Nella rassegna stampa di oggi:
1) Radio Vaticana, 14/11/2010 - Il Papa all'Angelus: la crisi economica si è aggiunta ad altri gravi squilibri. Decisivo il rilancio strategico dell'agricoltura - All’Angelus Benedetto XVI, ricordando che oggi si celebra in Italia la Giornata del Ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro dell'uomo, si è soffermato sulla crisi economica globale. Tale crisi - ha detto il Santo Padre - è un "sintomo acuto" che si è aggiunto ad altri gravi squilibri. In questo quadro - ha aggiunto il Papa - appare decisivo un rilancio strategico dell’agricoltura. Di seguito il testo dell’Angelus:
2) Quant’è sottile il confine tra credenti e Gentili di Fabrice Hadjadj - Prima di ogni divergenza che implica il dialogo per riavvicinare i percorsi, esiste una convergenza sul fondamento di tale dialogo. Un ateo afferma di non credere in Dio. E sia! - Ma, per essere coerente, non deve divinizzare nulla al suo posto. – Avvenire, 14 novembre 2010
3) A MILANO STAZIONE FRANCESCA CABRINI - Il nome di una santa accoglie con l’amore di GIUSEPPE ANZANI - Una donna miracolo Costruì ospedali, case, orfanotrofi. Capì che il dramma migratorio può avere effetto destabilizzante nella storia se crea masse di uomini sradicati e senza identità – Avvenire, 14 novembre 2010
4) LE LEZIONI DELLA STORIA - CONTAGIO DI SPERANZA LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 14 novembre 2010
5) Avvenire.it, 13 novembre 2010 - Plenaria del Pontifcio Consiglio della Cultura - L'inculturazione del Vangelo nell'era delle nuove tecnologie
6) Il papa scuote i vescovi: "Imparate da san Francesco" - Lui sì capiva che cos'è una vera riforma della liturgia, scrive Benedetto XVI in un messaggio che è un severo rimprovero alla gerarchia cattolica italiana. Dove continuano a prevalere, in campo liturgico, gli oppositori di Ratzinger di Sandro Magister
Radio Vaticana, 14/11/2010 - Il Papa all'Angelus: la crisi economica si è aggiunta ad altri gravi squilibri. Decisivo il rilancio strategico dell'agricoltura - All’Angelus Benedetto XVI, ricordando che oggi si celebra in Italia la Giornata del Ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro dell'uomo, si è soffermato sulla crisi economica globale. Tale crisi - ha detto il Santo Padre - è un "sintomo acuto" che si è aggiunto ad altri gravi squilibri. In questo quadro - ha aggiunto il Papa - appare decisivo un rilancio strategico dell’agricoltura. Di seguito il testo dell’Angelus:
Cari fratelli e sorelle!
Nella seconda Lettura della Liturgia odierna, l’apostolo Paolo sottolinea l’importanza del lavoro per la vita dell’uomo. Tale aspetto è richiamato anche dalla “Giornata del Ringraziamento”, che si celebra tradizionalmente in Italia in questa seconda domenica di novembre come azione di grazie a Dio al termine della stagione dei raccolti. Anche se in altre aree geografiche i tempi delle coltivazioni sono naturalmente diversi, vorrei oggi prendere lo spunto dalle parole di san Paolo per qualche riflessione, in particolare sul lavoro agricolo.
La crisi economica in atto, di cui si è trattato anche in questi giorni nella riunione del cosiddetto G20, va presa in tutta la sua serietà: essa ha numerose cause e manda un forte richiamo ad una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale (cfr Enc. Caritas in veritate, 21). E’ un sintomo acuto che si è aggiunto ad altri ben più gravi e già ben conosciuti, quali il perdurare dello squilibrio tra ricchezza e povertà, lo scandalo della fame, l’emergenza ecologica e, ormai anch’esso generale, il problema della disoccupazione. In questo quadro, appare decisivo un rilancio strategico dell’agricoltura. Infatti, il processo di industrializzazione talvolta ha messo in ombra il settore agricolo, che, pur traendo a sua volta beneficio dalle conoscenze e dalle tecniche moderne, ha comunque perso di importanza, con notevoli conseguenze anche sul piano culturale. Mi pare il momento per un richiamo a rivalutare l’agricoltura non in senso nostalgico, ma come risorsa indispensabile per il futuro.
Nell’attuale situazione economica, la tentazione per le economie più dinamiche è quella di rincorrere alleanze vantaggiose che, tuttavia, possono risultare gravose per altri Stati più poveri, prolungando situazioni di povertà estrema di masse di uomini e donne e prosciugando le risorse naturali della Terra, affidata da Dio Creatore all’uomo – come dice la Genesi – affinché la coltivi e la custodisca (cfr 2,15). Inoltre, malgrado la crisi, consta ancora che in Paesi di antica industrializzazione si incentivino stili di vita improntati ad un consumo insostenibile, che risultano anche dannosi per l’ambiente e per i poveri. Occorre puntare, allora, in modo veramente concertato, su un nuovo equilibro tra agricoltura, industria e servizi, perché lo sviluppo sia sostenibile, a nessuno manchino il pane e il lavoro, e l’aria, l’acqua e le altre risorse primarie siano preservate come beni universali (cfr Enc. Caritas in veritate, 27). E’ fondamentale per questo coltivare e diffondere una chiara consapevolezza etica, all’altezza delle sfide più complesse del tempo presente; educarsi tutti ad un consumo più saggio e responsabile; promuovere la responsabilità personale insieme con la dimensione sociale delle attività rurali, fondate su valori perenni, quali l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione della fatica nel lavoro. Non pochi giovani hanno già scelto questa strada; anche diversi laureati tornano a dedicarsi all’impresa agricola, sentendo di rispondere così non solo ad un bisogno personale e familiare, ma anche ad un segno dei tempi, ad una sensibilità concreta per il bene comune.
Quant’è sottile il confine tra credenti e Gentili di Fabrice Hadjadj - Prima di ogni divergenza che implica il dialogo per riavvicinare i percorsi, esiste una convergenza sul fondamento di tale dialogo. Un ateo afferma di non credere in Dio. E sia! - Ma, per essere coerente, non deve divinizzare nulla al suo posto. – Avvenire, 14 novembre 2010
Sarebbe ridicolo l’ateo che pretendesse di sbarazzarsi di Dio ma si mettesse ben presto a idolatrare il denaro, il comunismo, la tecnica… Entrambi, credenti e atei, hanno bisogno gli uni degli altri: l’ateo necessita del credente per purificare il proprio ateismo; il credente ha bisogno dell’ateo per purificare la propria fede; tutti e due devono fraternizzare per fuggire insieme il fascino dei falsi dèi e la sacralizzazione di una qualsiasi ideologia.
Immaginiamoci un abitante di Giove inviato dalle autorità del suo pianeta per indagare sulla credenza religiosa tra gli uomini della Terra. Appena sbarcato sul nostro pianeta, egli scopre un personaggio che passa la sua vita quasi immobile nella contemplazione beata di un oggetto di pietà di forma cubica: l’individuo è così assorbito dalla sua devozione che mangia distrattamente, soddisfa in fretta i suoi bisogni, ritorna il più presto possibile a questa posizione estatica che lascia correre sulla sua figura dei riflessi bluastri. Scosso da questa prima scoperta, il nostro straniero siderale si sposta altrove e si imbatte in un altro buon uomo che gli sembra molto più sfuggente: questo canta con i suoi compagni, parte per andare a lavorare nei campi, torna indietro per altre nuove canzoni eseguite insieme, prima di andare a prendere un pasto con la lentezza e il raccoglimento di una mucca ruminante… Senza dubitarne, se l’extraterrestre possiede qualche nozione elementare sulla religione, ne concluderà facilmente che, dei due individui incontrati, il primo è un credente, perfino un mistico, mentre il secondo è piuttosto un tipo terra terra e un tizio gioioso. O, come il lettore avrà già compreso, il primo è uno spettatore televisivo, il secondo un monaco cistercense. Senza dubbio, per completare questo primo sondaggio, il nostro extraterrestre andrà ad indagare il comportamento dei terrestri di sesso femminile. Ed ecco una che gioca con dei bambini, recita per loro dei poemi e anche intona una specie di romanzo con altre donne, con una faccia che fa trasparire sempre una sorta di sorriso ingenuo, quasi sempliciotto, al di sotto di una specie di baffetti che non si sogna di rasare; questa è anche una buona forchetta e, sebbene passi spesso del tempo a non far niente seduta su una sedia o inginocchiata, trova il modo, la notte, di dormire profondamente. Ma a qualche centinaio di metri di distanza ecco un’altra donna, ben più puntigliosa e che si offre a terribili austerità: si mantiene a regimi draconiani, si mortifica la carne con maschere di fango e con coltelli, sta sveglia notti intere in stanze in chiaroscuro, piene di rumori e di furore, come una pecora perduta alla ricerca del suo pastore. Anche qui l’abitante di Giove ne dedurrà che la prima è una donna di facili e pressoché lascivi costumi, mentre la seconda è una campionessa di ascesi che si sforza, è evidente, di espiare non si sa quale spaventoso crimine. Oppure, come il lettore avrà capito da tempo, la prima è una suora domenicana che insegna a scuola, la seconda è una donna adusa ai flirt che pratica la chirurgia estetica e la mortificazione in discoteca. Acquisite queste esperienze diversificate, il nostro indagatore cosmico potrà fare rapporto dai suoi: denuncerà come 'primitivi' o 'profani' quelli che noi chiamiamo 'religiosi' e 'consacrati', e designerà come 'spirituali' o 'fanatici' quelli che siam soliti definire 'indifferenti' e 'increduli'. Possiamo divertirci di questo quiproquo. Potremmo anche convenire, comunque, che egli non ha tutti i torti.
Queste sottolineature dallo spazio ci fanno pensare che la frontiera tra credenti e non credenti, o piuttosto tra quelli che noi immaginiamo volentieri come gli uni e gli altri, non sia così evidente. Se una persona esclama: «O Cielo sopra di me! Profondo! Abisso di luce!», noi la inseriamo di diritto tra coloro che hanno la fede: ma in realtà essa si limita a citare il Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Se un’altra geme con queste parole: «Al sepolcro io grido: 'Padre mio sei tu!', e ai vermi: 'Madre mia, sorella mia sei tu!'», noi la etichetteremmo tra gli increduli: ma non farebbe altro che ripetere Giobbe (17,14). E le cose si complicano ancora se si considera che il filosofo romano Celso riteneva che i cristiani fossero 'atei', o se si pensa che gli atei dell’Illuminismo si gettarono a capofitto nella credenza del progressismo. Il Vangelo stesso sembra confondere le strade.
All’inizio del racconto di Marco vi è uno che proclama immediatamente l’identità di Cristo: «Io so chi tu sei: il santo di Dio» (Mc 1,24).
Ora, colui che parla così è un demonio e anzi un demonio che frequenta la sinagoga (ovvero, la chiesa del tempo). Nello stesso vangelo Gesù si stupisce con dolore di un fatto: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). E non si rivolge a degli empi, ma ai suoi discepoli. Questo è molto imbarazzante, sia per l’ateo troppo solido, sia per il credente perbene. Infatti, tali affermazioni lasciano intendere che esiste una fede demoniaca e un’incredulità apostolica… Rivolgiamoci allora verso colei che la Chiesa ci propone come modello nella fede. Si suppone che ella ci offra l’esempio di un adeguamento cieco e di un fervore rassegnato. Ma cosa ci riferisce san Luca? «Maria custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2 ,19 ). Non basta accogliere il mistero, bisogna meditarlo, ovvero ragionarvi sopra e 'svilupparlo', come direbbe John Henry Newman. D’altra parte, nel momento del ritrovamento al Tempio, non teme di dire di fronte a questo bambino che è il suo Signore: «Perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo». (Lc 2,48). Così la Santa Vergine ha cercato, e ha cercato nell’angoscia, ha gridato come Giobbe in mezzo ai sapienti.
Cos’è dunque credere veramente in Dio? E cosa significa essere realmente atei? Sembrerebbe che, prima di ogni divergenza che implica il dialogo per riavvicinare i percorsi, esista una convergenza sul fondamento di tale dialogo. Un ateo afferma di non credere in Dio. E sia! Ma, per essere coerente, non deve divinizzare nulla al suo posto. Sarebbe ridicolo l’ateo che pretendesse di sbarazzarsi di Dio ma si mettesse ben presto a idolatrare il denaro, il comunismo, la tecnica… A cosa serve rifiutare una cosa se questo avviene per consegnarsi ad un suo surrogato? Per questo l’ateo non deve divinizzare il suo giudizio personale. Fare ciò rappresenterebbe il colmo dell’irrazionalità: rifiutare la religione per ateismo e ben presto fare del proprio ateismo una religione, e per di più una religione individuale, stretta, alla moda – una religione del momento che non possiede nemmeno il peso dei secoli –.
Sarebbe come un cane che si morde la coda o come uno che si prostra al proprio ombelico.
Essere atei, dunque, è qualcosa di molto difficile. Si tratta di rifiutare ogni idolo e di restare aperti al reale e all’avvenimento.
Essere credente non è cosa meno arcigna. Il credente crede in Dio, certamente, ma, anzitutto, credere non è vedere, e d’altronde Dio, per poco che si comprenda questa strana parola in una maniera un poco più corretta, è infinitamente trascendente. Come affermava sant’Agostino nei suoi Sermoni : «Se tu comprendi, allora non è Dio» (117, 3, 5). Per questo i dogmi della Chiesa, lungi dall’essere delle soluzioni concettuali, sono delle finestre che custodiscono la nostra apertura all’Inimmaginabile e all’Inconcepibile. D’altra parte il primo comandamento del decalogo si presenza in maniera negativa: «Non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,3), che equivale a dire: «Non ti farai idolo alcuno» (Dt 5,8). Il Crepuscolo degli dei, prima di essere un libro di Nietzsche, è un’esigenza della Rivelazione (allo stesso modo di quanto avviene con la Gaia scienza se si pensa alla parola di Cristo: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio», Lc 11,28). Così da una parte e dall’altra vi è lo stesso desiderio di scuotere il giogo e di rifiutare l’idolatria. L’ateo come il credente può affermare: «L’ultimo passo della ragione, è il riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano» (Blaise Pascal nei Pensieri, 118). E il credente come l’ateo può confessare che Dio resta sconosciuto. La vera differenza si situa nella maniera di mantenere quest’ultima affermazione: l’ateo autentico afferma che Dio è sconosciuto perché è inconoscibile; il vero credente pensa che Dio è sconosciuto perché lo si può conoscere infinitamente, cioè sempre al di là di ogni conoscenza ricevuta. Così, per il primo, questo sconosciuto non è che uno sconosciuto con la 'S' minuscola, mentre per il secondo tale sconosciuto è uno Sconosciuto con la 'S' maiuscola. E per il credente l’essenziale è intrattenere con lui una relazione viva e positiva. Naturalmente entrambi, credenti e atei, hanno bisogno gli uni degli altri: l’ateo necessita del credente per purificare il proprio ateismo; il credente ha bisogno dell’ateo per purificare la propria fede; tutti e due devono fraternizzare per fuggire insieme il fascino dei falsi dei e la sacralizzazione di un’ideologia.
Grazie a Dio noi ci troviamo in un’epoca dove questa necessità si fa sempre più sentire. La linea di condivisione si è spostata. Essa non si trova più fra quanti credono e quanti non credono in Dio. Il cattolico è nemico del fondamentalismo e della teocrazia; e l’ateo, nella misura in cui non divinizza la tecnica, è avversario della tecnocrazia e del post-umanesimo. È per questo motivo che il combattimento del domani si situa piuttosto tra coloro che cercano di difendere l’uomo e la vita nel loro avvenimento irriducibile, e quanti cercano di soffocarli in un utilitarismo spirituale o materiale; la lotta avviene tra quanti riconoscono il dono dell’incontro e del dramma, della cultura e della storia, della grazia e della gratuità, e coloro che schiacciano tutto questo sotto il culto dell’efficienza, sia essa scientista o sacrale. È a questo riguardo che un 'Cortile dei gentili' appare una vicenda notevolmente opportuna (ovvero, l’opposto di qualsiasi opportunismo). Nel suo invito di dicembre 2009, Benedetto XVI lo descrive come il luogo di un «dialogo con coloro per i quali […] Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto». Non è questione di rinnegare la propria coscienza o di sottometterla a un indottrinamento. Il Santo padre chiede all’ateo di essere tale nella verità e dunque di cercare ancora, e richiede al credente di esserlo in profondità, e dunque di aprirsi ancora. Non si tratta di uno sforzo di proselitismo ma di una radicale esigenza dei nostri tempi. Quello che questo spostamento del confine richiede riguarda meno la propaganda della fede quanto invece il desiderio della ragione. Una ragione concreta, che stia distante dall’abdicazione fideistica e dalla chiusura razionalistica. Una ragione conviviale, che sceglie il primato dei volti sulle idee e dell’incontro sulla persuasione. Un tale spazio comunque non potrebbe esistere senza un raccoglimento critico. Ce lo ricorda un celebre episodio del Vangelo. Il Cortile dei gentili corrisponde molto precisamente alla parte del tempio che i cambiavalute, i compratori e gli altri mercanti di colombe occupavano. Il luogo dell’ospitalità era stato cambiato in un rifugio di trafficanti. La colomba, segno della pace ricercata attraverso il diluvio, è diventata nient’altro che un oggetto di consumo. È questo ciò che fatalmente succede quando si procede nel dialogo senza essere ponti a cambiare o a rendersi disponibili ad una comunione imprevedibile. Allora non si è più predisposti a lasciarsi sorprendere ma si è pronti a diventare clienti; non parliamo più per avvicinare Lorenzo o Susanna, ma per assorbirli nel nostro soliloquio: a questo punto distribuisco i miei slogan, svendo il mio piccolo sistema (il clericalismo è in saldo e il laicismo gode di una buona promozione!), metto in vendita i miei oggetti religiosi più alla moda. Bisogna allora iniziare a prendere in mano «una sferza di cordicelle» e «rovesciare le tavole dei cambiavalute e dei venditori» (Gv 2,15-16). Ma non inganniamoci: sarebbe troppo facile dipingere i mercanti del tempio come persone che sono esterne al tempio, ovvero fuori di noi, nell’'altro campo'. In verità, essi sono in noi stessi ed è appunto dal nostro interno che, accogliendo la frustra dell’incontro, dobbiamo cacciarli. La frontiera che separa la luce e le tenebre passa anzitutto attraverso i nostri cuori.
A MILANO STAZIONE FRANCESCA CABRINI - Il nome di una santa accoglie con l’amore di GIUSEPPE ANZANI - Una donna miracolo Costruì ospedali, case, orfanotrofi. Capì che il dramma migratorio può avere effetto destabilizzante nella storia se crea masse di uomini sradicati e senza identità – Avvenire, 14 novembre 2010
Vi sono luoghi, nella città degli uomini, che hanno una loro atmosfera, quasi una voce segreta; se ti fermi a osservare, a sentire, puoi figurarti col pensiero le mille e mille storie che vi sono passate sedimentando di sé l’impercettibile traccia; migliaia e migliaia di frammenti di vita, impressi come sinopia nel grande affresco invisibile della vita che scorre.
Uno di questi luoghi è la stazione. La stazione ferroviaria di una grande città è così, col grande orologio che scandisce la partenza dei treni, l’arrivo dei nuovi convogli, e l’andirivieni febbrile dei viaggiatori che scendono, dei viaggiatori che salgono, ciascuno col suo viaggio. Arrivare e partire, sembra l’immagine della grande metafora della vita, racchiusa nel tempo passato dentro le proverbiali valigie di cartone, o i fagotti annodati. Partire tien dentro una doppia emozione, secondo le storie diverse: vuol dire staccarsi e andare via; oppure, o anche, incamminarsi a cercare una meta sognata. E lo stesso accade per l’arrivare: il ritorno a casa, dopo la traversia felice; oppure l’approdo trepido e ansioso a un lido sconosciuto dove s’investe la speranza. La stazione centrale di Milano, che nell’ultimo anno s’è rifatta bella tirandosi a nuovo, ieri è stata dedicata a una santa, santa Francesca Cabrini. Una piccola donna lombarda nata nel 1850, una maestrina fattasi suora che ha fatto della sua vita un continuo e indomito viaggio per aiutare gli emigranti italiani (proprio dalla stazione di Milano partivano i convogli per Genova e di lì i piroscafi per le Americhe), allora in condizioni disperate e 'trattati come bestie'. Una donna dolcissima e forte, con salute precaria eppure infaticabile; e un’intelligenza premonitrice. Una donna miracolo.
Costruì ospedali, case, orfanotrofi.
Capì che il dramma migratorio può avere effetto destabilizzante nella storia del mondo se crea masse di uomini sradicati e senza identità. La sua opera e la sua sapienza appartiene al mondo, si può persino dire che è più nota all’estero, per il suo eroismo, che fra noi. È patrona nostra, sì, ma è patrona 'di tutti gli emigranti'. È stato detto nei mesi scorsi, man mano che la stazione centrale di Milano cambiava faccia abbellendosi di negozi, che «la stazione è il biglietto da visita di una città». È vero, e forse dalle luci e dalle vetrine e dagli arredi e dalla 'atmosfera' si può capire se introduce alla vacanza e allo shopping o ai traffici e al business. Ma ora il nome di Francesca Cabrini dice un altro messaggio a chi arriva spaesato e disperato e ancora dubita e teme e non sa se quella porta sia l’ingresso in una comunità umana o l’imbuto che lo ingorga nell’emarginazione senza volto. Dice che ogni essere umano ha bisogno di riconoscimento, di ascolto, di accoglienza, e infine d’amore. Dice, con le parole stesse della santa, che «è tempo che l’amore non sia nascosto, ma diventi operoso». Dice che i luoghi umani non sono fatti solo di cose, ma sono 'luoghi dell’anima'; e una stazione affolla nei suoi dintorni molte povertà e fragilità che chiedono un po’ di carità. Eccola, infine, la parola dei santi, il benvenuto della prossimità che cambia la storia del mondo, quella parola che scioglie i pugni chiusi, che allarga le braccia; quel treno del cuore pronto a partire. Non perdiamolo.
LE LEZIONI DELLA STORIA - CONTAGIO DI SPERANZA LUIGI GENINAZZI – Avvenire, 14 novembre 2010
È molto probabile che gli uomini forti della giunta militare di Myanmar, decidendo di mettere fi ne agli arresti domiciliari e all’isola mento totale di una donna piccola ed esile divenuta un’icona della lot ta pacifica per la democrazia, pensi no di trarre qualche vantaggio in ter mini d’immagine agli occhi del mon do, senza correre troppi rischi sul piano della stabilità interna. Prean nunciata da tempo, la liberazione di Aung San Suu Kyi è avvenuta pun tualmente sei giorni dopo una con sultazione elettorale cui ha potuto partecipare un’opposizione addo mesticata, in vista di una dittatura più morbida dove ai militari s’af fiancheranno per la prima volta an che dei civili. Hanno calcolato ogni mossa i gene rali di Yangon ma, a quanto pare, i gnorano le lezioni della storia. Era il 1986, quando venne liberato il più il lustre dissidente dell’Unione Sovie tica, Andreij Sacharov. Confinato in esilio interno nella città di Gorkij in sieme con la moglie, lo scienziato in ventore della bomba atomica dive nuto poi il paladino dei diritti uma ni nell’Urss venne rilasciato su deci sione di Gorbaciov. Nelle intenzioni del leader della perestrojka doveva essere un segnale d’apertura e di cambiamento del rigido sistema co munista bisognoso di riforme. Cin que anni più tardi, Gorbaciov fu co stretto a lasciare il potere e l’Unione Sovietica cessò di esistere.
Qualcosa del genere era successo po chi anni prima nella Polonia del ge nerale Jaruzelski. Dopo aver messo fuori legge Solidarnosc e incarcera to i suoi dirigenti, il capo della giun ta militare polacca, nel 1982, ridiede la libertà a Lech Walesa, considerato ormai dal regime niente più che un «privato cittadino». Finì, come tutti sanno, con la caduta del comunismo in Polonia nell’estate del 1989, pri ma breccia nel Muro di Berlino, che sarebbe crollato di lì a pochi mesi.
Ma gli esempi non si limitano ai re gimi comunisti. Nel 1990, in Sudafri ca, il leader dell’African National Congress, Nelson Mandela, dopo 26 anni passati in prigione tornò in li bertà e avviò un negoziato con il pre sidente De Klerk destinato a portare alla fine del regime dell’apartheid e alle prime elezioni libere del 1994.
Sembra essere una regola: ogni vol ta che un regime totalitario decide di rifarsi un look più rispettabile, libe rando il leader dell’opposizione de mocratica, ecco che si scava la pro pria fossa. Forse è per questo che a Pechino i dirigenti del Partito comu nista aprono le porte ai capitalisti, ma le tengono ben chiuse quando si tratta di un dissidente incarcerato, Liu Xiaobo, insignito quest’anno del Nobel per la Pace (come tutti gli ex prigionieri politici sopra citati). E sarà interessante notare cosa succederà nei prossimi mesi a Cuba, dopo la liberazione dell’attivista per i di ritti umani Guillermo Fariñas e di al tre decine di dissidenti. Se c’è qualcosa che finora ha distin to il regime birmano in mezzo alle tante dittature ancora presenti nel mondo è stato il suo carattere parti colarmente violento e feroce. Dalla spietata uccisione di migliaia di ma nifestanti nel 1988 fino alla sangui nosa repressione delle proteste gui date dai monaci buddisti nel 2007, la giunta militare ha brutalizzato in tut ti i modi l’antico Paese della Birma nia fino a cambiarne il nome in Myanmar.
E se oggi finalmente ha deciso di li berare la mite ed apparentemente fragile Suu Kyi è solo perché si ritie ne più forte che mai. Una mossa cal colata che, alla luce della storia, po trebbe rivelarsi un azzardo suicida per uno dei regimi più oppressivi del mondo. La libertà è contagiosa, co me la speranza.
Avvenire.it, 13 novembre 2010 - Plenaria del Pontifcio Consiglio della Cultura - L'inculturazione del Vangelo nell'era delle nuove tecnologie
Signori Cardinali,Venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di incontrarvi al termine dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, nel corso della quale avete approfondito il tema: "Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi". Ringrazio il Presidente, Mons. Gianfranco Ravasi, per le belle parole, e saluto tutti i partecipanti, grato per il contributo offerto allo studio di tale tematica, assai rilevante per la missione della Chiesa. Parlare di comunicazione e di linguaggio significa, infatti, non solo toccare uno dei nodi cruciali del nostro mondo e delle sue culture, ma, per noi credenti, significa avvicinarsi al mistero stesso di Dio che, nella sua bontà e sapienza, ha voluto rivelarsi e manifestare la sua volontà agli uomini (Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2). In Cristo, infatti, Dio si è rivelato a noi come Logos, che si comunica e ci interpella, allacciando la relazione che fonda la nostra identità e dignità di persone umane, amate come figli dall’unico Padre (cfr Es. ap. postsinodale Verbum Domini, 6.22.23). Comunicazione e linguaggio sono anche dimensioni essenziali della cultura umana, costituita da informazioni e nozioni, da credenze e stili di vita, ma anche da regole, senza le quali difficilmente le persone potrebbero progredire nell’umanità e nella socialità. Ho apprezzato l’originale scelta di inaugurare la Plenaria nella Sala della Protomoteca al Campidoglio, cuore civile e istituzionale di Roma, con una tavola-rotonda sul tema: "Nella Città in ascolto dei linguaggi dell’anima". In tale modo, il Dicastero ha inteso esprimere uno dei suoi compiti essenziali: mettersi in ascolto degli uomini e delle donne del nostro tempo, per promuovere nuove occasioni di annuncio del Vangelo. Ascoltando, dunque, le voci del mondo globalizzato, ci accorgiamo che è in atto una profonda trasformazione culturale, con nuovi linguaggi e nuove forme di comunicazione, che favoriscono anche nuovi e problematici modelli antropologici.
In questo contesto, i Pastori e i fedeli avvertono con preoccupazione alcune difficoltà nella comunicazione del messaggio evangelico e nella trasmissione della fede, all’interno della stessa comunità ecclesiale. Come ho scritto nell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini: "tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo" (n. 96). I problemi sembrano talora aumentare quando la Chiesa si rivolge agli uomini e alle donne lontani o indifferenti ad una esperienza di fede, ai quali il messaggio evangelico giunge in maniera poco efficace e coinvolgente. In un mondo che fa della comunicazione la strategia vincente, la Chiesa, depositaria della missione di comunicare a tutte le genti il Vangelo di salvezza, non rimane indifferente ed estranea; cerca, al contrario, di avvalersi con rinnovato impegno creativo, ma anche con senso critico e attento discernimento, dei nuovi linguaggi e delle nuove modalità comunicative.
L’incapacità del linguaggio di comunicare il senso profondo e la bellezza dell’esperienza di fede può contribuire all’indifferenza di tanti, soprattutto giovani; può diventare motivo di allontanamento, come affermava già la Costituzione Gaudium et spes, rilevando che una presentazione inadeguata del messaggio nasconde più che manifestare il genuino volto di Dio e della religione (cfr n. 19). La Chiesa vuole dialogare con tutti, nella ricerca della verità; ma perché il dialogo e la comunicazione siano efficaci e fecondi è necessario sintonizzarsi su una medesima frequenza, in ambiti di incontro amichevole e sincero, in quell’ideale "Cortile dei Gentili" che ho proposto parlando alla Curia Romana un anno fa e che il Dicastero sta realizzando in diversi luoghi emblematici della cultura europea. Oggi non pochi giovani, storditi dalle infinite possibilità offerte dalle reti informatiche o da altre tecnologie, stabiliscono forme di comunicazione che non contribuiscono alla crescita in umanità, ma rischiano anzi di aumentare il senso di solitudine e di spaesamento. Dinanzi a tali fenomeni, ho parlato più volte di emergenza educativa, una sfida a cui si può e si deve rispondere con intelligenza creativa, impegnandosi a promuovere una comunicazione umanizzante, che stimoli il senso critico e la capacità di valutazione e di discernimento.
Anche nell’odierna cultura tecnologica, è il paradigma permanente dell’inculturazione del Vangelo a fare da guida, purificando, sanando ed elevando gli elementi migliori dei nuovi linguaggi e delle nuove forme di comunicazione. Per questo compito, difficile e affascinante, la Chiesa può attingere allo straordinario patrimonio di simboli, immagini, riti e gesti della sua tradizione. In particolare il ricco e denso simbolismo della liturgia deve splendere in tutta la sua forza come elemento comunicativo, fino a toccare profondamente la coscienza umana, il cuore e l’intelletto. La tradizione cristiana, poi, ha sempre strettamente collegato alla liturgia il linguaggio dell’arte, la cui bellezza ha una sua particolare forza comunicativa. Lo abbiamo sperimentato anche domenica scorsa, a Barcellona, nella Basilica della Sagrada Familia, opera di Antoni Gaudí, che ha coniugato genialmente il senso del sacro e della liturgia con forme artistiche tanto moderne quanto in sintonia con le migliori tradizioni architettoniche. Tuttavia, più incisiva ancora dell’arte e dell’immagine nella comunicazione del messaggio evangelico è la bellezza della vita cristiana. Alla fine, solo l’amore è degno di fede e risulta credibile. La vita dei santi, dei martiri, mostra una singolare bellezza che affascina e attira, perché una vita cristiana vissuta in pienezza parla senza parole. Abbiamo bisogno di uomini e donne che parlino con la loro vita, che sappiano comunicare il Vangelo, con chiarezza e coraggio, con la trasparenza delle azioni, con la passione gioiosa della carità.
Dopo essere stato pellegrino a Santiago de Compostela ed aver ammirato in migliaia di persone, soprattutto giovani, la forza coinvolgente della testimonianza, la gioia di mettersi in cammino verso la verità e la bellezza, auspico che tanti nostri contemporanei possano dire, riascoltando la voce del Signore, come i discepoli di Emmaus: "Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?" (Lc 24,32). Cari amici, vi ringrazio per quanto quotidianamente fate con competenza e dedizione e, mentre vi affido alla materna protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
Benedetto XVI
Il papa scuote i vescovi: "Imparate da san Francesco" - Lui sì capiva che cos'è una vera riforma della liturgia, scrive Benedetto XVI in un messaggio che è un severo rimprovero alla gerarchia cattolica italiana. Dove continuano a prevalere, in campo liturgico, gli oppositori di Ratzinger di Sandro Magister
ROMA, 12 novembre 2010 – Gli ultimi due papi, in ripetute occasioni, hanno indicato nella Chiesa italiana e nel suo episcopato un "modello" per altre nazioni.
C'è un campo, però, nel quale la Chiesa italiana non brilla. È quello della liturgia.
Lo si è capito dalla severa lezione che Benedetto XVI ha impartito ai vescovi italiani riuniti ad Assisi in assemblea generale dall'8 all'11 novembre, un'assemblea con al centro l’esame della nuova traduzione del messale romano.
Nel messaggio che ha rivolto ai vescovi alla vigilia dell'assemblea, papa Joseph Ratzinger non si è limitato ai saluti e agli auguri. È entrato direttamente nel tema. Ha dettato lui i criteri di una "vera" riforma della liturgia.
"Ogni vero riformatore – ha scritto – è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del tesoro istituito dal Signore e a noi affidato. La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra".
Il papa ha portato ad esempio di genuina riforma liturgica il Concilio Lateranense IV del 1215, che mise in mano ai sacerdoti il "Breviario" con la liturgia delle ore e rafforzò la fede della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino eucaristici.
Erano quelli i tempi di san Francesco d'Assisi. E Benedetto XVI ha dedicato buona parte del suo messaggio a illustrare ai vescovi italiani lo spirito con cui quel grande santo obbedì a quella riforma liturgica, e fece obbedire i suoi frati.
San Francesco, si sa, è uno dei santi più popolari e universalmente ammirati. È un modello anche per quei cattolici che vogliono una Chiesa più spirituale e "profetica", invece che istituzionale e rituale. In campo liturgico, questi propugnano una maggiore creatività e libertà.
Ma Benedetto XVI ha mostrato, nel messaggio, che il vero san Francesco era di tutt'altro orientamento. Era profondamente convinto che il culto cristiano debba corrispondere alla "regola della fede" ricevuta, e in questo modo dar forma alla Chiesa. I sacerdoti, per primi, devono fondare sulle "cose sante" della liturgia la loro santità di vita.
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Curiosamente, i vescovi italiani ai quali il papa ha rivolto questa lezione si erano riuniti questa volta proprio ad Assisi, la città di Francesco.
E vescovo di Assisi è Domenico Sorrentino, un esperto di liturgia, non però della linea di Ratzinger.
Nel 2003 monsignor Sorrentino fu nominato segretario della congregazione vaticana per il culto divino. Ma durò solo due anni. Ratzinger, da poco divenuto papa, lo trasferì ad Assisi e al suo posto chiamò un proprio fedelissimo in materia liturgica, Malcolm Ranjith, dello Sri Lanka, oggi arcivescovo di Colombo e cardinale di imminente nomina.
Prima del 2003, per cinque anni, era stato segretario della congregazione per il culto divino un altro esperto di liturgia italiano, Francesco Pio Tamburrino, monaco benedettino. Anche lui però era di linea contraria a quella dell'allora cardinale prefetto della congregazione, il "ratzingeriano" Jorge Arturo Medina Estévez. E infatti anche lui fu rimosso e trasferito a una diocesi, quella di Foggia.
Sorrentino e Tamburrino sono due figure di spicco della commissione per la liturgia della conferenza episcopale italiana. Ma in questa commissione, fino a poco tempo fa, c'era anche monsignor Luca Brandolini, vescovo di Sora oggi emerito, distintosi per aver proclamato una sorta di "lutto" di protesta quando nel 2007 Benedetto XVI emanò il motu proprio "Summorum pontificum" che liberalizzava l'uso del rito antico della messa.
Nell'eleggere i membri della commissione per la liturgia, i vescovi italiani hanno sempre dato la preferenza a loro colleghi di questa tendenza, i cui ispiratori sono stati gli artefici della riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II, in particolare il cardinale Giacomo Lercaro e il principale ideatore ed esecutore di quella riforma, monsignor Annibale Bugnini.
Gli esiti negativi di quella riforma sono quelli contro cui interviene Benedetto XVI. Ma già Paolo VI ne vide gli abusi, e ne fu talmente addolorato che nel 1975 rimosse Bugnini e lo mandò in esilio in Iran come nunzio apostolico.
Ma il sentimento della maggioranza dei vescovi e del clero italiani continua a essere influenzato tuttora dalla "linea Bugnini". In Italia sono rari gli eccessi che si registrano in altre Chiese d'Europa, ma lo stile prevalente delle celebrazioni è più "assembleare" che "rivolto al Signore", come papa Ratzinger vuole che sia. E questa distorsione si riflette anche nell'architettura delle chiese di recente costruzione.
La conferenza episcopale italiana è un caso speciale, rispetto a tutte le altre. Ha un legame diretto col vescovo di Roma. E infatti il suo presidente non è eletto ma nominato dal papa.
Introducendo l'8 novembre i lavori della conferenza episcopale ad Assisi, l'attuale presidente, il cardinale Angelo Bagnasco, ha citato un commento di Ratzinger al fatto che il Concilio Vaticano II dedicò la sua prima sessione proprio alla liturgia:
"Cominciando con l’argomento della liturgia, si poneva inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema ‘Dio’. Prima di tutto Dio: questo dice l’iniziare con la liturgia. Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento".
Ma per capire più a fondo qual è il senso della "riforma della riforma" voluta da papa Ratzinger, ecco qui di seguito che cosa ha scritto ai vescovi italiani, sulla liturgia.
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"OGNI VERO RIFORMATORE È UN OBBEDIENTE DELLA FEDE"
Dal messaggio di Benedetto XVI ai vescovi italiani riuniti in assemblea generale
[...] 1. In questi giorni siete riuniti ad Assisi, la città nella quale “nacque al mondo un sole” (Dante, Paradiso, Canto XI), proclamato dal venerabile Pio XII patrono d’Italia: san Francesco, che conserva intatte la sua freschezza e la sua attualità – i santi non tramontano mai! – dovute al suo essersi conformato totalmente a Cristo, di cui fu icona viva.
Come il nostro, anche il tempo in cui visse san Francesco era segnato da profonde trasformazioni culturali, favorite dalla nascita delle università, dallo sviluppo dei comuni e dal diffondersi di nuove esperienze religiose.
Proprio in quella stagione, grazie all’opera di papa Innocenzo III – lo stesso dal quale il Poverello di Assisi ottenne il primo riconoscimento canonico – la Chiesa avviò una profonda riforma liturgica.
Ne è espressione eminente il Concilio Lateranense IV (1215), che annovera tra i suoi frutti il “Breviario”. Questo libro di preghiera accoglieva in se la ricchezza della riflessione teologica e del vissuto orante del millennio precedente. Adottandolo, san Francesco e i suoi frati fecero propria la preghiera liturgica del sommo pontefice: in questo modo il santo ascoltava e meditava assiduamente la Parola di Dio, fino a farla sua e a trasporla poi nelle preghiere di cui è autore, come in generale in tutti i suoi scritti.
Lo stesso Concilio Lateranense IV, considerando con particolare attenzione il sacramento dell’altare, inserì nella professione di fede il termine “transustanziazione”, per affermare la presenza reale di Cristo nel sacrificio eucaristico: “Il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo e il vino nel sangue per divino potere” (DS, 802).
Dall’assistere alla santa messa e dal ricevere con devozione la santa comunione sgorga la vita evangelica di san Francesco e la sua vocazione a ripercorrere il cammino di Cristo Crocifisso: “Il Signore – leggiamo nel Testamento del 1226 – mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo” (Fonti Francescane, n. 111).
In questa esperienza trova origine anche la grande deferenza che portava ai sacerdoti e la consegna ai frati di rispettarli sempre e comunque, “perché dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri” (Fonti Francescane, n. 113).
Davanti a tale dono, cari fratelli, quale responsabilità di vita ne consegue per ognuno di noi! “Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti – raccomandava ancora Francesco – e siate santi perché egli è santo” (Lettera al Capitolo Generale e a tutti i frati, in Fonti Francescane, n. 220)! Sì, la santità dell’eucaristia esige che si celebri e si adori questo mistero consapevoli della sua grandezza, importanza ed efficacia per la vita cristiana, ma esige anche purezza, coerenza e santità di vita da ciascuno di noi, per essere testimoni viventi dell’unico sacrificio di amore di Cristo.
Il santo di Assisi non smetteva di contemplare come “il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umìli da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane” (ibid., n. 221), e con veemenza chiedeva ai suoi frati: “Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, che quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umilmente i sacerdoti perchè venerino sopra ogni cosa il Santissimo Corpo e il Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo” (Lettera a tutti i custodi, in Fonti Francescane, n. 241).
2. L’autentico credente, in ogni tempo, sperimenta nella liturgia la presenza, il primato e l’opera di Dio. Essa è “veritatis splendor” (Sacramentum caritatis, 35), avvenimento nuziale, pregustazione della città nuova e definitiva e partecipazione ad essa; è legame di creazione e di redenzione, cielo aperto sulla terra degli uomini, passaggio dal mondo a Dio; è Pasqua, nella croce e nella risurrezione di Gesù Cristo; è l’anima della vita cristiana, chiamata alla sequela, riconciliazione che muove a carità fraterna.
Cari fratelli nell’episcopato, il vostro convenire pone al centro dei lavori assembleari l’esame della traduzione italiana della terza edizione tipica del Messale Romano. La corrispondenza della preghiera della Chiesa (lex orandi) con la regola della fede (lex credendi) plasma il pensiero e i sentimenti della comunità cristiana, dando forma alla Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Ogni parola umana non può prescindere dal tempo, anche quando, come nel caso della liturgia, costituisce una finestra che si apre oltre il tempo. Dare voce a una realtà perennemente valida esige pertanto il sapiente equilibrio di continuità e novità, di tradizione e attualizzazione.
Il Messale stesso si pone all’interno di questo processo. Ogni vero riformatore, infatti, è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del tesoro istituito dal Signore e a noi affidato. La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra. [...]
Dal Vaticano, 4 novembre 2010
Benedetto XVI