDARE - MARINA CORRADI – Avvenire, 30 maggio 2010
Finisce maggio, quello che una volta era il mese dei Rosari nelle corti della cascine, la sera. Delle processioni dietro alle Madonne di gesso, portate come in trionfo per le strade mentre la gente sulle soglie delle case si se­gnava. Solo memorie del passato? In un con vegno internazionale a Oropa e Crea si è par lato di Madonne nere: quelle icone dal volto negro diffusamente venerate, da Czestochowa a Montserrat. Ben 745 Madonne nere in Euro pa, o almeno quelle finora censite: una schie ra, una costellazione nascosta. Ma, e questa è la notizia che colpisce il profano, le Madonne non erano originariamente negre: lo sono di ventate per la lunga esposizione ai fumi delle candele e delle lampade votive. Quel colore bruno, è il deposito di secoli di devozione.

Un tempo rosee, le Madonne si sono andate scurendo nella umidità, nella polvere, nel fia to dei fedeli che andavano a implorarle, a ca rezzarle con la mano; nell’ardere tremolante delle fiamme dei ceri accesi a chiedere una guarigione, o il ritorno di un figlio dal fronte. Nere di preghiere le icone che secondo alcuni studiosi indicavano invece la commistione con antichi culti pagani, o esoterici. Macché, di cono gli esperti convenuti a Oropa e Crea: è sta ta una secolare, tenace devozione a imbruni re i volti antichi di una donna, e un bambino. E quando quelle immagini venivano copiate, magari per emigrare oltreoceano, venivano di pinte nere: perché quella era il volto stampa to nella memoria del popolo, che non poteva essere tradita.

È una notizia, la origine di quel colore nero, che commuove. Settecento Madonne nere, dalla Lettonia alla Spagna all’Irlanda; in Fran cia, numerosissime; più frequenti là dove la Rivoluzione non ha annientato ogni segno cri stiano (la mappa delle Madonne nere soprav vissute potrebbe raccontare una sua storia di Francia). E proprio l’ombra scura su quei vol ti testimonia il pellegrinaggio, una generazio ne dopo l’altra, di cristiani: il tenace ritorno al la madre. Quanti milioni di mani, di sguardi imploranti si sono posati su quelle Madonne? Nell’ombra dei loro volti, il distillato di una fe de popolare. Umile come una mano tesa di mendicante.

Già: umile. Da sempre la Madonna è cara ai cri stiani semplici, a quelli che non sanno di teo logia, che non si vantano di una fede 'raffina ta'. Ma vanno a domandare: una speranza, u na quiete nel dolore - una misericordia. ('Me­morare, o piissima Virgo Maria, a saecula non esse auditum quemquam ad tua currentem praesidia, tua implorantem auxilia, tua pe tentem suffragia esse derelictum', dice, e qua si intima, la preghiera di san Bernardo: ricor dati che non si è mai sentito che qualcuno che ha domandato il tuo aiuto sia stato abbando nato).

L’umiltà di secoli di domanda rappresi in una patina nera è un capitolo muto della nostra storia, una radice ignorata ma forte di questa Europa che delle sue radici dubita. Perché pro prio l’attitudine semplice del domandare - e non pretendere, manipolare, possedere - è ciò che oggi ci manca. Il disarmato domandare da figli - figli magari anche indegni, disonesti, bu giardi, e però fiduciosi in una madre - è un ge sto inammissibile, per chi non riconosce pa­dri. Non è, il domandare, roba da uomini - per chi del mondo si sente padrone.

E quindi non ci saranno più Madonne nere di fumo e di carezze. O forse sì: nei santuari, do ve sui muri allineano colonne di ex voto con scritto: grazie. Perché nel momento del dolo re, ancora, gli uomini 'raffinati' tornano sem plici, e vanno a domandare. Dal dolore ricon dotti a ciò che sono: figli. Ultimi di quelle schie­re infinite passate davanti alle Madonne nere d’Europa. Pezzo di un’altra storia, che sui libri di scuola non è raccontata.