Nella rassegna stampa di oggi:
1) 15 Novembre. Alberto Magno: la fede con la filosofia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 14 novembre 2010
2) La gratuità c'entra col gioco? Pigi Colognesi - lunedì 15 novembre 2010 – il sussidiario.net
3) IRAQ/ Frattini: pronta risoluzione Onu dell’Italia per difendere i cristiani - INT. Franco Frattini - lunedì 15 novembre 2010 – ilsussidario.net
4) LETTURE/ Cosa rimane oggi di Kerouac e della generazione "On the road"? Vita Fortunati - lunedì 15 novembre 2010 – il sussidiario.net
5) L’INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO - di P.Giovanni Cavalcoli, OP dal sito http://riscossacristianaaggiornamentinews.blogspot.com/
6) Domenica 14 Novembre 2010 - AUNG SAN SUU KYI - Il sorriso e la lotta - Nelle prigioni birmane rimangono 2.200 dissidenti – dal sito http://www.agensir.it
7) Marthe Robin: una mistica contemporanea di Claudio Dalla Costa del 14/11/2010 in Storia del Cristianesimo, dal sito http://www.libertaepersona.org
15 Novembre. Alberto Magno: la fede con la filosofia - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 14 novembre 2010
Alberto Magno (Lauingen, 1206 - Colonia, 15 novembre 1280), conosciuto anche come Sant'Alberto il Grande, Alberto di Colonia o Doctor Universalis, era un vescovo domenicano.
E' considerato il più grande filosofo e teologo tedesco del medioevo sia per la sua grande erudizione che per il suo impegno a livello logico-filosofico nel far coesistere fede e ragione applicando la filosofia aristotelica al pensiero cristiano.
Fu, inoltre, anche il maestro di San Tommaso d'Aquino. La Chiesa cattolica lo venera come santo protettore degli scienziati e come Dottore.
La sua posizione ebbe un’importanza fondamentale soprattutto per la sua affermazione dell’armonia tra fede e filosofia/scienza, accolta poi dall'insegnamento ufficiale della Chiesa.
Seguiamo per la chiarezza la presentazione di Diego Fusaro.
"L'influenza esercitata da Alberto sugli studiosi dei suoi tempi e su quelli degli anni seguenti fu, naturalmente, molto grande. La sua fama è dovuta in parte al fatto che fu il precursore, la guida ed il maestro di San Tommaso d'Aquino, ma sicuramente è stato grande anche di per sé.
È interessante notare come questo frate medioevale in mezzo ai suoi molti doveri di religioso, come provinciale del suo ordine, come vescovo e legato pontificio, come predicatore di una crociata, pur effettuando molti faticosi viaggi tra Colonia, Parigi e Roma e frequenti escursioni in varie parti della Germania, abbia potuto essere in grado di comporre una vera enciclopedia, contenente trattati scientifici su quasi ogni argomento dello scibile umano, mostrando una conoscenza della natura e della teologia che sorprese i suoi contemporanei, e ancora suscita l'ammirazione dei dotti dei nostri tempi.
Fu, realmente, un Doctor Universalis.
…
Egli non ammise mai la possibilità di creare l'oro con l'alchimia o attraverso l'uso della pietra filosofale; ciò è evidente dalle sue parole:
"L'arte da sola non può produrre una forma sostanziale". (Non est probatum hoc quod educitur de plumbum esse aurum, eo quod sola ars non potest dare formam substantialem – De Mineral. Lib. II, dist. 3).
Ruggero Bacone e Alberto dimostrarono al mondo che la Chiesa non è contraria allo studio della natura: la scienza e la fede possono andare di pari passo; la loro vita ed i loro scritti sottolineano l'importanza della sperimentazione e dell'indagine.
Bacone fu infaticabile e coraggioso nelle indagini, anche se, a volte, la sua critica fu troppo forte. Ma di Alberto disse: Studiosissimus erat, et vidit infinita, et habuit expensum, et ideo multa potuit colligere in pelago auctorum infinito (Opera, ed. Brewer, 327).
Alberto rispettava l'autorità e le tradizioni, era prudente nel proporre i risultati delle sue indagini e, di conseguenza, "contribuì molto più di Bacone al progresso della scienza nel XIII secolo" (Turner, Hist. of Phil.).
Il suo metodo di trattamento delle scienze fu storico e critico al tempo stesso. Raccolse in una grande enciclopedia tutto ciò che era noto ai suoi tempi e poi espresse le sue opinioni, principalmente sotto forma di commentari sulle opere di Aristotele.
…
Dopo Averroè, Alberto fu il principale commentatore delle opere di Aristotele, i cui scritti studiò con la massima assiduità, ed i cui principi adottò per sistematizzare la teologia, che intendeva come esposizione scientifica e difesa della dottrina cristiana. La scelta di Aristotele come maestro provocò forti opposizioni. I commentari ebraici ed arabi sulle opere del filosofo avevano originato tali e tanti errori nell'XI, XII e XIII secolo, che per alcuni anni (1210-1225) lo studio della metafisica e della fisica aristotelica furono vietati. Alberto, tuttavia, sapeva che Averroè, Pietro Abelardo, Amalrico di Bennes e altri avevano tratto false dottrine dagli scritti del filosofo; sapeva, inoltre, che sarebbe stato impossibile arginare la marea di entusiasmo a favore degli studi filosofici e così decise di purificare le opere di Aristotele da razionalismo, averroismo, panteismo ed altri errori e quindi mettere la filosofia pagana al servizio della causa della verità rivelata. In questo seguì l'insegnamento agostiniano (II De Doct. Christ., xl), che sosteneva che le verità trovate negli scritti dei filosofi pagani dovevano essere adottate dai difensori della fede, mentre le loro opinioni erronee dovevano essere abbandonate o spiegate in un senso cristiano. (San Tommaso, Summa Theol., I, Q. lxxxiv, a 5).
Tutte le scienze inferiori (naturali) avrebbero dovuto essere al servizio (ancillae) della teologia, che è la scienza superiore (ibidem, 1 P., tr. 1, quaest. 6).
…
Contro il razionalismo di Abelardo e dei suoi seguaci, Alberto sottolineò la distinzione tra verità naturalmente conoscibile e misteri (la Trinità e l'Incarnazione), che non possono essere conosciuti senza la rivelazione (ibidem, 1 P., tr. III, quaest. 13).
Scrisse due trattati contro l'averroismo, che distruggeva l'immortalità e le responsabilità individuali, insegnando che vi è una sola anima razionale per tutti gli uomini. Il panteismo, invece, fu confutato insieme all'averroismo quando la dottrina sugli Universali, il sistema noto come realismo moderato, fu accettata dai filosofi scolastici.
Sebbene seguace di Aristotele, Alberto non trascurò Platone. Scias quod non perficitur homo in philosophia, nisi scientia duarum philosophiarum, Aristotelis e Platonis (Met., lib. I, tr. V, c. xv). Per questo erravano quando dicevano che era solo la "Scimmia" (simius) di Aristotele.
Nella conoscenza delle cose divine la fede precede la comprensione della Divina verità, l'autorità precede la ragione (I Sent. , Dist. II, a 10); ma nelle materie che possono essere naturalmente conosciute, un filosofo non dovrebbe assumere una posizione che non sia pronto a difendere con la ragione (Ibidem , XII; Periherm. , 1, I, tr. L, c. i).
La logica, secondo Alberto, era una preparazione all'insegnamento della filosofia come la ragione era il mezzo per passare dal noto all'ignoto: Docens qualiter et per quae devenitur per notum ad ignoti notitiam (De praedicabilibus, tr. I, c. iv).
La filosofia era sia contemplativa che pratica. La filosofia contemplativa abbraccia la fisica, la matematica, e la metafisica; la filosofia pratica (morale) è monastica (per l'individuo), domestica (per la famiglia), o politica (per lo Stato e la società).
Escludendo la fisica, gli autori moderni conservano ancora la vecchia divisione della filosofia scolastica in logica, metafisica (generale e speciale) ed etica.
In teologia Alberto occupa un posto tra Pietro Lombardo, il Magister Sentenziarum, e San Tommaso d'Aquino.
Nell'ordine sistematico, nella precisione e nella chiarezza superò il primo, ma fu inferiore al proprio illustre discepolo. La sua Summa Theologiae, segnò un passo in avanti rispetto alla consuetudine del suo tempo sia sull'osservazione scientifica, sia nell'eliminazione delle questioni inutili, sia nella limitazione delle argomentazioni e obiezioni; rimanevano, tuttavia, molti degli impedimenta che San Tommaso considerava sufficientemente importanti da richiedere un nuovo manuale di teologia ad uso dei novizi (ad eruditionem incipientium), come il "Dottore Angelico" commentava nel prologo della sua Summa.
La mente del Doctor Universalis era così pregna della conoscenza di molte cose che non poteva sempre adeguare le sue esposizioni della verità alle capacità dei novizi nella scienza della teologia. Quindi, addestrò e diresse un alunno che diede al mondo una concisa, chiara e perfettamente scientifica esposizione e difesa della dottrina cristiana. Fu proprio grazie agli indirizzi di Alberto che San Tommaso scrisse la sua Summa Teologica".
La gratuità c'entra col gioco? Pigi Colognesi - lunedì 15 novembre 2010 – il sussidiario.net
In questi giorni ho imparato una parola nuova: ludopatia. Descrive il fenomeno per cui una persona diventa succube del gioco d’azzardo. Il Corriere di settimana scorsa ha pubblicato un breve reportage da cui risulta che questa “malattia” sta assumendo proporzioni preoccupanti; si parla di un numero di affetti da ludopatia che oscilla, in Italia, tra i novecentomila e i due milioni, di un giro di soldi che supera i cinquanta miliardi di euro, di una “industria” che si posizionerebbe al quinto posto in una classifica per dimensioni e di un ingente gettito fiscale per lo Stato che ha, negli anni scorsi, autorizzato il moltiplicarsi delle macchinette da gioco, che sono ormai presenza fissa in molti bar, per non parlare delle sale appositamente dedicate.
Ovviamente si possono fare molte considerazioni di carattere sociologico: il gioco d’azzardo è, in fondo, una tassa nascosta; per i più poveri - le regioni maggiormente colpite sono quelle del Sud - si tratta di un tentativo, normalmente votato all’insuccesso, per uscire dalla miseria; è segnale di una cultura del guadagno facile e senza sacrificio; documenta l’impoverimento delle relazioni interpersonali (molti ludopatici sono anziani soli o giovani disoccupati). Tutte cose giuste e che fanno riflettere. Ma vorrei allargare la visuale e porre l’accento su un altro aspetto.
Ludopatia è neologismo composto dal suffisso “patia”, che indica una malattia, e dal sostantivo latino ludus, che significa “gioco”. In sintesi: il gioco diventa una malattia. Ma come è possibile che una delle attività più sane e confortanti della nostra esistenza - appunto il giocare - si trasformi in una patologia?
Nessuno penserebbe mai che quel bambino che gioca a pallone nei giardinetti sia un potenziale ammalato. Eppure succede; un amico che ha la passione di arbitrare partite di calcio a livello di dilettanti mi raccontava che il maggior numero delle risse sono dovute a sconsiderati genitori che aizzano i figli, insultano gli avversari, bestemmiano contro l’arbitro, creano un clima del tutto malsano. Sono dei ludopatici e non c’è da stupirsi se lo diventeranno anche i figli.
Ciò che contraddistingue la bellezza del gioco, infatti, è il suo spazio di gratuità, il suo essere “inutile”, sottratto alle preoccupazioni di quel che è necessario per vivere: lavorare, studiare, faticare. Il che significa che il giocatore è, ultimamente, distaccato dal gioco stesso, non ne è schiavo.
La perdita della gratuità nel gioco è sintomo brutto per una civiltà. Indica che si sta imponendo un generale asservimento, che si affievolisce il gusto della libertà, che proprio là dove potremmo essere più noi stessi ci ritroviamo schiavi ed eterodiretti. Ed è un impoverimento che tocca altri campi dell’esistenza. Si legge sui giornali che aumentano le cliniche per disintossicare dal sesso vissuto come droga. La stessa elementare operazione - e piacere -di mangiare ha preso le fattezze di una malattia: bulimia, obesità.
Sono le piaghe di una società opulenta, che va perdendo la percezione che lo spazio e il tempo per giocare, il cibo che ci piace, il corpo proprio e dell’altro sono dei dati, dei doni gratuiti; con cui rapportarsi gratuitamente. All’inizio sembra che poterne disporre a piacimento sia il massimo; ma lentamente l’assenza di gratuità li trasforma in padroni inflessibili. È proprio vero quel che dice un salmo: «L’uomo nella prosperità non comprende».
IRAQ/ Frattini: pronta risoluzione Onu dell’Italia per difendere i cristiani - INT. Franco Frattini - lunedì 15 novembre 2010 – ilsussidario.net
Una risoluzione Onu per difendere i cristiani perseguitati in Iraq, presentata dal governo italiano con il sostegno di tutti i Paesi europei. E’ una delle iniziative del ministero degli Esteri in difesa delle minoranze religiose nel mondo, annunciate in anteprima da Franco Frattini nel corso di un’intervista esclusiva a Ilsussidiario.net.
Tra i risultati ottenuti dal nostro esecutivo, anche il fatto che Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte in Pakistan, non sarà più giustiziata in quanto il governo di Islamabad si è impegnato a rivedere tutti gli atti dell’inchiesta che la riguarda. Già nel weekend inoltre sono arrivati negli ospedali italiani 26 irakeni gravemente feriti nel recente attentato alla cattedrale di Bagdad. Sulla sua pagina di Facebook, venerdì Frattini ha scritto: «Li accogliamo certo per rinvigorirli nel fisico ma anche per rasserenarli nello spirito e per dare loro la certezza che l’Italia e gli Italiani – che non li hanno abbandonati in un momento molto difficile – non abbandoneranno i Cristiani in Iraq».
Ministro Frattini, da dove nasce il suo impegno per i cristiani in Iraq?
E’ un impegno che ho preso perché ritengo moralmente doveroso per una autorità di governo dedicarsi alla difesa di un diritto assolutamente fondamentale qual è la libertà di religione, di tutte le religioni, ma in particolare della mia, cioè quella cristiana. Per non parlare del fatto che i 26 cristiani feriti in Iraq sono persone perseguitate. Ma l’impegno del governo italiano in favore delle minoranze religiose è attivo in ogni parte del mondo: giovedì in particolare sono stato in Pakistan. Quello che sto facendo è alzare un vessillo di libertà per la difesa di queste minoranze.
Che cosa intende fare in concreto nelle sedi di Ue e Onu?
In ambito europeo il governo italiano ha già ottenuto un impegno dell’Ue a promuovere la libertà religiosa e a contrastare le discriminazioni. In ogni ambasciata dell’Unione europea nel mondo sarà inviato un vero e proprio vademecum di comportamento per il corpo diplomatico, in modo che sia tutta l’Europa ad alzare la voce quando i diritti dei cristiani saranno discriminati o sacrificati in qualsiasi modo. E poi in ambito internazionale stiamo preparando un’importante risoluzione in favore della libertà religiosa da presentare all’Assemblea generale delle Nazioni unite.
Di chi è l’iniziativa di questa risoluzione?
La risoluzione è presentata dall’Italia con il supporto di tutti i Paesi dell’Unione europea. E’ una grande massa d’urto, che spero si arricchirà dell’appoggio di altri Paesi non europei, da cui ho già raccolto delle manifestazioni di grande interesse.
Quali saranno i contenuti del documento presentato all’Onu?
I contenuti saranno ovviamente l’assoluta inviolabilità del diritto a professare la propria religione e l’assoluta inviolabilità del diritto a esprimere il proprio credo, non solamente in privato ma anche con gesti pubblici. Un’iniziativa che va nella stessa direzione della difesa del crocifisso nelle scuole, portata avanti dal governo italiano, relativamente alla sentenza del tribunale di Strasburgo. Nella risoluzione Onu inoltre sarà contenuto l’impegno della comunità internazionale a intervenire là dove vi sono delle discriminazioni.
Saranno previste anche delle sanzioni per chi viola i diritti delle minoranze religiose?
Lo statuto delle Nazioni unite prevede soltanto delle sanzioni politiche: ovviamente l’intervento umanitario dell’Onu non è mai sanzionatorio. Però questa risoluzione è un primo principio da cui potranno derivare altri passi.
Che cosa farà l’Italia per aiutare i cristiani irakeni a superare le discriminazioni nella ricerca del lavoro?
Il governo italiano ha chiesto e ottenuto che ai cristiani irakeni siano riservate delle quote nelle amministrazioni pubbliche locali e provinciali. Giovedì abbiamo formulato la stessa richiesta anche alle autorità pakistane a Islamabad. Questo è un primo passo molto importante, perché evidentemente significa garanzia di un lavoro almeno in termini percentuali.
Nel frattempo i 26 feriti irakeni sono già arrivati in Italia?
Sono arrivati tra venerdì e sabato e sono alloggiati all’ospedale Gemelli dell’università Cattolica di Roma. Se ci sarà ulteriore necessità di altri ospedali, li individueremo con il concorso del ministro Ferruccio Fazio.
Che cosa ne pensa della condanna a morte di Asia Bibi in Pakistan?
L’Italia ha chiesto e ottenuto che vi sia una nuova inchiesta. Il ministro per le Minoranze religiose del Pakistan, in seguito alle sollecitazioni del nostro governo, ha ordinato di rivedere tutti gli atti dell’inchiesta che la riguardano. Io sono fiducioso che emerga quella che credo sia la verità, e cioè che vi è stato un abuso della legge pakistana sulla blasfemia, e che quindi il caso potrà rientrare. Ma continuerò a seguirlo direttamente in tutte le sue fasi.
Quindi per il momento la condanna a morte di Asia Bibi non sarà eseguita?
Assolutamente non sarà eseguita.
Quali sono stati gli altri risultati raggiunti con il suo viaggio in Pakistan?
Mi sono incontrato con tutti i rappresentanti delle minoranze religiose fra cui quella cristiana. In particolare, ho parlato con il nostro vescovo, con il nostro nunzio e con tutte le altre religioni di minoranza, che hanno chiesto in mia presenza un forte impegno al Pakistan perché la loro tutela sia piena.
In quali altri Paesi del Medio Oriente l’Italia si è impegnata per difendere i cristiani?
Abbiamo già fatto dei passi importanti con l’Egitto e con l’Iraq, ma anche, al di fuori della regione mediorientale, con l’India e certamente con il Sudan. Tutti Paesi in cui i cristiani si trovano a vivere in situazioni complesse, ma dove anche in futuro non abbiamo intenzione di mollare la presa.
(Pietro Vernizzi)
BIRMANIA/ La lezione di Aung San Suu Kyi, piccola grande signora della pace Renato Farina - lunedì 15 novembre 2010 – il sussidiario.net
Davvero il cuore dell’uomo è invincibile. C’è qualcosa che la tirannide non riesce a schiacciare. Ma ogni volta che questo fiore spunta sotto le macerie si resta incantati. E si deve avere il coraggio di dare testimonianza di questo dono ricevuto e dire grazie. Grazie a questo fiore, grazie al popolo da cui è spuntato, e grazie a Dio che ha fatto l’uomo teso all’infinito, alla libertà e capace di imitare il suo Creatore nella misericordia!
Così ieri, nel suo primo discorso, dopo essere vessata insieme al suo popolo da ventidue anni, la birmana premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, 65 anni, ha detto: «Non serbo rancore». In queste tre parole c’è un mondo in cui vale la pena di vivere. Bisogna imparare da Suu Kyi anche e soprattutto in Italia; le sue parole e il suo invito valgono per noi che siamo e desideriamo essere cattolici, ma non esclude nessuno: essere religiosi in ogni atto è ciò che rende il politico e la politica adeguati alla necessità, qualunque sia la situazione, la crisi, la fatica.
Nulla di meno che essere religiosi serve alla politica. Non per forza si declinerà nella medesima proposta o programma: ma se c’è questa religiosità di base anche dividersi, persino polemizzare con durezza non è una tragedia, ma persino una ricchezza.
Proviamo a metterci spiritualmente in mezzo ai quarantamila, vittime ancora pochi giorni fa di elezioni burla, schiacciati insieme ai loro leader buddisti dall’aggressione poliziesca, senza uno spazio fisico per radunarsi da un sacco di decenni. Hanno cambiato persino l’insegna alla loro casa, gli oppressori: l’hanno stuprata e chiamata Myanmar, rubandole il nome di battesimo che era ed è Birmania.
Davanti a questo popolo sta una donna minuta e mite, nelle sue prime ore oltre la soglia della prigionia: era stata chiusa in carcere e poi a domicilio per sedici anni; la sua colpa era di aver vinto le elezioni nel 1989 contro la giunta militare (comunista, filocinese) che lei era riuscita a sconfiggere. E lei invece di gonfiarsi come un’eroina, chiamare alla rivolta, mostrare le piaghe e manifestare amarezza e un digrignante odio, elogia la libertà. E non la sua libertà di circolare, muoversi, respirare per le strade della sua Yangon. No, «la libertà di parola come base della democrazia». La quale è la libertà – ha detto – di dialogo, dà la possibilità di incontrare l’altro, e scambiare tra popoli e nazioni la propria anima, «di aiutarsi reciprocamente».
Non è stato il discorso di una donna imbelle. Perdono e rinuncia al rancore non significano accondiscendenza al potere ingiusto. Instaurano però un metodo di lotta dove l’avversario non è un nemico, anche se ti ha fatto del male. Ci dovrà essere giustizia, ma non violenza. Ha detto ancora, dinanzi alla sede del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia» (Nld): «Anche se penso di sapere cosa volete, vi chiedo di dirmelo voi stessi. Insieme, decideremo quello che vogliamo, e per ottenerlo dobbiamo agire nel modo giusto. Non c'è motivo di scoraggiarsi». Ha aggiunto: «Accetto la mia responsabilità. La mia voce però da sola, anche se libera, non è democrazia. Niente può essere raggiunto senza la partecipazione della gente. Dobbiamo camminare insieme».
Ha chiesto di abrogare le sanzioni internazionali perché danneggiano il popolo. Ora vedremo come reagirà la giunta militare (e i suoi protettori a Pechino…).
Ieri su Avvenire, Luigi Geninazzi ha spiegato che quando un regime libera il suo principale oppositore è giunto alla vigilia della sua fine. Perfetto. È tanto più vero quanto più l’oppressore è comunista e perciò ha fatto proprio il motto di Lenin: «Il nemico non si piega, si annienta». Non sono riusciti ad annientare Suu Kyi, ed ora sono i violenti a doversi piegare. Più forte della violenza è la misericordia. Impariamo da questa piccola grande signora della pace.
LETTURE/ Cosa rimane oggi di Kerouac e della generazione "On the road"? Vita Fortunati - lunedì 15 novembre 2010 – il sussidiario.net
A più di cinquanta anni dall’uscita del romanzo di Jack Kerouac On the Road (1957), colui che è stato considerato “il re dei Beats”, è d’obbligo domandarsi quale siano stati i meriti ed i limiti, insomma l’eredità culturale e letteraria di questo movimento e se le opere dei massimi rappresentanti di questo movimento siano ancora stimolanti per un lettore contemporaneo.
I giovani d’oggi si riconoscono ancora nelle opere dei beats e soprattutto nel romanzo di Kerouac che divenne subito un best-seller e un “romanzo culto”? Attraverso le loro pagine si può ancora trovare una risposta ai problemi che li angosciano e opprimono come lo è stato per i giovani di un'intera generazione? Una domanda a cui non è facile dare una risposta univoca, perché su di loro è pesata per anni l’accusa di avere popolarizzato uno stile di vita “anarchico” le cui caratteristiche erano il nomadismo, il sesso, la violenza e la droga. Innanzitutto a detta del critico anglosassone Christopher Gair, che recentemente ha scritto un interessante contributo su questo argomento (The Beat generation, a Oneworld Pubblications, 2008), On the Road di Kerouac, come gli altri testi dei componenti del movimento, hanno avuto parecchie ristampe e vengono ancora letti dal grosso pubblico.
D’altra parte in America proprio quei testi che suscitarono tanto scalpore e scandalo al loro apparire, ora vengono insegnati nelle università e sono entrati nel canone della letteratura americana. Ci si potrebbe domandare se lo stesso avviene in Europa e sopratutto in Italia, dove, a mio parere, l’interesse per questo movimento è senz’altro meno vivo, anche se ci sono state recentemente riedizioni dell’opera di Kerouac.
Ciò sembra confermare il giudizio che Fernanda Pivano espresse a suo tempo nella sua introduzione all’edizione italiana de I sotterranei (1960) di Kerouac sull’americanità di questo movimento. La Beat Generation era un fenomeno autenticamente e tipicamente americano e la Pivano aggiungeva che sbagliavano i critici a volere trovare le sue radici in Europa in movimenti quali l’esistenzialismo, il dadaismo o l’espressionismo. Oggi a distanza di mezzo secolo si può con ragione affermare che il giudizio di Fernanda Pivano, il cui merito è stato quello di fare conoscere la generazione beat in Italia, era appropriato, perché partiva da un autentica conoscenza dell’humus culturale che vide la nascita di questo movimento.
Credo che per rispondere adeguatamente al mio quesito iniziale occorra tenere presente il momento storico in cui il movimento beat ha visto la luce. Si tratta dell’America degli anni 50, un’America che era da poco uscita dalla seconda guerra mondiale e che stava vivendo il difficile e tremendo periodo della Guerra Fredda e del maccartismo. Jack Kerouac appartiene infatti a questa prima ondata della beat generation definita “hot” per diversificarla dalla seconda “cold”. Nella narrativa di Kerouac traspare un'acuta critica nei confronti del materialismo e del consumismo della società americana, degli anni 50 da lui definita ironicamente “the plastic fifties”.
Critica ed ironia che nascondono una nostalgia per l’America precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale: un passato che viene da Kerouac mitizzato, popolato da “uomini forti”, individui non soggetti al lavaggio dei cervelli a cui è sottoposto l’americano medio degli anni 50. Una generazione quella di Kerouac che aveva conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale e sopratutto era stata testimone della esplosione della bomba atomica. Questo spiega non solo l’antimilitarismo e il pacifismo della Beat Generation, ma anche l’avversione di Kerouac per ogni forma di disciplina, il suo disagio nevrotico, le sue speranze e disperazioni. Le sue rischiose vie di fuga offerte dall’alcool, dalla marijuana e dalla benzedrina rivelano un’ansia e un male di vivere che aumenta col tempo.
Il movimento beat non solo si è prolungato nel tempo, ma è da considerarsi eterogeneo avendo avuto al suo interno diverse tendenze. Per questo bisogna evitare generalizzazioni e tenere presenti le diverse personalità e formazioni culturali dei suoi componenti. Ne è un esempio la biografia di Kerouac, figlio di emigrati franco-canadesi, che visse la sua infanzia e giovinezza a Lowell, città industriale del Massachusetts, nell’ambito della comunità franco-canadese, poco integrata nella realtà americana. Come giustamente ha messo in evidenza Gerald Nicosia nella sua biografia su Kerouac (1986), queste sue radici spiegano l’atteggiamento d’amore-odio che egli nutrì nei confronti dell’America.
La sua posizione restò sempre quella di un individuo che guardò l’America da una posizione marginale. Come anche importante è la sua educazione cattolica, da cui non riuscì mai a liberarsi, nonostante la sua vita movimentata, intensa e ricca di avventure di ogni tipo. Essa spiega sia il suo vivere il sesso con un continuo senso di colpa, di cui mai si liberò, sia la sua tendenza al misticismo come quando fu attratto dal buddismo e dalla filosofia Zen.
Si diceva all’inizio che la Beat Generation è un fenomeno tipicamente americano e questo emerge, ad esempio, dal modo in cui Kerouac riscrive, talvolta parodiandoli, alcuni temi trattati dai grandi scrittori della tradizione letteraria americana Emerson, Thoreau, Whitman, Poe e Melville. On the Road si configura infatti come un romanzo epico, di iniziazione, in cui il tema del viaggio è dominante. Il viaggio diventa per il giovane protagonista Sal e per l’amico Dean (nella realtà Kerouac e Neal Cassady) non solo un modo per conoscere la realtà americana nella sua multiforme complessità, ma anche per viverla, per esperirla nella sua pienezza.
Anche l’attenzione che Kerouac ha per i piccoli e insignificanti episodi della vita quotidiana è una caratteristica che si può ritrovare in uno scrittore come Williams Carlos Williams. Profondamente americana è infine la sua visione della realtà, mai astratta e intellettualistica, come poteva essere quella dei giovani esistenzialisti francesi (alla quale è stata abbastanza erroneamente accostata), ma fondata essenzialmente sulla fisicità e sulla corporeità.
Se rileggere oggi i romanzi di Kerouac significa rendersi conto che essi descrivono un’America che non c’è più e soprattutto uno stile di vita che per molti aspetti è diventato obsoleto e fuori moda, vi è però un aspetto che, a mio avviso, rimane vitale. Si tratta della sua prosa, che Kerouac definì spontanea: una scrittura che doveva essere redatta senza avere il tempo di fermarsi per pensare. Lo scrittore doveva scrivere in uno stato di “semi trance” per fare emergere i pensieri, le sensazioni più profonde, in una parola il suo subconscio, senza lasciare il tempo di operare censure.
Una prosa sperimentale che si sforza di operare una fertile ibridazione con il jazz, soprattutto con il bepop di Charlie Parker. Come il bepop è caratterizzato dalla tecnica dell’improvvisazione e si discosta dalla melodia tradizionale, così la struttura stilistica di Kerouac si basa su una serie ininterrotta di variazioni sul tema fondamentale che fa da perno e sostegno a un periodo della frase. La scrittura di Kerouac si configura come una sorta di riscrittura in chiave jazzistica della tecnica joycsiana del flusso di coscienza forse non a caso contemporanea delle sperimentazioni pittoriche “astratte” di Jackson Pollack.
Vorrei concludere con le lucide e consapevoli parole dello stesso Kerouac, prese dal suo decalogo della prosa spontanea: “Poiché il tempo è l’essenza della purezza del discorso, il linguaggio è un indisturbato flusso dalla mente di segrete idee-parole personali, un esprimere (come fanno i musicisti di jazz) il soggetto dell’ immagine… non fate periodi che separino frasi-strutture già confuse arbitrariamente da falsi punti e virgole e da timide virgole per lo più inutili, ma servitevi di un energico spacco che separi il respiro retorico come il musicista di Jazz prende fiato tra le varie frasi suonate“.
L’INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO - di P.Giovanni Cavalcoli, OP dal sito http://riscossacristianaaggiornamentinews.blogspot.com/
La più grave questione che agita la Chiesa di oggi e non solo da oggi, ma dalla fine del Concilio Vaticano II, è quella dell’interpretazione degli insegnamenti del Concilio, inquantochè, come molte volte hanno lamentato i Papi del postconcilio sino all’attuale Pontefice, a partire dagli anni immediatamente seguenti la fine dei lavori conciliari sino ad oggi si sono diffuse nel popolo di Dio e nei teologi interpretazioni non autorizzate dal Magistero della Chiesa (quello che Paolo VI chiamò “magistero parallelo”), le quali hanno presentato e presentano le dottrine conciliari in modo falso, come se esse costituissero una compromissione con gli errori moderni e in particolare costituissero una mondanizzazione del messaggio evangelico: quello che più volte è stato chiamato dalla Chiesa “secolarismo”, che l’attuale Papa preferisce chiamare “relativismo” e che molti studiosi chiamano opportunamente “neomodernismo”.
Il più grave pregiudizio su questo punto, assai duro da togliere, perché assai diffuso anche in ambienti della cultura teologica, è quello secondo il quale le dottrine del Concilio sarebbero state influenzate dal pensiero del famoso teologo tedesco Karl Rahner, il quale, come è noto, è stato effettivamente perito del Concilio ed ha dato un contributo positivo, ma sarebbe assurdo pensare che il Concilio sia stato influenzato dai suoi errori.
Per questo, da circa quarant’anni una schiera di studiosi cattolici italiani e stranieri, soprattutto Tedeschi, ha dimostrato che ciò non corrisponde a verità. Io stesso, riprendendo questa serie di studi, ho recentemente pubblicato un libro (“Karl Rahner, il Concilio tradito”, Fede&Cultura 2009), dove confermo questa tesi, al termine di una trentina d’anni di studi personali su questo Autore. Eppure il Rahner, che ha dalla sua parte a sua volta un insieme di validi ed illustri teologi, continua presso molti ambienti ecclesiali ad esser considerato nel senso suddetto. Tuttavia i critici di Rahner stanno aumentando il loro prestigio, mentre i suoi sostenitori preferiscono chiudersi nel silenzio, nell’incapacità di rispondere alle critiche puntuali e fondate che vengono loro rivolte.
In particolare appaiono sempre più evidenti, come dimostrano i critici, le conseguenze morali delle idee rahneriane, le quali causano dissesto e rovina nei vari ambiti dell’agire morale pubblico e privato, civile ed ecclesiale, politico e religioso, locale ed internazionale.
La cosa veramente curiosa è che la suddetta tesi dell’influsso rahneriano sul Concilio è condivisa da due correnti cattoliche che stanno agli antipodi tra di loro: quella che si esprime nella notissima e prestigiosa rivista dei Gesuiti “La Civiltà Cattolica”, di orientamento progressista, e quella che trova una sua espressione nel periodico “Sì Sì No No”, espressione piccola ma mordace del variegato movimento filolefevriano.
Ebbene, ho potuto constatare personalmente questa coincidenza, in quanto, mentre da una parte il periodico filolefevriano ha fatto una recensione al mio libro approvando da una parte la mia critica a Rahner, ma sostenendo dall’altra che Rahner non è un “traditore” ma un mentore del Concilio, contemporaneamente ho avuto una corrispondenza epistolare col Padre Giampaolo Salvini, direttore de La Civiltà Cattolica, al quale avevo fatto omaggio del mio libro. Nel corso di tale corrispondenza il Padre Salvini mi ha definito Rahner come “icona del Concilio”. Qui abbiamo la misura di quanto vasta e radicata sia la convinzione che Rahner abbia influenzato il Concilio, si tratti di criticare Rahner col Concilio, come fanno i lefevriani, o si tratti di esaltare Rahner e il Concilio, come fa Padre Salvini.
Ma si tratta di dire con franchezza che sia nell’uno che nell’altro caso si interpreta male il Concilio, quasi che esso sia connivente col neomodernismo al quale ho fatto cenno sopra e del quale Rahner è forse il massimo esponente attuale. Qui sta tutto il nodo della questione. Occorre urgentemente, come ci dicono i Papi da più di quarant’anni, interpretare rettamente il Concilio, non alla maniera dei modernisti, ma come intende il Magistero, il quale si è espresso in molti modi, sia condannando le interpretazioni sbagliate, sia dandoci preziose indicazioni ermeneutiche contenute in numerosi documenti, a cominciare dal Catechismo della Chiesa cattolica o dal nuovo Codice di Diritto Canonico o dal commento al Credo di Paolo VI o dalle catechesi sul Credo di Giovanni Paolo II.
Molti si chiedono come si sia potuto verificare un tale e così vasto fraintendimento del Concilio. Le ragioni sarebbero molte, ma qui non ho lo spazio per diffondermi su questo. Accennerò solo ad alcuni punti.
1. Innanzitutto il linguaggio stesso del Concilio, non sempre chiaro e passibile di essere strumentalizzato in senso modernista.
2. La difficoltà di reperire nella gran mole di documenti i punti dottrinali veramente vincolanti. Ciò ha consentito a conservatori e modernisti di sottovalutare l’autorevolezza delle dottrine conciliari.
3. L’atteggiamento troppo ottimistico diffusosi nell’episcopato del postconcilio, con la conseguente diminuzione della vigilanza (“epìskopos=sorvegliante”!) nei confronti dell’insorgere di errori ed eresie.
4. La mancanza dei tradizionali “canoni”, i quali sempre nei Concili precedenti hanno costituito un chiaro punto di riferimento per sapere inequivocabilmente che cosa ha inteso dire il Concilio e per conoscere riassuntivamente le dottrine più importanti.
5. Il ritardo col quale è stato fatto il Catechismo (solo nel 1992!), mentre da molti anni si era diffuso lo spurio Catechismo Olandese, che falsamente si è presentato come interprete del Concilio causando un gran danno alla Chiesa e alle anime.
Alla linea pastorale del Concilio e del postconcilio è dunque lecito ed anzi doveroso avanzare delle riserve ed apportare delle correzioni, perché su questo piano le direttive della Chiesa non sono infallibili. Invece al cattolico non è permesso mettere in discussione o addirittura respingere le dottrine dogmatiche del Concilio, perché esse sono testimoni infallibili della Tradizione, anche se non si tratta di dogmi solennemente o esplicitamente definiti come tali, ma si tratta pur sempre di materia di fede dove la Chiesa non può sbagliare né può cambiare.
Tali dottrine pertanto - come ha detto il Papa - vanno viste come una esplicitazione, un progresso e uno sviluppo della Tradizione in continuità con la Tradizione precedente. E chi non capisce questo non ha il diritto di dire che il Concilio “rompe” con la Tradizione, ma dà segno che non capisce i contenuti del Concilio.
Nonostante tutti questi guai, il vero rinnovamento conciliare è andato avanti. Il segreto per comprendere il vero senso del Concilio ed attuarlo veramente sta nelle parole più volte ripetute dal Papa: occorre vedere nel Concilio un supremo testimone della Tradizione, certo non di una Tradizione “congelata”, come dice Papa Ratzinger, ma di un Tradizione viva, che si trasmette ininterrotta e fedele dai tempi di Cristo nell’insegnamento orale ovvero nella predicazione dei Successori degli Apostoli e che sempre meglio nel corso della storia viene conosciuta, sì da generare un continuo progresso nella conoscenza e nella pratica della Parola di Dio e dell’ideale cristiano.
Domenica 14 Novembre 2010 - AUNG SAN SUU KYI - Il sorriso e la lotta - Nelle prigioni birmane rimangono 2.200 dissidenti – dal sito http://www.agensir.it
Libera finalmente. La Birmania è in festa. Aung San Suu Kyi, leader democratica e premio Nobel per la Pace, è tornata ad assaporare la libertà e l’abbraccio della sua gente dopo 16, degli ultimi 21 anni, trascorsi agli arresti domiciliari. Il suo viso sorridente è apparso al di sopra del cancello a punte aguzze della casa-prigione di University Avenue, a Rangoon, per salutare la folla dei sostenitori radunatasi fin dalla mattina in attesa della liberazione. “Non ci vediamo da così tanto tempo, ora avremo tante cose da dirci” ha detto Suu Kyi. Ne avrà di cose da raccontare e da dire, questa donna forte dall’espressione dolce; e, soprattutto, battaglie da affrontare per portare alla democrazia il suo Paese appena uscito dalle elezioni farsa del 7 novembre scorso che tra brogli e intimidazioni hanno visto apparentemente confermare uno dei regimi più chiusi e totalitari del mondo. ?
È abituata alle battaglie, Aung San Suu Kyi, arrivata ormai alla soglia dei 65 e che a due anni vide uccidere il padre, il generale Aung San, giustiziato perché si batteva per l’indipendenza birmana. La tragedia le rimase dentro e rinforzò in lei quell’impegno alla lotta per la libertà e i diritti civili, sull’esempio di Gandhi e Martin Luther King, che nel 1991 le fu riconosciuto a livello mondiale con l’assegnazione del premio Nobel per la Pace. Premio mai ritirato, perché Suu Kyi era già da due anni agli arresti domiciliari. Benché prigioniera, il suo carisma e il seguito tra la popolazione furono determinanti per portare il suo partito, la Lega nazionale della democrazia, a vincere nettamente le elezioni del 1990. Ma i risultati non furono riconosciuti dalla giunta militate al potere e la Suu Kyi fu condannata ad altri sei anni di detenzione ai domiciliari. ?
Rimessa in libertà nel 1995, fu nuovamente arrestata nel 2000 per aver tentato di recarsi nella città di Mandalay. Ancora una parentesi di libertà nel 2002, cui segue nel 2003 un nuovo arresto. L’ultima condanna le è stata inflitta dopo che un americano squilibrato si era introdotto nella sua casa, violando così le restrizioni imposte dai domiciliari. Ora la liberazione. Un atto, quello del regime presieduto dal generale Than Shwe, che suscita non pochi interrogativi. Un gesto di opportunismo politico?, in un momento in cui, obiettivamente, Aung San Suu Kyi appare indebolita sul fronte interno, per la sua decisione di boicottare le recenti elezioni, decisione che non ha trovato il consenso solidale del suo partito, che pertanto si è presentato, e si presenta ora, diviso. ?
Una mossa per guadagnare in termini di immagine di fronte a una pressione internazionale fattasi negli ultimi mesi sempre più insistente nel chiedere la liberazione della leader dell’opposizione? E infine, fino a che punto potrà essere veramente libera di muoversi Aung San Suu Kyi? Accetterà una qualche forma di dialogo con il regime appena uscito vincitore dalle elezioni-farsa?
Resta nella sua drammaticità un dato di fatto: nelle prigioni del Myanmar (l’ex Birmania) sono ancora ristretti oltre 2.200 prigionieri politici.
Marthe Robin: una mistica contemporanea di Claudio Dalla Costa del 14/11/2010 in Storia del Cristianesimo, dal sito http://www.libertaepersona.org
Una figura singolare del nostro tempo, mistica straordinaria, di cui è in corso a Roma il processo di beatificazione, è quella di Marthe Robin, vissuta dal 1902 al 1981. Segnata ben presto dalla malattia che la ridurrà paralizzata a letto, dal 1928 fino alla morte si ciberà esclusivamente della sola eucaristia ricevuta una volta la settimana. Starà per più di cinquant’anni senza mangiare, senza bere e senza dormire.
Stesa su di un lettino, colpita anche da cecità, rivivrà ogni fine settimana la passione del Signore con indicibili sofferenze, tanto da essere una sindone vivente. Ciò nonostante, riceverà al suo capezzale circa centomila persone, di tutte le età e di ogni condizione sociale, tra cui migliaia di preti, una cinquantina di vescovi e superiori maggiori di Ordini Religiosi e venti cardinali per donare loro una parola di speranza e di sapienza, per illuminarli sulle concrete situazioni della vita e accompagnarli nella preghiera. Dirà: “Ho trovato la gioia, l’unica possibile: vivere per gli altri, per la loro felicità soprannaturale; provo un desiderio immenso ad irradiare la Verità, diffondere l’Amore, di seminare in altre anime i tesori spirituali che in me abbondano ogni giorno”.
Marthe era una persona semplice, umile e con uno spiccato senso dell’umorismo. Attenta ai bisogni di tutti, inviava pacchi dono ai carcerati e ai missionari. Intratteneva scambi epistolari con centinaia di persone che si rivolgevano a lei per i consigli più disparati.
La sua è stata una guida sicura per orientare sacerdoti in crisi di fede, aiutare coppie di sposi in difficoltà, dare speranza agli ammalati e sostenere i giovani nella ricerca della propria vocazione. Tante persone uscendo dalla sua camera hanno ridato un senso alla vita, hanno scoperto l’amore di Dio per loro, hanno deciso di spendere la propria vita a servizio del prossimo. Una predilezione speciale Marthe l’aveva per quelle coppie che si rivolgevano a lei per avere figli e che grazie alla sua intercessione hanno potuto coronare il loro sogno.
Molto attenta al dramma dell’aborto, quando verrà a sapere che un grande ospedale di Lione ha equipaggiato un reparto per praticare l’aborto dice: “È un vero mattatoio…Ci si indigna davanti a tutti questi morti della guerra e si lasciano massacrare questi piccoli innocenti. Si trova tutto ciò normale? Non si può trovare tutto ciò normale…E soffrono questi piccoli”.
Grazie all’aiuto di padre George Finet, incontrato provvidenzialmente, riuscirà a fondare i Foyers de Charité, case per ritiri spirituali gestite da persone consacrate e da laici, che ora sono presenti in tutto il mondo. La Santa Sede, nel 1984, ha riconosciuto i Foyers de Charité come Associazione di fedeli di diritto internazionale.
Il Cristo conosciuto e amato da Marthe è scandalo e follia per chi pretenderebbe di accontentarsi di un cristianesimo per mediocri, compatibile con lo spirito del mondo. Cosciente che la messa è il memoriale del sacrificio di Cristo, Marthe interpreta tutta la sua vita come una eucaristia. Dirà: “La mia vita è una messa continua. Non ho mai l’impressione che il mio letto sia un letto, è un altare, è la croce”. Di lei padre Jacques Ravanel scriverà: “Il suo cuore che batte al ritmo del Cuore di Dio ama il mistero di ogni uomo”.
Marthe ha irradiato Dio. Lei ha creato legami di amicizia e preghiera con nuove comunità sorte a metà del ‘900 quali: Le piccole sorelle di Gesù, fondate da piccola sorella Magdeleine, che hanno come carisma l’adorazione eucaristica e la condivisione della vita dei poveri e degli emarginati; i Foyers Claire-Amitiè, un’associazione apostolica universale di laiche, impegnate in gruppi comunitari per dedicarsi alla promozione delle giovani donne in difficoltà.
Il Nid, fondato da padre Talvas, con lo scopo di recuperare le prostitute e aprirle al mistero della fede, l’Arca di Jean Vanier, che ha come obiettivo il creare comunità ispirate alle beatitudini evangeliche dove handicappati e assistenti vivono insieme.
Un cenno particolare merita la comunità dell’Emmanuel che oggi è la più grande comunità carismatica del mondo. Fondata da due laici, nel 1972, Pierre Goursat e Martine Lafitte, dal 1975 il centro spirituale della comunità è il santuario di Paray-le-Monial dove Gesù si rivelò nel XVII secolo a santa Margherita-Maria Alacoque. I suoi membri sono specializzati nell’evangelizzazione e nella difesa della vita umana.
Mi piace concludere con quanto scrive l’accademico francese Jean Guitton nella biografia che ha dedicato a Marthe. “Jean Paul Sartre ha scritto che la vita è una passione inutile. La vita di Marthe Robin è stata una passione utile”.