sabato 27 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Avvenire.it, 27 novembre 2010 - Benedetto XVI ai settimanali cattolici - Consenso e verità
2)    Il Papa saluta Manuela - Angela Ambrogetti - http://www.angelambrogetti.org/
3)    26/11/2010 – CINA -Cina, arrestato il cristiano Fan Yafeng: aveva firmato Charta ’08 - Il ricercatore dell’Accademia delle Scienze sociali cinesi è stato licenziato nel 2009 per il suo impegno a favore della popolazione. La polizia ha fermato anche la moglie e il figlio di 3 anni. Continua la persecuzione contro i sostenitori del Nobel Liu Xiaobo.
4)    TURCHIA: la maschera è quasi del tutto gettata - Venerdì 26 Novembre 2010 - CR n.1168 del 27/11/2010
5)    Mons. Luigi Negri, Parole di fede ai giovani,  Edizioni Fede & Cultura , 2010, ISBN 9788864090672, pp. 80, € 8 - Sconto su: http://www.theseuslibri.it - LA FELICITÀ È UN INCONTRO presentazione di Massimo Pandolfi
6)    Prima di Augias, Odifreddi e Dawkins... di Francesco Agnoli del 26/11/2010 @, in Storia del Novecento, dal sito http://www.libertaepersona.org/
7)    25 novembre 2010 - Le ipocrisie sulla pelle dell’università dei suoi fasulli paladini di Giorgio Israel - © - FOGLIO QUOTIDIANO
8)    Un morbo chiamato amore di don Massimo Vacchetti del 27/11/2010, in Africa, http://www.libertaepersona.org
9)    Avvenire.it, 27 novembre 2010 - Il consigliere rai - De Laurentiis: «Devono solo aggiungere una storia» di Pino Ciociola
10)                      Avvenire.it, 27 novembre 2010 - LA DIFESA DELLA VITA - «Ora Luca è a casa con noi Ma lo Stato non ci sostiene» di Andrea Gualtieri
11)                      Avvenire.it, 27 novembre 2010 - IL CASO - Waters: «Avevo ucciso Dio sull’altare del ’68» di Lorenzo Fazzini
12)                      Idee Jonas e il cammino della vita in compagnia della morte - Il filosofo del «Principio responsabilità» aveva proposto di fondare «l’etica sulla metafisica» Un saggio di Paolo Becchi ne indaga le conseguenze in una prospettiva aperta alla religiosità - DI LUCA MIELE – Avvenire, 27 novembre 2010

Avvenire.it, 27 novembre 2010 - Benedetto XVI ai settimanali cattolici - Consenso e verità

La verità. Dov’è, qual è, ma esiste? La discussione antica ha subito negli ultimi anni una brusca svolta. La verità non c’è; in compenso ci sono tante opinioni, e soltanto quelle. Tutte le opinioni possibili immaginabili, tutte degne e sullo stesso piano, senza esclusioni né discriminazioni. Tutte tranne una, forse: l’opinione di chi crede che una verità esista e possa essere ricercata, insieme, liberamente, senza i paletti stretti dei dogmatismi, senza le manette dell’ideologia.

Perché questo assalto dell’"idolatria dell’opinione" al libero pensiero dei liberi ricercatori della verità? Viene spontaneo chiederselo, dopo le parole rivolte ieri da Benedetto XVI ai giornalisti dei 188 settimanali cattolici riuniti a Roma per l’Assemblea della loro federazione, la Fisc. «Una delle sfide più importanti – ha ricordato il Papa – coinvolge il modo di intendere la verità. La cultura dominante, quella più diffusa nell’areopago mediatico, si pone, nei confronti della verità, con un atteggiamento scettico e relativista, considerandola alla stregua delle semplici opinioni e ritenendo, di conseguenza, come possibili e legittime molte "verità"».

Il compito di un giornalismo ispirato cattolicamente sarà di «leggere la realtà da un punto di vista evangelico», e «dare voce a un punto di vista che rispecchi il pensiero cattolico in tutte le questioni etiche e sociali». Sembra ovvio ma non lo è, anche alla luce di molti fatti recenti. In realtà, la dittatura delle opinioni assomiglia all’egualitarismo della Fattoria degli animali, dove tutte le opinioni – e le storie... – sono uguali ma qualcuna è più uguale delle altre. Sul fine vita, ad esempio. E sull’inizio della vita. Altrove, le "opinioni più uguali" sono, banalmente, quelle che più fanno guadagnare; sono le opinioni che, nel momento in cui vengono manifestate, fanno impennare l’audience, fan contenti gli inserzionisti e fregar le mani ai venditori di spazi pubblicitari. Se sono opinioni vere o emerite panzane, non è affar loro, perché la loro "verità" è il denaro.

Ma c’è dell’altro. La sensazione è che indurre la gente a non credere in niente, suggerendo che la verità non esiste ed esistono solo le opinioni, tutte sullo stesso piano (un abile inganno, come abbiamo visto), è un passaggio necessario affinché la gente possa credere a tutto. In un simile ambiente (tante arene giornalistiche e televisive sono costruite così), un pubblico privato di spirito critico è facile preda di ogni imbonitore.

Se la verità non esiste, perché perder tempo a cercarla, pensando ed elaborando giudizi critici? Affidati all’imbonitore di fiducia e vivi sereno, uomo! Quanta distanza da chi invece ha alcune, fondamentali verità a cui far riferimento: il valore della persona dal primo scoccare della vita al suo esito estremo, innanzitutto; e prima ancora la speranza consapevole che sopra di noi c’è un Altro che ci ama, a cui fare riferimento.

Già questo basterebbe per ricercare le mille verità della cronaca con gli occhi spalancati e la mente aperta. Senza l’ossessione della conquista del consenso ad ogni costo. Proprio l’autore della Fattoria degli animali, George Orwell, avvertiva: «Libertà significa poter dire alla gente anche quello che la gente non vorrebbe sentirsi dire». Parole da scolpire sui muri di ogni redazione. Orwell fece una fatica dannata a pubblicarla, perché nell’immediato dopoguerra in Gran Bretagna era politicamente scorretto dispiacere a quell’Unione Sovietica, alleata tanto preziosa nella lotta contro il nazismo. Ma quando c’è da fare spazio alla verità, non si può aver paura.
Umberto Folena


Il Papa saluta Manuela - Angela Ambrogetti - http://www.angelambrogetti.org/

E' appena scesa la sera e le luci della basilica di San Pietro si sono accese, l'auto del papa arriva davanti alla chiesetta di santo Stefano degli Abissini. Ma nessuno applaude o grida "viva il papa".
Stiamo tutti pregando. Davanti all'altare c'è la bara semplice e discreta di Manuela Camagni. Si è appena conclusa la recita del Rosario. A guidarla don Julian Carron, la guida di Comunione e Liberazione, il movimento cui Manuela come Memores Domini aveva dedicato la vita nella scelta della verginità.
Ci sono i familiari, il fratello e altri, ci sono Loredana, Cristina e Carmela, le altre Memores che si prendono cura dell' appartamento papale, ci sono tanti della comunità di CL, c'è gente del Vaticano che incrociava spesso il suo sorriso sereno. Il papa entra accompagnato da don Georg e don Alfred, i segretari e da suor Christine che accompagna Georg Ratziger quando è a Roma.
Insomma dalla famiglia. Si ferma solo a salutare Angelo Gugel per anni al fianco di Giovanni Paolo II e ancora vicino a Benedetto XVI. Per alcuni minuti, in ginocchio, prega in silenzio. Poi si canta il De profundis. Il papa recita una preghiera per i defunti, il Padre Nostro e l' Ave Maria. Monsignor Guido Marini, che ha seguito la breve liturgia, chiude il libro delle preghiere e il papa saluta i familiari di Manuela. Con lo stesso raccoglimento dell'arrivo Benedetto XVI lascia la chiesa. Sono momenti intensi per tutti. Qualcuno piange, molti si rimettono a pregare in ginocchio. Fuori è scesa la notte e il vento freddo fa ondeggiare gli alberi. Il papa torna al suo lavoro, deve incontrare il cardinale Levada come sempre il venerdì pomeriggio. Ma c'è da essere certi che lunedì pomeriggio, nella chiesa di San Pietro in Bagno, in Romagna dove si svolgono i funerali di Manuela, ci sarà anche il cuore del papa. E pensare che proprio lunedì 29 novembre Manuela avrebbe festeggiato i trenta anni di vita come Memores Domini.


26/11/2010 – CINA -Cina, arrestato il cristiano Fan Yafeng: aveva firmato Charta ’08 - Il ricercatore dell’Accademia delle Scienze sociali cinesi è stato licenziato nel 2009 per il suo impegno a favore della popolazione. La polizia ha fermato anche la moglie e il figlio di 3 anni. Continua la persecuzione contro i sostenitori del Nobel Liu Xiaobo.

Pechino (AsiaNews) – La polizia cinese ha portato via dalla sua casa Fan Yafeng, ricercatore di giurisprudenza e attivista per i diritti umani cristiano, insieme alla moglie e al figlio di 3 anni per “interrogarli”. Fan è uno dei firmatari del manifesto democratico di Charta ’08 ed è da tempo nel mirino delle autorità per il suo impegno sociale.

L’arresto, avvenuto lo scorso 24 novembre, segna un altro punto nella “caccia” ordinata dal governo cinese contro i membri della delegazione che potrebbe ritirare il Premio Nobel per la pace al posto di Liu Xiaobo, autore di Charta ’08 e leader di una nuova generazioni di dissidenti anti-comunisti.

Secondo il racconto dell’uomo, che è stato rilasciato dopo 5 ore di interrogatorio alle 2 del mattino, “circa una dozzina di agenti mi ha portato via, accusandomi di portare avanti ‘attività in nome delle organizzazioni sociali’. Non lo sapevo, ma hanno portato via anche mia moglie e il mio bambino piccolo. Lui, subito dopo, mi ha detto di essere terrorizzato”.

La persecuzione nei confronti di Fan dura da tempo. Nonostante fosse da anni ricercatore associato nel settore legale dell’Accademia delle scienze sociali, il 3 novembre del 2009 è stato convocato dai suoi superiori che gli hanno comunicato il licenziamento. Oltre al direttore del dipartimento, vi era anche il segretario del partito. Entrambi hanno confermato che veniva licenziato “per motivi politici”.

Secondo il Chrd (China Human Right Defenders), il licenziamento di Fan Yafeng, “è un’altra importante azione per azzerare le chiese protestanti sotterranee della capitale”. Ma altri esperti fanno notare che Fan, studioso modello all’Accademia, ha molto scritto su riforme politiche e costituzionali e ha difeso spesso cristiani protestanti nei loro diritti religiosi.

Fan Yafeng, 41 anni, è nato nell’Anhui. Nel ’92 si è laureato in pedagogia all’Università normale dell’Anhui; nel ’95 si è laureato in legge all’Università di Pechino. Nel 2003 è divenuto dottore in legge presso l’Accademia delle Scienze sociali.

Dal 2007 è in atto in Cina una campagna contro le comunità protestanti sotterranee che, secondo le stime più prudenti, radunano oltre 50 milioni di fedeli. La campagna prevede o l’assorbimento delle comunità nel Movimento delle tre autonomie, che raccoglie le comunità protestanti ufficiali e controllate dal governo, o la soppressione.

Molti cristiani si impegnano nel campo dei diritti umani e religiosi. Allo stesso tempo, molti dissidenti e attivisti scoprono nella fede cristiana la base umana e filosofica per lottare con più forza per i diritti umani in Cina. Il governo teme questa “alleanza” fra impegno sociale e religioso e continua a sopprimere gli uni e gli altri.


TURCHIA: la maschera è quasi del tutto gettata - Venerdì 26 Novembre 2010 - CR n.1168 del 27/11/2010

Il Segretario alla Difesa USA, Robert Gates, ha accusato l’UE di spingere la Turchia verso l’Est rifiutandole l’adesione che la nazione reclama da tanti anni. Poiché certi Stati europei le negano questo «legame organico che cerca con l’Occidente», la Turchia assume il comportamento attuale. «L’Occidente rischia di perdere la Turchia», lamenta Gates (“Wall Street Journal Europe”, 10 giugno 2010) e, di fatto, una lettura superficiale degli ultimi eventi fa pensare questo.

La Turchia oggi è un’alleata dell’Iran, Paese con il quale ha firmato un accordo per l’arricchimento del suo uranio; la Turchia si è pronunciata, con il Brasile, contro le nuove sanzioni votate recentemente dall’Onu contro l’Iran; la Turchia mantiene rapporti abbastanza discutibili con Hamas e altre organizzazioni vicine al terrorismo islamico, come hanno mostrato le ricerche che hanno seguito l’incidente della flotta di Gaza. L’IHH, la Fondazione per i Diritti Umani, le Libertà e l’Aiuto Umanitario, ha legami incontestabili con Hamas e Al-Qaeda.

Secondo il giudice Bruguière, questa Ong farebbe da copertura al traffico di armi e di documenti falsi. I suoi membri hanno combattuto in Afghanistan, in Bosnia e in Cecenia (“Wall Street Journal Europe”, 4 giugno 2010).

Le attività dell’IHH sono ben conosciute dal governo turco, che sapeva quindi esattamente che l’intenzione della flottiglia era quella di rompere il blocco di Gaza. Immediatamente si è pensato che l’incidente fosse intenzionale. Uno scontro di questo tipo permette al governo turco di accusare Israele e prendere le distanze dal suo ex alleato.

Nelle sue dichiarazioni infervorate, il Primo ministro Erdogan non ha nascosto quali sono le sue preferenze e i suoi veri nemici. Si può di conseguenza capire il malcontento di Robert Gates. La Turchia possiede l’esercito più importante della Nato dopo quello degli Stati Uniti. La sua posizione strategica è ideale e il suo «passaggio al campo musulmano» priverebbe gli Stati Uniti di un grande asso nella manica. L’unico errore di questa lettura è che la Turchia non passa al mondo musulmano come se in precedenza fosse appartenuta all’Occidente; la Turchia fa naturalmente parte del mondo musulmano e non fa che ritornare a un comportamento normale.

Solo l’ingenuità, la cattiva fede o l’interesse degli Stati Uniti e dell’Unione europea potevano far credere che la Turchia potesse essere un Paese dell’Occidente. Oggi questa nazione getta in parte la maschera e mostra il suo vero volto. Non si tratta di una perdita, neanche per la Nato di cui era un membro poco docile. È sempre una carta vincente sbarazzarsi di un falso alleato che in un momento critico avrebbe comunque tradito.

Per l’Europa questi ultimi avvenimenti sono una fortuna poiché la Turchia perde credito anche tra i suoi più ardenti sostenitori.

Quando sarà innegabile che la Turchia è un’alleata dell’Iran e sostiene gruppi considerati terroristici dall’Unione Europea, la sua adesione a quest’ultima non partirà con il piede giusto. Se la fedeltà europea della Turchia aveva potuto convincere gli Stati Uniti, gli eurocrati e alcuni uomini di affari che li spingono alle spalle, questo gioco diventerà sempre meno possibile quando la Turchia dichiarerà apertamente la sua doppia appartenenza all’Asia e all’Islam.


Mons. Luigi Negri, Parole di fede ai giovani,  Edizioni Fede & Cultura , 2010, ISBN 9788864090672, pp. 80, € 8 - Sconto su: http://www.theseuslibri.it - LA FELICITÀ È UN INCONTRO presentazione di Massimo Pandolfi

Un mio caro amico – che si chiama Gian Piero Steccato – nella primavera del 2009 è stato ricevuto dal Papa e gli ha fatto pervenire questo messaggio: «Ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere. Sono consapevole che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso».
Gian Piero è una persona felice. Eppure Gian Piero è da più di dieci anni un uomo completamente paralizzato, muto, cieco, mezzo sordo e attaccato ventiquattro ore su ventiquattro a un respiratore artificiale. È anche un po’ storpio.
Viene da chiedersi: come fa uno ridotto così a scrivere cose simili al Papa? È per caso matto? O forse è già un Santo? Ma è davvero felice? E che cos’è poi questa benedetta felicità?
È proprio attorno a questa parolina magica – felicità – che ruota tutto il lavoro svolto da Monsignor Luigi Negri con i giovani della sua Diocesi, lavoro quotidiano che tocca poi a ognuno di noi, adulto o bambino che sia, perché ciascuno deve imparare a vivere, deve imparare a cercare la sua felicità.
Il disgraziatissimo Gian Piero è felice di vivere, Cesare Pavese (viene ricordato in questo libro) si ammazzò la sera stessa in cui vinse il Premio Strega: non aveva trovato un senso alla sua esistenza e anche in quelle ore in cui poteva toccare il cielo con un dito, vedeva solo il dito e poi il nulla. Gli occhi del suo cuore non riuscivano ad aprirsi verso il cielo; non ha trovato niente e nessuno che glieli spalancasse.
Gian Piero Steccato e Cesare Pavese: c’è qualcosa che straripa dai nostri ordinari e forse banali argini umani in queste due esperienze e allora fa bene Negri, riprendendo le parole di Benedetto XVI, a suggerire ai giovani di andare controcorrente, «non per dimostrare chissà che cosa, ma per essere se stessi».
Cosa vuol dire essere se stessi? Vuol dire forse, parafrasando Raoul Follereau, che «la sola verità è amarsi» o come dice un po’ brutalmente, ma senza falsi buonismi, uno dei più bravi poeti contemporanei, Davide Rondoni: «Ognuno di noi cerca la felicità; è giusto, è normale. Anche perché io della felicità dell’altro non so che farmene. La questione della felicità è una questione personale, è una questione tua, una questione in cui si gioca la tua libertà, cioè ad un certo punto sei tu che dici e riconosci qual è la presenza che ti rende felice. La felicità non è un argomento, non è un tema, non è un’idea, non è un discorso: la felicità è un incontro». E Rondoni ci spiega anche come fa il mio amico Gian Piero ad essere felice, ci dimostra come per essere felici nella sua condizioni non sia affatto necessario essere matti o santi: «Il cristiano la chiama letizia, cioè il fatto che possa permanere uno sguardo positivo sulla vita anche nelle difficoltà, nel dolore. Io voglio essere felice anche nel dolore! Io posso essere felice anche nel dolore! Ci siamo abituati a mettere in contrapposizione questi due termini, ma non è così: si può essere felici anche nel dolore».


Prima di Augias, Odifreddi e Dawkins... di Francesco Agnoli del 26/11/2010 @, in Storia del Novecento, dal sito http://www.libertaepersona.org/

Siamo agli inizi del Novecento, e un giovane maestro incomincia la sua carriera politica di passioni rapide e cangianti, e di inenarrabili odi. Suo padre, Alessandro, è un ruvido uomo di sinistra che vede nel socialismo “la scienza e l’excelsior che illumina il mondo”, “il libero amore che subentra al contratto legale”.

Scrive: “o preti, non è lontano il tempo in cui cesserete di essere inutili e falsi apostoli di una religione bugiarda e in cui, lasciando al passato la menzogna e l’oscurantismo, abbraccerete la verità e la ragione, e getterete la tonaca alla fiamma purificatrice del progresso”.

Anche il figlio di Alessandro è un amante del socialismo, del progresso, della “ragione”, contro l’oscurantismo dei credenti. Egli, nei suoi viaggi lontano dalla patria romagnola, arriva a Trento nel 1908, chiamato dal partito socialista locale, e subito viene onorato come grande oratore, “versato soprattutto in anticlericalismo”. Qui, nella città del Concilio, scaglia i suoi strali contro l’ “idra clericale”, in nome della “Redenzione umana”. Non crede in Dio, ma nell’avvenire dell’umanità, radioso e splendente.

Occorre solo eliminare i nemici, gli avversari, coloro che si oppongono al trionfo del bene, all’ “internazionalismo”, all’ “anti-religiosismo”, all’ “affratellamento dei popoli”. Questi nemici sono la Chiesa, il militarismo, il “morbus sacer” del nazionalismo, l’ “Austria guerrafondaia”, guidata da un sovrano ridicolmente cattolico, e i militaristi germanici.

Declama, a testa alta: “I milioni che dovrebbero destinarsi al popolo, a sollevare il popolo, sono invece inghiottiti dall’esercito. Il militarismo! Ecco la mostruosa piovra dai mille viscidi tentacoli che succhiano senza tregua il sangue e le migliori energie del popolo”. Per il giovane rivoluzionario a succhiare il sangue del popolo italiano c’è anche la Chiesa, “grande cadavere”, “lupa cruenta”, “covo di intolleranza”, e i suoi preti, “pipistrelli”, “sanguisughe”, “pallide ombre del medioevo”, “sudici cani rognosi”, che vogliono mantenere il popolo nell’ignoranza.

Le vicende di Galilei e di Giordano Bruno, scrive sempre con vigore il nostro giornalista, sono lì a dimostrare chi sono i nemici della ragione e del progresso. Eppure, prosegue, oggi Marx ci ha finalmente aperto gli occhi, ci ha rivelato che Dio non esiste, e con lui Darwin, che ha dato un grosso colpo alle teorie della Bibbia, tanto che “nessun altra dottrina ha avuto portata maggiore di quella del grande naturalista inglese”.

Mentre scrive, il giovane rivoluzionario si concede qualche scappatella, con donne che poi abbandona senza tanti scrupoli. “E’ vero che a Losanna – scrive - ebbi relazione con una divorziata, ma così per la carne, non per l’anima”. E mentre frequenta svariate signore, e percorre i corridoi dei bordelli, scrive articoli intitolati “Meno figli, meno schiavi!” e definisce l’amore “una grandissima cosa: ma non è poi solo e non è tutto. E’ un mezzo per conservare la specie”, un artificio della natura solo per mantenere se stessa, come ogni buona dottrina materialista insegna.

Queste esperienze e queste convinzioni, non gli impediscono di spiegare ai suoi lettori che i sacerdoti sono sempre degli sporcaccioni, e come loro le suore. Esse, in particolare, sono il bersaglio preferito della pubblicistica socialista, cui il nostro appartiene: si racconta che nei “reclusori” le suore abbiano sempre tresche orrende con le detenute, e che siano delle crudeli violentatrici.

Nel romanzo Orkinzia, degli stessi anni, le “suore infami” fanno violenza “su fanciullette ignude, incatenate, con le braccia dietro la schiena”. I preti, poi, sono orride creature che passano “ributtanti malattie veneree” ai bambini, come “porci in veste talare che pullulano ogni giorno nelle cronache dei giornali come funghi schifosi ammorbanti l’umanità coi loro fetori”.

Per dimostrarlo il nostro racconta appena può, colorandoli il più possibile, gli atti immorali di qualche sacerdote, di qualche suora, di qualche catechista. “Lo so, aggiunge, che questo fa ciccare i ciarlatani neri, ma ne dovranno inghiottire molti altri di questi che sono per loro rospi vivi che guazzano nelle cloache massime e minime”.

La verità, continua infine il nostro, è “che certi voti di castità non possono essere mantenuti senza forzare la natura umana”, che, come si è già detto, è solo animalità ed istinto. Così i preti sono degli ipocriti, perché proclamano una morale disumana, ma la tradiscono di continuo: anche andando a caccia, e cioè “uccidendo tante piccole esistenze create da Dio, se dobbiamo por fede alla Genesi”, e violando il sacro “pacifismo”.

Oltre ad articoli di giornale, il nostro scrive anche un romanzo, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”, infarcito di violenze e turpitudini, adattissimi alla polemica anticlericale, e prende le difese degli ebrei, ingiustamente “martoriati e suppliziati”, ovviamente dalla Chiesa.

Ma chi è questo socialista difensore della purezza, della pace, della tolleranza, di Marx e Darwin, della scienza e del progresso, i cui pregiudizi e le cui calunnie sono ancor oggi condivisi da non pochi giornalisti ed intellettuali alla moda, esattamente un secolo dopo?

Per chi non lo avesse riconosciuto, il suo nome è Benito Mussolini. Il Foglio, 25 novembre 2010


25 novembre 2010 - Le ipocrisie sulla pelle dell’università dei suoi fasulli paladini di Giorgio Israel - © - FOGLIO QUOTIDIANO

La riforma universitaria contiene molte cose buone come il sistema di reclutamento, altre discutibili, come un eccesso di dirigismo e di minuzia normativa e un assetto della governance che concede troppo a manager esterni di dubbia qualifica. Ma qui siamo ben oltre il “discutere”: siamo in piena sagra dell’ipocrisia e della demagogia, persino violenta. Forze politiche e universitarie che hanno taciuto di fronte a riforme efferate (come quella del cosiddetto 3+2) responsabili di aver condotto l’università nell’attuale stato di degrado e che hanno taciuto di fronte a tagli di finanziamenti non meno imponenti, urlano come se venisse giù il mondo.

Questa riforma è stata patrocinata in buona misura dal Pd che però ora, per ragioni di altra natura, sale a cantare “Bella ciao” sui tetti. E’ poi divenuto un indecente sport nazionale rovesciare tonnellate di immondizia sull’università ogni volta che se ne discute in Parlamento. Con lo stile del bue che dà del cornuto all’asino, un mondo politico che ha colpe enormi in materia parla dei docenti universitari come “ignoranti” e “nullafacenti”. Come se, malgrado tutto, la facoltà di Scienze della Sapienza di Roma non venisse avanti alla prestigiosa École Polytechnique parigina nelle graduatorie internazionali, per fare soltanto un esempio. Nelle quali graduatorie l’università italiana è complessivamente penalizzata da parametri che riflettono il suo degrado materiale, ma sono introvabili università private gestite da un mondo industriale che nonostante ciò si sente titolato a far la lezione. Il gioco a parlare di “merito” per l’università è una colossale ipocrisia, dato che non si ha il coraggio di parlarne per la magistratura o per la scuola, dove in silenzio sono stati ripristinati gli scatti di anzianità per tutti, senza alcun legame con il merito. Va aggiunto che, per la scuola, i primi modelli sperimentali di premio del merito sono basati su criteri che, se introdotti all’università, farebbero gridare al prepotere dei baroni; il quale, visibilmente, è ormai una barzelletta, forse perché i docenti universitari non hanno né un consiglio superiore né una rappresentanza sindacale.

Vedremo come finirà la sagra. Ma vi sono due questioni in ballo che ne rappresentano la manifestazione estrema e di cui sono ambigui protagonisti i “finiani”. Si parla continuamente dei ricercatori come “precari”, e magari chi legge le cronache ci crede, mentre i ricercatori sono dipendenti stabili che vanno in pensione a 65 anni. Ora, se si tratta di trovare quattrini per inquadrare nel ruolo di associati quei ricercatori che hanno già vinto un concorso, nulla da dire. Se si tratta di garantire a 4.500 (alcuni parlano di 9.000) ricercatori dei concorsi riservati per il passaggio ad associato, allora si tratta di un ope legis malamente mascherato, un atto demagogico che rischia di scassare la riforma prima ancora che parta.

Poi c’è la questione del ripristino di scatti di anzianità “meritocratici”, ovvero legati al merito. Anche qui circola la strana voce che debbano riguardare solo i più giovani. A parte l’ossimoro di scatti di “anzianità” per i “giovani” – che suscita notevole ilarità in giro – è grottesco che come primo titolo “meritocratico” venga introdotto quello dell’età. Secondo questo criterio gli “asini” di cui sarebbe piena l’università sarebbero soltanto i professori anziani. Se invece si tratta di una scelta demagogica, per ingraziarsi chi non è prossimo a togliersi di torno andando in pensione, allora lo si dica senza camuffarsi dietro la parola “meritocrazia”. In conclusione, la vicenda si sta rivelando come una partita puramente politica attorno alle sorti del governo in cui i temi dell’università e del suo assetto sono un mero pretesto per atteggiarsi a paladini (fasulli) del rigore e della cultura.


Un morbo chiamato amore di don Massimo Vacchetti del 27/11/2010, in Africa, http://www.libertaepersona.org

Ebola. Il nome mi ricorda qualcosa. Quindici anni fa, giornali e televisioni ne parlarono. Non ricordavo le suore. E’ incredibile come il male prevalga anche sulla memoria. Il male attecchisce meglio. Le suore che poi erano la ragione per cui nei telegiornali si parlava di questi fatti e per cui, di fatto, ci si è adoperati per contenere l’epidemia, le avevo trascurate. Rilasciate. Ebola e le suore Poverelle di Bergamo. Sei suore italiane uccise in meno di un mese da questo misterioso virus che colpisce, svanisce per poi tornare quando non si sa. La storia di queste donne è commovente e il lavoro di Paolo Aresi (L’ultimo dono, ed. Queriniana) rende ragione della memoria del bene. E’ di questo che abbiamo bisogno. E’ della possibilità di essere veri anche nel male. Dio sa quanto ne ho bisogno. Ho bisogno di sapere che è possibile vivere in un modo diverso. Nuovo. Non altra ragione ha la lettura di un libro come questo. Certo anche a ricordare. Non a fare cronaca della memoria, ma memoria, attraverso la cronaca, di una fedeltà, di un coraggio, di una dedizione, di una comunione, di un servizio, di un amore esagerato. Ho bisogno perché porto anch’io, in una condizione di vita estremamente diversa, di affermare che la vita è più bella, decisamente più affascinante, se vissuta così. Per Cristo e per gli altri. Per l’Amabile Infinito, come lo chiamano tra loro, e i più poveri tra i poveri. La vicenda di quei drammatici giorni, ricostruita attraverso i fax, ha come protagoniste sei donne. Prima ancora che sei suore, sono sei donne. Aresi è molto bravo a ricordarcelo tratteggiandoci la vita di queste donne, i loro desideri di ragazze, l’ostilità di alcune famiglie, il lavoro precedente al loro ingresso in convento. Poi la vocazione e la missione. Tutte molto giovani. Oggi così giovani non si prende nessuna decisione. Donne e suore. Anni di missione in mezzo agli ospedali, alle case dei diseredati, ad accogliere chiunque bussi alla porta. Per la gente di quel posto quelle suore sono più che donne. La loro femminilità non è censurata dal velo. Una è chiamata “donna della vita” per via del suo essere ostetrica, un'altra è chiamata “mamma anziana”, un'altra “Nkaka”, cioè nonna. E poi, Ebola. La lotta, la speranza, la preghiera, l’afflizione, la cura, la malattia, l’isolamento, la morte. Una, due, tre…fino alla sesta. Una contagiava l’altra. L’una malata e l’altra a servizio dell’amica e dei malati. Migliaia di malati. E di morti. Non sono morte di Ebola. Sono morte per amore. In pochi giorni. Si poteva scappare, ma quella volta hanno esagerato nell’amore. Fino all’ultimo, dono per gli altri. E per Dio.


Avvenire.it, 27 novembre 2010 - Il consigliere rai - De Laurentiis: «Devono solo aggiungere una storia» di Pino Ciociola

«Abbiamo invitato Fazio e Saviano ad aggiungere una voce, non a toglierne»: lo spiega Rodolfo De Laurentiis, consigliere di opposizione del Cda Rai (vicino all’Udc) che ha presentato la mozione, approvata l’altro ieri, perché abbiano diritto di replica a "Vieni via con me" i familiari di chi è in stato vegetativo o soffre di una gravissima disabilità.

Consigliere De Laurentiis, che accadrà nell’ultima puntata?
Credo che questa vicenda, se verrà gestita con buon senso e con ragionevolezza, si concluderà bene.

Sarebbe a dire?
Alla fine i giusti principii prevarranno.

Certo è che, intanto, la replica di Fabio Fazio e Roberto Saviano al vostro invito non soltanto è stata un secco «no», ma ha avuto toni sconcertanti.
Un «no» incomprensibile. Soprattutto io non capisco una cosa: perché spaventa la possibilità di raccontare esperienze importanti e così straordinarie? Tanto più che la politica non c’entra nulla qui: chiediamo soltanto che, appunto, esperienze straordinarie di vita diventino patrimonio di tutti. Domandiamo solamente di dare spazio anche a queste persone, quelle che hanno fatto scelte diverse da quelle di Englaro e Welby.

E che, fra l’altro, sono in pratica la totalità di chi ha uno stato vegetativo o una gravissima disabilità fra i propri cari.
Infatti non lo capisco proprio: perché far parlare loro spaventa?

Del resto, proprio non riguardando la politica, neppure è banale questione di "par condicio", ma qualcosa di molto più alto...
Certo! Esattamente questo. Lo stesso ordine del giorno approvato dal Cda Rai è un invito pressante dell’organo amministrativo dell’azienda, che l’ha votato a stragrande maggioranza, nel rispetto dell’autonomia della trasmissione, fatto perché si è espressa la richiesta arrivata da una larga parte della società italiana. Non è che sette signori si siano riuniti il pomeriggio e hanno deciso per un invito non avendo altro da fare: questi sette signori hanno capito come intorno a questo tema ci fosse bisogno d’aggiungere una voce, e non da una personale convinzione.

Da cosa, consigliere De Laurentiis?
Dal fatto che c’è stata un’attività importante della società italiana che ha detto "non è solo quello (Englaro e Welby, ndr) l’esempio da offrire": ci sono altre esperienze straordinarie sulle quali il servizio pubblico ha dovere di far luce, di indicare a tutto il pubblico.

Un’ultima cosa: i due suoi colleghi che hanno abbandonato la riunione del Cda prima del voto dicono che siete stati «influenzati da spinte esterne».
Ci fosse stata maggiore ragionevolezza fin dall’inizio, probabilmente non ci sarebbe stato bisogno di alcun ordine del giorno. Lo ribadisco: rispetto a tutto quanto si stava muovendo intorno a "Vieni via con me", sette signori del Cda hanno ritenuto che il servizio pubblico poteva fare un gesto di attenzione e aggiungere una voce, non toglierne.


Avvenire.it, 27 novembre 2010 - LA DIFESA DELLA VITA - «Ora Luca è a casa con noi Ma lo Stato non ci sostiene» di Andrea Gualtieri

Luca adesso è a casa, a Tarsia, nell’entroterra Cosentino. Lo ha voluto la sua famiglia: la mamma, il papà e il fratello Gianni, più piccolo di lui di quattro anni. Del resto, il professor Giuliano Dolce, direttore scientifico dell’Istituto Sant’Anna di Crotone, lo aveva detto anche a loro: le Suap, le unità speciali di accoglienza prolungata, servono solo per aiutare chi non riesce a prendere in carico i propri cari che si trovano in uno stato vegetativo o, come dice lui, in condizioni di «veglia arelazionale». Ma altrimenti, afferma Dolce, «queste persone non hanno bisogno di cure mediche». E a Luca, infatti, l’assistenza necessaria la garantisce la mamma, Maria Grazia: «Ho cambiato i miei ritmi – racconta la donna –. Al mattino vado a lavorare un po’ più tardi e nel frattempo sistemo Luca».

Le giornate della famiglia Pizzi, in realtà, erano cambiate già da quel giorno del 2004 in cui qualcosa è andato storto in una sala operatoria: «Luca doveva sottoporsi a un intervento per ripulire le vie biliari ma non abbiamo mai saputo bene cosa sia successo» racconta Maria Grazia. La conseguenza è stata che il cervello del ragazzo è rimasto senza ossigeno troppo a lungo e i danni si sono rivelati gravissimi. Luca aveva 27 anni, all’epoca: «Doveva sposarsi, eravamo già andati a vedere i mobili insieme alla fidanzata», racconta la mamma. Invece la vita ha preso una piega diversa: prima un periodo di ricovero a Chieti, poi si è liberato un posto al Sant’Anna ed è iniziato l’iter che passa prima dalla sala risveglio e poi arriva all’unità di accoglienza prolungata. Maria Grazia è sempre rimasta vicina al suo primogenito: «Avevamo preso casa in affitto a Crotone: i medici e il personale erano molto attivi e premurosi, ma io non me la sentivo di lasciare mio figlio senza la presenza della sua famiglia. Con mio marito ci alternavamo, lui veniva appena poteva».

Nel luglio del 2007 la decisione di riportare Luca a casa, presa in sintonia con i sanitari di Crotone: «Lui qui sta bene e noi siamo contenti di stargli accanto». Hanno imparato a medicarlo, hanno scoperto i movimenti più adatti per lavarlo e cambiarlo. Pure Gianni, che è sposato e vive poco distante, ogni giorno trova il modo di andare a trovare il fratello. E poi c’è l’équipe del Sant’Anna che riesce a rendersi presente anche a 150 chilometri di distanza: «I medici ci sono stati vicini in ogni fase – conferma Maria Grazia –. Ancora adesso la dottoressa Raso, la vice primario, ci segue e ci contatta anche solo per salutarci e farci sentire meno soli». Il rischio di sentirsi abbandonati, altrimenti, non sarebbe affatto da sottovalutare: aiuti istituzionali alla famiglia Pizzi non ne arrivano, neanche adesso che il papà di Luca è senza lavoro. «Lo Stato non ci sostiene affatto – rivela Maria Grazia – viene solo un medico a sostituire la cannula per l’alimentazione e proprio da poco, dopo tre anni e mezzo di richieste, siamo riusciti finalmente a ottenere che ci forniscano almeno i disinfettanti necessari per accudire nostro figlio».

Ecco perché sentire pure promuovere in tv da Saviano e Fazio la scelta di Beppino Englaro è stata una ferita ulteriore per i familiari di Luca: «Non capisco perché si parli solo di lui – dice Maria Grazia –. Quello che ha fatto a sua figlia Eluana non lo condivido e non lo accetterò mai. Anch’io, da mamma, soffro nell’affrontare questa situazione. Non auguro a nessuno di confrontarsi con questi problemi, ma chi non si trova nelle nostre condizioni non può capire cosa proviamo. Ecco perché è importante che si racconti tutto: la nostra esistenza è rovinata, ma mio figlio è vivo. Perché gli si dovrebbe togliere l’acqua per farlo morire?» Si commuove, la signora Pizzi. Ma la sua voce torna subito ferma: «Luca morirà quando Dio vorrà. E io vi assicuro che finché avrò vita non permetterò a nessuno di toccarlo».


Avvenire.it, 27 novembre 2010 - IL CASO - Waters: «Avevo ucciso Dio sull’altare del ’68» di Lorenzo Fazzini

Prima la triste vicenda degli abusi sessuali di minori da parte di preti cattolici, con la forte opera di espiazione promossa da Benedetto XVI, ora la crisi finanziaria col rischio di "bancarotta pubblica". Questi due fatti hanno riacceso le luci della ribalta sull’Irlanda, paese considerato "tout court" cattolico. La nazione "verde" è un esempio emblematico di un certo cattolicesimo "popolare", ma stretto nella morsa di una tradizione che non interloquisce più con il popolo e un mainstream culturale progressista, che svilisce la religione nel suo afflato di verità. In questa tenaglia è caduto (ma si è pure liberato), John Waters, uno dei giornalisti e commentatori più apprezzati a Dublino, arrivato a scrivere dopo un’esistenza avventurosa in cui ha fatto diversi lavori manuali (magazziniere, benzinaio, …), amico degli U2 e già compagno di Sinead O’Connor, la celebre e trasgressiva pop star.

Quella di Waters è una vita «da profugo a pellegrino», come recita il sottotitolo della sua appassionante autobiografia Lapsed Agnostic (Marietti, pagine 230, euro 22), sentenza che gioca sull’ambiguità del termine "lapsed", "rinnegato", usato di solito da chi si allontana dalla fede. Nella vicenda di Waters si nota la parabola di molta intellighenzja europea rispetto al cattolicesimo, transitata dagli sberleffi giovanili del ’68 alla sofferta decisione di ritornare a casa: «Mi ha colpito molte volte il pensiero che nasciamo con un senso di Dio, ma poi veniamo convinti dal mondo e da noi stessi che è troppo bello per essere vero.

Ci vogliono anni di punizione per ridurci a una condizione a causa della quale non ci viene lasciata altra opzione se non quella di riscoprire questo senso perduto». Il j’accuse di Waters (già intervenuto al Meeting di Rimini grazie alla conoscenza "libraria" con don Giussani) è ferocemente ironico verso quella che lui chiama "generazione Peter Pan", gli ex sessantottini ora ascesi nelle stanze del potere, culturale, mediatico, politico. Per i quali «Dio, essendo loro imposto da una generazione che sono giunti a disprezzare, dovrebbe essere abolito». Così nascono altri idoli, ad esempio «l’ossessione per la giovinezza» o la «cultura orizzontale» invece di quella «verticale», basata solo su «musica pop, film, televisione».

Ma la morte di Dio, o meglio «l’assassinio di Dio perpetrato nella cultura post-sessantottina», non ha liberato l’uomo: «La responsabilità grava solo sulle mie spalle, e questo mi provoca un’ansia e una paura così intollerabili che non sono capace di fare neanche le cose più ordinarie senza incappare in ulteriori fonti di stress». Profetiche, rispetto alla crisi economico-finanziaria di questi giorni nella terra di San Patrizio, queste parole del commentatore: «Benché godiamo di una maggiore ricchezza, di cure sanitarie più avanzate, di un ambiente più sicuro e di un assortimento di congegni risparmia-fatica più vasto che mai, una serie di ansie ostacola la crescita della vera soddisfazione.

Enormi guadagni in termini di ricchezza materiale non hanno conseguito alcun aumento significativo di felicità». L’angoscia, per Waters, ha avuto il volto della dipendenza dall’alcol fino ai 35 anni: «Tutti gli alcolisti hanno ceduto alla tentazione di togliere Dio dal Suo trono e di sedercisi loro». Dal rifiuto della bottiglia per l’editorialista dell’Irish Times è iniziato un cammino di conversione che l’ha portato a una drammatica confessione di fede: «La mia esperienza mi dice che possiamo giungere a Dio solo non credendo in Lui. Possiamo trovarLo solo quando lo abbiamo rifiutato e siamo tornati, abbattuti, alla disperata speranza di esserci sbagliati».

Dalla sua esperienza Waters trae poi linfa per nuovi giudizi circa il valore pubblico della religione. Ne è prova Soggetti smarriti (Lindau, pagine 312, euro 26), un poderoso saggio in cui il commentatore d’Irlanda riflette su «come siamo diventati troppo intelligenti per ricercare Dio e il nostro stesso bene». L’autore prende a testimone il grande dissidente cecoslovacco Vaclav Havel, il quale soleva dire: «Io ho la fede, una condizione di apertura costante e produttiva, un continuo interrogarsi, il bisogno di "sperimentare il mondo" ancora e ancora». Come i credenti devono rispondere alla sfida di un mondo post-secolare? Andando «oltre la consolazione» (titolo originario del testo di Waters) e offrire la speranza: «C’è qualcosa di sbagliato nella nostra cultura se consente a qualcuno di rivendicare come razionalità superiore una interpretazione della realtà basata solo sullo scetticismo, sul pessimismo, sul cinismo e sulla disperazione. Ogni giorno questo rumore di fondo culturale schiaccia l’individuo in cerca di una via per esprimere la sua dimensione infinita. Il risultato è una popolazione che ha fame di qualcosa che non sa più esprimere, avendo perso le parole con cui sperare».


Idee Jonas e il cammino della vita in compagnia della morte - Il filosofo del «Principio responsabilità» aveva proposto di fondare «l’etica sulla metafisica» Un saggio di Paolo Becchi ne indaga le conseguenze in una prospettiva aperta alla religiosità - DI LUCA MIELE – Avvenire, 27 novembre 2010

L’opera di Hans Jonas è attraversata da alcuni grandi snodi teorici: lo studio della gnosi, l’elezione del vivente a centro del discorso filosofico, l’assunzione del «principio responsabilità» e, in ultimo, la riflessione sul «concetto di Dio dopo Auschwitz».

Apparentemente isolati uno dall’altro, questi paesaggi concettuali si compongono in un disegno unitario che fa di Jonas un pensatore, come scrive Paolo Becchi, docente di Filosofia pratica e Bioetica, «controcorrente su tutto». Al centro del suo pensiero c’è la divaricazione tra l’azione così come si delineava nel mondo antico e l’azione come la pratichiamo oggi. Se la prima è letteralmente impotente, destinata a naufragare dinanzi a un limite invalicabile – «la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico» –, la seconda è ormai capace di sfondare quell’argine. Il quadro rispetto all’antichità è rovesciato.

Se per l’uomo antico, come scrive Jonas, «il permanente era la natura, il mutevole erano le sue opere», oggi è la natura stessa ad essere entrata in una condizione di mutevolezza, di «vulnerabilità», perché disponibile alla manipolazione dell’uomo. Si compie così un lungo processo in cui albori sono rintracciati dallo stesso Jonas nella gnosi e che, attraverso la modernità, arriva a plasmare il nostro tempo: la natura da ordine immutabile scade a materia manipolabile, a cosalità muta, «a insieme organizzato di forze calcolabili» (Heidegger).

L’azione non è più ancorata alla prossimità e alla simultaneità, ma acquista un carattere nuovo: è illimitata, irreversibile. Come fonda allora Jonas la sua etica della «responsabilità», una responsabilità chiamata alla custodia del «già-sempre»? Ecco, nella lettura di Becchi, la mossa formidabile di Jonas: «fondare l’etica su un postulato metafisico». Il dover-essere è da sempre iscritto nell’essere, se è vero che il vivente tende sempre alla propria conservazione, ad affermare il suo sì alla vita. Questa saldatura tra dimensione ontologica (essere) e deontologica (etica) non si risolve però in una negazione della morte. Vita e morte sono da sempre coimplicate in un’unica trama. Come scrive Jonas in Peso e benedizione della mortalità, «la forma vivente deve portare avanti continuamente la propria esistenza in intima compagnia della morte». Infine l’ultimo 'salto' nell’opera di Jonas si compie in Il concetto di Dio dopo Auschwitz: in esso, come sottolinea Becchi, la via ontologica confluisce in una teologica: «La vita – scrive Jonas – è un modo di essere per sua natura revocabile e destinato alla distruzione. Ma proprio nel sentir-sé, nell’agire e soffrire di individui finiti che dal sigillo della finitezza ricavano le caratteristiche di urgenza e vivacità che le sono proprie, il paesaggio divino dispiega la sua policroma natura e la Divinità stessa giunge all’esperienza di sé».

Paolo Becchi, HANS JONAS. UN PROFILO -Morcelliana. Pagine 192. Euro 15