Nella rassegna stampa di oggi:
1) CATECHESI DI BENEDETTO XVI SUL "MUNUS REGENDI" DEL SACERDOTE - Intervento in occasione dell'Udienza Generale
2) CONCILIO VATICANO II ED ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ - Intervista a mons. Luigi Negri, Vescovo di S. Marino-Montefeltro - di Antonio Gaspari
3) Giobbe e il senso della sofferenza - A ognuno un frammento della Croce - di Philippe Nemo - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010
4) La filosofia della provvidenza ne "Il signore degli anelli" Tolkien e la tessitura degli eventi - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010 - Si è svolto a Modena il convegno "Tolkien e la filosofia" organizzato dall'Istituto filosofico di studi tomistici e dall'Associazione romana di studi tolkieniani. Pubblichiamo alcuni stralci della relazione di uno dei maggiori studiosi dello scrittore britannico e, a destra, l'estratto di un intervento durante il dibattito dedicato al tema "Tolkien pensatore cattolico?". - di Tom Shippey
5) Una scintilla che rivela l'uomo all'uomo - di Andrea Monda - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010
6) OSTACOLI alla LIBERAZIONE - L'ostacolo più grosso e più frequente è se una persona ha un rancore nel cuore - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
7) La Chiesa non deve essere moderna e tanto meno seguire le mode del mondo: la Parola di Dio é sempre quella. Il cristiano sia coerente nella testimonianza sino al martirio. Il relativismo, grande cancro dei nostri tempi - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
8) Intervista a S.E. Mons. Luigi Negri - Né comunione né scomunica - 21/05/2010 - (Il Timone, Maggio 2010, pp. 42-43)
9) PAPA/ Cari liberisti, è solo l’etica che dà valore al mercato che adorate - Marco Cobianchi - giovedì 27 maggio 2010 – ilsussidiario.net
10) Avvenire.it, 27 maggio 2010 - L'ASSEMBLEA GENERALE - «Alleanza educativa per il futuro dell’Italia» - Mimmo Muolo
11) Avvenire.it, umanesimo e scienza - 2010-05-26 - 7 - Il fisico Russo - Ma anche Euclide è un classico - Luigi Dell’Aglio
12) Avvenire.it, 27 maggio 2010 - Chi non studia e non fa. Una sfida - Zombie tra noi E sono figli nostri - Umberto Folena
13) Fine vita: leggi «permissive», eutanasia facile –di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 27 maggio 2010
14) Michele Aramini - il bioeticista - Il bivio: curare o manipolare? - Bisogna stare in guardia rispetto all’idea del «riduzionismo biologico» che equipara l’uomo a qualsiasi essere vivente E finisce per legittimare ogni manipolazione del patrimonio genetico – Avvenire, 27 maggio 2010
CATECHESI DI BENEDETTO XVI SUL "MUNUS REGENDI" DEL SACERDOTE - Intervento in occasione dell'Udienza Generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 26 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la catechesi tenuta questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro e dedicata al "munus regendi" del sacerdote, cioè alla sua missione di guida.
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Cari fratelli e sorelle,
L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.
Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità? Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.
La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, "curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati" (Presbyterorum Ordinis, 6). Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: "Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore" (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).
Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.
Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo "pastorale" quasi in opposizione al concetto di "gerarchico", così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di "comunione". E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola "gerarchia", che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato. Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà "gerarchia", l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà "gerarchia". L’opinione comune è che "gerarchia" sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola. Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe "sacro dominio", ma il vero significato non è questo, è "sacra origine", cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la "gerarchia", non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio. E anche il Papa - punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa - non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella "regula fidei", nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.
Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).
Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore. Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.
Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: "figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi" (Gal 4,19).
Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio. Grazie!
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli dell’Arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, guidati dal loro Pastore Mons. Michele Castoro e dai Frati Cappuccini, qui venuti per ricambiare la mia visita dell’anno scorso nella loro terra, dove mi sono recato specialmente per venerare le spoglie di San Pio da Pietrelcina. Cari amici, vi rinnovo la mia gratitudine per l’affetto con cui mi avete accolto, ed auspico che quell’importante evento ecclesiale continui a segnare le vostre comunità, producendo numerosi frutti di bene. Saluto i partecipanti al pellegrinaggio promosso dalle Suore Francescane Immacolatine e dall’Arcidiocesi di Benevento, guidato dall’Arcivescovo Mons. Andrea Magione in occasione della beatificazione di Teresa Manganiello, e li esorto a proseguire nell'impegno di adesione a Cristo e di testimonianza evangelica, sull'esempio della nuova Beata. Saluto i rappresentanti della Corporazione di San Paolino da Nola, accompagnati dall’Arcivescovo Mons. Beniamino Depalma, gli esponenti dell’Associazione Nazionale Carabinieri delle Marche, qui convenuti con il Prelato di Loreto Mons. Giovanni Tonucci, e i fedeli della parrocchia di San Vittore, in Ravenna. Tutti ringrazio per la gradita partecipazione a questo incontro.
Rivolgo, infine, il mio saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Chiesa ricorda oggi San Filippo Neri, che si distinse per la sua allegria e per la speciale dedizione alla gioventù, che educò ed evangelizzò attraverso l'ispirata iniziativa pastorale dell'Oratorio. Cari giovani, guardate a questo Santo per imparare a vivere con semplicità evangelica. Cari malati, vi aiuti San Filippo Neri a fare della vostra sofferenza un'offerta al Padre celeste, in unione a Gesù crocifisso. E voi, cari sposi novelli, sorretti dall'intercessione di San Filippo, ispiratevi sempre al Vangelo per costruire una famiglia veramente cristiana.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
CONCILIO VATICANO II ED ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ - Intervista a mons. Luigi Negri, Vescovo di S. Marino-Montefeltro - di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 26 maggio 2010 (ZENIT.org).- Sono passati circa 45 anni dalla fine del Concilio Vaticano II, e mai come adesso, da più parti sta emergendo un intenso e profondo dibattito sugli insegnamenti e le implicazioni di questo avvenimento ecclesiale.
Tra le diverse interpretazioni, i Pontefici che ne hanno personalmente preso parte, quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sostenuto una lettura secondo la cosiddetta ‘ermeneutica della continuità’, secondo la quale il Concilio non si pone in contrasto con il millenario "depositum Fidei" proprio della tradizione cattolica.
Come ha spiegato il Pontefice Bendetto XVI durante la sua visita a Fatima, secondo questo tipo di lettura non c’è rottura tra modernità e tradizione.
Per comprendere quella che il Papa ha ribadito come “ermeneutica della continuità” l’associazione Vera Lux (http://www.centroveralux.it/) ha organizzato a San Marino un incontro di studio sul tema “Passione della Chiesa. Amerio e altre vigili sentinelle”.
Il convegno parte dall’opera del teologo Romano Amerio (1905-1997) “Iota Unum. Studio sulle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX” per proporre una articolata indagine sul periodo post-conciliare.
Al convegno interverranno tra gli altri don Nicola Bux, il prof. Matteo D’Amico e padre Giovanni Cavalcoli O.P.
La giornata di studi sarà presieduta e conclusa con una riflessione sulla figura di Benedetto XVI, da monsignor Luigi Negri Vescovo di S.Marino-Montefeltro.
Considerando il grande interesse che sta nascendo intorno al Convegno, ZENIT ha rivolto alcune domande a monsignor Negri.
Lei ha conosciuto personalmente Amerio?
Monsignor Negri: Ho conosciuto personalmente Romano Amerio perché è da lui che avevo ricevuto un suggerimento molto preciso per orientare i miei studi di filosofia sulla personalità di Tommaso Campanella a cui egli aveva dedicato una consistente parte della sua attività di studio e di insegnamento. Debbo a lui la riscoperta di questo grande autore che normalmente la storiografia laicista fa passare come uno degli antesignani della rivolta moderna contro la tradizione cattolica e che, invece, è un singolare testimone di un cattolicesimo che certamente riconquista a partire da più di un cedimento nei confronti di una mentalità laicista. Questo è il motivo di grande gratitudine che ho verso Amerio il quale per altro è stato per decenni insegnante al Liceo Cantonale di Zurigo, uno dei punti di maggiore impatto culturale non soltanto per il Canton Ticino, ma anche per buona parte dell’Italia.
E’ di grande attualità la discussione circa l’ermeneutica del Concilio Vaticano II, su cui Amerio ha molto riflettuto e scritto. Nel famoso volume - “Iota unum” - tradotto in varie lingue, Romano Amerio racconta di cosa accadde al Concilio Vaticano II e della crisi postconciliare, indicando quelle incrinature nella solidità della fede che ancora oggi feriscono la Chiesa. Potrebbe illustrarci il senso e la ragione di questa analisi critica?
Monsignor Negri: La lettura spassionata, a tanti anni di distanza, del libro “Iota unum” è la dimostrazione che Amerio aveva intuito come si stesse operando una frattura fra la tradizione e un certo modo di interpretare il Concilio Vaticano II. La sua quindi rappresenta una testimonianza intelligente e vissuta fino in fondo, espressa non senza sofferenza di questa frattura che si andava delineando e in cui l’interpretazione “modernista” o, come amava dire lui, “neoterica” del Concilio rischiava di mettere in crisi tutto un dato della tradizione dalla quale non si poteva prescindere. Nel suo volume emerge chiara la situazione così come l’ha delineata Benedetto XVI dicendo che ormai bisogna chiudere la vicenda della contrapposizione fra le ermeneutiche e imboccare la strada della continuità ermeneutica. Che poi in questa ri-lettura del Concilio - o meglio di tutto ciò che si è provocato dentro e fuori il Concilio - operata da Amerio qualche volta ci sia un po’ di accanimento risulta perfettamente comprensibile.
Qual è il principale contributo che questa giornata di studi potrà fornire?
Monsignor Negri: Io parteciperò a questo convegno come relatore parlando di Benedetto XVI e sono stato lieto di accogliere questa giornata di studi a S. Marino perché mi pare che nella linea del magistero di Benedetto XVI possa rappresentare un contributo su alcuni nodi molto importanti della storia recente della teologia che, una volta recuperati in modo critico, potrebbero favorire il dialogo e lo sviluppo della cosiddetta ermeneutica della continuità.
* * *
Sulle motivazioni che hanno condotto all’organizzazione della giornata abbiamo rivolto alcune domande a uno dei promotori, Lorenzo Bertocchi, studioso di Storia del Cristianesimo e appartenente al Centro Culturale “Vera Lux” di Bologna.
Perché avete deciso di dedicare un Convegno a Romano Amerio?
Bertocchi: Fin dalle origini la Chiesa ha sempre vissuto sofferenze e ostilità provenienti sia dal suo interno che dall’esterno, ma ha potuto contare sulla presenza di “sentinelle” che, per grazia di Dio, hanno saputo illuminarla su pericoli e rischi. Tra i pericoli va annoverato anche il tema della corretta interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, infatti, a partire dal famoso discorso alla Curia Romana del 2005 più volte Benedetto XVI è tornato sul tema della cosiddetta ermeneutica della continuità. La confusa interpretazione del Concilio, infatti, non è priva di conseguenze per la vita della Chiesa. In questo contesto Romano Amerio con la sua opera “Iota unum” ha proposto un’ articolata indagine sul tormentato periodo post-conciliare, non a caso il libro si chiude con queste parole: «Custos quid de nocte?» («Sentinella, che notizie porti della notte?») (Isaia 21, 11). Ecco perché il Convegno pone una particolare attenzione su Amerio, ma va ben oltre sottolineando anche l’opera di altre “sentinelle” come il Servo di Dio P. Tomas Tyn O.P. e soprattutto il Card. Joseph Ratzinger oggi Benedetto XVI.
Quali sono i fini che vi proponete di raggiungere con il Convegno?
Bertocchi: Per rispondere vorrei citare un passaggio di Benedetto XVI nell’udienza generale dello scorso 10 marzo: “Grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.” La giornata di studi promossa dal Centro Culturale Vera Lux quindi vuole animare il dibattito teso a sviluppare “l’unicità e la continuità della Chiesa” nel solco del Magistero e nella consapevolezza che la chiarezza dottrinaria non è solo un fatto elitario o intellettualistico, ma ha conseguenze importanti per tutto il popolo di Dio che facilmente può essere confuso da errori o interpretazioni eterodosse.
Giobbe e il senso della sofferenza - A ognuno un frammento della Croce - di Philippe Nemo - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010
Per il suo duplice aspetto fisico e psichico, la malattia di Giobbe è esemplare. Non consiste solo in una certa sofferenza, in un certo dolore che concerne esclusivamente una parte del corpo e dell'essere e che potrebbe essere alleviato appoggiandosi sulle parti che rimangono sane. Essa è un male totale. Fa perdere al soggetto i punti di riferimento psicologici e ontologici che gli permetterebbero di avere gli atteggiamenti classici di fronte al male, considerati comportamenti equilibrati in diverse civiltà: sopportarlo stoicamente, lottare contro di esso, o anche vivere la propria vita come un lutto, "gettare la spugna" e affrontare serenamente la morte. Mentre Giobbe aspira ardentemente a quest'ultima ("Ah! Vorrei essere strangolato! La morte piuttosto che i miei dolori", 7, 15), questa via d'uscita gli è preclusa. Poiché per darsi la morte, occorre avere l'equilibrio mentale minimo che permette di prendere una decisione e di realizzarla; bisogna, in questo senso, non essere malato! Quel che Giobbe prova, quindi, non è la morte, ma, al contrario, l'impossibilità di morire, l'"inferno", un'eternità di vita nella sofferenza. La malattia di Giobbe assume d'un tratto un significato iperbolico, confrontando Giobbe con un male non integrabile con il pensiero, né con alcuna delle mitologie o ideologie presenti nel suo contesto.
Un'ultima molla, tuttavia, non è spezzata. Giobbe non può, né vuole tacere, vuole parlare. "Non posso tacere. Parlerò nell'angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza della mia anima". Ma a chi parlare, dal momento che non può parlare agli amici che sono stati assenti come l'acqua in una fonte asciutta (cfr. 6, 15), né alla società che non lo comprende e che, ormai, addirittura lo accusa e lo perseguita (cfr. 17, 2-6), né al "Dio" Giustiziere, che si mostra indifferente all'evidente ingiustizia di cui è vittima (cfr. 9, 2-4)? È degno di nota il fatto che Giobbe d'un tratto si erga al di sopra della propria condizione. Rinunciando a porre la domanda egoista: "Perché accade questo a me? Perché ora?", pone la domanda generale del senso della vita per tutta l'umanità e per ogni epoca: "Perché questa folle avventura dell'esistenza? Perché siamo nati? Perché un Dio ci ha creati?".
Si sviluppa allora una meditazione o una preghiera che si rivelerà straordinariamente feconda. Giobbe sente che, proprio perché il male che egli subisce non è la risposta meccanica a una colpa che ha commesso, ha un'altra origine. Esso viene da un essere che è libero in relazione alla Legge e situato al di là di questa. Dal male Giobbe è interpellato. Attraverso la prova, "Qualcuno" lo cerca. E Giobbe finisce per comprendere che questo "Qualcuno" è Dio, ma un Dio molto diverso dal Dio Giustiziere di cui gli parlano gli amici, il quale è in realtà una semplice metonimia del mondo, un idolo pagano come gli altri. Egli comprende che questo Dio è una Persona, cioè Qualcuno di eccessivo, di imprevedibile, di terrificante, ma che anche attraverso ciò possiede una dimensione "umana", cioè può anche amare e quindi salvare.
Giobbe comprende anche di non essere, da parte sua, semplicemente un essere di natura, ingranaggio anonimo di un mondo assurdo, ma un'anima moralmente responsabile, chiamata alla vita eterna. In definitiva, egli interpreta quindi la prova che subisce come una Parola destinata a suscitare in lui una conversione morale ed escatologica radicale. Comprende che c'è un limite fondamentale nella morale tradizionale della ricompensa e che occorre superare questa "giustizia" falsa e chiusa a beneficio di una giustizia nuova. Non siamo liberi dal male quando non abbiamo commesso il male. Dobbiamo prendere su di noi la sofferenza altrui, quand'anche fossimo "innocenti". In definitiva, Giobbe pensa che Dio abbia voluto associare gli uomini alla sua lotta incondizionata contro il male. Egli vede attraverso un velo il Dio cristiano. Anticipa il fatto che Dio chieda a ciascuno di noi di portare un frammento della Croce.
(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
La filosofia della provvidenza ne "Il signore degli anelli" Tolkien e la tessitura degli eventi - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010 - Si è svolto a Modena il convegno "Tolkien e la filosofia" organizzato dall'Istituto filosofico di studi tomistici e dall'Associazione romana di studi tolkieniani. Pubblichiamo alcuni stralci della relazione di uno dei maggiori studiosi dello scrittore britannico e, a destra, l'estratto di un intervento durante il dibattito dedicato al tema "Tolkien pensatore cattolico?". - di Tom Shippey
Ne Il signore degli anelli Tolkien non ricorre mai alla parola "provvidenza". D'altra parte, utilizza le parole "fato" e "caso" molte volte. Quindi può sembrare che Tolkien fosse molto più consapevole del fato e del caso che della provvidenza, ma non è vero: esistono alcuni passaggi in cui l'autore esprime dubbi o permette ai suoi personaggi di farlo sull'esistenza stessa del caso.
Gandalf, per esempio, parlando con Frodo e con Gimli, dopo la Guerra dell'Anello, dice che potremmo definire triste la morte di Dain, il re dei Nani: "Certo le cose sarebbero potute andare diversamente e molto peggio, ma è stato evitato, perché una sera ho incontrato Torin Oakenshield (...) un incontro casuale, come diciamo nella Terra di mezzo". L'implicazione è che al di fuori della Terra di Mezzo, nelle Terre Immortali, quell'incontro non sarebbe stato considerato affatto un caso. Tutto questo viene suggerito diverse volte altrove.
Ho preso il testo de Il signore degli anelli e ho cercato tutte le espressioni "caso" e ne ho trovate tre. Poi ho provato con "fato" e ne ho trovate due. Ho rinvenuto altre sette espressioni nelle quali le parole caso o fato sono utilizzate per spiegare eventi, ma con il punto interrogativo, come i dubbi di Gandalf o di Bombadil sul fatto che i loro incontri fossero o no veramente avvenuti "per caso".
Tre di queste espressioni mi sembrano particolarmente importanti per la filosofia della provvidenza in Tolkien.
La prima si trova quando Merry e Pippin vengono portati via da Grishnakh, orco al servizio di Sauron, proprio quando i Cavalieri di Rohan attaccano. Grishnakh prende un coltello per ucciderli, ma la freccia di uno dei cavalieri lo colpisce. Quella freccia "è stata lanciata con perizia" oppure è stata guidata dal fato? Non lo sappiamo.
Tuttavia, se non fosse stata "lanciata con perizia", se fosse stata solo un colpo a caso, allora perché dire "guidata"? L'espressione "guidata" implica una guida e una intenzione deliberata. Può essere che anche altre cose in apparenza casuali siano invece intenzioni di qualche forza che non conosciamo.
Questo pensa l'elfo Gildor Iglorion. Incontra Frodo mentre con i suoi amici sta lasciando Shire e mettendo in fuga i Cavalieri Neri.
L'elfo è riluttante a dare a Frodo qualsiasi consiglio perché, come dice: "Gli elfi hanno i loro problemi e le proprie pene e sono poco interessati agli hobbit o a qualsiasi altra creatura sulla terra. I nostri sentieri si incrociano raramente, per caso o a uno scopo. Quest'incontro dev'essere più che un caso, ma lo scopo non mi è chiaro e temo di dire troppo".
Questo implica di nuovo che l'incontro fra Frodo e Gildor, come quello fra Gandalf e Thorin, non è stato casuale, bensì voluto, ma non da loro. Dunque sono "guidati" da forze sconosciute e, se lo sono loro, lo siamo anche noi? Quando, a Rivendell, Gandalf vede Frodo riprendersi dalla ferita di coltello infertagli dal Cavaliere Nero, dice che è stato fortunato a sopravvivere: "La fortuna o il fato ti hanno aiutato, per non dire il coraggio. Infatti il tuo cuore è illeso e solo la tua spalla è stata trafitta. E questo perché hai resistito fino allo stremo". Forse il fato ha aiutato Frodo. Tuttavia avrebbe potuto non farlo, se lui non avesse aiutato a sua volta il fato, esercitando il suo libero arbitrio di resistere.
Queste frasi non ci dicono molto né sono chiarissime, ma suggeriscono che ne Il signore degli anelli sono all'opera alcune forze e una di esse, secondo me, è quella che percepiamo come caso, ma che è di fatto il modo in cui opera la provvidenza, quella forza mai menzionata.
È corretto voler vedere nell'opera di Tolkien qualcosa che lo scrittore non menziona nemmeno una volta? Secondo me è implicita in tutta la struttura dei volumi secondo e terzo de Il signore degli anelli. È una struttura molto complessa, si potrebbe anche dire una struttura inutilmente complessa, a meno che non sia lì per richiamare la nostra attenzione su qualcosa.
Innanzitutto, permettetemi di ricordarvi, filosoficamente, cosa dice Filosofia a Boezio sulla provvidenza. Gli spiega che noi umani, in fondo, non siamo in grado di comprendere la natura della provvidenza perché percepiamo le cose a poco a poco, una dopo l'altra e le percepiamo anche come se riguardassero solo noi stessi: abbiamo una conoscenza solo limitata di ciò che accade al di fuori di ciò che vediamo. Non sappiamo da dove vengono le cose, che si tratti di frecce, di incontri o di altre persone. La Mente Divina non è così. Essa vede ogni cosa che accade, che è accaduta e che accadrà contemporaneamente. Vede le connessioni laddove noi vediamo soltanto eventi slegati tra loro. Può guidare eventi per sortire risultati che non possiamo prevedere. Può prendere in considerazione le nostre reazioni a quegli eventi per prepararne altri. Boezio utilizza l'immagine della ruota che gira. Al centro non si muove nulla. Alle estremità c'è il cambiamento continuo della Ruota della Fortuna. Re Alfred, traducendo Boezio con molte modifiche in anglosassone, chiarisce proprio questo, affermando che la ruota è la ruota di un carro che poggia su un asse, ha un mozzo, raggi e cerchioni. Siamo tutti sulla ruota, ma siamo lontanissimi dall'asse, che non si muove.
Più lontani si è dall'asse, più ci si sente in balia del caso, o del fato, o della sorte. Tuttavia queste sono solo parole e, per motivi filosofici aggiungerei un altro termine alla lista, ossia "fortuna". Sono tutte parole che servono a esprimere "il modo in cui gli umani percepiscono le azioni della Provvidenza".
Ne Il signore degli anelli Tolkien ci dice questo mostrando persone che non sono in relazione le une con le altre, ma sono sempre influenzate dalle azioni di altri, di cui non sanno nulla. Leggendo il libro, nello stesso tempo osserviamo la percezione limitata dei personaggi e alcuni accenni alla percezione generale della provvidenza. Ciò che chiamiamo "fortuna" è il risultato delle azioni di altre persone. La totalità delle azioni delle altre persone forma un disegno che è stabilito dalla provvidenza. Tuttavia definiamo "fortuna" o "caso", o ancora in anglosassone wyrd, i frammenti che vediamo e dunque la nostra visione parziale di tale disegno. Re Alfred lo ha spiegato con una semplice frase: "Chiamiamo precognizione di Dio e sua Provvidenza ciò che è nella sua mente prima che accada, ma una volta accaduto lo chiamiamo wyrd", ovvero fato o fortuna.
Uno degli esiti narrativi di Tolkien è che, da una parte, il lettore incontra molte sorprese, perché sa ancor meno dei personaggi: nessuno si aspetta di imbattersi in Merry e Pippin che fumano tranquillamente presso le rovine di Isengard perché l'ultima scena li mostrava guardare giù verso la Valle del Mago con Isengard ancora intatta. Nessuno si aspetta che Gandalf appaia di nuovo da Moria.
Il signore degli anelli quindi fa due cose. Ci mostra le azioni come sono percepite dai personaggi, quando sembrano essere il risultato del caso. Ci mostra anche che sono, invece, gli esiti di catene di decisioni, che formano un modello che possiamo di certo definire provvidenziale. Non c'è alcun dubbio sul libero arbitrio dei personaggi, che devono prendere le loro decisioni senza sapere assolutamente se sono giuste o meno. Aragorn deve farlo continuamente e a un certo punto sembra scoraggiarsi e dice a Legolas: "Dai la possibilità di scegliere a uno che non sa scegliere. Da quando siamo passati attraverso l'Argonath le mie scelte sono andate male".
Gandalf, però, sottolinea che le cose sono andate inaspettatamente bene, perché "fra loro i nostri nemici hanno macchinato per portare Merry e Pippin con straordinaria velocità, in un attimo, a Fangorn, dove altrimenti non sarebbero mai arrivati". Ci sono molti di questi rinvii, non tutti immediatamente evidenti. Avremmo potuto pensare fosse stata la "fortuna" a salvare Frodo dall'Occhio di Sauron su Amon Hen, ma non è stata la fortuna, è stato Gandalf. Tuttavia lo scopriamo solo sessanta pagine dopo e un lettore poco attento potrebbe perfino non capirlo mai. Il rinvio più importante, secondo me, ma alcuni non sono d'accordo e molti altri non se ne sono mai accorti, deriva dai palantir. Questi ingannano continuamente chi li usa. Prima Sauron, poi Denethor, cercano di indovinare cosa accadrà dopo e programmare di conseguenza le loro azioni. Questo è un errore terribile, come dice Galadriel a Sam dopo aver guardato nel suo Specchio: "Alcune cose non accadranno mai, anche se coloro che hanno queste visioni devieranno dal loro cammino per farle accadere".
Prendete le vostre decisioni, non cercate di saperne di più della provvidenza. Quest'ultima è risultato di tutte le decisioni, le intesse tra loro nel suo modello provvidenziale. Nessun umano può sapere come andrà perché "perfino i saggi non possono saperlo".
Penso che questa sia una dichiarazione molto chiara, molto più chiara, di fatto, di quella della Filosofia a Boezio, ma essenzialmente identica. Qui il concetto viene espresso con un linguaggio non filosofico, come una storia, non come un'argomentazione, come un insieme di esempi, non come una tesi. Essendo un filologo e non un filosofo trovo gli esempi molto più facili da comprendere del principio generale.
Tolkien non è stato l'unico autore inglese a giungere a questa conclusione.
George Eliot, nome d'arte di una donna, nel suo breve romanzo Silas Marner racconta una serie di disastri: un avaro derubato del suo oro, una fanciulla che si è smarrita, un padre scomparso, un ladro che non viene mai scoperto. È anche degno di osservazione, e ai filologi questo piace molto, che è uno dei pochissimi romanzi inglesi di tutti i tempi in cui nessuno parla un inglese corrente: parlano tutti una forma o l'altra di dialetto provinciale.
Alla fine, gli eventi non sono riassunti da un narratore istruito, ma da Dolly Varden, una povera donna di campagna che parla solo il suo dialetto. Fa un lungo discorso, che in realtà è sulla provvidenza. "Noi - afferma - vediamo solo parti degli eventi e ci possono sembrare dei disastri, ma, se li vedessimo nel loro insieme, forse non ci sembrerebbero tali".
La cosa ancor più strana nel suo discorso è che si tratta chiaramente di una parafrasi del paragrafo 6 del quarto libro del De consolatione philosophiae, ma, sebbene questo romanzo sia stato studiato, pubblicato e arricchito di note più volte, non credo che i miei colleghi nel campo letterario degli studi inglesi se ne siano mai accorti.
Perché avrebbero dovuto? Boezio scriveva in latino, lingua che non fa parte del programma di studio inglese. Nelle facoltà di inglese non si studia la filosofia.
Ahimé, tutto ciò fa parte della crescente suddivisione in settori degli studi nella moderna università. Tuttavia, senza la filosofia non possiamo sempre comprendere la narrativa; Tolkien, con il suo amico Lewis, è stato uno dei grandi comunicatori di filosofia al mondo moderno, che corre il pericolo di dimenticarla.
(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
Una scintilla che rivela l'uomo all'uomo - di Andrea Monda - L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010
Tolkien ha espresso la sua profonda fede cattolica non solo nella vita privata, ma anche nelle sue opere letterarie e nel suo capolavoro, un romanzo che, come le parabole di Gesù, non parla di Dio direttamente, ma ha "l'elemento religioso radicato nella storia e nel simbolismo". (...) Vorrei chiarire due aspetti: il primo è che tra l'opera e la vita dell'autore esiste un qualche nesso, un legame che non è mai preciso e definito in modo universale e deterministico ma comunque sussiste; la seconda è che è proprio dello stile del cristiano preferire la narratività alla speculazione astratta. Sul primo aspetto, relativo al rapporto vita-opera vorrei citare un filosofo, Luigi Pareyson, che nel suo saggio su I problemi attuali dell'estetica, afferma che: "Nel far arte, l'artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l'opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell'opera "esige" che se ne tenga conto".
Passiamo oltreoceano e ascoltiamo le parole di Leif Enger, uno degli scrittori americani più interessanti degli ultimi anni che si chiede: "Non so come sia possibile scrivere un libro senza che la tua fede appaia. (...) La tua fede ha sempre a che fare, io penso, col modo in cui tu vedi il mondo e, dato che il mio modo di vedere le cose è quello cristiano, questo è il modo in cui il mio lavoro va letto. Detto questo però, il mio libro non è un tentativo di fare evangelizzazione. (...) Se qualcuno scrivesse un libro assicurandosi che nessun elemento della sua fede possa entrare nell'opera, che genere di libro sarebbe? Non penso sarebbe un romanzo. Forse un libro di matematica". Il signore degli anelli non è un libro di matematica, e nemmeno di filosofia. È stato scritto da un uomo il cui modo di vedere le cose era quello cattolico e quindi forse può aiutare leggerlo conoscendo questo "dettaglio", che non è certo un mero dettaglio. Nelle sue numerose e spesso meravigliose lettere io ho letto Tolkien lettore di se stesso che fa una lettura della sua opera, una lettura se vogliamo "dal di dentro", in cui egli stesso racconta la genesi dell'opera mentre la sta componendo. Su tale aspetto ritorno al termine di questo primo intervento, ma adesso voglio sottolinearlo perché "l'epistolario critico" di Tolkien mi è sembrato un tesoro prezioso per entrare nella conoscenza di questo ricchissimo e variegato romanzo.
Il secondo aspetto è relativo al fatto che appunto Tolkien, proprio perché cattolico, è scrittore, narratore, più che pensatore. Non che ci sia un'opposizione tra filosofia e religione, tra fede e ragione, tutt'altro (questo convegno è stato organizzato dall'Istituto che studia il più grande genio dell'Occidente, la vetta più alta a un tempo della filosofia e della teologia), ma il punto è che la religione cristiana è la religione dell'incarnazione e quindi della concretezza ed è basata su un libro sacro, la Bibbia, che in ossequio alla mentalità ebraica fugge da ogni categoria astratta privilegiando la fisicità e il dinamismo dell'azione sulla fissità delle idee.
Di tutte le discipline artistiche forse la letteratura è la più "incarnata" come diceva Flannery O'Connor e quindi non c'è niente da fare ma c'è un legame tra cristianesimo e letteratura. Chesterton citando san Tommaso d'Aquino osservava la vicinanza tra cattolicesimo e romanzo, vicinanza imperniata sull'elemento del libero arbitrio ed è la stessa O'Connor, che si definiva una "tomista zoticona", ad affermare che: "Non sono scrittrice benché cattolica, ma proprio in quanto cattolica...come cattolica non posso essere meno che artista". Chesterton osserva che "questa creatura era realmente diversa da tutte le altre: perché era non solo creatura, ma creatore. Il che non può essere detto se non dell'uomo" e, per arrivare finalmente al nostro Tolkien, è fondamentale per comprendere la sua poetica, la sua dottrina della mito-poiesi e del sub-Creatore per cui: "Creiamo secondo la legge che così ci ha creati". Per dirla più chiaramente: l'uomo è creatura di Dio e, come Dio che è creatore, anche lui crea, ma non a livello primario ma secondario, il livello dell'arte. L'artista è dunque un sub-Creatore esercitando la fantasia egli rivela così la scintilla divina che lo inabita e da cui scaturisce la sua più profonda e inalienabile dignità.
(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2010)
OSTACOLI alla LIBERAZIONE - L'ostacolo più grosso e più frequente è se una persona ha un rancore nel cuore - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
1. L'ostacolo più grosso e più frequente è se una persona ha un rancore nel cuore. Il Signore condiziona la liberazione al perdono che noi diamo agli altri. Ci ha detto nel Vangelo: "Perdonate e vi sarà perdonato" (Mt 6, 14); "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" (Mt 6, 12).Può essere anche un rancore contro Dio. E' molto frequente il fatto che uno se la prenda col Signore per un torto o una disgrazia che ritiene ingiusta ed immeritata. Oltre a ciò è sempre indispensabile perdonare chi ci ha fatto il maleficio. 2. Altre volte la causa che rallenta o blocca la liberazione è il poco impegno della persona colpita. Si aspetta che faccia tutto il sacerdote esorcista o le persone che pregano per chi viene colpito. L'esorcista aiuta, ma l'interessato deve lottare ogni giorno con la Santa Messa e la S. Comunione quotidiana, col S. Rosario completo (di 150 Ave Maria) ogni giorno, con la preghiera ...
... frequente a San Michele ed altre preghiere di liberazione. Non hai voglia di andare in Chiesa? Non ci resisti? Invece devi andarci e rimanerci! Costa sforzo, ma devi farlo per il tuo stesso bene!
3. Il fatto che uno non abbia a sufficienza espiato e riparato i suoi peccati. Non basta essere perdonati in Confessione, l'obbligo della riparazione dura. Come si fa a riparare, ad es., un peccato di aborto? Qui ci vuole un pentimento ed una riparazione che duri tutta una vita! (Vedi anche a pag. 321).
4. Altro frequente ostacolo (specie nei giovani) è il volere la liberazione per poi darsi ad una vita spensierata o immorale. Qui è indispensabile prima un cammino di seria conversione e poi di liberazione. Queste sono le quattro cause principali che rallentano o bloccano del tutto la liberazione.
DA NON DIMENTICARE
Oltre ai rimedi indicati in precedenza, un'altra arma efficacissima contro, il demonio è il digiuno. Il digiuno paralizza il Maligno! Ben nove Apostoli non riuscirono a liberare un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo. E quando dissero a Gesù: "Maestro, Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?", il Figlio di Dio rispose: "Questa specie di demoni si scaccia solamente con la preghiera e col digiuno" (Me 9,29; Mt 17,21). Il digiuno può essere strettissimo, se nella giornata (generalmente il venerdì) non si mangia nulla; è stretto se si fa a pane ed acqua, è ordinario se si salta il pranzo o la cena, prendendo poco a colazione. E' chiaro che tale digiuno materiale non ha nessun valore se noi non digiuniamo, anche e soprattutto, dal male e dal peccato. Per esempio: facciamo digiunare gli occhi da tante figure oscene, e la lingua da tante volgarità o, peggio, bestemmie!
Molto graditi alla Madonna sono pure i cosiddetti fioretti, cioè rinunciare a ciò che più piace, come ad esempio i dolci, il caffè, il gelato, le sigarette, etc. ed anche, e soprattutto, il digiuno dalla televisione per dedicarsi alla preghiera o all'adorazione.
Preghiamo, poi, più che possiamo. E' una grave mancanza di umiltà e segno di poca fede dire o pensare: " Se Dio mi vuole guarire, bastano poche preghiere dette bene". Gesù ha detto di pregare sempre (Le 21,36) ed Egli stesso ce ne ha dato l'esempio passando notti intere in preghiera. Tanti non ottengono la liberazione Perché potrebbero pregare molto di più e non lo fanno. La Madonna maternamente ci ricorda:
"Cari figli, spegnete il televisore. La televisione vi ha distrutti e vi ha tolto il gusto di pregare ! Spegnete il televisore e resterete meravigliati della grande quantità di tempo che avrete a vostra disposizione per poter pregare ". Preghiamo per amore, non per paura, Perché Padre celeste ci segue sempre col suo cuore anche in mezzo alle prove più dolorose. Preghiamo con serenità (altrimenti facciamo il gioco dell'antico Serpente, che fa di tutto per gettarci nello sconforto), ma anche con serietà, perché tale lotta contro le potenze del male richiede da noi il massimo impegno ogni giorno. Non per nulla la Madonna ci ricorda spesso che Satana è forte, anche se, alla fine, gli schiaccerà la testa.
Un altro formidabile aiuto contro il Tenebroso è il ricorso ai Santi che il Signore ci ha dato come amici, protettori e modelli di vita. E' efficacissima la loro intercessione presso Dio in nostro favore quando chiediamo, con fede e perseveranza, il loro aiuto nella lotta contro Satana. E' perciò cosa ottima pregare ogni giorno Santi come S. Antonio da Padova, Padre Pio, Don Bosco, S. Lucia (specie per chi ha disturbi agli occhi!), S. Rita, San Gabriele dell'Addolorata, S. Giuda Taddeo, etc. Nei casi più difficili (e sono frequenti!) oltre alla preghiera e al digiuno, per ottenere la guarigione è indispensabile la penitenza. E' penitenza, per esempio, lo stare in ginocchio a pregare, anche quando ci costa; è penitenza affrontare i disagi per recarsi dall'esor-cista; è penitenza sopportare, in spirito di offerta, il caldo e il freddo della chiesa in attesa di essere ricevuti; è penitenza (e grande carità!) dare la precedenza, presso l'esorcista, al prossimo che soffre più di noi (specie ai bambini), etc.
Inoltre abbandoniamoci alla volontà paterna di Dio. A volte il Padre celeste permette prove sconcertanti, ma sempre per il nostro bene, anche se noi non lo comprendiamo subito. Parlando di due persone che soffrivano molto, la Madonna ha detto : "Anche loro erano figli miei, ma per poterli salvare ho dovuto permettere questo ". Se noi mettiamo in dubbio questa verità, in pratica non crediamo che Dio è buono e che è nostro Padre. E questo, molte volte, è l'ultimo e più tremendo ostacolo a cui si attacca il Maligno per impedirci di arrivare alla libera-zione. Perciò, attenti a non cadere in questa terribile trappola. [tratto da un testo di Don Pasqualino Fusco]
Carlo Di Pietro
La Chiesa non deve essere moderna e tanto meno seguire le mode del mondo: la Parola di Dio é sempre quella. Il cristiano sia coerente nella testimonianza sino al martirio. Il relativismo, grande cancro dei nostri tempi - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
Parlare di fede con Monsignor Francesco Cosmo Ruppi, Arcivescovo Emerito di Lecce, é sempre un immenso piacere per la linearità e la coerenza dei suoi discorsi e soprattutto del suo esempio. Con lui affrontiamo il delicato tema del relativismo, oggetto e centro di tante catechesi del Papa: " ovviamente io non ho la pretesa di interpretare il Pontefice non tocca a me, anche se ho una idea ben precisa sul relativismo, sia etico che culturale". Ce la illustri: " intanto sono della convinzione che tra i due esista un profondo legame e non esiste il primo senza il secondo e viceversa. Il relativismo, come dice la stessa parola, consiste nella falsa idea che tutto sia relativo, che non esistano verità e valori certi, che ogni cosa, specie nella morale, possa essere messa in discussione e dunque porta spesso ad una fede fai da te, una fede debole che spinge a scegliere dalla Scrittura quello che piace e ad escludere quanto ci da noia ...
... o ci rende scomoda la vita. Insomma, il relativismo é un cancro,una grandissima forma di egoismo e di schiavitù culturale ed anche etica".
Come si fa ad evitare questo rischio?: " cercando maggiore responsabilità, vivendo una fede autentica e matura, una fede chiara, ma coerente con quello che Cristo ci ha insegnato e che il Magistero della Chiesa propaga. Chi dissente da questo, non é sicuramente un buon cristiano. Poi contano anche le opere e dall' amore e dalla carità, alla fine dei tempi, saremo giudicati".
La Chiesa ha appena celebrato la Pentecoste: " una cosa bellissima, la vera natura missionaria della Chiesa e la dimostrazione che Dio é amore, solidarietà, misericordia. Lo Spirito Santo sa fare opere grandiose e lo dimostra con gli Apostoli e Maria chiusi per paura nel cenacolo. Lo Spirito Santo dice, non abbiate paura, ci sono io con voi, sino alla fine dei tempi. Non sarete mai soli. Bene, la potenza dello Spirito spinge a proclamare senza timore, la Parola di Dio a tutti. Il cristiano, quello autentico, non deve avere paura del mondo, ma affrontarlo con carità e umiltà, senza scendere a compromessi. Da lui si chiede, anzi si pretende, una testimonianza autentica, che arrivi al martirio".
Al martirio?: " certo. Noi per martirio abbiamo sempre in testa una idea cruenta, di sangue e via discorrendo. Ma la parola martirio significa prima di tutto, testimonianza. La Chiesa ha bisogno di testimoni autorevoli e credibili, di esempi luminosi, perché se nella vita facciamo il contrario di quanto predichiamo in teoria, a che cosa serve?".
A volte si dice che la Chiesa deve modernizzarsi: " una cosa priva di senso. La Chiesa é moderna di per sé stessa in quanto é giovane. La Parola di Dio, é sempre la stessa, non é mai cambiata. Dunque la Chiesa deve essere fedele a questa Parola senza fare sconti. Magari cambiano i metodi di predicazione, ma la sostanza mai. Significherebbe tradire Cristo e la stessa Chiesa, venendo a patti col mondo".
Bruno Volpe
Intervista a S.E. Mons. Luigi Negri - Né comunione né scomunica - 21/05/2010 - (Il Timone, Maggio 2010, pp. 42-43)
Monsignor Luigi Negri spiega: il primo dovere della Chiesa è difendere i diritti di Dio, mentre non esiste per nessuno un “diritto ai sacramenti”. I divorziati risposati esclusi dalla vita cristiana? È una menzogna frutto della mentalità laicista e terroristica
di Roberto Beretta
I giornali lo cercano spesso perché, in genere, le sue parole sono piuttosto lontane dalle maniere moderate e clericali tipiche di tanti altri suoi colleghi e - dunque - «fanno notizia». In effetti a volte le dichiarazioni di monsignor Luigi Negri - teologo e vescovo di San Marino Montefeltro - risultano spigolose, persino rudi; ma di sicuro hanno il pregio di una chiarezza quasi didascalica. E riservano quasi sempre qualche sorpresa anche agli habitués.
Monsignor Negri, cominciamo subito dall’obiezione più comune, fors’anche qualunquista ma con una certa presa pure tra i cattolici: perché tanta intransigenza della Chiesa verso i divorziati non sposati, tanto da essere ritenuta più severa nei loro riguardi che verso altre categorie di peccatori, per esempio i ladri o i disonesti?
«Dato e non concesso che sia vera la seconda parte della domanda, e cioè che la Chiesa non usi una bilancia corretta per la gravità dei peccati, non si tratta tanto di intransigenza verso i divorziati, quanto di un dovere nei confronti di Dio. La prima difesa che la Chiesa deve mettere in pratica è infatti quella dei diritti di Dio. La fedeltà e l’unità degli sposi si radicano nella fedeltà di Dio, il matrimonio è un sacramento di Cristo e la Chiesa deve rispettare quanto le è affidato non perché venga manipolato, ma perché si resti il più possibile fedeli al messaggio originario. Bisogna poi dire una cosa molto chiara: sostenere che i divorziati risposati sono esclusi dalla vita cristiana è sbagliato, è il frutto di una mentalità laicista e terroristica; ogni fedele vive nella Chiesa secondo la sua capacità e non è detto che la partecipazione alla vita ecclesiale si debba livellare sulla pratica dell’eucaristia: c’è tutta una gradualità di posizioni, che rispondono a casi in cui ci si può trovare anche per propria volontà. Non possiamo dunque ragionare solo nell’ottica delle condizioni individuali, in quanto c’è pure un coinvolgimento della libertà personale nella scelta di mettersi in una certa situazione; e ognuno deve assumersi le responsabilità delle decisioni che prende. Verso i divorziati che non passano a nuove nozze, difatti, la Chiesa si è ben guardata dal praticare una cosiddetta intransigenza».
Altra accusa ricorrente: il processo di annullamento dei matrimoni cattolici costa molto, è lungo, ottiene esito positivo solo per chi ha conoscenze altolocate e in fondo è solo un “trucchetto” per concedere il divorzio ai soliti privilegiati ... Come smentire?
«Queste affermazioni fanno parte di una classica “leggenda nera” che va decisamente smontata. La Chiesa è estremamente garantista, conduce processi in cui tutti i fattori vengono tenuti presenti, senza pregiudizio verso nessuna parte. La questione economica poi non si pone proprio: addirittura, a volte è la diocesi che offre il patrocinio d’ufficio e si può fare tutto senza spendere praticamente niente. Il problema è semmai un altro: anche a detta dei due ultimi Papi, nei loro discorsi ai tribunali ecclesiastici, si verifica una certa disinvoltura nella concessione delle nullità matrimoniali.
Credo in effetti che ci sia il pericolo che la Chiesa ceda qualche volta con una certa facilità a pressioni massmediatiche o alla mentalità comune. Ma questo va esattamente in senso opposto all’obiezione da cui siamo partiti».
A proposito del divieto di comunicarsi per i divorziati risposati, lei ha scritto: «I sacramenti non sono un diritto acquisito. Nella mentalità di tanti cristiani, a volte, si insinua invece un’idea di rivendicazione sindacale».
Certo, si può vivere ed essere cristiani anche senza avere l’eucaristia; però è bello che si aspiri al massimo della comunione, no?
«È vero che l’eucaristia è il culmine della vita cristiana. Ma, se mi sono messo consapevolmente e liberamente nelle condizioni di non arrivare su tale vetta, non posso pretendere di farlo a tutti i costi... Nessuno ha diritto a nessun sacramento, tutti sono frutto della grazia di Cristo. E la privazione della pratica sacramentale non è come ad esempio la scomunica latae sententiae per chi fa l’aborto: non esclude la possibilità di fare un’esperienza di Chiesa, pur senza giungere al vertice. D’altra parte nessuno ha costretto questi fratelli a divorziare, tanto meno la Chiesa. E arrivare al punto massimo della liturgia non è un assoluto. Bisogna saper tradurre questo desiderio in preghiera e in sacrificio: la comunione di desiderio, come si diceva una volta».
Dunque per i divorziati risposati non c’è, diciamo così, alcuna scorciatoia.
«Devono rimuovere la condizione di irregolarità in cui si sono messi: la nuova situazione affettiva, la cosiddetta nuova famiglia, il matrimonio civile che rende impossibile la partecipazione piena alla vita alla Chiesa; ma non da oggi: da sempre! E dunque la verità è che, in ogni caso, si deve mettere in conto un sacrificio. Per il resto, ribadisco che nella vita della Chiesa esiste una bellissima articolazione di carismi e di possibilità: chi impedisce, per esempio, ai divorziati risposati di vivere in ogni caso un’intensa vita di carità o di preghiera?».
PAPA/ Cari liberisti, è solo l’etica che dà valore al mercato che adorate - Marco Cobianchi - giovedì 27 maggio 2010 – ilsussidiario.net
«L’etica non è una cosa esterna, ma interna alla razionalità e al pragmatismo economico», ha detto il Papa ai giornalisti sul volo che lo portava in Portogallo. «Vediamo un dualismo falso - queste le parole di Benedetto XVI, che rispondeva ad una domanda sulla crisi economica europea - , cioè un positivismo economico che pensa di potersi realizzare senza la componente etica, un mercato che sarebbe regolato solo da se stesso, dalle pure forze economiche, dalla razionalità positivista e pragmatista dell’economia - l’etica sarebbe qualcosa d’altro, estranea a questo. In realtà, vediamo adesso che un puro pragmatismo economico, che prescinde dalla realtà dell’uomo - che è un essere etico -, non finisce positivamente, ma crea problemi irresolubili».
Questa frase è la più importante rivoluzione economica degli anni duemila. Cerchiamo, innanzitutto, di definire la parola etica, che troppi convegni hanno impolverato fino a quasi non riuscire più a vederla. L’etica è l’agire economico quando esso è finalizzato alla produzione di benessere, che non si esaurisce nella sfera economica, per gli stakeholder attraverso la creazione di valore che l’impresa genera. Etico è avere come scopo dell’agire economico la persona (dipendente, fornitore, cittadini del territorio circostante) e non il funzionamento del mercato.
Così un corso di formazione per i dipendenti che permetta loro di trovare più facilmente un nuovo posto di lavoro, è più etico di una elemosina concessa alle opere benefiche della città. Non è sbagliato ristrutturare una Chiesa o restituire un quadro al suo antico splendore, ma non si lo si può far passare come atto etico, come per anni è stato, quando spesso si trattava di una legittima (e magari di successo) operazione di marketing. È mecenatismo che, pur sano, non c’entra nulla con i meccanismi di creazione di valore dell’impresa. L’etica, afferma il Papa, o è dentro i meccanismi di creazione di valore o non è.
Ciò che sta a cuore a Benedetto XVI è che l’impresa concepisca sé stessa come entità finalizzata allo sviluppo delle persone. Questo è una delle sottolineature più rilevanti della sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, e ne rappresenta anche una delle più rilevanti novità.
Nel concreto ciò vuol dire che le spese in ricerca e sviluppo, finalizzate alla creazione di prodotti innovativi, è più etica della competizione tutta basata sulla riduzione dei costi di produzione. E questo perché le innovazioni permettono, almeno potenzialmente, una maggiore sicurezza del posto di lavoro a lungo termine per i dipendenti, i quali sono i primi a pagare scelte competitive “al ribasso”. Ovviamente la necessaria tensione verso questo obiettivo deve essere calato nelle circostanze concrete del settore nel quale un’impresa opera, declinandola nella realtà nella quale si trova ad operare.
Ora: se è vero ciò che ha affermato Benedetto XVI l’economia non è autosufficiente, cioè è vero che non si fa da sé, al contrario di quanti ancora oggi credono alla favola della “mano invisibile” o, addirittura della “magia” (termine usato su Il Sole 24Ore del 22 aprile da Alberto Mingardi, quando ha scritto che «il bello, come sempre nel mercato, è che questa complessa forma di cooperazione fra esseri umani non ha bisogno di un progetto solidarista per compiersi o per essere regolata: le basta l'interesse particolare, frammentato, che si unisce agli altri in un mosaico più vasto») capace di regolare i rapporti economici tra gli uomini.
Questa “magia”, nei mercati finanziari, prende la forma di formule matematiche che interagiscono tra di loro stabilendo quando, cosa e a che prezzo scambiare titoli, deresponsabilizzando le persone ed esaurendo in sé, nella loro “attività” e nel loro “funzionamento”, la nozione di “mercato”. Quelle formule matematiche sono utili, ma non sono esaustive. Vanno usate (devono essere usate), ma sarebbe un tragico errore ritenere che esse siano il mercato. Il mercato, in quanto luogo dell’umano, infatti, non “funziona”, ma “vive”.
Avvenire.it, 27 maggio 2010 - L'ASSEMBLEA GENERALE - «Alleanza educativa per il futuro dell’Italia» - Mimmo Muolo
Il presente e il futuro dell’Italia dipendono dalla capacità di educare. Anzi, questo ambito rappresenta per «il nostro Paese la sua miniera d’oro più produttiva». Una miniera «a cui attingere e da cui ripartire», perché «sull’educazione si gioca l’avvenire di una società e sappiamo bene che la stessa crescita economica di un Paese aumenta in proporzione all’investimento che si fa sulla formazione». L’arcivescovo di Vicenza Cesare Nosiglia, neo vicepresidente della Cei, ha spiegato così la scelta compiuta dai vescovi italiani di dedicare il prossimo decennio pastorale alla sfida educativa. Il presule ha tenuto ieri la seconda conferenza stampa per illustrare ai giornalisti l’andamento dei lavori dell’assise. E ha ricordato che oggi ci sarà la votazione sul testo degli Orientamenti, dopo che lo stesso è stato esaminato ieri prima nei gruppi di studio e poi nell’aula.
L’argomento è al centro dei lavori di questa settimana assembleare e, dunque, per sottolineare quanto i vescovi lo abbiano a cuore Nosiglia ha detto: «Noi riteniamo che sia un tema che interessa e coinvolge tutta la società. L’investimento di personale, risorse e mezzi adeguati al raggiungimento delle finalità dell’educazione rappresenta sia per la Chiesa, sia per la società il primo e indispensabile impegno che non può essere eluso o sminuito da altri pure necessari ambiti di lavoro in campo economico e sociale». Il nuovo vice-presidente Cei per il Nord non ha nascosto l’importanza della sfida. «È in gioco – ha detto, infatti –, la conservazione e il rinnovamento di quel patrimonio di qualità del sapere, della cultura e della vita, ricchi di valori umani, spirituali e morali, religiosi e civili e di uomini e donne che li hanno incarnati con genialità».
Dunque anche il metodo con cui approcciare il problema deve essere il più inclusivo possibile. «I nostri orientamenti – ha spiegato – intendono sollecitare un dialogo, confronto e collaborazione con tutte le forze vive del Paese impegnate in questa frontiera per affrontare uniti l’emergenza educativa e farvi fronte con comune senso di responsabilità». «Credo – ha proseguito l’arcivescovo – che la Chiesa in Italia con questo impegno decennale indica chiaramente a se stessa ma anche al Paese dove puntare la bussola del suo progresso e del suo futuro». E lo fa rivolgendosi alle famiglie, alle realtà civili, alle comunità cristiane. «Si rivolge infine alle istituzioni politiche, culturali, economiche e sociali perché investano le loro migliori energie in questo ambito che rappresenta il cuore pulsante del Paese».
Nel documento tutto ciò viene tradotto in alcune finalità. Il presule le ha riassunte così: «qualificare la proposta educativa cristiana, esercitare un equilibrato discernimento sulla odierna situazione culturale, puntare sulla formazione degli educatori, promuovere alleanze educative sul territorio. Rispondendo poi a una domanda sulla quantità di investimento richiesto, Nosiglia ha spiegato che non si tratta solo di investimento economico ma «di personale, di cultura e soprattutto di mentalità e che chiama i causa i tanti adulti che sulla sfida educativa hanno messo i remi in barca». Invece «ne va del futuro e del presente del Paese. Tutti devono dare il proprio contributo. A ciascuno è chiesto di dare il meglio di sé».
Diverse le domande a margine. Sulla scuola cattolica: «È un contributo prezioso all’intero sistema scolastico nazionale, garazia di pluralismo, un servizio pubblico che va riconosciuto sotto tutti gli aspetti, anche finanziario». Sul federalismo non si è pronunciato; sulla questione pedofilia ha rimandato alla prolusione del cardinale Bagnasco, sottolineando come il tema dell’educazione riguardi anche l’attenzione ai candidati al sacerdozio. Infine sul 150° dell’Unità d’Italia, ha citato un documento del 1981 («La Chiesa italiana e le prospettive del Paese»), per ribadire che «l’Italia non crescerà se non insieme».
Mimmo Muolo
Avvenire.it, umanesimo e scienza - 2010-05-26 - 7 - Il fisico Russo - Ma anche Euclide è un classico - Luigi Dell’Aglio
Attenzione: la tendenza a dimenticare i classici, a lasciarli morire, sta danneggiando non solo la conoscenza umanistica ma la stessa conoscenza scientifica. Oggi sempre meno studenti sanno dimostrare teoremi e chi abbandona questa antica tradizione domani non sarà in grado di argomentare, cioè di ragionare, avverte Lucio Russo, professore all’Università di Roma Tor Vergata, che ha insegnato in Italia e a Princeton, negli Usa. Russo ha sperimentato personalmente come sia naturale e proficuo un continuo scambio fra i due saperi: ha lavorato diversi anni nella meccanica statistica e nel calcolo delle probabilità, poi nel 1991, affascinato dalla lettura di un classico – il trattato Sui galleggianti di Archimede (anche i grandi libri di scienza sono classici) – è passato d’impulso a studiare storia della scienza, ora il suo principale campo di ricerca.
Professore, storicamente l’"auctor classicus" era quello le cui opere costituivano un tale modello di eccellenza da essere studiate nelle scuole. È giusto che ora vengano isolate ed estromesse?
«I classici sono le opere in cui le idee radicate nella nostra cultura (che spesso finiscono con l’essere assorbite inconsapevolmente e acriticamente) appaiono in forma viva e consapevole. I classici, così intesi, sono fondamentali per la formazione del pensiero. Non perché trasmettano verità e valori perenni, come in genere si dice, ma, al contrario, perché permettono di esaminare criticamente, nella loro genesi, strutture concettuali e valori che ci sono familiari».
Esiste una sufficiente consapevolezza che difendere i classici significa difendere il libero esercizio del pensiero?
«Certo la lettura dei classici non può essere apprezzata da chi preferisce il conformismo e l’adesione passiva ai luoghi comuni. Le prospettive dei classici coincidono quindi in larga misura con quelle della cultura e del pensiero critico. Ora si sta abbassando il livello culturale della scuola e dell’università: queste rischiano di non fornire più né gli strumenti culturali necessari per comprendere i classici, né le motivazioni sufficienti per leggerli».
Oggi conoscenza scientifica e conoscenza umanistica combattono per ampliare (la prima) o per difendere strenuamente (la seconda) la propria sfera di influenza. Come sta cambiando il rapporto di forze tra i due saperi?
«A me sembra che cresca la pressione diretta a ridurre in generale lo spazio del sapere nelle scuole e nella società. L’impressione che la cultura umanistica sia sacrificata a vantaggio della cultura scientifica è un’illusione ottica di cui è vittima chi adotta un particolare punto di vista. Credo piuttosto che le discipline oggi vincenti, che hanno assunto un ruolo centrale nell’organizzazione degli studi, siano le tecniche di marketing e le arti della comunicazione. Il diminuito peso dei "classici" non colpisce solo il sapere umanistico. Tra i classici più importanti includerei gli Elementi di Euclide: l’opera ellenistica che, per ventidue secoli, ha trasmesso i fondamenti del metodo scientifico non solo ai futuri scienziati ma a tutti gli uomini di cultura. Quintiliano, nella <+corsivo>Institutio oratoria<+tondo>, sosteneva che non si può diventare oratori se si è digiuni di geometria. A maggior ragione non vi è stato filosofo che non conoscesse il metodo dimostrativo usato in geometria. Oggi nessuno legge più Euclide; nello stesso tempo si sta spegnendo la tradizione di insegnare come si dimostrano i teoremi. Pesanti saranno le conseguenze sulle capacità di argomentare che avranno le nuove generazioni. Mi sembra questo un buon esempio di come sia pericoloso l’abbandono dei classici e di come il fenomeno colpisca in pieno anche le conoscenze scientifiche».
Ma quali teorie alimentano lo scontro?
«Direi che siano oggi vincenti due tendenze solo apparentemente contrapposte, che in realtà rappresentano due facce della stessa medaglia. Da una parte vedo uno scientismo ingenuo che nega la rilevanza di temi, come quelli etici ed epistemologici, non affrontabili con i soli metodi scientifici (ma che non possono neppure essere affrontati ignorando gli strumenti conoscitivi forniti dalla scienza). Dall’altra, un diffuso atteggiamento anti-scientifico. Questo, più che di teorizzazioni esplicite, vive del dilagare dell’ignoranza in materia scientifica, spesso esibita quasi con compiacimento. Mi piacerebbe pensare a un "nuovo umanesimo" che superasse questa contrapposizione recuperando, nell’ambito di una cultura unitaria, un pensiero scientifico critico. Ma non si tratterebbe certo di un umanesimo in conflitto con la scienza».
Dall’umanesimo prende corpo il metodo sperimentale della scienza moderna. Perciò lo scientismo, quando attacca il sapere umanistico e vuole limitarne lo spazio nella scuola, attacca anche Galileo.
«Credo che l’attacco scientista contro l’umanesimo nasca dall’ignoranza e debba essere respinto. È necessario però respingere, nello stesso tempo, una versione anti-scientifica della cultura umanistica, che in Italia ha una lunga e triste tradizione. Per essere più chiaro, penso che non sia esistito un solo umanesimo ma almeno due versioni della cultura umanistica. Una, che penso sia oggi superata, proponeva un modello di cultura (basato su classici come il De oratore di Cicerone) che assegnava una posizione centrale all’eloquenza e mirava soprattutto a formare dirigenti politici. A questi venivano trasmesse le virtù civiche descritte in opere letterarie e storiche latine. Tutt’altra cosa è la cultura di quegli intellettuali del Rinascimento che crearono la civiltà moderna basandola in larga misura sul recupero della filosofia e della scienza dei Greci. A questa cultura dobbiamo non solo capolavori artistici e letterari, ma anche la nascita della scienza galileiana. Si tratta di una cultura realmente unitaria, un approccio di cui abbiamo oggi bisogno anche per affrontare le questioni nuove poste dalla scienza e dalla tecnologia».
Lo scienziato, il tecnologo, il medico non possono agire secondo scienza e coscienza se hanno ricevuto un insegnamento esclusivamente specialistico...
«Sono convinto che la carenza di educazione umanistica avrebbe effetti gravi. Credo, in particolare, che il livello di consapevolezza epistemologica degli scienziati si sia abbassato nell’ultimo secolo, insieme con il livello di cultura filosofica di chi si dedica alla scienza. Se vengono ignorati i classici della scienza e della filosofia, si ridà spazio, tra gli scienziati, a tendenze filosofiche che direi arcaiche, come quelle neopitagoriche. Naturalmente gli eccessi dello "specialismo" non costituiscono un problema delle sole facoltà scientifiche. Mi sembra che le facoltà umanistiche ne siano colpite in misura simile, ma con effetti forse ancora più devastanti, proprio perché l’eccessivo specialismo mina alla base il senso stesso degli studi umanistici. Sarebbe utile e significativo che uno studente di fisica potesse seguire corsi di filosofia, ma mi sembrerebbe addirittura indispensabile, per un futuro studioso di filosofia della scienza o di storia della scienza, seguire corsi scientifici (e oggi può non accadere)».
Luigi Dell’Aglio
Avvenire.it, 27 maggio 2010 - Chi non studia e non fa. Una sfida - Zombie tra noi E sono figli nostri - Umberto Folena
Non incedono ciondolanti al crepuscolo nei viali deserti. Non bramano carne umana, al massimo aspirano a uno spriz o a un birrino. Sono pure sorridenti e non se la prendono con il loro magro destino forse perché ignorano il concetto di futuro e quindi il destino gli fa un baffo. Sono i due milioni di giovani zombie che vivono in mezzo a noi, così ben amalgamati da sfuggire a tutti tranne che ai sofisticati scanner dell’Istat. Nel 2009 il 21,2 per cento degli under 29 si trovavano fuori dal circuito formazione-lavoro.
Due milioni di zombie, appunto, che non studiano né lavorano però mangiano, bevono, si vestono, si divertono (abbiamo il sospetto che molti di costoro siano quelli che sostano sotto le nostre finestre a far cagnara fino all’alba, per render vive città altrimenti morte: grazie!), insomma consumano, che poi è quel che conta per considerare se stessi esseri viventi: homo sapiens un corno, da tempo è scoccata l’ora dell’homo consumens.
Gli americani hanno inventato un acronimo per definirli: Neet, ossia Not in education employment or training (niente istruzione, né occupazione, né preparazione).
E comunque si inseriscono nel fenomeno arrembante dei giovani mai autonomi che si aggrappano alla famiglia d’origine come bradipi. Dal 1983 i 30-34 enni sono triplicati, dall’11,8 al 28,9 per cento; incalzano i 25-29 enni, passati dal 34,5 al 59,2. E tra tutti i Neet, quelli che si sono arresi e di cui non si occupa più nessuno, come se fossero un problema in meno, la schiuma della società. Da guardare con compatimento, come se la colpa fosse tutta loro, degli zombie.
Ma siamo davvero sicuri che se la siano cercata? In qualche misura, sì. L’era del facile alibi («È colpa della società») è tramontata.
Ma troppe contraddizioni sembrano indicare in certo mondo adulto il virus che ha trasformato in zombie i suoi figli. Francis Ford Coppola, in una recente intervista, lamentava: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un Paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità». C’è chi se ne va riempiendo lo zaino – bagaglio magro, pochi indumenti, il pc – in territori ove tutto è possibile e ogni alba è un’opportunità; e chi se ne resta, asserragliato in qualche territorio misterioso collocato tra la propria stanza e un bar, dove nulla è possibile e la vita è un’infinita Fortezza Bastiani senza Tartari, un’attesa del nulla.
Si può partire anche restando nella propria città; e si può restare decidendo che non vale la pena studiare, non tanto il master in economia ma anche soltanto una specializzazione tecnica per un nobilissimo lavoro manuale, da artigiano raffinato, che tanto manca alle città e alle aziende; piuttosto decidendo se il tatuaggio etnico vale la pena farselo sul gluteo destro o sinistro. Perché il mondo adulto inocula i suoi virus e crea zombi facendo credere alle sciacquette diciottenni di turno che per fare l’attrice non occorre studiare e sudare per anni, calcando palcoscenici e facendo fatica e fatica e fatica, ma bastano due settimane di lezione e un look gradevole, oltre alla compiacenza di mass media guardoni.
È evidente che gli esclusi si accumulano come in una discarica anonima. Due milioni di Neet; qualcuno sarà tutt’altro che disimpegnato, anzi impegnatissimo in attività malavitose e nel lavoro nero. Altri staranno magari tentando di aprirsi un varco verso il futuro. Ma la gran massa è lì, affranta e giuliva, lontana dal cuore e dalla mente degli adulti. Strani zombi, che anziché azzannare, si fanno azzannare. Ma non si può più far finta di non vedere, non ci si può rassegnare.
Umberto Folena
Fine vita: leggi «permissive», eutanasia facile –di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 27 maggio 2010
Oregon, giugno 2008. La signora Barbara Wagner scopre che il tumore a un polmone, che da due anni aveva smesso di tormentarla, sta di nuovo progredendo in modo preoccupante.
Gli oncologi le prescrivono medicinali per rallentare l’avanzamento della malattia. Alla signora viene però comunicato che l’Oregon Health Plan – il piano statale di contributi per la sanità – non garantisce copertura finanziaria per quel tipo di medicine. La signora Wagner, nel caso in cui avesse voluto optare per servizi sanitari passati dalla mutua, avrebbe dovuto scegliere: cure palliative o suicidio assistito. Non è la trama di un romanzo thriller ma quanto successo veramente in Oregon, uno degli Stati pionieri nell’approvazione di leggi permissive in tema di eutanasia e suicidio assistito.
Fortunatamente la signora Wagner fu aiutata dalla casa farmaceutica che produceva le medicine prescritte, ma non c’è dubbio che questa storia, come molte altre, mostri in modo evidente a quali abusi di ogni tipo si giunga una volta che si aprano le porte alla dolce morte e al diritto all’assistenza medica al suicidio. Arriva ancora dall’Oregon – dove il «Death with Dignity Act», la legge che regolamenta il suicidio assistito per i malati terminali, è in vigore dal 1997 – la vicenda di Michael Freeland. Il caso fa scuola, essendo il primo per il quale è stata resa pubblica l’intera storia clinica del paziente. Freeland è poco più che sessantenne quando gli viene diagnosticato un cancro. L’uomo, che «aveva una lunga storia di seria depressione e di precedenti tentativi di suicidio» viene così affidato a un ospedale psichiatrico da alcuni medici che temono possa tentare nuovamente di togliersi la vita. Nonostante questo, un medico attivista pro-suicidio assistito, consegna a Freeland la dose letale di medicinali da ingerire che non gli viene sequestrata neppure quando è accertata la sua incapacità di prendere decisioni per la propria salute. Solo l’intervento dell’associazione Physicians for Compassionate Care (Medici per le cure compassionevoli) garantisce che vengano intensificate le cure palliative, che migliorano la situazione a tal punto da far desistere Freeland dai suoi intenti suicidi.
I casi riguardanti soggetti depressi e in generale persone con problemi psichici come le forzature da parte di militanti schierati per il diritto a morire costituiscono il filo conduttore che porta dritti in Europa. È il maggio 2009 quando Dignitas, la nota associazione svizzera che fornisce assistenza al suicidio, finisce al centro di indagini per aver aiutato a morire Andrei Haber, un rumeno da tempo depresso. Il giudice Philippe Barboni si trova di fronte a un vero abuso: «Questo caso presentava un fatto particolare – dichiarò poi Barboni –: la persona non soffriva di una seria e incurabile malattia.
Le sue motivazioni erano essenzialmente psicologiche». I dubbi sull’operato di Dignitas sono molteplici. A fine aprile 2010, in occasione del ritrovamento di urne cinerarie nel lago di Zurigo, i sospetti si concentrano tutti su Dignitas. «L’hanno sempre fatto», ha denunciato Soraya Wernli a proposito della prassi di gettare almeno un’urna su tre nel lago.
La Wernli è un’ex collaboratrice di Dignitas, uscita perché resasi conto che sotto le rassicuranti sembianze dell’omicidio compassionevole esibite dall’organizzazione presieduta da Ludwig Minelli, si nascondeva in realtà una 'macchina del profitto'. La legge svizzera stabilisce che è illegale contribuire alla morte di un paziente se si configura un guadagno per chi fornisce assistenza: nonostante questo, notava il quotidiano Telegraph nel gennaio 2009, Minelli è divenuto milionario grazie all’aiuto al suicidio fornito ad almeno 870 malati terminali.
Ma morte procurata in Europa non significa solo Svizzera: in Belgio e Olanda, dove le leggi sul fine vita risalgono al 2002, non sono mancati casi che hanno destato scalpore. In Belgio, a fine marzo 2009, Amelie Van Esbeen, una novantatreenne in buona salute, decide che ne ha abbastanza.
«Voglio morire ora», reclama l’anziana signora. Ma la legge belga non prevede il diritto all’eutanasia per chi non è terminale e non soffre dolori insopportabili. Saranno sufficienti dieci giorni di sciopero della fame ad Amelie per ottenere l’eutanasia tanto desiderata. La legge viene di fatto violata.
Anche in Olanda si registra un caso analogo. Nel novembre 2007 viene incriminato il presidente della Stichting Vrijwillig Leven (Associazione per la vita volontaria). L’accusa è di aver aiutato a morire una donna alla quale era stato negato il diritto all’eutanasia poiché non si erano riscontrati i requisiti previsti dalla legge olandese. Nel maggio 2009 arriva la condanna.
I numerosi abusi non sembrano servire da monito per il Regno Unito: è di lunedì, infatti, la notizia che per la prima volta si sono applicate le linee guida volute dal direttore della Procura generale Keir Starmer a proposito di assistenza al suicidio, secondo le quali il reato si configura solo se chi aiuta a morire trae un beneficio economico dal suicidio. Michael Bateman, che ha assistito la moglie suicidatasi con sacchetto di plastica e gas, è stato dichiarato non perseguibile. Bryan Boulter del Crown Prosecution Service, l’organismo incaricato delle decisioni su eventuali azioni giudiziarie, ha dichiarato che incriminare Bateman «non ha alcun interesse pubblico» poiché la moglie aveva chiari intenti suicidi ed è evidente che egli ha agito «motivato da compassione».
Michele Aramini - il bioeticista - Il bivio: curare o manipolare? - Bisogna stare in guardia rispetto all’idea del «riduzionismo biologico» che equipara l’uomo a qualsiasi essere vivente E finisce per legittimare ogni manipolazione del patrimonio genetico – Avvenire, 27 maggio 2010
La notizia della vita artificiale ha fatto velocemente il giro del mondo. Craig Venter e il suo team hanno prodotto una cellula non esistente in natura. La nuova cellula è già stata brevettata con il nome di 'Mycoplasma laboratorium', un batterio inedito e tuttora virtuale con un 'kit genetico minimo' perché possa vivere e replicarsi. La novità dell’operazione consiste nel fatto che il Dna introdotto nella cellula del batterio non esiste in natura, ma deriva dalla combinazione fatta a tavolino, delle 4 componenti chimiche che in natura costituiscono la catena del Dna. Si tratterebbe di una svolta sia dal punto di vista concettuale che tecnologico, anche se al momento è stato prodotto solo un nuovo batterio unicellulare capace di replicarsi e non un organismo.
Accanto agli elementi di soddisfazione per le possibili applicazioni benefiche, occorre qui richiamare i princìpi etici che debbono governare il cammino di questa ricerca: la sicurezza della salute umana e la salvaguardia dell’ambiente, che potrebbero essere minacciate da nuovi micro-organismi; la finalità terapeutica delle nuove tecnologie con esclusione di tentazioni manipolative sull’uomo; il principio di democrazia, per il quale deve essere tutta l’umanità e non solo gli esperti, siano essi scienziati o politici, a decidere su questioni così essenziali per l’identità umana; il principio di giustizia e di accesso da parte dei Paesi poveri. Ma la questione più decisiva è quella riferita al ruolo dell’uomo nella Creazione.
La valutazione etica delle novità dell’ingegneria genetica non può prescindere dal fatto che, accanto agli interventi di carattere terapeutico, esistono altre finalità che suscitano particolare apprensione: la possibilità di costruire ibridi uomo animale, o la predeterminazione di caratteri particolari in nuovi esseri umani attraverso l’intervento sul loro genoma. Questi interventi non terapeutici sono resi possibili dallo sviluppo pratico della genetica, ma soprattutto dallo svilimento della natura e del valore dell’uomo, per cui non si vede più la differenza tra l’uomo e gli altri organismi biologici (animali e vegetali) e, pertanto, non si vede alcuna ragione per astenersi dalla manipolazione dell’uomo. Dobbiamo perciò ritrovare la verità sull’uomo. Per farlo non possiamo restare nei limiti della genetica, dominata dal riduzionismo biologico, per cui se, in ipotesi, l’uomo avesse lo stesso genoma di un qualsiasi animale si dichiarerebbe l’assenza di diversità. È evidente che la conclusione è errata, perché l’uomo ha una sua originalità rispetto a qualunque animale: l’uguaglianza biologica non è eguaglianza tout court. Neppure i maldestri tentativi delle neuroscienze riescono a cancellare l’originalità dell’uomo.
La dimenticanza di questa originalità (giusto per intenderci, possiamo usare il 'vecchio' termine di anima) fa sì che sia abbastanza breve il passo che porta dalle finalità terapeutiche a quelle creative, soprattutto se si cade nella contraddizione del progetto salutista che pretende di 'migliorare' l’uomo (in nome di ideali di servizio, di rispetto, di aiuto che, coerentemente applicati, impedirebbero ogni manipolazione sull’uomo) e, nello stesso tempo, riduce la natura umana a puro dato di fatto, senza riconoscergli uno specifico significato sul piano dell’identità e del valore morale, in modo tale da legittimare qualsiasi intervento manipolatorio. Perciò va ribadito per l’avvenire che l’intervento alterativo sul patrimonio genetico (sia accrescendo sia diminuendo) di un altro uomo è disumano e perciò illecito, in quanto indebita interferenza sull’identità della persona umana. È una regola morale che vale per tutti, anche per i non credenti. Infatti si può anche non credere al Creatore, ma non si può ferire il volto della creatura.