Nella rassegna stampa di oggi:
1) Perché siamo contro la RU486 - Relazione di Mauro Ronco a Crotone il 21 maggio
2) Avvenire.it, 22 maggio 2010 - IL BIOLOGO - Colombo: «È un cambio di paradigma inquietante» - Enrico Negrotti
3) Avvenire.it, 22 Maggio 2010 - L’ogm «creato» da Venter - Hanno fatto un abile «puzzle» e lo chiamano nuova vita - Assuntina Morresi
4) Ottenuta in laboratorio una cellula con Dna artificiale - Un ottimo motore ma non è la vita - L'ingegneria genetica può fare del bene: si tratta di unire al coraggio la cautela - di Carlo Bellieni - L'Osservatore Romano - 22 maggio 2010
5) IL FUTURO DELLA RICERCA SCIENTIFICA SULLA SINDONE - Intervista a Bruno Barberis, presidente del Centro internazionale di sindonologia - di Chiara Santomiero
6) L’INFINITO MISTERO DELL’AMORE DI DIO - Michele Trotta racconta dell’educazione all’amore di un figlio disabile - di Antonio Gaspari
7) Spaemann, Robert - Natura e Ragione. Saggi di Antropologia - Autore: Rivolta, Guido Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - Edizioni Università della Santa Croce - Roma, 2006, pp. 115, Euro 12,00
8) PAPA: EMARGINAZIONE DELLA RELIGIONE E' NUOVO FONDAMENTALISMO - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 22 mag. – da http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/
9) CRISI: PAPA, LA POLITICA DEVE AVERE IL PRIMATO SULLA FINANZA - Salvatore Izzo
10) Avvenire.it, 22 maggio 2010 - EMERGENZA EDUCATIVA - Facebook e suicidi: ragazzi nel baratro - Francesco Dal Mas e Dino Frambati
11) «Aborto, una battaglia di laicità» - Roccella - Assemblea delle associazioni locali di «Scienza&Vita» Il sottosegretario: in arrivo « indicazioni» sulla pillola Ru486 - DA ROMA - GIANNI SANTAMARIA – Avvenire, 22 maggio 2010
12) Teresa Manganiello l’analfabeta sapiente - DA BENEVENTO VALERIA CHIANESE - Oggi a Benevento, durante il rito presieduto da Amato, verrà proclamata beata la terziaria francescana di Montefusco. Una vita spesa per i malati e i poveri – Avvenire, 22 maggio 2010
13) Inquisizione: ennesima leggenda nera sulla Chiesa che va confutata con i fatti. A quel tempo era necessaria per arginare le eresie. Molti santi furono inquisitori. Avrei più fiducia di un inquisitore che di un magistrato democratico di oggi - BrunoSanta dal sito
14) Santa Inquisizione: sfatiamo la "favola del Lupo Mannaro" ... Tipico argomento usato da atei e comunisti: e gli 80 milioni di morti causati dallo Stalinismo? - Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.) – dal sito Pontifex.roma.it
Perché siamo contro la RU486 - Relazione di Mauro Ronco a Crotone il 21 maggio
1. L’introduzione in Italia della pillola abortiva RU 486. -
Il 30 luglio del 2009, con voto a maggioranza, il Consiglio di Amministrazione dell’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) ha dato il via libera all’uso della pillola abortiva negli ospedali italiani a conclusione dell’iter burocratico di “mutuo riconoscimento” tra Paesi dell’Unione Europea.
Occorre una breve spiegazione sulla natura e gli effetti della pillola abortiva RU 486. Il nome scientifico della pillola è “Mifepristone”: uno steroide sintetico che blocca l’azione progestinica, intervenendo a livello endometriale e miometrale, capace di uccidere il feto che, a seguito della somministrazione di un’altra pillola contenente una prostaglandina, viene espulso dall’utero: altro non è che un ennesimo prodotto chimico abortivo.
La prima compressa assunta, entro la settima settimana di gravidanza, serve a creare nell’utero un diverso equilibrio ormonale, differente da quello gravidico, che instaura condizioni assolutamente incompatibili con la vita dell’embrione, che ne provocano con facilità la morte intrauterina, che avviene praticamente nello stesso giorno di assunzione del primo farmaco. La donna si accorge del riuscito effetto farmacologico, poiché sente scemare improvvisamente i segni di gravidanza. Dopo tre giorni occorre assumere un secondo ormone, che è necessario per strappare l’embrione dalla parete uterina, alla quale è ancorato con radici robuste e alla quale è fortemente attaccato anche se non più vitale. Essendo l’embrione morto, ma ancora incollato all’interno dell’utero, v’è il rischio che venga individuato e riconosciuto dal sistema immunitario come un «corpo estraneo» e che si mettano in funzione le difese atte all’eliminazione di ciò che deve essere espulso, con rischi infettivi ed emorragici. La seconda compressa viene quindi assunta a tre giorni dalla prima. Anche questa è a base di ormoni e serve a provocare forti crampi muscolari dell’utero, in modo tale che le continue e ripetute contrazioni dell’organo femminile favoriscano il distacco forzato dell’embrione dalla parete interna dell’utero e ne provochino finalmente l’espulsione attraverso la vagina.
Come ha scritto il prof. Angelo Fiori nell’editoriale del maggio 2009 di Medicina e Morale, la RU 486 “non è altro che l’ultima di una schiera di prodotti chimici abortivi che hanno tracciato una scia millenaria di sangue embrionale e materno... Come tutti gli abortivi chimici che l’hanno preceduta, appartiene all’area della tossicologia, cioè delle sostanze venefiche o farmaci impiegati in dosi e circostanze – la gravidanza – tali da agire con meccanismo tossico, generale e locale.” Osserva ulteriormente il prof. Fiori che il nuovo mezzo chimico non viene nobilitato in alcun modo per il fatto che, a differenza dei prodotti artigianali clandestini, fatti dalle sostanze inorganiche e organiche delle più varie specie (i composti del fosforo bianco, del mercurio, dell’arsenico, dell’apiolo estratto dai semi di prezzemolo, della ruta, di capelvenere, dello zafferano etc.), sia un veleno sintetico inventato e commercializzato da una nota industria chimica. Neppure la circostanza della sua fatturazione tecnologica “fornisce alcuna garanzia di innocuità nei confronti della madre e ciò per la sua natura di sostanza tossica, capace di uccidere l’embrione consentendo poi di espellerlo dall’utero a prezzo di sofferenze e rischi materni, persino mortali”. Alla stessa categoria degli abortivi chimici di produzione industriale, in cui va inserito il Mifepristone, appartiene il misoprostol (Cytotec), farmaco gastroprotettore con effetti abortivi, molto richiesto da donne gravide estranee ad ogni rete di supporto. Questo farmaco, ricorda ancora il prof. Fiori, è stato soprannominato «il ferro da calza del 2000» : oltre a poter agire da solo, è associabile alla RU 486, anche se l’AIFA ha suggerito che per espellere l’embrione si usi la prostaglandina denominata Gemeprost.
Il favore attribuito dai sostenitori dell’aborto alla RU 486 starebbe nel vantaggio, rispetto all’aborto chirurgico, della non invasività, concetto riservato abitualmente alle procedure chirurgiche. Va osservato, tuttavia, che l’assunzione di sostanze attive sul piano tossicologico, come azione primaria, quale la RU 486, rispondono al concetto più esteso di «invasività», “perché molte volte più aggressivi e dannosi che le stesse procedure cruente” (Fiori). Rispetto, poi, agli abortivi chimici artigianali, il vantaggio della RU 486, sta nella circostanza che esso è confezionato con dosi note del principio attivo. Tale vantaggio, ad avviso del prof. Fiori, è del tutto relativo, in relazione alla differente reattività e tolleranza individuale, da cui scaturiscono, a parità di dose, effetti collaterali di peculiare tossicità talora molto grave. La sperimentazione effettuata insegna che “l’azione tossica della pillola può provocare dolori intensi e protratti, il protrarsi dell’effetto sull’embrione per più di tre giorni e talora una azione incompleta, emorragie, la necessità di convertire la procedura in quella chirurgica, in qualche caso addirittura la morte, non diversamente da quanto è avvenuto tante volte a causa dell’assunzione degli abortivi chimici di produzione clandestina” (Fiori).
2. Gli eventi successivi all’approvazione del farmaco da parte dell’AIFA. –
La pillola abortiva non è stata immediatamente commercializzata per due ragioni associate tra loro. Si è ricordato prima che la pillola è un farmaco, nel senso di veleno. Il suo effetto è di uccidere l’embrione, non di curare. Sono noti gli effetti collaterali di carattere tossico e l’assenza di finalità terapeutica. La sperimentazione ha evidenziato gli eventi avversi che possono conseguire all’uso del Mifepristone, classificabili in a) eventi avversi per somministrazioni a lungo termine; b) eventi avversi nell’induzione dell’aborto in fase precoce di gravidanza; c) eventi avversi nell’induzione dell’aborto in fase avanzata di gravidanza; d) eventi avversi nella contraccezione di emergenza. Gli eventi avversi della seconda categoria, che riguardano specificamente la RU 486 furono analizzati in uno studio realizzato su 16.173 donne che avevano assunto la combinazione Mifepristone + prostaglandine: tali eventi avversi coinvolsero l’8,5% delle donne. Ciò ha fatto sì che l’AIFA nella Guida all’uso dei farmaci dell’11 novembre 2006, abbia richiamato l’attenzione su alcuni aspetti circa l’uso del Mifepristone, quali evitare la sua somministrazione in donne affette da asma grave, disturbi emorragici e in corso di terapia anticoagulante; in sospetta gravidanza extrauterina; nell’insufficienza surrenalica cronica; nella porfiria. Viene raccomandata la profilassi antibiotica per la prevenzione dell’endocardite in pazienti con valvulopatie, difetti del setto, dotto arterioso pervio, protesi valvolare o storia di endocardite. Se ne sconsiglia la somministrazione alle fumatrici di età superiore ai 35 anni, per il rischio maggiore di eventi cardiovascolari. Il Mifepristone è controindicato nei casi di insufficienza epatica e renale. Viene, inoltre, richiesto di evitare la concomitante somministrazione di aspirina e farmaci antinfiammatori non steroidi.
Per tutte le controindicazioni e i rischi collegabili alla somministrazione, la pillola RU 486, non può non essere somministrata sotto prescrizione e attento controllo medico. A questa prima stringente ragione di cautela nell’uso del veleno si aggiunge una seconda ragione, di carattere strettamente giuridico, di grave perplessità in ordine alla compatibilità della pillola con la legge 194/1978, alla stregua della quale la pratica abortiva non può essere praticata se non in una struttura medica pubblica, secondo una procedura che vorrebbe, sia pure in modo assolutamente inadeguato, ricondurre la scelta abortiva a una sorta di extrema ratio. Inoltre, in una prospettiva più generale, la stessa legge 194/1978 proclama che l’interruzione volontaria della gravidanza “ non è mezzo per il controllo delle nascite” (art. 1, comma 2, Legge 25.2.1978 n. 194). In questa prospettiva è evidente come la pillola abortiva si collochi in una linea che vuole estendere il concetto di contraccezione anche alla fase successiva alla fecondazione, equiparando l’aborto precoce alla contraccezione vera e propria.
Sulla base di queste due gravi ragioni, una di carattere medico, l’altra di carattere giuridico, il Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, rilevate le possibili violazioni della legge n. 194/1978, conseguenti ad una commercializzazione «selvaggia» della pillola abortiva, richiese in data 31 luglio al Consiglio di Amministrazione dell’AIFA di dare garanzie certe in ordine alle modalità di somministrazione del veleno, indicando “nel dettaglio le modalità con cui garantire il pieno rispetto della legge 194, la quale impone il ricovero in una struttura sanitaria” sino ad aborto avvenuto. Il 23 settembre successivo la Commissione Sanità del Senato ha deliberato di avviare una indagine conoscitiva sulla RU 486, le sue caratteristiche e il suo uso in Italia, che era stato sperimentale a partire dal 2005. I lavori della Commissione si sono conclusi il 26 novembre 2009 con una relazione che chiedeva all’AIFA il massimo rigore nelle modalità di somministrazione della pillola, chiedendo alla stessa di modificare la delibera di luglio e precisando che il ricovero in ospedale era da intendersi «ordinario» ovvero senza scorciatoie di day hospital e di dimissioni immediate. Nello stesso senso si espresse il Ministro del Welfare, comunicando all’AIFA che “se non si riscontrerà la effettiva, diffusa, pratica del ricovero ospedaliero ordinario per le persone sottoposte ad aborto farmacologico, si evidenzierà una manifesta incompatibilità con la legge 194, di cui dovrebbero prendere atto Parlamento e Commissione Europea per le decisioni conseguenti”(Lettera del Ministro Sacconi all’AIFA del 27 novembre 2009). In data 9 dicembre 2009 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la delibera dell’AIFA che ha autorizzato l’immissione in commercio della pillola RU 486, prescrivendo che essa possa essere somministrata solo in ospedale e che la donna dovrà rimanere ricoverata “dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento”.
Un breve commento va fatto agli eventi sopra menzionati. Il Ministro e la Commissione Sanità del Senato (con i voti del PDL e della Lega [13] e quelli contrari del PD [8]) hanno fatto sì che l’AIFA delimitasse l’uso della pillola abortiva in ambito ospedaliero e sotto controllo medico, nel rispetto della legge 194/1978. L’intervento del Governo e del Senato, che hanno preteso il rispetto della 194, sono stati bollati in questo modo dagli esponenti dell’opposizione: “La furia oscurantista della maggioranza blocca la commercializzazione di un medicinale già utilizzato da milioni di donne, da molti anni” (Livia Turco, Capogruppo PD in Commissione Affari Sociali della Camera); “Un autentico colpo di mano. E’ assolutamente indecente, una scelta oscurantista che fa fare salti indietro rispetto ai Paesi più evoluti, nei quali viene già somministrata da anni senza battaglie che nascondono altri sconci baratti” (Felice Belisario, IDV).
Pretendere il rispetto della legge 194 che, si badi, ammette l’aborto e non lo vieta, sarebbe, per questi esponenti politici, un colpo di mano e una vergogna oscurantista!
Il problema si è attualmente spostato a livello applicativo sotto la responsabilità degli Assessorati alla Sanità delle varie Regioni. Di contro al comportamento di Governatori, in particolare i Governatori del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, che hanno preannunciato di non consentire deroghe e ampliamenti nella pratica abortiva chimica, vi sono altri Governatori, sostenuti da un forte battage mediatico, che intendono travolgere i limiti posti dall’AIFA alla commercializzazione della pillola abortiva.
Per coloro che sono contrari radicalmente all’aborto e che ritengono ingiusta la legge 194/1978 – come è il caso di colui che vi parla – le considerazioni sopra svolte non debbono indurre a equivoci come sarebbe se valessero a trarre la conclusione che l’ordinamento del Paese potrebbe sopportare la 194 purché essa fosse correttamente e appropriatamente applicata. Occorre evitare che la battaglia contro la RU 486 possa finire, paradossalmente, con convalidare la legge abortista, facendo perdere di vista l’obiettivo principale volto a abrogare la legge ingiusta, poiché l’interruzione volontaria della gravidanza è una pratica eticamente e giuridicamente inaccettabile, qualunque ne siano le modalità di attuazione. Su questa linea, anche se con qualche ambiguità, si è posta la Camera dei Deputati nella mozione, approvata a maggioranza, del 15 luglio 2009, che impegna il Governo italiano “a promuovere una risoluzione delle Nazioni Unite che condanni l’uso dell’aborto come strumento di controllo demografico ed affermi il diritto di ogni donna a non essere costretta o indotta ad abortire favorendo politiche che aiutino a rimuovere le cause economiche e sociali dell’aborto”.
Deve essere chiaro, pertanto, che obiettivo centrale rimane la difesa e la promozione della vita, nella assoluta contrarietà ad ogni legislazione abortista. L’opposizione alla pillola RU 486 deve iscriversi in questo progetto globale a sostegno della vita e contro l’aborto. Non è tuttavia irrilevante, nonché è moralmente doveroso, contribuire a limitare gli effetti negativi e devastanti, con la moltiplicazioni degli aborti, ricollegabili alla «banalizzazione» di questo fatto, conseguenti alla commercializzazione e all’uso della pillola abortiva, esterno alla struttura sanitaria, nonché contribuire a evitare i rischi e i danni alla salute fisica e psichica delle donne che intendessero usasre i veleni chimici al di fuori di ogni controllo medico. L’insegnamento del Magistero della Chiesa ha precisato, in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, emanato quando il Prefetto ne era il Cardinale Joseph Ratzinger, che non soltanto è lecito, bensì anche doveroso, per coloro che hanno responsabilità politiche e sociali in ordine al tenore delle norme giuridiche, limitare la portata delle leggi ingiuste, diminuendone gli effetti contrari alla morale e al diritto, purché sia chiaro sempre, nella opera di proposizione o di approvazione legislativa, la loro contrarietà al principio ingiusto contenuto nella legge la cui portata si intende limitare.
3. Il significato etico e giuridico ricollegabile alla nuova modalità abortiva. –
Si è precedentemente fatto riferimento al rischio di «banalizzazione» dell’aborto, che scaturisce dalla entrata in uso della RU 486. Il termine esprime in modo inadeguato un processo sovversivo che vuole fare dell’interruzione della gravidanza un mezzo contraccettivo, oscurandone progressivamente l’illiceità etica e giuridica e diffondendone pandemicamente la pratica nella società.
La RU-486 e le varie forme di contraccezione di emergenza (attraverso l’assunzione di ormoni o l’applicazione di dispositivo intrauterino al fine di prevenire gravidanze non desiderate, entro 70/120 ore dal rapporto «non protetto», o «non sufficientemente protetto» per sospetto fallimento di una metodica contraccettiva) implicano tutta una serie di problemi antropologici ed etici estremamente complessi.
La parola contraccezione, importata dalla lingua inglese, è definita dall’intervento dell’uomo «contro la concezione» e consiste nell’impedire che un atto sessuale liberamente compiuto sia fecondo, interferendo in vario modo con la naturale fecondità dell’uomo e della donna. Con la «contraccezione d’emergenza» si intende, pur utilizzandosi maliziosamente lo stesso termine, qualcosa di radicalmente diverso dalla contraccezione vera e propria, cioè l’interferenza con lo sviluppo di una vita già concepita attraverso diversi meccanismi, agenti, a seconda della procedura, sulla motilità tubarica, sull’ambiente endometriale, sul corpo luteo.
A questo scopo si è spostato in avanti il momento iniziale della gravidanza, che inizierebbe non con la fertilizzazione, bensì con l’impianto nell’utero dell’uovo fecondato. In questo modo si viene ad escludere dalla gravidanza almeno la prima settimana successiva alla fecondazione, o i primi 14 giorni. Questo slittamento nel concetto di gravidanza, senza che nuovi dati embriologici o ginecologici abbiano mutato sostanzialmente le conoscenze scientifiche, avrebbe la sua origine concettuale, secondo uno studio delle dottoresse Di Pietro e Minacori , nelle procedure di fecondazione artificiale, che hanno diffuso l’idea che la gravidanza inizierebbe solo con il trasferimento dell’embrione nelle vie genitali della donna in prossimità del tempo dell’annidamento. Da qui sarebbe scaturita la teoria, di natura antropologica, detta dell’annidamento, per cui l’esistenza umana dell’embrione inizierebbe soltanto quando esso, attraverso, appunto, l’annidamento, contrae un contatto con l’organismo materno.
Gli effetti derivanti dalle procedure di fecondazione artificiale sullo statuto dell’embrione sono evidenti: l’embrione sarebbe una cosa, passibile di ogni intervento, eliminativo o sperimentativo, fino a che non avvenga il suo inserimento nel corpo della madre. Se l’embrione, fino a quel momento, è una cosa, la sua eliminazione non costituisce un aborto e può essere definita «contraccezione d’emergenza». Per la sua pratica non occorre passare attraverso le maglie previste per l’aborto dalla normativa della legge 194. Si è così proceduto a distinguere, senza che l’embriologia e la scienza lo consentano, tra un pre-embrione, o embrione precoce, o embrione pre-impiantatorio, che sarebbe un oggetto biologico suscettibile di manipolazione e/o distruzione ad libitum, e l’embrione vero e proprio, nel quale, invece, sarebbero riconoscibili le caratteristiche di un individuo della specie umana.
Dal punto di vista scientifico la distinzione non è fondata. Riprendendo le espressioni di Maurizio P. Faggioni, deve dirsi che: “l’embrione precoce non è solo una forma di vita biologicamente umana, ma è una forma di vita umana individuale, è un individuo della specie umana in cui si manifesta una immanente capacità auto-organizzativa e in cui si vede agire una tensione intrinseca a conseguire autonomamente stadi di sviluppo sempre più compiuti” . Tuttavia, pur priva di ogni scientificità, tale distinzione va affermandosi nelle definizioni degli studiosi di etica e nelle proposizioni normative dei legislatori.
A questa impostazione si contrappone il Magistero della Chiesa, che insegna l’individuazione iniziale dell’embrione, come si legge in Donum vitae, che riprende la dichiarazione sull’aborto procurato: “Questa Congregazione (per la Dottrina della Fede) conosce le discussioni attuali sull’inizio della vita umana, sull’individualità dell’essere umano e sull’identità della persona umana. Essa richiama gli insegnamenti contenuti nella Dichiarazione sull’aborto procurato: “Dal momento in cui l’ovulo è fecondato si inaugura una nuova vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato che dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo-individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l’avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle sue grandi capacità richiede tempo per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire” .
Tenendo conto di questo processo e, in particolare, dello sforzo di rendere disponibile l’embrione, considerandolo come cosa, almeno fino all’annidamento, si comprende il significato antropologico che rischia di acquisire la generalizzazione dell’aborto per via chimica. Esso, nella impostazione di coloro che lo diffondono, non andrebbe più considerato come aborto, ma come contraccezione tardiva, equiparabile alla «contraccezione di emergenza». L’embrione sarebbe una cosa totalmente manipolabile e distruggibile non soltanto fino all’impianto, ma almeno fino al momento in cui esso acquisisce le funzioni neurologiche tipiche della specie umana. Questa graduale acquisizione di personalità si rifletterebbe in una graduale, e non immediata, acquisizione di diritti. Secondo D. Parfit in Ragioni e persone: “L’ovulo fecondato non è un essere umano e una persona fin dall’inizio, ma lo diventa lentamente...la distruzione di questo organismo all’inizio non è moralmente sbagliata, ma a poco a poco lo diventa” .
Dunque, la distruzione dell’embrione fino alla nona settimana (l’AIFA ha limitato l’uso della RU-486 alla fine della settima settimana) non sarebbe un aborto vero e proprio; la sua espulsione potrebbe avvenire senza controllo medico, al di fuori di una struttura ospedalizzata, per iniziativa esclusiva della donna. Quest’ultima assumerebbe la pillola come un contraccettivo; con ciò si eviterebbe ogni medicalizzazione e ogni auto-colpevolizzazione, in quanto l’aborto sarebbe assimilato a un normale contraccettivo. Il significato della espressione utilizzata in precedenza: «banalizzazione» ha una portata non soltanto psicologica, ma antropologica. L’aborto viene «banalizzato» non tanto perché venga ritenuto un evento psicologicamente trascurabile, quanto perché non dovrebbe essere ritenuto come distruzione della vita umana, bensì come un semplice impedimento contraccettivo a che la vita venga in essere.
Le conseguenze pratiche di una tale concezione sono difficilmente prospettabili in tutta la loro portata devastante. La distruzione della vita prenatale sarebbe eticamente indifferente e giuridicamente consentita perché non si tratterebbe di una vita veramente umana. Le posizioni radicali di coloro che, come P. Singer, svuotano di significato la categoria di persona, in quanto ritengono che sussista un soggetto meritevole di rispetto e di tutela soltanto quando esso abbia la possibilità di sentire piacere e/o dolore, sostenendo conseguentemente i diritti degli animali adulti, in quanto senzienti, ma li negano agli embrioni umani, in quanto non ancora provvisti del sistema nervoso centrale, trovano così accoglimento.
L’assimilazione dell’aborto chimico precoce alla contraccezione è la conseguenza coerente di una concezione che nega l’esistenza di una vita umana individuale meritevole di tutela e di protezione all’embrione umano .
In questa prospettiva si comprende, oltre alla necessità stringente di compiere una battaglia per l’obiettivo pieno della tutela della vita contro ogni legge di aborto, anche l’opportunità delle normative restrittive dell’aborto chimico, che ne impongono la pratica all’interno della struttura ospedaliera.
Occorre operare contro ogni logica funzionalista che si muova all’interno di uno scenario di violenza, che fa ritenere «giusto» che il più forte prevalga sul più debole. Richiamando l’insegnamento del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande, nella Lettera enciclica Evangelium vitae, va detto che nella logica funzionalistica e nella filosofia sensista: “...non c’è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. E’ quindi la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l’esatto contrario di quanto ha voluto storicamente lo stato di diritto, come comunità nella quale alle ragioni della forza si sostituisce la forza della ragione” .
In definitiva, la battaglia contro la RU-486, contro la sua commercializzazione e il suo uso, nonché, anche contro il suo uso indiscriminato, al di fuori di una struttura medica, va affrontata nel quadro grande, come ci insegna il Magistero della Chiesa, caratterizzato dalla promozione di una cultura della vita diametralmente in contrasto con la falsa «cultura» della morte, che pervade purtroppo una larga parte della scienza della politica contemporanea.
prof. Mauro Ronco
Avvenire.it, 22 maggio 2010 - IL BIOLOGO - Colombo: «È un cambio di paradigma inquietante» - Enrico Negrotti
«Siamo di fronte a un nuovo paradigma della biologia, che non si limita a conoscere o a sfruttare la natura, ma che passa alla logica della manipolazione totale per essere padrona di una vita costruita dall’uomo in modo artificiale». Don Roberto Colombo, docente di neurobiologie e genetica all’Università Cattolica e membro del Comitato nazionale per la bioetica, non fatica a riconoscere la singolarità dell’esperimento realizzato dall’équipe di Craig Venter, ma pone alcuni interrogativi sui possibili sviluppi di questa tecnologia: «Da un lato va ricordato che è ancora lunga la strada per produrre cellule più complesse di quella del batterio, dall’altro che i possibili utilizzi di questi nuovi organismi pongono nuovi problemi di biosicurezza».
In che misura la scoperta di Venter è «vita artificiale»?
I batteri sono organismi unicellulari che si formano per divisione di una cellula preesistente: si generano come cloni, non attraverso la riproduzione sessuata propria degli organismi più complessi, che possiedono una maggiore varietà per le combinazioni dei geni dei genitori. Il gruppo di Venter ha sostituito il genoma originale di una cellula batterica con uno sintetico, costruito assemblando sequenze di cromosomi diversi. E la nuova «macchina» sembra funzionare, nel senso che si è mostrata in grado di dividersi e quindi di riprodursi. La «scatola» è la membrana del Mycoplasma (batterio parassita di minime dimensioni), in cui è stato sostituito completamente il «motore» molecolare.
Gli obiettivi di questa attività riguardano la ricerca di base o le applicazioni pratiche? E quali?
Da un punto di vista teorico può essere interessante creare modelli cellulari semplici per individuare le condizioni minime, indispensabili per la sussistenza della vita. Dal punto di vista applicativo, si parla di creare «macchine biologiche» che possono avere compiti particolari: per esempio, «cellule spazzine» in grado di trasformare agenti inquinanti in materiali biodegradabili. Oppure produrre materiali biologici con caratteristiche diverse da quelle naturali. Mentre l’ingegneria genetica fa produrre proteine composte solo dai venti amminoacidi noti, ora si può immaginare di dare forma a proteine con proprietà diverse e preordinate a funzioni particolari.
Con le cellule spazzine, per esempio, potrebbero sorgere problemi di biosicurezza analoghi a quelli che qualcuno paventa per gli Ogm?
Questo resta un interrogativo aperto. Non si tratta infatti di organismi modificati solo in una loro proprietà, come gli Ogm, ma del tutto nuovi. Non si può prevedere come si comporterebbero nell’ambiente, né se, fondendosi con batteri naturali, potrebbero causare danni ecologici e pericoli per la salute dell’uomo.
Sono stati già ipotizzati sviluppi più ambiziosi, su cellule di organismi superiori. È vicino questo traguardo?
Direi di no. Con la biologia sintetica si punta alla progettazione di «processi biosintetici» nuovi per una cellula per farle produrre quello che si vuole. Ma la strada è ancora lunga. E a maggior ragione è lontano il pensare di agire su una cellula eucariote (come quella dell’uomo, degli animali o dei vegetali), ben più complessa di quella di un batterio (cellula procariote).
Si è parlato spesso in questi anni del «giocare a fare Dio». Questa scoperta è un passo in questa direzione?
Sicuramente assistiamo a una sorta di scivolamento nella concezione della biologia. Il paradigma culturale che è già passato da quello della conoscenza dei fenomeni della natura a quello dello sfruttamento della natura attraverso le biotecnologie che lavorano sulle proprietà degli organismi esistenti, si orienta ora verso una manipolazione totale, obiettivo della biologia sintetica. Si producono organismi viventi inediti, utilizzando patrimoni informazionali costruiti al computer, dando il via a forme di vita prima non esistenti. È un paradigma nuovo, un po’ inquietante. Quanto al significato che tutto questo ha per la comprensione del «fenomeno vita», è già noto da tempo che i processi biologici sono regolati dal Dna. Affermare invece che non esiste nulla oltre la chimica e la biologia, mi pare una affermazione presuntuosa e non scientifica.
Enrico Negrotti
Avvenire.it, 22 Maggio 2010 - L’ogm «creato» da Venter - Hanno fatto un abile «puzzle» e lo chiamano nuova vita - Assuntina Morresi
Non è una sfida a Dio l’ultimo risultato ottenuto da Craig Venter e dalla sua équipe, ma una sofisticata operazione tecnologica, un "copia, incolla e metti la firma": non è una creazione dal nulla, piuttosto sono state sapientemente assemblate sequenze di Dna già esistenti in natura, e riprodotte in laboratorio, insieme a qualche sequenza disegnata per "marcare" il genoma ottenuto e distinguerlo dall’originale naturale, una specie di "firma" degli scienziati inserita nel Dna stesso. Il Dna così prodotto in laboratorio è stato poi sostituito a quello di una cellula naturale, che è stata in grado di replicarsi grazie al nuovo patrimonio genetico, cioè seguendo gli "ordini" del Dna sintetico.
Per produrre il genoma in laboratorio non sono stati utilizzati nuovi aminoacidi. I "mattoni" con cui è stato costruito questo Dna sono quelli di sempre, e quindi parlare di «creazione di una nuova vita artificiale» è quanto meno ambiguo, visto che il cromosoma è copiato da quello naturale, e che anche la cellula che ha ospitato il Dna è naturale. D’altra parte ogni organismo geneticamente modificato può essere considerato una «nuova vita artificiale» che si affaccia sul pianeta, con un patrimonio genetico diverso da quelli già esistenti.
In altre parole, i ricercatori del gruppo di Venter hanno composto con grande abilità un enorme puzzle, utilizzando i pezzi già messi a disposizione dalla natura, per realizzare un disegno pressoché identico a quello già tracciato naturalmente. Non sappiamo ancora a quali risultati porterà la nuova procedura tecnica messa a punto: la produzione di biocarburanti piuttosto che importanti applicazioni biomediche. Lo vedremo nel tempo. Per ora, i problemi che pone sono analoghi a quelli di ogni ogm: la valutazione dell’eventuale impatto con l’ambiente naturale, le possibili ripercussioni sulla regolamentazione dei brevetti e sul mercato biotecnologico.
Nell’articolo scientifico pubblicato è evidente la profonda capacità manipolatoria raggiunta dagli scienziati, che li fa parlare addirittura di "design" di cromosomi sintetici, e che indica la necessità di una vigilanza molto attenta per il futuro. La stessa richiesta del capo della Casa Bianca Barack Obama alla Commissione bioetica presidenziale di approfondire le questioni sollevate dall’esperimento è un segnale in tal senso. Ma ad inquietare per ora non è tanto l’esperimento in sé, quanto i toni con cui se ne parla.
È ben noto che Craig Venter è innanzitutto un bravissimo imprenditore di se stesso: sono già stati annunciati per i prossimi giorni documentari in anteprima mondiale su questo studio, a dimostrazione dell’accuratissima preparazione mediatica del lancio della notizia, organizzata su scala planetaria. Una sapiente e spregiudicata strategia di marketing industriale per un mercato enorme come quello che gira intorno alle biotecnologie, nel quale troppo spesso ad annunci trionfali non seguono i risultati promessi.
Fa riflettere, poi, l’enfasi con cui la notizia è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i giornali, con evocazioni di immagini bibliche, tipo «assaggiare il frutto dell’albero della vita», o «l’uomo ha creato la vita», o con affermazioni come «progettare una biologia che faccia quel che vogliamo noi», e potremmo continuare con le citazioni.
Che la sfida della conoscenza debba sempre essere presentata come mettersi in arrogante gara con Dio, non rende ragione alla scienza stessa. Il mestiere dello scienziato è quello di cercare di comprendere sempre più a fondo la struttura intima della materia e della vita, ed è frutto di intelligenza – quella stessa che ieri il cardinal Bagnasco ci ha ricordato essere «dono di Dio» – , curiosità e, soprattutto, di umiltà. Significa essere consapevoli di stare di fronte ad un mistero che mentre si fa esplorare ci suggerisce nuove domande, altre questioni da affrontare e conoscenze da mettere a fuoco. Un mistero che svelandosi si mostra infinito.
Assuntina Morresi
Ottenuta in laboratorio una cellula con Dna artificiale - Un ottimo motore ma non è la vita - L'ingegneria genetica può fare del bene: si tratta di unire al coraggio la cautela - di Carlo Bellieni - L'Osservatore Romano - 22 maggio 2010
La rivista "Science" riporta una importante ricerca sulla creazione in laboratorio di un Dna batterico. Già nel 2002 degli scienziati avevano sintetizzato in laboratorio il genoma del virus della poliomielite; il lavoro di Craig Venter e del suo team, autori dello studio, è certamente più raffinato a quanto si apprende anche dal "New York Times": ha sintetizzato in laboratorio un genoma cento volte più lungo.
La bravura è stata non solo nella mole del prodotto, ma nella capacità di ottenerlo a copia di quello di un batterio pericoloso per le capre, con l'accortezza di eliminare 14 geni che lo rendevano patogeno, e di inserirlo in una cellula di un batterio al posto del Dna del batterio stesso.
È insomma un lavoro di ingegneria genetica di alto livello, un passo oltre la sostituzione di parti del Dna. Ma in realtà non si è creata la vita, se ne è sostituito uno dei motori. Come scrive sul "New York Times" il genetista David Baltimore del California Institute of Technology: "Non hanno creato la vita: l'hanno solo copiata". E aggiunge il bioingegnere Jim Collins: "Questo non rappresenta la creazione di vita da zero".
Al di là dei proclami e dei titoli di giornale è stato ottenuto un risultato interessante, che può trovare applicazioni e che deve avere delle regole, come tutte le cose che toccano il cuore della vita. L'ingegneria genetica può fare del bene, basti pensare alle possibilità di curare malattie cromosomiche. Si tratta di unire al coraggio la cautela: le azioni sul genoma possono - si spera - curare, ma vanno a toccare un terreno fragilissimo in cui l'ambiente e la manipolazione giocano un ruolo che non deve essere sottovalutato: il Dna non è il motore cui si sostituisce il pistone, ma una parte di un essere vivente su cui stimoli inopportuni, magari fatti a fin di bene, possono "spegnere" dei geni in maniera inaspettata, secondo le regole dell'epigenetica. Molti sono infatti preoccupati per i possibili sviluppi futuri di organismi geneticamente modificati.
Si può ricostruire il Dna, e questo non ci stupisce, e al tempo stesso si deve considerare che il Dna non è che uno dei "motori" della vita, in primo luogo perché il Dna negli animali non si trova solo nel nucleo ma anche in altre strutture dette mitocondri, poi perché esiste un sistema proteico di controllo e regolazione dell'espressione del Dna. Inoltre il Dna interagisce con l'ambiente e dunque non è un film che si legge sempre nello stesso modo, ma "parla" in modo diverso a seconda degli stimoli che gli arrivano; questo per limitarci ad alcuni aspetti biologici.
Il peso del Dna insomma è grande e grandi sono le aspettative nella scienza genetica. Tuttavia, il Dna pur essendo un ottimo motore, non è la vita.
(©L'Osservatore Romano - 22 maggio 2010)
IL FUTURO DELLA RICERCA SCIENTIFICA SULLA SINDONE - Intervista a Bruno Barberis, presidente del Centro internazionale di sindonologia - di Chiara Santomiero
ROMA, venerdì, 21 maggio 2010 (ZENIT.org).- Domenica prossima, 23 maggio, si concluderà la Solenne Ostensione della Sindone 2010 che ha visto confluire a Torino circa 2 milioni di visitatori. La teca contenente la Sindone tornerà al suo posto nella cappella del Guarini di Palazzo reale, insieme ai molti interrogativi che circondano “l’oggetto più misterioso del mondo”, come è stato definito.
Quali sono i risultati scientifici che si possono considerare definitivi relativamente alla Sindone? E quali gli aspetti ancora da indagare? ZENIT lo ha chiesto a Bruno Barberis, docente di Meccanica razionale presso l’Università di Torino e presidente del Centro internazionale di sindonologia, il complesso di discipline che studiano la Sindone.
Cosa può attendersi la fede dalla scienza, quali risposte può avere?
Barberis: Indipendentemente da ciò che le indagini scientifiche potranno ottenere in un futuro prossimo o lontano, la Sindone è in modo innegabile un rimando chiaro, diretto, analitico alla Passione di Gesù. “Uno specchio del Vangelo”, la definì Giovanni Paolo II nel 1998 quando venne a Torino per quella Ostensione. Nella stessa occasione, Giovanni Paolo II affermò che “l’uomo si aspetta dalla scienza che essa si occupi in modo serio e onesto di scoprire la verità sulla Sindone” e chiese agli scienziati di essere rispettosi della metodologia scientifica, di non dare per scontati risultati che non ci sono.
Questo purtroppo nel campo della Sindone non sempre accade. Si tratta anzi di un settore nel quale spesso emergono dei fondamentalismi da entrambe le parti, per cui è facile leggere articoli, considerazioni o teorie che partono da idee preconcette. Voler dimostrare a tutti i costi che la Sindone è la prova scientifica della Resurrezione è una sciocchezza, perché la scienza non può occuparsi di fenomeni sovrannaturali, ma solo naturali. La scienza, cioè, non potrà mai esprimere un parere sulla Resurrezione perché non è un fenomeno riproducibile in laboratorio. Allo stesso modo capita di voler dimostrare a tutti i costi, forzando i dati a disposizione, che la Sindone è un falso medievale o di qualunque altra epoca per il semplice fatto che si desidera sia questa la verità. Uno scienziato serio si preoccupa di cercarla la verità, qualunque essa sia.
Lo studio della Sindone non ha lo scopo di dimostrare a tutti i costi che essa è il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo o non lo è, ma di dimostrare cosa realmente sia. Sicuramente, un oggetto di enorme interesse, unico al mondo - non esiste altro telo con un’impronta con caratteristiche nemmeno lontanamente comparabili con questa di Torino – ed è sicuramente uno degli oggetti più studiati. Uno studio che coinvolge persone di varia formazione e diversa fede e moltissimi scienziati se ne sono occupati non essendo nemmeno credenti. C’è un interesse verso la Sindone che spinge ad andare al di là di quelli che molti considerano preconcetti, affascinati dalla sua natura di immagine ancora da spiegare.
Cosa si può attestare con assoluta sicurezza relativamente alla Sindone?
Barberis: Sulla Sindone ci sono due tipi di segni, le macchie ematiche e l’impronta corporea che hanno caratteristiche diverse.
le macchie ematiche
Riguardo alle macchie ematiche è stato possibile determinare che si tratta veramente di macchie di sangue umano, di gruppo AB. Esse sono state sicuramente prodotte dal contatto del corpo con il telo mentre l’impronta corporea non sembra essere avvenuta per contatto diretto. Un contatto, infatti, darebbe origine a una deformazione tenendo conto che la superficie corporea è curva mentre l’immagine della Sindone appare come una specie di proiezione ortogonale del corpo sul telo.
l’impronta
L’impronta ha caratteristiche tridimensionali – messe in evidenza dagli studi effettuati prima negli Stati Uniti e poi in Italia – che sono tipiche della Sindone, non appartengono cioè a una normale fotografia o a un dipinto, proprio perché la distribuzione della luminosità dell’impronta è realmente collegata alla distanza corpo-telo, cioè al maggiore o minore rilievo di quel particolare corporeo. Se ripetiamo gli stessi esperimenti su una normale fotografia di un corpo o di un volto su di un dipinto non otteniamo la caratteristica tridimensionale.
Sappiamo che l’impronta ha anche le caratteristiche di un negativo fotografico, come scoperto più di cent’anni fa con la prima fotografia del 1898, cioè i chiaroscuri sono invertiti rispetto alla realtà. Questa è la ragione per la quale l’immagine si vede molto più evidente e chiara nel negativo fotografico: facendo il negativo del negativo si ottiene il positivo delle parti.
Altre indagini hanno permesso di sottolineare alcune caratteristiche molto interessanti dell’impronta: mentre le macchie di sangue sono visibili perché c’è del materiale estraneo che si è depositato sul telo – il sangue stesso -, dove c’è l’impronta non è così. L’impronta è visibile perché le fibre superficiali del telo sono un po’ più scure del tessuto dove l’impronta non c’è, non perché vi sia del colorante sopra, ma perché questo processo di formazione - ancora tutto da scoprire - le ha scurite. Per uno spessore infinitesimo, uno spessore di qualche decina di micrometri, cioè di qualche centesimo di millimetro. Sotto non c’è nulla, mentre le macchie di sangue sono passate attraverso il tessuto e sono arrivate sul retro della Sindone. Nel 2002 quando è stato completato l’intervento conservativo sulla Sindone e si è staccato il telo di supporto - il telo d’Olanda cucito nel 1534 per riparare i danni dell’incendio di Chambery -, è stato possibile, per la prima volta da allora vedere bene il retro della Sindone. Qui le macchie ematiche si vedono esattamente nelle stesse simmetriche posizioni rispetto al fronte, perché essendo un fluido hanno attraversato il telo e sono arrivate dalla parte opposta. L’impronta corporea invece no, perché essendo per di più spessa qualche centimetro di millimetro, non ha potuto giungere sul retro, come avrebbe fatto un colorante di qualsiasi natura che almeno avrebbe impregnato il tessuto per uno spessore maggiore di qualche centimetro di millimetro. Questa è una caratteristica veramente peculiare dell’impronta.
le ferite
L’esame topografico dettagliato dell’impronta effettuato dalla medicina legale – sono studi che risalgono già a circa ottanta anni fa, dopo la fotografia di Enrie del 1931 –, ha permesso di ricostruire con estrema fedeltà tutto ciò che è accaduto all’uomo della Sindone e quindi la serie di torture che gli sono state inflitte, compresa la crocifissione.
Sulla Sindone sono evidenti ferite fatte ad un uomo mentre era ancora in vita e quando era già cadavere, come quella fatta al torace dove il sangue è uscito dalla ferita già dissierato cioè separato nella parte sierosa e nella parte corposculare.
Questo tipo di riscontro è una ulteriore prova che l’impronta non può che essere stata lasciata da un corpo umano vero e proprio e non può essere un dipinto o un’immagine ottenuta con qualsiasi metodo, perché altrimenti sarebbe stato impossibile ricostruire con tale dettaglio tutte le caratteristiche anatomiche visibili. Allo stesso modo sarebbe stato impensabile usare del sangue uscito da un uomo vivo e del sangue uscito da un cadavere in epoche nelle quali non si conosceva nulla sulla circolazione sanguigna e sulla differenza tra i due tipi di sangue. Il funzionamento della circolazione sanguigna, infatti, è stato capito solo nella prima metà del 1600, quindi meno di quattrocento anni fa.
il polline
Sulla Sindone sono state ritrovate micro-tracce vegetali, granuli di polline appartenenti a piante che vivono esclusivamente in zone molte ristrette della Palestina e dell’Anatolia, segno che la Sindone è passata in quei luoghi in qualche momento della sua storia. Questo metodo non ci permette di sapere ‘quando’ vi sia passata, perché tali piante erano esistenti ben prima di Cristo: la flora di queste zone non è cambiata molto negli ultimi 5-6 mila anni. Esse permettono solo di ricostruire con certezza un percorso geografico dell’oggetto.
Possiamo dire che tutti questi elementi sono stati definitivamente appurati con certezza.
Cosa resta invece da scoprire?
Barberis: Sono due i nodi fondamentali da sciogliere: il modo con cui si è formata l’impronta e la datazione del telo.
la formazione dell’impronta
Non abbiamo ancora una teoria sufficientemente valida per la spiegazione della formazione dell’immagine. Ogni settimana qualcuno propone un’ipotesi nuova, più o meno sensata. Finora, però, nessuno è riuscito ad ottenere come risultato sperimentale conseguente dell’ipotesi fatta un’immagine comparabile con quella della Sindone.
Oggi la possibilità di verifica è semplice perché abbiamo una conoscenza dettagliata delle caratteristiche più importanti dell’impronta che ci permettono delle comparazioni rigorose.
L’anno scorso, ad esempio, il prof. Garlaschelli di Pavia ha ottenuto un’immagine che però ha caratteristiche che non corrispondono a quelle della Sindone. Infatti per ottenere l’immagine è stata usata dell’ocra rossa che contiene ossido di ferro mentre l’impronta della Sindone non ne contiene. Inoltre nell’esperimento è stato realizzato prima il profilo del corpo e poi le impronte ematiche tramite un colorante mentre sulla Sindone sono apparse prima le macchie ematiche e poi le impronte corporee, tanto è vero che sotto le macchie ematiche non c’è impronta. Tutto questo è sufficiente per dire che l’immagine ottenuta a Pavia non è comparabile con la Sindone e non serve a spiegarla.
L’unico esperimento che ha permesso di colorare una piccola porzione di tessuto in modo similare a quello della Sindone è stato effettuato dal Centro Enea di Frascati qualche anno fa, irradiando un tessuto con un laser a eccimeri, cioè un laser che emette ultravioletto. Se la potenza e il tempo di irradiazione sono calcolati correttamente, si ottiene una coloratura delle fibre superficiali, abbastanza simile a quella della Sindone per uno spessore dello stesso ordine di grandezza. Non possiamo pensare, però, che il corpo umano sia una fonte laser o che il laser possa essere stato utilizzato nell’antichità.
la datazione del telo
La datazione del telo, come è noto, fu effettuata nel 1988 datando con il metodo del radio carbonio alcuni campioni prelevati da una zona marginale della Sindone.
Enormi polemiche hanno preceduto e seguito quest’operazione, determinate da diversi fattori il primo dei quali è una non limpida conduzione di tutta l’indagine con delle scelte non opportune. Tra queste, ad esempio, l’unico sito di prelievo dei campioni, che è rappresentativo di quella zona ma non dell’intero telo. Tale zona, fra l’altro, sembrerebbe - da alcune ricerche fatte su fili avanzati da quella datazione - inquinata da cotone, quindi da un materiale che forse è stato aggiunto con un rammendo successivo, ipotesi che dovrà essere verificata non appena sarà possibile fare nuovi esami diretti.
L’indagine del 1988 fu condotta con metodi non propriamente scientifici; ad esempio non fu usato, come sarebbe stato necessario, il “metodo alla cieca” perché i laboratori pretesero di conoscere le date dei campioni di confronto prima di effettuare la datazione. Ci sarebbero da riempire libri – come qualcuno ha fatto - per raccontare questi retroscena e i numerosi dettagli.
Datare un telo è un’operazione molto delicata in quanto i tessuti sono gli oggetti più facilmente esposti all’inquinamento da agenti esterni. Esperimenti fatti su altri teli antichi hanno dimostrato come vi possono essere inquinamenti sia di tipo biologico – microrganismi -, sia di tipo chimico con sostanze presenti nell’atmosfera accanto al telo, che possono provocare apparenti ringiovanimenti dovuti non a errori del metodo, ma a contaminazioni da parte di questi fattori esterni che influiscono non poco sulla datazione, anche per parecchi secoli.
Poiché la Sindone ha avuto sicuramente una vita molto complessa e movimentata e ha subito sicuramente inquinamenti di vario genere nella sua storia, il problema della datazione è molto complesso. Bisognerebbe riuscire a individuare un metodo di pulizia radicale del telo che possa eliminare qualsiasi fattore esterno, senza peraltro distruggere una parte eccessiva di cellulosa perché altrimenti avremmo bisogno di molto campione e non è che possiamo tagliare grandi pezzi di Sindone. Spesso mi viene chiesto il perché non si proceda di nuovo alla datazione prelevando campioni da diversi punti. La risposta è semplice: perché si tratta di un oggetto unico che non può essere usato come cavia per fare esperimenti di validità del metodo del C14. Questo metodo, purtroppo, è distruttivo: il campione viene bruciato e ogni esame richiede una distruzione definitiva di una sua parte.
Qual è il futuro della ricerca scientifica sulla Sindone?
Barberis: Non si può intervenire sulla Sindone senza precauzioni. Credo che il futuro degli studi scientifici sia quello di impostare una serie di esami fondamentali per raccogliere nuovi dati e proseguire nelle indagini, a patto che non siano distruttivi.
Occorre utilizzare le moderne tecnologie che permettono di ricavare informazioni sia di tipo fisico che di tipo chimico senza distruggere nulla ma irradiando il tessuto e lavorando sui risultati ottenuti. Ci sono metodi di sezionamento del tessuto che utilizzano sistemi che portano via dal tessuto delle sottili superfici di qualche millesimo di millimetro e non rientrano tra gli esami distruttivi perché questa asportazione è invisibile ma sufficiente per ricavare informazioni.
Per la datazione il metodo più attendibile rimane il C14, che però ha dei limiti soprattutto se interviene su oggetti rispetto ai quali non si hanno garanzie di una perfetta conservazione. Gli archeologi stessi - soprattutto quando si tratta di datare tessuti -, sono piuttosto cauti perché il rischio di errore è alto, in quanto il metodo non è in grado di distinguere atomi di carbonio provenienti dal tessuto e atomi provenienti da agenti esterni: brucia il campione e calcola tutto insieme. Ne consegue che datare nuovamente la Sindone tra breve non avrebbe senso, in quanto queste remore – indipendentemente dal risultato ottenuto – ci sarebbero comunque.
E’ necessario, allora, attendere nuove conoscenze che possano farci capire meglio - ad esempio - dove fare i prelievi in modo tale che siano rappresentativi dell’intero telo e non di una zona marginale. Questo richiede una conoscenza delle caratteristiche fisico-chimiche di tutto il telo con una mappatura molto dettagliata. Solo a questo punto potrebbe essere utile una nuova datazione.
C’è un programma di lavoro rispetto alla ricerca scientifica?
Barberis: Nel 2000, prima dell’inizio di quell’Ostensione, si tenne a Torino un convegno al quale furono invitati quaranta tra i maggiori scienziati che studiano la Sindone oppure esperti di discipline che interessano la Sindone e fu loro richiesto di fare proposte di studio e di ricerca. Le proposte arrivate negli anni successivi sono state raccolte, organizzate ed esaminate da una commissione di esperti esterni al mondo della Sindone affinché ne valutassero la attendibilità e scientificità. Tutto il materiale è stato raccolto in una relazione inviata alla Santa Sede, tramite il cardinale Severino Poletto che in quanto arcivescovo di Torino, è il custode pontificio della Sindone, perché il Papa è il proprietario della Sindone e sono sue le decisioni in merito.
Non si tratta di un’operazione semplice: non si può prendere la Sindone e portarla in un laboratorio, ma occorre prendere il laboratorio e portarlo dalla Sindone.
Non è nemmeno un progetto che si possa realizzare in tempi brevi, però finita questa Ostensione - il prossimo anno magari -, può essere ripreso in considerazione. Abbiamo bisogno di nuovi dati, nuovi “mattoncini” da mettere insieme. Le grandi scoperte, in genere, sono rarissime; la scienza va avanti a piccoli passi, a volte apparentemente insignificanti, ma unendone tanti si può arrivare a risultati significativi.
In ogni caso il progetto di indagine dovrà essere rispettoso dell’integrità della Sindone. Gli ultimi anni sono stati dedicati più a studiare come garantire la conservazione che a raccogliere altri dati, perché ci si è resi conto che c’era una carenza in questo senso. Quando avvenne l’incendio della cappella del Guarini, nel 1997, ci si rese conto che la Sindone era conservata ancora come nel 1600, nello stesso luogo, in una cassetta, con le stesse condizioni climatiche. Non si poteva continuare così e si è deciso di intervenire. Prima la Sindone era arrotolata a formare un cilindro, posizione che provocava altre pieghe e magari perdite di particelle di sangue mentre adesso è stesa per intero. Prima, inoltre, era conservata nell’atmosfera e quindi soggetta ad ossidazione da parte dell’ossigeno che provocava uno scurimento del telo e quindi una progressiva diminuzione della visibilità dell’immagine. Attenzione: non è diminuita, come qualcuno ha affermato, l’intensità dell’immagine, ma se il fondo del telo tende a scurirsi a causa dell’azione ossidante dell’ossigeno, diminuisce il contrasto e questo processo doveva essere fermato altrimenti tra cento, cinquecento o mille anni si rischiava che la visibilità fosse azzerata. La nuova conservazione in argon, che è un gas inerte e garantisce l’impossibilità della formazione di nuovi composti, mantiene lo status quo e assicura una conservazione ottimale. Era stato anche scoperto che al di sotto delle toppe del restauro dopo l’incendio di Chambery, c’era una notevole quantità di polvere finissima residuo del tessuto carbonizzato che in gran parte si era già dispersa sul telo, passando dalle cuciture. Bisognava intervenire per evitare il rischio che questa polvere inquinasse la Sindone ed entrasse in datazioni successive. Perciò sono state tolte le toppe, non più necessarie data la conservazione orizzontale, e il materiale carbonizzato è stato asportato, catalogato e conservato perché sarà importante per gli studi futuri. Anche il telo d’Olanda di sostegno che era molto sporco e inquinato è stato sostituito con un telo nuovo per far sì che la Sindone sia conservata nel modo migliore e sia certo che da oggi in poi la visibilità non peggiorerà.
Lei ha calcolato che c’è una probabilità su 200 miliardi che la Sindone non sia il telo di Gesù…
Barberis: Si tratta di un calcolo effettuato per verificare la corrispondenza tra il racconto che emerge dall’immagine che vediamo sulla Sindone e il racconto della Passione e morte di Gesù che leggiamo nei Vangeli. Possiamo valutare in modo quantitativo la probabilità che quello della Sindone sia veramente l’uomo del Vangelo?
Dagli esami fatti, sappiamo che si tratta di un uomo torturato e crocifisso. Uno dei tanti della storia, considerato che la crocifissione viene usata dal VII secolo avanti Cristo almeno fino all’epoca di Costantino. Si tratta di un periodo di un po’ più di mille anni nel quale si può calcolare qualche milione di crocifissi, sicuramente centinaia di migliaia. Giuseppe Flavio ci racconta che dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme le crocifissioni di giudei andarono avanti per mesi alla media di cinquecento al giorno.
I numeri sono quindi alti, ma noi possiamo dedurre dalla Sindone alcune caratteristiche legate a quanto è avvenuto a quest’uomo in particolare. Per esempio le percosse in volto, la frattura della cartilagine nasale, l’ematoma sulla guancia destra, le ferite alle arcate sopraccigliari, il casco di oggetti appuntiti sulla testa che ha provocato una trentina di ferite con relative emorragie, l’aver portato sulle spalle qualcosa di ruvido e pesante che ha provocato due grosse escoriazioni – molto facile che sia il palo orizzontale della croce -. Possiamo aggiungere il fatto che sia stato flagellato, crocifisso con chiodi mentre si sa che venivano usate anche le corde e forse anche di più dei chiodi; il fatto che sia stato ferito al torace dopo la morte; il fatto che sia stato avvolto in un telo funebre come accadeva solo alle personalità importanti perché i riti funebri costavano carissimo mentre i crocifissi erano di solito schiavi o prigionieri di guerra, comunque non romani perché per i cittadini romani la crocifissione era vietata. Possiamo rilevare, inoltre, il fatto che, pur essendo stato il corpo avvolto nel telo, non è stata effettuata una sepoltura definitiva perché il cadavere non è stato lavato, non è stato unto con gli aromi, non è stato legato perché altrimenti avremmo caratteristiche diverse sulle impronte che vediamo. Infine rileviamo come il corpo sia rimasto nel telo per poche ore perché non si vedono le macchie da decomposizione che compaiono non più tardi di 50-60 ore dalla morte, il che significa che questo corpo è stato messo nel telo per un numero di ore inferiori e poi tolto e non rimesso.
Tutte queste caratteristiche sono presenti sia sulla Sindone che nel caso di Gesù e collimano alla perfezione.
Qual è la probabilità che ognuna di esse, presa singolarmente, possa essersi verificata per un qualunque crocifisso della storia? La flagellazione è un dato poco significativo perché almeno l’80% dei crocifissi la subiva; la crocifissione con chiodi è già più significativa perché riguarda almeno il 50% dei suppliziati. Se prendo in esame il casco sul capo, questo è l’unico caso della storia che conosciamo e certo non era prassi della crocifissione: non posso dire che sia stato l’unico caso, ma sicuramente presenta una probabilità molto bassa. Anche la ferita al torace è fuori dalla norma: se si voleva provocare la morte del crocifisso, gli venivano fratturate le gambe e, inoltre, la ferita è stata inferta dopo la morte. Anche l’esistenza della Sindone è un dato significativo: nessuno reclamava il corpo dei crocifissi e di certo non venivamo avvolti in un telo che si usava comprare dai commercianti che lo importavano; venivano lasciati sulle croci o sepolti in fosse comuni. Per di più si tratta di una sepoltura fatta in fretta e furia: anche questo evento ha poca probabilità di essersi verificato, perché deve essere successo qualcosa di significativo per aver interrotto le operazioni di sepoltura di un corpo, tra l’altro, rimasto per poche ore nel telo.
Se do’ ad ogni fatto una probabilità, la probabilità complessiva del verificarsi di queste condizioni – che non si influenzano l’una con l’altra - è il prodotto delle probabilità: in questo caso si ottiene un numero piccolissimo, 1 su 200 miliardi, cioè la probabilità che questi fatti possano essere presenti contemporaneamente su uno stesso crocifisso è quasi zero. Se i crocifissi fossero stati più di duecento miliardi potrei dire che una probabilità potrebbe esservi, ma poiché sono stati molti meno, vuol dire che su nemmeno uno dei suppliziati può essere accaduta una cosa del genere: quando ne ho due che presentano caratteristiche simili – Gesù e l’uomo della Sindone – la probabilità che essi coincidano è altissima, quasi la certezza.
Come scienziato non è impaziente di conoscere la verità sulla Sindone?
Barberis: Uno scienziato deve avere pazienza, sapere che la scienza ha dei limiti e che dopo vent’anni di lavoro si può scoprire che la pista che si stava seguendo era sbagliata. Se, d’altra parte, non si è in grado di conoscere tutto dei fenomeni chiaramente naturali, figuriamoci di un fenomeno che potrebbe essere soprannaturale! Bisogna andare avanti cercando di sapere quanto più possibile e raccogliendo tutte le informazioni ma lasciando che sia l’evoluzione naturale del sapere a guidare il futuro delle ricerche.
L’INFINITO MISTERO DELL’AMORE DI DIO - Michele Trotta racconta dell’educazione all’amore di un figlio disabile - di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 21 maggio 2010 (ZENIT.org).- Michele Trotta è il papà di Francesco, per tutti Francky, nato prematuro il pomeriggio del 2 marzo 1993.
L'asfissia, che al momento del parto, aveva colpito il cervello di Francesco, aveva procurato dei traumi che avevano toccato i centri motori del linguaggio e del movimento e generato un'epilessia.
Un drammatico encefalogramma metteva in evidenza questo disordine nel cervello, diagnosticando la cosiddetta sindrome di West: irrigidimento della muscolatura del corpo con progressivo blocco, salivazione continua, in poche parole: sedia a rotelle, nessuna autosufficienza e con il bavaglino per sempre.
Un percorso pregresso estremamente accidentato. Un rischio per questo figlio del terzo binario e per la mamma Marina, già ricca di due felici maternità. Una martire sorridente, crocifissa alla sua maternità. Da questa nascita inizia un parto costante. Nel dolore e nell'amore si può partorire ad ogni istante il figlio segnato dal calvario condiviso.
Per cercare di capire l’infinito mistero di una figlio disabile, Michele ha scritto un libro: “Francesco e l'infinito. Un diario straordinario di una vita normale” pubblicato dalle Edizioni CVS (Centro Volontari della Sofferenza - Silenziosi Operai della Croce).
Intervistato da ZENIT, Michele ha spiegato che alcune persone per descrivere l’innamoramento dicono di essere diventati pazzi l’uno per l’altra. Ebbene la stessa cosa capita a chi s’imbatte nelle persone affette da particolari sindromi celebrali, una volta chiamati sub normali, poi handicappati, ora diversamente abili. Per loro una Persona - in particolare – è impazzita.
“Si, è Dio! Dio è pazzo per loro, è impazzito per loro, non si è divertito ma li ha costruiti come uno scrigno: i custodi di un tesoro”, ha sottolineato Michele Trotta.
Secondo l’autore del libro “la pazzia d’Amore di Dio per l’uomo raggiunge il culmine, dove gli interrogativi della fragilità del corpo si scontrano con la luce che quel corpo ferito emana”.
“Poverini, si dice di loro, ma è solo per non guardare a fondo il loro segno che è il pazzo amore, Infinito, che Dio ha stabilito nelle profondità di quel corpo da bambino, da adulto o da vecchio che chiede solo di essere scoperto”.
La sofferenza è presente ovunque, ma nel caso di Francesco, così come di tante migliaia di persone “silenziose” si tratta della storia di famiglie che sono state coinvolte, tramite queste creature, nella pazzia d’Amore del Buon Dio.
Michele ha raccontato che tutto iniziò come un fulmine a ciel sereno: una bella famiglia come tante, due figli belli e sani, timorati di Dio, poi … “proprio a me?!”: “Mia moglie, parto prematuro all’ottavo mese con complicazioni distacco di placenta, mancanza di ossigeno al cervello…”.
“Inizia la corsa contro il tempo per salvare questa creaturina – racconta Michele – qualcuno dice che 'forse è meglio che muore, sai … i danni … il cervello …'. Ma come – ti rispondi – è mio figlio, lo abbiamo voluto, è una creatura di Dio, Lui non può permettere questo!”.
“Non lo sapevamo, ma era iniziato un misterioso cammino verso quell’Infinito, di cui quella inconsapevole creatura ne era il portone d’ingresso”.
“Quando con il tempo si supera la 'sbornia' di medici, amici - ora c’è anche Internet che ti alluviona con migliaia di notizie e previsioni incerte -, iniziò l’analisi di ciò che ci era capitato”, continua.
Un mese tra la vita e la morte, i tubi, le macchine che garantivano il moto respiratorio, bisognava arrivare ai 9 mesi biologici e al peso forma.
“Ogni mattina – racconta il papà di Francesco – si era in attesa della telefonata del reparto dell’ospedale per le notizie riguardanti le condizioni avute in nottata, con lo squillo del telefono svanivano, in un sol colpo, i momenti felici di tutta la famiglia, momenti che ognuno di noi conserva, una nuova realtà stava avanzando e prendeva tutto lo spazio che nel nostro cervello, nel cuore, nei sentimenti, nei ricordi più o meno recenti, avevamo”.
Tutto veniva assorbito e invaso da questa nuova corsa che era partita il 2 marzo 1993.
“Francesco, anche se piccolo, già occupava lo spazio di tutta la famiglia, tutti coinvolti, tutti protesi verso questo ‘ciclone’ di circa 4 chilogrammi che sembrava stesse schiacciando tutta la nostra 'normalità'”.
I due fratelli di 2 e 4 anni più grandi di Francesco hanno vissuto le stesse tensioni, le paure e i molti interrogativi, che Michele e Marina ogni giorno si son trovati davanti.
Michele ha rilevato che se all’inizio della sua vita familiare, Francesco, era considerato dai fratelli, malato, un bambino da proteggere, con il tempo i due, a secondo della loro sensibilità, hanno iniziato a porsi con una incredibile autorevolezza a fianco di Francesco, con gesti semplici ma efficaci, fino a diventarne dei veri “angeli custodi” che conoscono le leve su cui agire al fine di spronare il fratello, sempre riluttante a scuotersi, ma pronto a cogliere gli stimoli che un vero amore fraterno sa dare.
“Francesco – continua Michele – è diventato così un 'pedagogo' che stimola, tutti coloro i quali gli sono accanto lungo la sua strada, a imitarne l’approccio, chiedendo la sintonia del cuore, l’attenzione totale di tutto il nostro essere verso l’altro, verso lo sconosciuto, il non riconoscibile anzi, più è irriconoscibile e più ci si avvicina a quel gesto della Creazione, che comprende tutto, veniamo accompagnati verso l’Infinito, di cui Francesco e gli altri 'amici' sono i custodi silenziosi e guardiani attenti”.
“Questa forza educativa che, oggi dopo 17 anni, riusciamo ad analizzare ed individuare in modo razionale, ha avuto un percorso altrettanto pedagogico: Francesco nel corso della sua vita ci ha dato e, continua a dare, il tempo e il ritmo di questo ammaestramento”, spiega.
Secondo Michele se si mettono in sequenza tutte le azioni che Francesco ha fatto compiere alla sua famiglia, da quelle più semplici a quelle più dolorose o faticose (le nottate, le febbri sempre pericolose per l’epilessia, la sua insonnia legata al meteo, ecc.) si può individuare un percorso che ha “ammaestrato” tutti coloro i quali si sono lasciati coinvolgere, verso il rispetto nei confronti dell’altro.
Trotta è convinto che si tratta della pazienza dell’attesa, dell’ascolto e della libertà, come condizione d’appartenenza ad una storia che quel “pazzo d’amore” di Dio ha pazientemente e finemente costruito dando così la possibilità di andare “oltre”. Oltre al fisico, al corpo, al sangue.
“Entrare in questa nuova dimensione – ha concluso Michele - ti fa diventare tutt’uno con i bisogni dell’altro, nulla è più estraneo, là dove c’è sofferenza, disagio, difficoltà, lì si condivide e, perchè no, si fa festa, si supera insieme. Nulla è più estraneo”.
Nel libro l’autore racconta anche della scomparsa di Marina, sua moglie, la più coraggiosa e intrepida nel sostenere i diritti di Francesco.
“Con la scomparsa di Marina, mamma speciale - ha scritto Trotta -, lo stesso dolore immenso, non ancora valutabile da ognuno di noi, non è riuscito ad arginare questa storia buona che ormai il buon Dio ha iniziato, anzi, lo sguardo di Francesco che parla d’Amore Infinito ci richiama, ci sgrida, ci supplica di non fermarci perché l’Amore che abbiamo incontrato è più forte e appassionato della vita stessa”.
Spaemann, Robert - Natura e Ragione. Saggi di Antropologia - Autore: Rivolta, Guido Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - Edizioni Università della Santa Croce - Roma, 2006, pp. 115, Euro 12,00
In cosa consistono la felicità della persona e l’ordine giusto di una società? E’ possibile dare adeguata fondazione al concetto di dignità dell’uomo e all’idea di diritto naturale? Che rapporto c’è tra natura e ragione? Tutti gli essere umani sono persone? Che cosa ha portato alla divisione tra naturalismo e spiritualismo? Che rilevanza ha la concezione evoluzionistica per la comprensione che l’uomo ha di se stesso? Sono queste alcune delle domande più attuali e urgenti a cui ha cercato di rispondere fin dagli anni Sessanta del XX secolo e nel corso della sua lunga carriera di filosofo, anche militante, uno dei più importanti pensatori tedeschi d’ispirazione cattolica: Robert Spaemann.
Successore di Gadamer a Heidelberg, esponente di primo piano di quel movimento di pensiero atto a riabilitare, all’interno della filosofia contemporanea, il paradigma aristotelico della ragion pratica, assertore di una concezione della filosofia che debba porsi il compito di essere coscienza critica del proprio tempo, Spaemann si è interessato, in particolare, a problematiche riguardanti la morale e la bioetica, la politica e il diritto. Teorico di una sorta di ontologia sociale, antitetica all’idea di rivoluzione centrata sulla rottura radicale dell’ordine civile, ha rivendicato l’importanza di un concetto di ‘natura’ nei termini di una visione realistica, contrapposta a qualsiasi tentativo o tentazione di tipo utopistico (vedi per es. la critica a Rousseau).
In Italia, purtroppo, è solo da pochi anni che la figura e le opere di questo grande studioso si stanno lentamente conoscendo e diffondendo. Se disponibili, ad esempio, sono le traduzioni di alcuni suoi testi fondamentali -bisogna ricordare almeno: “Per la critica dell’utopia politica” (1977), Franco Angeli, 1994; “Felicità e benevolenza”(1989), Vita e Pensiero, 1998; “Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’ ”(1996), Laterza, 2004- assai rari sono gli studi critici e sistematici a lui dedicati. Di recente pubblicazione in lingua italiana è, invece, un piccolo, ma prezioso testo di Spaemann -“Natura e ragione. Saggi di antropologia”, uscito nel 1987 e oggi tradotto per le Edizioni Università della Santa Croce. Costituito da quattro saggi e dedicato alla chiarificazione di alcuni temi antropologici fondamentali, il volume può certamente considerarsi un efficace invito alla lettura delle maggiori opere del pensatore tedesco e, come tale, può rappresentare un’occasione per introdurci, sia pure in modo del tutto sintetico, alla sua stimolante e articolata riflessione.
Alla base del pensiero, secondo Spaemann, vi è un’esperienza umana elementare, precedente qualsiasi distinzione di pratico e teorico: l’apertura accogliente della realtà delle cose, nel loro originale e gratuito ‘essere-proprio’. Ovvero: l’atto, nello stesso tempo, di disvelamento e partecipazione verso tutto ciò che è, nel suo intrinseco -finale e non strumentale- valore di essere e di bene. Ora, se manifestazione e riconoscimento definiscono il nostro immediato rapporto con la realtà, da subito, viene alla luce l’intimo nesso tra metafisica ed etica: percepire le cose nel loro ‘essere-proprio’ significa, infatti, riconoscere sia la gratuità del loro essere in sé, sia la finalità della loro ‘natura’. In questo modo, conoscere e amare le cose che sono perché sono, avere nei loro confronti un atteggiamento non di dominio e possesso (amor concupiscentiae), ma di cura e rispetto (amor benevolentiae), risultano momenti strettamente intrecciati di un’unica, ontologica ed etica, esperienza. “Realizzare che qualcosa non è un oggetto, ma è qualcosa di semplicemente reale, che è un essere in sé, è ciò che nel linguaggio della tradizione filosofica si chiama amore conforme a ragione o amor benevolentiae”. E’ solo su questa base, che si fonda la possibilità di un’autentica felicità o riuscita dell’essere umano in quanto compimento perfettivo e secondo ragione della sua ‘natura’ finalisticamente strutturata.
Originaria e fondativa è, dunque, la nozione di ‘natura’ (physis), vista nel suo essenziale carattere di ‘finalità’. Ripercorrendone il concetto all’interno delle vicende della storia del pensiero, Spaemann si richiama ad Aristotele (nonché a Tommaso e a Leibniz): la natura è l’essenza di tutto ciò che ha in se stessa un principio, un inizio di movimento. In analogia con l’essere umano, le ‘cose’ non sono opache, ma sono ‘natura’, cioè, qualcosa che esiste da sé e che, costituito da un ‘tendere a’, un conatus o impulso, è in grado di manifestare qualcosa di sé: la sua intrinseca finalità. In particolare, è la natura umana, in virtù delle sue inclinazioni e tendenze, a rivelare alla razionalità la sua interiore costituzione teleologica, ovvero la sua propria finalità. Bisogna, tuttavia, evidenziare e chiarire l’ambiguità del concetto di ‘natura’. “La ‘conformità con la natura’ in effetti non è qualcosa che c’è ‘allo stato naturale’, ma precisamente quello che corrisponde pienamente al concetto di ciò che è secondo ragione”. In questo senso, ciò che è secondo ragione definisce un nomos, una legge. Si impone, di conseguenza, una distinzione: tra ciò che è naturale, nel senso di ‘spontaneità’, e ciò che è naturale in senso ‘normativo’, in quanto le inclinazioni naturali rappresentano delle indicazioni che l’umana ragione disvela ai fini dell’azione. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che l’uomo è il luogo della natura in cui la natura diviene cosciente di sé. Il compimento della natura, infatti, è nella ragione; mentre la ragione coglie e legge le intrinseche potenzialità e inclinazioni insite nella natura. O, ancora: la natura giunge a sé solo come ragione; mentre la ragione, d’altra parte, è la forma della vita. “Soltanto ciò che è secondo ragione è il venire alla luce della verità su ciò che è secondo natura e questo venire alla luce si trova esso stesso inscritto nella teleologia della natura”. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che la natura umana presenta un originale movimento di ‘autotrascendenza’, manifestativo della sua intrinseca costituzione finalistica. “L’uomo, trascendendo la natura, la conduce in un certo senso per la prima volta a se stessa. Soltanto in lui diviene visibile quello che la natura è davvero per se stessa, perché soltanto in lui la struttura tendenziale che è propria della natura … si presenta come libero volere e libero riconoscimento di un motivo e di un fine non posti da sé”. Questo significa che l’essere umano non si dà nei termini di un puro principio trascendentale posto di fronte ad un mondo di fatti esteriori e neutrali. Se così fosse, qualsiasi motivazione all’azione risulterebbe incomprensibile. Piuttosto l’uomo, in virtù di una sua intrinseca finalità, è, nello stesso tempo, soggettività razionale mai del tutto scissa da una certa naturalità ed essere vivente mosso da finalistiche tendenze e inclinazioni a cui subentra successivamente la ragione.
Come non vi è opposizione tra natura e ragione, allo stesso modo, non ve n’è tra natura e libertà. Se esiste una verità del naturale, ossia, una finalità, già data, inscritta nelle potenzialità della propria natura, la libertà, infatti, non si dà come radicale autosufficienza e totale possibilità di scelta. Essa, invece, consiste nella attuazione delle caratteristiche tendenziali della natura dell’uomo, ovvero, nella realizzazione, razionalmente e intenzionalmente voluta, delle finalità insite nelle proprie inclinazioni. Viene così radicalmente messa in discussione l’idea fondante l’ethos occidentale contemporaneo: la libertà intesa come assoluta autonomia e autodisposizione, sradicata da legami e tendenze naturali, priva di una sua oggettiva finalità. Un’idea, nichilistica, di libertà che sta alla base dei modi oggi prevalenti di considerare la qualità dell’esperienza umana nei diversi ambiti in cui si gioca il suo destino: vita e morte, sessualità e affetti, maternità e paternità, famiglia e genitorialità, etc.
Secondo Spaemann, dunque, il criterio di senso del vivere umano non può consistere in qualcosa di arbitrario, dipendente dalla libera scelta della volontà, ma, ancorandosi alla ‘natura’, deve basarsi su un oggettivo fondamento ontologico, di tipo finalistico. Più precisamente, su una prospettiva ontologica, nel senso classico del termine: la persona, infatti, non è una somma di qualità empiriche, come pretende una concezione di tipo nominalistico, ma è “una sostanza che non si mostra come tale, rispetto alla quale le qualità empiriche sono soltanto la forma di manifestazione che emerge dall’esterno”. Se così non fosse -se la persona non fosse tale in virtù della propria natura, del suo ‘essere-proprio’, ma il suo valore dipendesse da un determinato stato o attributo- riconoscere ‘diritti’ non solo a neonati e malati di mente, a individui affetti da demenza senile e generazioni future, ma, addirittura agli stessi dormienti, come tali privi di consapevolezza razionale, diventerebbe assai problematico, se non impossibile. La ‘natura’, pertanto, è l’unico modo non arbitrario di affermare il valore dell’uomo nel suo essere, in quanto tale. Essa sola è in grado di fondare il riconoscimento della dignità di persona a qualunque uomo, di qualunque condizione, nonché di giustificare, in modo adeguato, il diritto naturale, nelle sue diverse articolazioni. Se non esistesse una verità delle cose, ogni nostro discorso, come, infatti, afferma Michel Foucault, farebbe violenza alle cose e sarebbe funzionale alla volontà di potenza di chi lo mette in atto. “Soltanto a questa condizione ha senso parlare di diritti umani. Soltanto a questa condizione non è dato a determinati uomini l’arbitrio di conferire o levare, a loro discrezione, ad altri uomini i diritti umani”. Come già acutamente affermato da C.S. Lewis -nel suo importante saggio “L’abolizione dell’uomo”, citato da Spaemann- rispettare la persona significa, allora, rispettare la sua natura e le sue leggi. Paradossalmente, poi, se l’uomo non fosse considerato come fine a sé stesso sic et simpliciter - se la sua dignità fosse non un valore in sé, ma relativa ai soggetti che esprimono valutazioni, per i quali ogni valore è tale soltanto in quanto frutto di una valutazione -bisognerebbe allora concludere che “non si può dire che sia un delitto la distruzione della totalità dei soggetti capaci di dare giudizi di valore. Questi soggetti infatti non hanno subito alcuna perdita se scompaiono”. Scomparsi i soggetti, scompaiono anche i valori che sono relativi ai soggetti che li esprimono.
Alla luce di queste considerazioni si comprende l’ulteriore, forte, tesi di Spaemann secondo la quale la civiltà moderna, fondata sulla scienza di tipo cartesiano, “rappresenta per la dignità dell’uomo una minaccia quale non è finora mai esistita”. Essa, presentando l’ideale di una radicale oggettivazione del mondo, esclude ogni legame tra soggettività e oggettività e nega alla natura, ridotta a meccanicità materiale, qualsiasi elemento di finalità. Tutto ciò ha accresciuto in modo inimmaginabile il dominio dell’uomo sulla natura, ma ha anche condotto ad una visione di tipo scientistico. Ormai è lo stesso uomo a essere nient’altro che il termine di un’oggettivazione di tipo sperimentale: inteso in quanto essere meramente naturale, viene svuotato delle sue prerogative di soggetto e ridotto a pura esteriorità, osservabile e manipolabile.
Secondo Spaemann, di fronte a questi rischi di riduzionismo, è necessario garantire la dignità dell’essere umano e per questo, affermando la centralità del concetto di finalità, identificare in essa il criterio base di una lettura unitaria, ontologica ed etica, dell’esperienza umana: essere e bene, intelletto e volontà, persona e natura, ragione e vita, libertà e physis. In questo modo, ciò che la modernità ha diviso a causa di un atteggiamento di ‘inversione della teleologia’, è possibile ora, grazie alla finalità, non separare, ma ritrovare, giustificando, in chiave sintetica, il vissuto umano. E tutto ciò, appunto, sfidando e superando gli opposti e complementari dualismi tipici dell’età moderna. A cominciare dalla frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa, proseguendo attraverso l’incommensurabilità di storia e natura in Rousseau, la rottura kantiana tra ragione teoretica e ragione pratica, la scissione tra idealismo e materialismo/positivismo, fino alla più recente dialettica tra spiritualismo e naturalismo, fenomenologia ermeneutica e scientismo.
E’ all’interno di questo contesto, infine, che Spaemann affronta i problemi relativi alla teoria dell’evoluzione, rispetto a cui, oggi, è prevalente una lettura ideologica in chiave riduzionistica. Innanzitutto, occorre precisare che circa la concezione che l’uomo si fa di sé “il paradigma scientifico dell’evoluzione è neutrale fintanto che non si lega a una determinata interpretazione filosofica … l’evoluzionismo”. D’altra parte, va, tuttavia, evidenziato come i nuovi teorici dell’evoluzione, pretendano, al contrario, “con un certo fervore missionario”, sia di ricostruire, nel quadro di una scienza ateleologica, la ‘genesi’ della soggettività dell’uomo, sia, in questo modo, di rispondere alla domanda circa il ‘valore’ e la ‘validità’ degli imperativi morali. Da un lato, vi è l’olismo scientista di Quine per cui la conoscenza è solo conoscenza scientifica. Dall’altro, vi è il mutismo a cui il Wittgenstein del Tractatus condanna ogni soggettività di fronte al tentativo di una sua ricostruzione scientifica. In mezzo, si ha, appunto, uno scientismo di tipo evoluzionistico che riduce in chiave funzionalistica, -in termini, cioè, di utilità alla sopravvivenza- gli stessi contenuti dell’ esperienza etica. Ora, a questo proposito, secondo Spaemann, è necessario distinguere la questione della ‘genesi’ da quella del ‘valore’. “Non comprendiamo meglio le più semplici formule matematiche per il fatto di possedere un’ipotesi verosimile sull’evoluzione del nostro cervello”. Allo stesso modo, “che cosa sia la vita buona non si può dedurre dalle condizioni di tale genesi”. Ciò, d’altra parte, non significa opporre i due punti di vista, i quali anzi possono trovare una loro conciliazione sulla base di una prospettiva platonico-aristotelica. “Ovvero concependo l’evoluzione in un modo tale che l’esercizio di certe forme di comportamento, per quanto spiegabile in termini funzionalistici, sia però una condizione perché a un certo momento, improvvisamente, si possa spalancare una dimensione di esperienza affatto nuova”: la dimensione dell’incondizionato, dell’assolutezza dei valori, che una visione di tipo evoluzionistico non può adeguatamente interpretare. Più precisamente, ciò che l’evoluzionismo, in chiave funzionalistica, non è in grado di ricostruire è la genesi della ‘negatività’, nei suoi tre livelli: come dolore; come diversità; e, appunto, come idea dell’ assoluto. Il ‘dolore’, infatti, per il soggetto che lo patisce, è ciò che non dovrebbe essere. Una realtà conosciuta ‘diversa da noi’ non è una nostra funzione, un nostro stato o proprietà. La nozione di ‘assoluto’, infine, contiene la negazione di ogni relatività, di tutto ciò che si riferisce a noi. In tutti e tre i casi, contro ogni riduzionismo evoluzionistico, si va al di là di una concezione naturalistica legata al concetto di funzionalità e adattabilità. Questa esperienza della ‘negatività’ si collega, poi, a quella della ‘alterità’: un altro è visto in quanto altro, quando non è in funzione nostra, ma è “un essere tale che non è in sé perché è per me”. In questo modo, affermando l’esistenza delle sostanze individuali, si critica ancora la teoria evoluzionistica laddove essa sostiene non esistano unità discrete che siano identiche a sé e differenti dalle altre: ciò che esisterebbe sarebbe soltanto il continuum del processo del divenire. Secondo Spaemann, invece, è fondamentale valorizzare un’ontologia di tipo sostanzialistico: senza di essa non è possibile concepirci come soggetti propriamente umani e saremmo inevitabilmente condotti alla messa in discussione della stessa nozione di dignità umana.
Nello stato di generale confusione che caratterizza il tempo presente, il pensiero di Robert Spaemann si distingue per forza e profondità, per la capacità di andare al cuore dei problemi e per il coraggio delle soluzioni che propone, sfidando la corrente relativistica delle posizioni intellettualmente dominanti e della mentalità comune oggi prevalente. Non resta che augurarsi che le riflessioni da lui svolte e le tesi da lui sostenute possano essere, anche da noi, ulteriormente conosciute e discusse, non solo a livello accademico, ma, dentro la società, nel vivo del dibattito culturale e civile.
CRISI: PAPA, LA POLITICA DEVE AVERE IL PRIMATO SULLA FINANZA - Salvatore Izzo
(AGI) - CdV, 22 mag. – da http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/
"La politica deve avere il primato sulla finanza e l'etica deve orientare ogni attivita'. Senza il punto di riferimento rappresentato dal bene comune universale non si puo' dire che esista un vero ethos mondiale e la corrispettiva volonta' di viverlo, con adeguate istituzioni".
Lo afferma Benedetto XVI nel discorso rivolto questa mattina alla Fondazione "Centesimus Annus".
Per il Papa, "la crisi e le difficolta' di cui al presente soffrono le relazioni internazionali, gli Stati, la societa' e l'economia, infatti, sono in larga misura dovute alla carenza di fiducia e di un'adeguata ispirazione solidaristica creativa e dinamica orientata al bene comune, che porti a rapporti autenticamente umani di amicizia, di solidarieta' e di reciprocita' anche 'dentro' l'attivita' economica".
"Il bene comune - ricorda il Pontefice - e' la finalita' che da' senso al progresso e allo sviluppo, i quali diversamente si limiterebbero alla sola produzione di beni materiali; essi sono necessari, ma senza l'orientamento al bene comune finiscono per prevalere consumismo, spreco, poverta' e squilibri; fattori negativi per il progresso e lo sviluppo".
Nel suo discorso, il Pontefice ha criticato in particolare la condotta che appare "troppo debole" di "quei governanti che, a fronte di rinnovati episodi di speculazioni irresponsabili nei confronti dei Paesi piu' deboli, non reagiscono con adeguate decisioni di governo della finanza". "Cio' che e' fondamentale e prioritario, in vista dello sviluppo dell'intera famiglia dei popoli, e' l'adoperarsi - ha spiegato - per riconoscere la vera scala dei beni- valori. Solo grazie ad una corretta gerarchia dei beni umani e' possibile comprendere quale tipo di sviluppo dev'essere promosso". Per il Papa, "la visione cristiana dello sviluppo, del progresso e del bene comune, come emerge nella Dottrina Sociale della Chiesa, risponde alle attese piu' profonde dell'uomo e il vostro impegno di approfondirla e diffonderla e' un valido apporto per edificare la 'civilta' dell'amore'".
"Oggi piu' che mai - osserva Benedetto XVI - la famiglia umana puo' crescere come societa' libera di popoli liberi quando la globalizzazione viene guidata dalla solidarieta' e dal bene comune, come pure dalla relativa giustizia sociale, che trovano nel messaggio di Cristo e della Chiesa una sorgente preziosa. allora decisivo che siano identificati quei beni a cui tutti i popoli debbono accedere in vista del loro compimento umano. E questo non in qualsiasi maniera, ma in una maniera ordinata ed armonica". Infatti, nella visione cristiana, "il bene comune e' composto da piu' beni: da beni materiali, cognitivi, istituzionali e da beni morali e spirituali, quest'ultimi superiori a cui i primi vanno subordinati". "L'impegno per il bene comune della famiglia dei popoli, come per ogni societa' - scandisce Papa Ratzinger - comporta il prendersi cura e l'avvalersi di un complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale mondiale, in modo tale che prenda forma di po'lis, di citta' dell'uomo".
Pertanto, "si deve assicurare che l'ordine economico-produttivo sia socialmente responsabile e a misura d'uomo, con un'azione congiunta e unitaria su piu' piani, anche quello internazionali". Parimenti, "si dovra' sostenere il consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici e amministrativi nei Paesi che non ne godono ancora in modo pieno". "Accanto agli aiuti economici, devono esserci quindi - e' laconclusione del Papa - quelli finalizzati a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico giusto ed efficiente, nel pieno rispetto dei diritti umani, come pure istituzioni veramente democratiche e partecipative".
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PAPA: EMARGINAZIONE DELLA RELIGIONE E' NUOVO FONDAMENTALISMO - Salvatore Izzo - (AGI) - CdV, 22 mag. – da http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com/
"L'esclusione delle religioni dall'ambito pubblico, come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l'incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell'umanita'; la vita della societa' si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente ed aggressivo". Lo denuncia Benedetto XVI nel discorso rivolto oggi alla Fondazioen "Centesimus Annus". Per il Papa, "uno dei maggiori rischi nel mondo attuale e' quello che "all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano". "Lo sviluppo integrale dei popoli, obiettivo centrale del bene comune universale, non e' dato solo - spiega - dalla diffusione
dell'imprenditorialita', dei beni materiali e cognitivi come la casa e l'istruzione, delle scelte disponibili. Esso e' dato specialmente dall'incremento di quelle scelte buone che sono possibili quando esista la nozione di un bene umano integrale, quando ci sia un telos, un fine, alla cui luce viene pensato e voluto lo sviluppo. La nozione di sviluppo umano integrale presuppone coordinate precise, quali la sussidiarieta' e la solidarieta', nonche' l'interdipendenza tra Stato, societa' e mercato. In una societa' mondiale, composta da molti popoli e da religioni diverse, il bene comune e lo sviluppo integrale vanno conseguiti con il contributo di tutti". "In questo - e' la conclusione del Papa teologo - le religioni sono decisive, specie quando insegnano la fraternita' e la pace, perche' educano a dare spazio a Dio e ad essere aperti al trascendente, nelle nostre societa' segnate dalla secolarizzazione".
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Avvenire.it, 22 maggio 2010 - EMERGENZA EDUCATIVA - Facebook e suicidi: ragazzi nel baratro - Francesco Dal Mas e Dino Frambati
Uccidersi, o tentare di farlo, per Facebook. In un caso gridando la propria disperazione e il proprio dolore nella piazza virtuale, e rimanendo inascoltati. Nell’altro perché non si sopporta la vergogna di essere stati messi in quella piazza dai compagni, e non si accettano le conseguenze delle proprie azioni. Sono di nuovo due giovanissimi le "vittime" dello scontro tra realtà virtuale e vita reale: un binomio che i ragazzi sempre più spesso non comprendono, e che gli stessi adulti sembrano sottovalutare. E nella cui problematicità trovano spazio gesti estremi come quelli avvenuti ieri a San Donà di Piave e a Genova.
Luca Furlan ha deciso di gettarsi nel Piave e l’ha annunciato su Facebook. Due ore dopo lo ha fatto davvero. Per poi pentirsi, chiedere aiuto, quando ormai non c’era più nulla da fare. Aveva solo 17 anni, Luca: studiava, abitava a Musile di Piave, e mercoledì poco prima di mezzanotte aveva deciso di farla finita, lui che era così fragile psicologicamente, senza che nessuno trovasse il modo di fermarlo o aiutarlo, neppure sul web. «Basta, sono stanco di tutto e tutti – aveva scritto sul suo profilo –. Non mi fido più di nessuno, mi fa troppo schifo vivere così e ci sono troppo dentro per venirne fuori. Chiedo solo una cosa alle persone che ci tengono a me: non dimenticatemi».
E nessuno lo dimenticherà, a partire dal social network, ove nelle ultime ore tanti amici hanno risposto al suo ultimo, disperato desiderio di vincere quella maledetta solitudine che lo aveva catturato. Messaggio con foto, come si fa in questi casi; foto in cui Luca appare con il volto un po’ serio, in t-shirt blu, capelli lunghi con il ciuffo da una parte. Oggi tutti a chiedersi perché non avevano capito l’imminente tragedia. Una doppia tragedia per coloro che l’hanno vissuta da vicino.
Appena 14 anni e un ottimo profilo di studente, con una media di voti molto alta, quella dell’altro giovane che ieri ha tentato il suicidio a Genova. Un altro ragazzo fragile, tanto che dopo un rimprovero di genitori e preside, ha tentato di uccidersi gettandosi dalla finestra della sua abitazione, al quarto piano di un condominio in una zona elegante e residenziale di Genova.
Un volo di decine di metri che sarebbe stato letale se gli alberi sotto casa non avessero attutito la caduta. Le sue condizioni sono comunque molto gravi ed è ricoverato al san Martino di Genova in coma farmacologico. Tutto a causa dei rimproveri ricevuti – ha scritto il giovane motivando ai genitori il suo gesto – per aver messo su Facebook alcune foto che gli aveva scattato in aula, al prestigioso liceo classico e scientifico "Martin Luther King", un suo compagno di classe e che lo mostravano durante un’interrogazione a sbeffeggiare la professoressa e mostrarle la lingua. Immagini che hanno fatto il giro delle Rete in poche ore e viste anche dal padre di un altro studente, che ha subito chiamato il preside.
Quest’ultimo lo aveva convocato per la mattina successiva ma il 14enne, la sera prima dell’incontro, ha tentato il suicidio. Il pomeriggio di rimproveri da famiglia e insegnanti lo hanno gettato nello sconforto e nella vergogna. Non ha retto alla tensione ed ha deciso di compiere un gesto assurdo e folle poche ore più tardi, quando era solo in casa.
Francesco Dal Mas e Dino Frambati
«Aborto, una battaglia di laicità» - Roccella - Assemblea delle associazioni locali di «Scienza&Vita» Il sottosegretario: in arrivo « indicazioni» sulla pillola Ru486 - DA ROMA - GIANNI SANTAMARIA – Avvenire, 22 maggio 2010
Sulla pillola abortiva Ru486 il ministero del la Salute «sta confezio nando un pacchetto di infor mazioni e indicazioni per le Regioni», per superare le cri ticità dal punto di vista am ministrativo e del protocollo. Lo ha annunciato ieri il sottosegretario alla Salute, Eu genia Roccella, a margine del suo intervento al VII incon tro nazionale delle associa zioni locali di 'Scienza & Vi ta', il sodalizio in difesa del la vita nato in occasione del referendum sulla legge 40 e ramificato su tutto il territo rio nazionale. La Roccella sottolinea che le indicazioni fornite non sa ranno le linee guida, perché queste «dovrebbero essere condivise dalla conferenza Stato-Regioni e approvate al l’unanimità ». Ma comunque il ministero darà «alcune in dicazioni, irrinunciabili, in osservanza dei pareri del Consiglio superiore di sanità per quanto riguarda le criti cità amministrative legate, ad esempio, all’eventuale rientro a casa delle donne con dimissioni volontarie». E aggiunge: «Daremo indi cazioni anche per quanto ri guarda la scheda di raccolta dati. Quella tuttora utilizza ta ed elaborata dall’Istat è da modificare perché è stata co struita sull’aborto chirurgi co ed è quindi del tutto ina deguata alla raccolta dei da ti per l’aborto con la pillola Ru486».
Il sottosegretario, infine, ha ricordato l’esigenza di ri spettare il parere sulla com patibilità della pillola con la nostra legislazione fornito dal ministro Maurizio Sac coni alla Commissione eu ropea. Ora, ha concluso Roc cella, bisogna «monitorare che le Regioni rispettino queste condizioni, altrimen ti viene messa in discussione l’ammissibilità della pillola». Il sottosegretario ha poi por tato un saluto ai partecipan ti, sottolineando come «sia 'la' battaglia laica sull’abor to oggi». Davanti a lei sede va chi della vigilanza opera tiva e culturale per promuo vere la sensibilità sulla vita e far sì che l’aborto non si trasformi in diritto individuale o in pratica domiciliare, ha fatto la ragione d’essere. Lo ha ribadito il presidente di Scienza & Vita Lucio Roma no in apertura dei lavori, de dicati proprio alla laicità co me elemento essenziale del 'Vocabolario della vita'. «Per noi la laicità è metodologica, non contenutistica, come per il laicismo e lo scienti smo. Quindi, argomenta se condo ragione, utilizzando la letteratura scientifica in ternazionale, e affronta le va rie tematiche restando aper ta alle riflessioni di ordine teologico e ad altre posizio ni ». Quindi, «il nostro impe gno è finalizzato a richiama re non solo il portato scientifico, ma anche la deriva an tropologica che l’aborto chi mico sta preparando. Ad e sempio con nuove formula zioni, come la cosiddetta pil lola del dopodomani, che verrà presentata come con traccettivo ma che è in realtà un abortivo, se assunta do po un rapporto fecondante». E sulle ambiguità del linguaggio e di molte posizioni che si definiscono laiche, ma laiche non sono, hanno det to la loro la vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica Laura Palazzani, e due consiglieri dell’associa zione, il sociologo Luca Dio tallevi e il giurista Alfredo An zani.
La prima ha individuato un 'filo rosso' nei vari manife sti di bioetica laica succedu tisi dal 1989 al 2007. «La lai cita è intesa come neutra lità ». Ma dietro la «facciata» questi documenti non sono schierati per una ben preci sa visione improntata al «soggettivismo morale», che comprende il sì alla ricerca sugli embrioni, sul diritto a morire e così via. A queste cose non si può dire 'no' senza essere tacciati di lesa laicità. In realtà il discorso che i cattolici fanno su que sti temi è considerato e ge nera anche fastidio – ha ag giunto Anzani – perché va dritto all’«umano». E lo fa «non per una rivendicazio ne di privilegi e di esigenze confessionali», bensì per la «pretesa di rendere servizio al tutto nella ricerca della ve rità ». Ecco, dunque, che la morale è «presidio di libertà» per la scienza, e anche per la democrazia. Si tratta di cercare faticosamente il con senso più ampio, parlando con tutti e convincendo. E vi gilando, se vengono oltre passati, come spesso accade nelle legislazioni, i limiti del moralmente consentito. Diotallevi - oltre a fornire u na precisa distinzione tra lai cità alla francese, che pre tende di confinare la religio ne nell’ambito del privato, della coscienza, e libertà re ligiosa all’americana che in vece «fonda ogni altro dirit to » - ha delineato i contenu ti dell’agenda in vista della Settimana sociale di Reggio Calabria (è vicepresidente del Comitato organizzatore). Proprio a partire dalla di stinzione fatta, «il bene co mune è qualcosa a cui più soggetti concorrono». La po litica («che va ridotta allo sta to laicale») non si può sosti tuire ai corpi intermedi nel lavoro, nell’educazione. E nella promozione della vita.
Teresa Manganiello l’analfabeta sapiente - DA BENEVENTO VALERIA CHIANESE - Oggi a Benevento, durante il rito presieduto da Amato, verrà proclamata beata la terziaria francescana di Montefusco. Una vita spesa per i malati e i poveri – Avvenire, 22 maggio 2010
Sul sagrato della basilica di Santa Maria delle Grazie a Benevento si celebra questo pomeriggio, alle 16, il rito di beatificazione della venerabile Teresa Manganiello, laica, terziaria francescana. È l’«analfabeta sapiente» di Montefusco – «città regia» del Principato Ultra e oggi provincia di Avellino – dove Teresa nacque il 1° gennaio 1849, penultima dei dodici figli di Romualdo Manganiello e Rosaria Lepore, piccoli agricoltori, pieni di fede e di pietà cristiana. Come tanti bambini delle campagne del Sud di quel tempo, la piccola Teresa non frequentò la scuola e visse all’ombra della casa colonica. La sua formazione e la sua crescita, avvenute nella trasparenza, nella semplicità, nella delicatezza, nell’umiltà della vita contadina, ricorda lo sbocciare di un «fiore di campo». Un cammino condotto anche attraverso le occupazioni e le preoccupazioni quotidiane, lavorando nei campi e in casa, con dedizione e generosità. In continua unione con Dio, Teresa non si disperdeva in discorsi vani ed invitava dolcemente anche le sue compagne a coltivare purezza e amore verso Dio e verso i fratelli. Suoi prediletti erano i bambini, di cui si prendeva cura come una madre premurosa. A chi le chiedeva come facesse a tenerli docili tra le tante faccende rispondeva: «Me li quieta la Madonna». Amava tutti in Dio, ma soprattutto i poveri, i malati di ogni tipo, gli sventurati, i carcerati, gli orfani, che le strappavano lacrime di sofferenza e che ricordava nella preghiera. Per Teresa erano immagine di Dio e personificazione di Gesù. Particolare attenzione rivolgeva ai malati. Per essi aveva allestito in casa una «farmacia», con medicinali ricavati dalle erbe da lei stessa coltivate. Era il luogo dove la sua scelta di povertà, vissuta con gioia e semplicità, diventava più visibile. Teresa si aprì alle «luci del divino» in una famiglia profondamente cristiana, ma proseguì il cammino ascetico, fino alla santità eroica riconosciuta dalla Chiesa, nel Terz’Ordine francescano. Nella primavera del 1869 conobbe il superiore del convento dei Cappuccini di Montefusco, padre Lodovico Acernese, uomo schietto e umile, di grande ingegno e di pietà serafica, convinto che il Terz’Ordine francescano fosse un provvidenziale mezzo di riforma per una società sbandata e corrotta. «C’è da ritenere che l’incontro di Teresa con padre Lodovico non dovette essere casuale, come nulla nella vita dell’uomo, che è nelle mani di Dio» commenta madre Pasqualina Di Donato Savino, superiora generale delle Suore Francescane Immacolatine, uno dei frutti dell’incontro di Teresa con padre Lodovico. La futura beata, che aspirava a vivere sempre più intensamente la vita cristiana, trovò nel religioso la guida illuminata. Riceverà molto e altrettanto abbondantemente donerà. Fu lei a suggerire a padre Lodovico l’idea di fondare una Congregazione, facendogli superare paure e incertezze, per offrire a tante anime di buona volontà un ideale nuovo di perfezione evangelica e di apostolato a servizio della Chiesa.
Teresa non vide la Fondazione sognata – morì per tubercolosi il 4 novembre 1876, a ventisette anni – ma ne fu l’ispiratrice, la «pietra angolare», la «matrice spirituale», la «madre» che ha portato l’opera in grembo. La Congregazione delle Suore Francescane Immacolatine, estesa nel mondo con le sue missioni, si caratterizza per una spiritualità francescana e mariana, nell’orizzonte di una atteggiamento penitenziale e di un costante impegno sociale. Chiarisce suor Daniela del Gaudio: «Viviamo il carisma di Teresa in una duplice dimensione: da una parte la riparazione, in quanto anche noi viviamo una vita di penitenze e di preghiera per impetrare le grazie per gli altri, e dall’altra la formazione e la catechesi perché vogliamo continuare nel nostro apostolato l’ansia di evangelizzazione che Teresa provava, per far sì che il Vangelo diventi veramente norma di vita nella scuola, nella parrocchia e soprattutto nella famiglia, per un’umanità migliore ispirata ai principi cristiani».
Inquisizione: ennesima leggenda nera sulla Chiesa che va confutata con i fatti. A quel tempo era necessaria per arginare le eresie. Molti santi furono inquisitori. Avrei più fiducia di un inquisitore che di un magistrato democratico di oggi - Bruno Volpe – dal sito Pontifex.roma.it
Tempo fa, il professor don Renzo Lavatori, pur censurando alcuni metodi cruenti, segnalò che in generale sulla Inquisizione circolano molte voci e leggende inventate o ingigantite. Se quella era la tesi di un uomo di Chiesa e dunque ( lecitamente) poteva apparire di parte, ecco quella dello storico, il celebre studioso del medio evo, uomo di statura internazionale, professor Franco Cardini. Professor Cardini, lo storico, come valuta il fenomeno Inquisizione?: " alt. Fermiamoci, lo storico non emette giudizi di valore e tanto meno di giustezza teologica o etica, ma registra con scrupolo e rigore i fatti e dopo li analizza, ma senza influenzare il lettore". Fatta la precisazione di metodo, che ne dice lo studioso?: " dice che la Inquisizione era necessaria e va segnalato che dire Inquisizione é sbagliato in quanto se vogliamo le Inquisizioni erano quattro, rispetto a quel tempo storico era giustificata ed anche comprensibile. ...
... Se poi vogliamo leggere i fatti di allora con gli occhi e la mente di oggi siamo lontani dalla correttezza e dalla verità storica, ripeto, storica".
Che dire?: " che la Chiesa e in genere la società si videro obbligate a difendersi dalle eresie dilaganti e poiché in quell 'epoca non vi era intenet, non esistevano i mezzi di comunicazione di massa e tanto meno la iea del garantismo non era sviluppata, per tutti, ecco spiegata la reazione della Chiesa che in qualche maniera doveva difendersi".
Sembra di capire che si tratta spesso di una leggenda nera?: " effettivamente é uno dei tanti luoghi comuni che molti cavalcano senza neppure conoscere la storia, basta solo gridare alla Inquisizione per parlare di dittatura. Ma la Inquisizione, se proprio vogliamo, esiste anche oggi ed é molto, ma molto più insidiosa".
Quale inquisizione?: " quella del pensiero unico, di chi pretende non con la violenza fisica, ma con la dittatura del mezzo,con il presunto monopolio di cultura, di ritenere le proprie idee superiori alle altre e di creare una egemonia. Questo atteggiamento é stato tipico sia della sinistra che della destra. Penso che paragonando le cose sia più discutibile quella di oggi".
Ma risponde al vero che persino alcuni santi parteciparono alla Inquisizione?: " assolutamente vero. Ma le loro intenzioni, riferite al tempo e alla esigenza di allora, erano rette e non criminali. Agivano in perfetta buona fede e non con malizia. Poi va detto che i giudici della Inquisizione, nel loro modo, erano dei garantisti".
Garantisti?: " certo. Prima di tutto erano preparati, poi ascoltavano con attenzione le tesi avverse, le studiavano con concentrazione e muovevvano le loro osservazioni e contestazioni. I metodi usati ovviamente, con la testa di oggi, sono non ammissibili, ma gli Inquisitori credevano realmente di agire per il bene della Chiesa e dunque mettendosi nella loro logica, vanno rispettati e riconsiderati. La creazione di leggende nere non ha senso".
Che cosa pensa dei giudici di quel tempo?: " le dico che mi sentirei molto più sereno nel farmi giudicare da un inquisitore, perché mi aspetto le sue domande e le sue contestazioni, rispetto ad un magistrato presunto democratico, di oggi".
Bruno Volpe
Santa Inquisizione: sfatiamo la "favola del Lupo Mannaro" ... Tipico argomento usato da atei e comunisti: e gli 80 milioni di morti causati dallo Stalinismo? - Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.) – dal sito Pontifex.roma.it
Come promesso nel mio articolo circa gli "Atti del Simposio Internazionale sull'Inquisizione" in questi giorni mi sono dedicato a tempo pieno sullo studio della famigerata “leggenda nera” e, prendendo spunto da svariati testi ufficiali della Chiesa, nonché libri di storia ed enciclopedie, sono riuscito a redigere un piccolo opuscolo abbastanza oggettivo e storicamente fondato. Negare l’esistenza dei misfatti compiuti in nome di Dio sarebbe come mentire a me stesso ed all’umanità, tuttavia negli appunti che seguiranno noterete come non è tutto vero ciò che ci viene raccontato; anzi, la verità storica riportata dalla maggior parte dei testi “di regime” è pura menzogna anticristiana. Cominciamo facendo un pò di storia: “L'Inquisizione è l’istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e punire, mediante un apposito tribunale, i sostenitori di teorie considerate contrarie all’ortodossia cattolica”.
Questo è quanto afferma l’enciclopedia on line Wikipedia. Nella realtà l’Inquisizione era un organo di controllo, facente parte dell’organigramma “Vaticano”, deputato alla difesa della fede ed di supporto ai tribunali secolari, nell’analisi dei reati di eresia. Per fare un esempio concreto, è un pò come accade oggi quando, dinanzi ad un reato, c’è un giudice dello Stato che ascolta, un pubblico ministero che formula accuse, un avvocato difensore ed infine una serie di figure (esempio i periti) che intervengono per valutare la veridicità e la fondatezza di accusa e difesa. L’Inquisizione, nel 90% dei casi, era oggettivamente un consulente in materia di fede che interveniva nei processi civili in caso di accuse di eresia.
“Storicamente, l'Inquisizione si può considerare stabilita già nel Concilio presieduto a Verona nel 1184 da papa Lucio III e dall’imperatore Federico Barbarossa, con la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem e fu perfezionata da Innocenzo III e dai successivi papi Onorio III e Gregorio IX, con l’occorrenza di reprimere il movimento cataro, diffuso nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale, e di controllare i diversi e attivi movimenti spirituali e pauperistici”. [Wikipedia].
“Nel 1252, con la bolla Ad extirpanda, Innocenzo IV autorizzò l’uso della tortura e Giovanni XXII estese i poteri dell’Inquisizione nella lotta contro la cosiddetta stregoneria. Tale Inquisizione medievale si distingue dall’ Inquisizione spagnola, istituita da Sisto IV nel 1478 su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella, che si estese nelle colonie dell’America centro-meridionale, e dall’ Inquisizione portoghese, istituita nel 1536 da Paolo III su richiesta del re Giovanni III, che si estese al Brasile, alle Isole di Capo Verde e a Goa, in India”. Questo paragrafetto, tratto sempre da Wikipedia, tende ad essere fazioso e, in seguito, vi spiegherò nel dettaglio le mie motivazioni a riguardo.
Allo scopo di combattere più efficacemente la Riforma protestante, il 21 luglio 1542 Paolo III emanò la bolla Licet ab inizio, con la quale si costituiva l’ Inquisizione romana, ossia la «Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione del Santo Uffizio». Mentre nell’Ottocento gli Stati europei soppressero i tribunali dell’Inquisizione, questa fu mantenuta dallo Stato pontificio e assunse nel 1908, regnante Pio X, il nome di «Sacra Congregazione del Santo Uffizio», finché con il Concilio Vaticano II, durante il pontificato di Paolo VI, in un clima profondamente mutato dopo il papato di Giovanni XXIII, assunse nel 1965 l’attuale nome di «Congregazione per la Dottrina della Fede».
In questo primo articolo dedicato alla Santa Inquisizione vi riporterò parte della conversazione che Gianpaolo Barra, direttore de "il Timone" ha tenuto a Radio Maria giovedì 4 marzo 1999, durante la "Serata Sacerdotale" condotta da don Tino Rolfi, Conservando lo stile colloquiale e la divisione in paragrafi numerati:
Preliminari
1. In questa conversazione affrontiamo un argomento delicato, di cui si parla molto ma di cui si conosce poco: l'Inquisizione.
2. Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti.
3. "Come è possibile che la vostra Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell'Inquisizione?" ci domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici si aggiungono al coro di quelli che puntano il dito accusatorio contro la Chiesa del passato e talvolta rincarano la dose, per non sentirsi fuori moda, praticando quella strana disciplina che sta diventando comune nel nostro mondo: quella di dare le colpe di ogni male ai Cristiani del passato.
4. Gli amici radioascoltatori sanno bene che l'Inquisizione è un argomento utilizzato per denigrare la storia della Chiesa e sanno bene che denigrando la storia della Chiesa si finisce prima o poi per denigrare la Chiesa tutta intera, quindi anche la fede che essa insegna e trasmette.
5. Stasera, da buoni apologeti, quindi da difensori della Chiesa, tenteremo di fare un pò di chiarezza su alcuni aspetti dell'Inquisizione. Ripeto: su alcuni aspetti, i più utilizzati dalla propaganda anticattolica, non su tutta l'Inquisizione.
Il Rogo
6. Veniamo subito ad un primo punto. Che cosa viene in mente appena si parla di Inquisizione? Viene in mente il rogo, la morte per rogo.
7. Nell'immaginario popolare si pensa che i tribunali dell'Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell'inquisitore finivano al rogo.
8. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa.
9. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica.
10. Innanzitutto, va precisato che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo.
11. Fu uno dei più grandi avversari della Chiesa Cattolica e del Cristianesimo, l'imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l'impero (1231-2) - e lui era la massima autorità dell'impero e poteva farlo, allora, - l'eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole.
12. Dunque, è vero che quando il tribunale dell'Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, né era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio secolare della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza.
13. Detto questo, entriamo un pò nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L'esame dei dati ci indica che i tribunali dell'Inquisizione furono estremamente benevoli, furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare.
14. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l'esempio di Bernardo Guy, che ha esercitato con una certa severità l'ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l'elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci - 9 pellegrinaggi - 143 servizi in Terra Santa - 307 imprigionamenti - 17 imprigionamenti platonici contro defunti - 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti - 69 esumazioni - 40 sentenze in contumacia - 2 esposizioni alla berlina - 2 riduzioni allo stato laicale - 1 esilio - 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato - 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati.
15. L'Inquisizione di Pamiers ci fornisce i seguenti dati: dal 1318 al 1324 furono giudicati 98 imputati. Due furono rilasciati - per 21 manca ogni informazione e per questo si pensa che non subirono condanne - 35 condannati alla prigione e 5 abbandonati al braccio secolare. I rimanenti 25 furono assolti.
16. Queste proporzioni valgono anche per quella considerata la più terribile delle Inquisizioni, quella spagnola. Lo storico danese Gustav Henningsen ha analizzato statisticamente 44.000 casi di inquisiti tra il 1540 e il 1700 e ha rilevato che solo l' 1°/o fu giustiziato.
17. Soltanto l' 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell'Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: "La vellutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari"'.
18. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’Inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell'immaginario popolare. Almeno noi cattolici evitiamo di farci raggirare da essa.
La Tortura
19. Veniamo ad un secondo punto. Dopo il rogo, appena si parla di Inquisizione, l'altra cosa che viene in mente è la tortura.
20. Sappiamo che la tortura veniva applicata dai giudici inquisitori. Vi erano precise disposizioni ecclesiastiche che stabilivano la liceità di costringere l'Inquisito a confessare la sua colpa.
21. La procedura inquisitoriale ha fatto ricorso alla tortura. Essa fu ordinata con la bolla Ad extirpanda di Papa Innocenzo IV il 15 maggio 1252. Leggiamo il passo di questa bolla che ci interessa: "II podestà o il rettore della città saranno tenuti a costringere gli eretici catturati a confessare e a denunciare i loro complici".
22. Ora, di solito i denigratori dell'Inquisizione si fermano qui. E noi restiamo senza parole. Ma si dimenticano di dirci che nella stessa bolla si precisa che la tortura degli imputati non doveva "far loro perdere alcun membro o mettere la loro vita a repentaglio e, assolutamente, non doveva prevedere perdita di sangue".
23. Dunque, si prevede una tortura, ma una tortura che non può provocare mutilazioni, non può far morire il torturato. E non solo. Si prevede anche che la tortura non poteva durare, di regola, più di 15 minuti, che si poteva applicare una sola volta, che non poteva essere ripetuta e che la confessione così ottenuta non aveva alcun valore ai fini del processo se non era confermata dall'imputato dopo due giorni e in condizioni normali.
24. Ma fermiamoci un momento a riflettere. Ci rendiamo conto che queste disposizioni ecclesiastiche riguardanti la "tortura" avrebbero fatto sorridere i professionisti della tortura del nostro secolo?
25. Le testimonianze di coloro che sono finiti sotto tortura dei nazisti o dei loro degni compari comunisti ci hanno descritto veramente che cosa è la tortura e chi ha ascoltato queste testimonianze si accorge subito che la tortura prevista dalle procedure inquisitoriali è semplicemente dilettantesca.
26. Ma andiamo avanti. Sappiamo che la tortura fu applicata con somma cautela e solo in casi eccezionali. I Papi ripeterono più volte che la tortura non poteva essere spinta fino alla perdita di un membro e ancor meno fino alla morte. Si poteva applicare solo quando tutti gli altri mezzi di investigazione erano stati esauriti. Ancora una cosa: non poteva decidere arbitrariamente l'Inquisitore, magari troppo ansioso della ricerca della verità. Doveva esserci anche il parere favorevole del vescovo, e spesso vescovo e giudice inquisitore non andavano d'accordo.
27. Oggi abbiamo informazioni precise su quante volte venne applicata la tortura: -nelle 636 sentenze iscritte nel registro di Tolosa dal 1309 al 1323, la tortura fu applicata una sola volta. -A Valertela, dal 1478 al 1530 si celebrarono 2354 processi. La tortura si applicò solo 12 volte.
28. Come si vede da questi dati, non solo la tortura era estremamente più leggera di quelle che la nostra epoca, che non è un'epoca cristiana, ha escogitato, ma veniva applicata raramente, praticamente quasi mai.
Le Garanzie
29. Veniamo ad un terzo punto. Quando parliamo di Inquisizione si pensa sempre a giudici il cui potere sarebbe stato così totale, così assoluto, così insindacabile che può essere paragonato a quello esercitato nei moderni sistemi totalitari.
30. Ora, anche in questo caso bisogna sfatare questa leggenda. Non è affatto vero che i giudici inquisitoriali fossero onnipotenti e che, di conseguenza, l'imputato non avesse alcuna garanzia di un equo processo.
31. Dobbiamo subito precisare che gli inquisitori erano costantemente controllati. Papa Innocenzo IV (1246) e papa Alessandro IV (1256) ordinano ai provinciali e ai generali dei Domenicani e dei Francescani di deporre gli inquisitori dei loro ordini che, a causa della loro crudeltà, avessero provocato proteste popolari.
32. Come si vede, il papa del tempo teneva conto dell'opinione pubblica e ordinava di punire il giudice inquisitore che avesse provocato proteste popolari e fosse andato contro la Parola.
33. Non solo. Al Concilio di Vienna, papa Clemente V (1311) fulminò di scomunica - scomunica da potersi togliere solo in articulo mortis e sotto riserva della riparazione del danno - l'Inquisitore che avesse approfittato delle sue funzioni per ottenere guadagni illeciti e per estorcere agli accusati somme di denaro.
34. Andiamo avanti. I Vescovi avevano l' obbligo di segnalare al Papa tutti gli abusi che venivano commessi nel corso della procedura e di denunciare i colpevoli. Lo stesso obbligo era imposto a tutti quelli che, prestando aiuto agli inquisitori, erano in ogni istante testimoni dei loro atti.
35. Capitò anche che i vescovi di Reims e di Sens avvisarono il Papa che Robert La Bougre, un domenicano, era un inquisitore crudele. Roma indagò, questo Inquisitore viene destituito e addirittura incarcerato (1239).
36. Altro che onnipotenza ! Altro che potere insindacabile dei giudici inquisitoriali. Questa leggenda va sfatata.
37. Come va sfatata un'altra leggenda: quella che ci narra di un imputato sempre indifeso, senza garanzie e dunque destinato irrimediabilmente alla condanna.
38. Molte garanzie che le norme canoniche, cioè della Chiesa, prevedevano per l'imputato inventate in quel tempo, al tempo dei tribunali dell'Inquisizione, durano ancora oggi, sono entrate nel nostro sistema giudiziario.
39. Facciamo qualche esempio. Innanzitutto l'Inquisitore non era mai solo, ma formulava il suo giudizio circondato da una giuria, composta da laici ed era questa giuria che decideva in merito al valore da dare ai testimoni e alle testimonianze.
40. Questi laici erano esperti di diritto, e da nessun documento risulta che si accontentassero di svolgere un ruolo da comparse e, soprattutto, costituivano la garanzia che l'Inquisitore non poteva allontanarsi dal diritto a proprio piacimento.
41. Un altro esempio, un'altra garanzia per l'imputato. L'imputato poteva dichiarare di avere dei nemici mortali, doveva provarlo, doveva spiegare i motivi e fare i nomi di questi nemici. Da quel momento nessuno di quelli indicati dall'imputato poteva far parte della giuria e se vi era stato incluso veniva allontanato.
42. Un terzo esempio: per togliere ai testimoni la tentazione di approfittare del segreto di cui venivano circondati per accusare degli innocenti, gravissime pene colpivano le false deposizioni. Uno storico protestante, il più fiero avversario dell'Inquisizione, Charles Lea, scrive onestamente: "Quando veniva smascherato un falso testimone costui era trattato con la stessa severità usata per gli eretici".
43. Gli storici hanno dimostrato e qui ci sono veramente delle sorprese che le pene inflitte dall'Inquisizione venivano spesso attenuate o addirittura cancellate nella pratica.
44. Iprigionieri ottenevano permessi di congedo da passare a casa. A Carcassonne, il 13 dicembre 1250, il vescovo diede ad una certa Alazais Sicre il permesso di uscire dal carcere dov'era rinchiusa per crimine di eresia e, fino a Ognissanti, di andare dove voleva in tutta libertà. Vi sono molti esempi di questo genere, non si tratta affatto di un caso isolato.
45. Esistevano i congedi per malattia Abbiamo molti casi documentati. L'Inquisizione metteva in libertà provvisoria i detenuti le cui cure erano utili ai genitori o ai figli. Talvolta si giungeva a commutare la pena.
46. Nel 1244 l'arcivescovo di Narbonne e i vescovi di Carcassonne, di Eine, di Maguelonne, di Lodeve, di Adge, di Nimes, di Albi, di Beziers, di Saint Benoit decisero: "Nel caso in cui per l'assenza del carcerato dovesse incombere un evidente pericolo di morte dei figli o dei genitori, procurare di ovviare al pericolo facendo in modo, laddove non ci sia altro rimedio, di commutare prudentemente la pena del carcere in un'altra; occorre infatti in tal caso mitigare il rigore con la mansuetudine".
47. Perfino gli Inquisitori più severi attuarono questa prassi. Bernard de Caux, nel 1246, condannò alla prigione perpetua un eretico recidivo, Bernard Sabatier; ma nella stessa sentenza aggiunse che, essendo il padre del colpevole un buon cattolico, vecchio e malato, il figlio poteva restare presso di lui per accudirlo finché fosse rimasto in vita.
48. Malgrado il suo odio anti-cattolico, Charles Lea riconosce che "questa facoltà di attenuare le sentenze era frequentemente esercitata" e ne cita un considerevole numero di casi.
49. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione "perpetua e irremissibile". Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al "carcere perpetuo per anni uno". Solitamente "perpetuo" vuoi dire 5 anni, "irremissibile" vuoi dire 8 anni. La pena dell'ergastolo non era prevista: fu inventata nel '700 illuminista, cioè nell'epoca che ha dato il via alla nostra società anticristiana e anticattolica.
50. Facciamo un'ultima considerazione e sfatiamo un'ultima leggenda. Questa leggenda dice, naturalmente, che tutti gli eretici erano buoni cristiani, che si preoccupavano solo di vivere in pace la loro fede diversa da quella ufficiale.
51. Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell'immaginario popolare che gli eretici fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue.
52. Gli eretici erano puniti anche dal potere civile perchè costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai catari. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell'anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Non bisogna comunicare la vita. Ma distruggere la famiglia, ricordiamolo era quanto distruggere l'intera società medievale. Aborrivano il giuramento, pilastro dei rapporti personali nel Medioevo: dal giuramento traeva la sua forza ogni autorità. Lottavano anche violentemente contro la Chiesa.
53. Per fare un solo esempio: nel 1112, la diocesi di Utrecht viene sconvolta da un eretico chiamato Tanchelmo che negava l'autorità del Papa, occupava e devastava le chiese, bastonava e cacciava i preti, appoggiato da 3.000 uomini organizzati e armati. I vescovi di Utrecht e di Colonia decidono di combatterlo non con l'uso della forza, ma chiamando a predicare San Norberto, il fondatore dei Premostratensi.
54. Tanchelmo fu poi perseguitato da Goffredo il barbuto, duca di Lorena. E noi sappiamo che il duca era un acerrimo nemico e un severo persecutore della Chiesa.
55. Credo che per stasera possa bastare. Tante altre cose si dovrebbero dire. Naturalmente, gli amici radioascoltatori si saranno accorti che non ho trattato esaurientemente tutto il tema dell'Inquisizione. Ci vorrebbe ben più di una trasmissione. Ma ho voluto sottolineare solo alcuni punti scelti tra quelli più dibattuti, più utilizzati per contestare in blocco la storia della Chiesa, specialmente della Chiesa medievale, per avvertire di stare attenti, di verificare bene le cose che ci vengono dette, per incoraggiare tutti a non avere paura della verità.
Bibliografia - Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della inquisizione, Leonardo, Milano 1994. - Jean-Pierre Dedieu, L'Inquisizione, Edizioni Paoline, Cinisello Bal.mo (MI) 1990. - John Tedeschi, Il giudice e l'eretico, Vita e pensiero, Milano 1991. - Luigi Negri, Controstoria. Una rilettura di mille anni di vita della Chiesa, San Paolo, Cinisello Bal.mo (MI) 2000. - Franco Cardini [a cura di], Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Mon.to (AL) 1994.
Terminato questo breve articolo, non posso far altro che procedere nell’analisi di atri documenti storici e, come promesso, sarà mia premura studiarli, commentarli, impaginarli e pubblicarli sul sito. Per ulteiori dettagli, per ora, potete leggere questo altro mio articolo.
Carlo Maria di Pietro (WebMaster e Promoter della M.S.M.A.)