mercoledì 17 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Radio Vaticana - notizia del 17/11/2010 - L'udienza generale del Papa dedicata alla Santa medievale Giuliana di Cornillon, che contribuì all'istituzione della festa del Corpus Domini
2)    Dio ci parla ora Massimo Camisasca - mercoledì 17 novembre 2010 – il sussidiario.net
3)    16/11/2010 – PAKISTAN - Vescovo di Islamabad: “Una vergogna” il caso di Asia Bibi. Continua la campagna di AsiaNews di Jibran Khan - Per mons. Rufin Anthony occorre cancellare la legge sulla blasfemia, “per nulla adatta al mondo del 21mo secolo”. Continua la raccolta di firme per salvare Asia Bibi e cancellare la legge sulla blasfemia in Pakistan, Italia, Stati Uniti, India, Francia. In poche ore il sito di AsiaNews ha ricevuto oltre 500 adesioni. Anche monasteri di clausura pregano per Asia Bibi. Un testo da inviare al presidente Asif Zardari
4)    Testimoni «digitali», Sakineh e Asia Bibi - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele  Curatore: Leonardi, Enrico Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 novembre 2010
5)    Radio Vaticana - notizia del 16/11/2010 - Violenza in Iraq: 2 cristiani uccisi nelle loro case a Mossul
6)    Radio Vaticana - notizia del 16/11/2010 - Filippine: un milione di rosari per combattere la legge pro-aborto
7)    LOCKE, MASSONERIA, MICROMEGA, UAAR, VOLTAIRE - MicroMega, il razionalismo e l’esoterismo massonico. - In Contraddizioni, assurdità atei, UAAR e Ateismo militante on 16 novembre 2010 http://antiuaar.wordpress.com
8)    ANTONI GAUDI, BUDDHISMO, CONVERSIONE, SAGARADA FAMILIA - Etsuro Sotoo, il successore di Gaudì: la Sagrada Familia mi ha convertito al cattolicesimo. - In Convertiti al cristianesimo, al cattolicesimo, Famosi credenti, cristiani, cattolici on 16 novembre 2010 http://antiuaar.wordpress.com
9)    Le memorie scomode del cardinale Biffi - Esce in libreria la nuova edizione della sua autobiografia. Con cento pagine in più e molte sorprese: sul dopoconcilio, gli ebrei, la donna, la castità, l'omosessualità. Eccone un'anteprima di Sandro Magister
10)                      Welby (dall'al di là) sconfessa Saviano di Giuliano Guzzo del 16/11/2010, in Eutanasia, dal sito http://www.libertaepersona.org
11)                      Bambini? Meglio di no - di Giulia Tanel del 16/11/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org
12)                      Il giornalista Peter Seewald (un tempo marxista militante) rivolge 90 domande a Benedetto XVI di Nina Fabrizio © Copyright Gazzetta del sud, 17 novembre 2010
13)                      Avvenire.it, 17 novembre 2010 - La tv tribunizia/ 1 Chiesa nel mirino - Nel nuovo tempio un antichissimo livore di Davide Rondoni
14)                      Avvenire.it, 17 novembre 2010 - La tv tribunizia/2 La propaganda eutanasia - Gli «indiscutibili» sanno disinformare di Lucia Bellaspiga
15)                      Avvenire.it, 17 novembre 2010       - TV E ATTACCHI ALLA VITA - "Vieni via...", le famiglie dei malati: «Così ci hanno umiliato» di Pino Ciociola
16)                      Fini nel Paese delle meraviglie. Vera e falsa destra pubblicata da Massimo Introvigne il giorno mercoledì 17 novembre 2010
17)                      Intervista / la psicologa - «Ritmi frenetici ed egoismo E così la società si disgrega» - Anna Svensson: molti anziani vengono dimenticati da figli e nipoti. Non di rado si scoprono corpi di persone decedute da mesi - DA STOCCOLMA di Francesco Saverio Alonzo – Avvenire, 17 novembre 2010
18)                      A Stoccolma il 59% vive da solo. Un suicidio choc scuote il Paese - DA STOCCOLMA FRANCESCO SAVERIO ALONZO – Avvenire, 17 novembre 2010
19)                      Non date al peccato l’ultima parola - idee - Il cardinale di Bologna legge l’orizzonte della misericordia di Dio alla luce delle parole di due grandi scrittori: Manzoni e Dostoevskij. - Il perdono come balsamo contro la disperazione DI Carlo Caffarra – Avvenire, 17 novembre 2010

Radio Vaticana - notizia del 17/11/2010 - L'udienza generale del Papa dedicata alla Santa medievale Giuliana di Cornillon, che contribuì all'istituzione della festa del Corpus Domini

Davanti a circa 12 mila persone, Benedetto XVI ha tenuto questa mattina la catechesi dell'udienza generale in Piazza San Pietro, dedicandola a Santa Giuliana di Cornillon, conosciuta anche come Santa Giuliana di Liegi, nei cui pressi nacque nel 1191 o 1192. Di seguito il testo della catechesi del Papa:

Cari fratelli e care sorelle,

anche questa mattina vorrei presentarvi una figura femminile, poco nota, a cui la Chiesa però deve una grande riconoscenza, non solo per la sua santità di vita, ma anche perché, con il suo grande fervore, ha contribuito all’istituzione di una delle solennità liturgiche più importanti dell’anno, quella del Corpus Domini. Si tratta di santa Giuliana di Cornillon, nota anche come santa Giuliana di Liegi. Possediamo alcuni dati sulla sua vita soprattutto attraverso una biografia, scritta probabilmente da un ecclesiastico suo contemporaneo, in cui vengono raccolte varie testimonianze di persone che conobbero direttamente la Santa.

Giuliana nacque tra il 1191 o il 1192 nei pressi di Liegi, in Belgio. E’ importante sottolineare questo luogo, perché a quel tempo la Diocesi di Liegi era, per così dire, un vero “cenacolo eucaristico”. Prima di Giuliana, insigni teologi vi avevano illustrato il valore supremo del Sacramento dell’Eucaristia e, sempre a Liegi, c’erano gruppi femminili generosamente dediti al culto eucaristico e alla comunione fervente. Guidate da sacerdoti esemplari, esse vivevano insieme, dedicandosi alla preghiera e alle opere caritative.

Rimasta orfana a 5 anni, Giuliana con la sorella Agnese fu affidata alle cure delle monache agostiniane del convento-lebbrosario di Mont-Cornillon. Fu educata soprattutto da una suora, di nome Sapienza, che ne seguì la maturazione spirituale, fino a quando Giuliana stessa ricevette l’abito religioso e divenne anche lei monaca agostiniana. Acquisì una notevole cultura, al punto che leggeva le opere dei Padri della Chiesa in lingua latina, in particolare sant’Agostino, e san Bernardo. Oltre ad una vivace intelligenza, Giuliana mostrava, fin dall’inizio, una propensione particolare per la contemplazione; aveva un senso profondo della presenza di Cristo, che sperimentava vivendo in modo particolarmente intenso il Sacramento dell’Eucaristia e soffermandosi spesso a meditare sulle parole di Gesù: “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

A sedici anni ebbe una prima visione, che poi si ripeté più volte nelle sue adorazioni eucaristiche. La visione presentava la luna nel suo pieno splendore, con una striscia scura che la attraversava diametralmente. Il Signore le fece comprendere il significato di ciò che le era apparso. La luna simboleggiava la vita della Chiesa sulla terra, la linea opaca rappresentava invece l’assenza di una festa liturgica, per l’istituzione della quale era chiesto a Giuliana di adoperarsi in modo efficace: una festa nella quale i credenti avrebbero potuto adorare l’Eucaristia per aumentare la fede, avanzare nella pratica delle virtù e riparare le offese al Santissimo Sacramento.

Per circa vent’anni Giuliana, che nel frattempo era diventata la priora del convento, conservò nel segreto questa rivelazione, che aveva riempito di gioia il suo cuore. Poi si confidò con altre due ferventi adoratrici dell’Eucaristia, la beata Eva, che conduceva una vita eremitica, e Isabella, che l’aveva raggiunta nel monastero di Mont-Cornillon. Le tre donne stabilirono una specie di “alleanza spirituale”, con il proposito di glorificare il Santissimo Sacramento. Vollero coinvolgere anche un sacerdote molto stimato, Giovanni di Losanna, canonico nella chiesa di San Martino a Liegi, pregandolo di interpellare teologi ed ecclesiastici su quanto stava loro a cuore. Le risposte furono positive e incoraggianti.

Quello che avvenne a Giuliana di Cornillon si ripete frequentemente nella vita dei Santi: per avere la conferma che un’ispirazione viene da Dio, occorre sempre immergersi nella preghiera, saper attendere con pazienza, cercare l’amicizia e il confronto con altre anime buone, e sottomettere tutto al giudizio dei Pastori della Chiesa. Fu proprio il Vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte, che, dopo iniziali esitazioni, accolse la proposta di Giuliana e delle sue compagne, e istituì, per la prima volta, la solennità del Corpus Domini nella sua Diocesi. Più tardi, altri Vescovi lo imitarono, stabilendo la medesima festa nei territori affidati alle loro cure pastorali.

Ai Santi, tuttavia, il Signore chiede spesso di superare delle prove, perché la loro fede venga incrementata. Accadde anche a Giuliana, che dovette subire la dura opposizione di alcuni membri del clero e dello stesso superiore da cui dipendeva il suo monastero. Allora, di sua volontà, Giuliana lasciò il convento di Mont-Cornillon con alcune compagne, e per dieci anni, dal 1248 al 1258, fu ospite di vari monasteri di suore cistercensi. Edificava tutti con la sua umiltà, non aveva mai parole di critica o di rimprovero per i suoi avversari, ma continuava a diffondere con zelo il culto eucaristico. Si spense nel 1258 a Fosses-La-Ville, in Belgio. Nella cella dove giaceva fu esposto il Santissimo Sacramento e, secondo le parole del biografo, Giuliana morì contemplando con un ultimo slancio d’amore Gesù Eucaristia, che aveva sempre amato, onorato e adorato.

Alla buona causa della festa del Corpus Domini fu conquistato anche Giacomo Pantaléon di Troyes, che aveva conosciuto la Santa durante il suo ministero di arcidiacono a Liegi. Fu proprio lui che, divenuto Papa con il nome di Urbano IV, nel 1264, volle istituire la solennità del Corpus Domini come festa di precetto per la Chiesa universale, il giovedì successivo alla Pentecoste. Nella Bolla di istituzione, intitolata Transiturus de hoc mundo (11 agosto 1264) Papa Urbano rievoca con discrezione anche le esperienze mistiche di Giuliana, avvalorandone l’autenticità, e scrive: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata, riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose infatti di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava infatti per ascendere al cielo disse: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20)”.
Il Pontefice stesso volle dare l’esempio, celebrando la solennità del Corpus Domini a Orvieto, città in cui allora dimorava. Proprio per suo ordine nel Duomo della Città si conservava – e si conserva tuttora – il celebre corporale con le tracce del miracolo eucaristico avvenuto l’anno prima, nel 1263, a Bolsena. Un sacerdote, mentre consacrava il pane e il vino, era stato preso da forti dubbi sulla presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia. Miracolosamente alcune gocce di sangue cominciarono a sgorgare dall’Ostia consacrata, confermando in quel modo ciò che la nostra fede professa. Urbano IV chiese a uno dei più grandi teologi della storia, san Tommaso d’Aquino – che in quel tempo accompagnava il Papa e si trovava a Orvieto –, di comporre i testi dell’ufficio liturgico di questa grande festa. Essi, ancor oggi in uso nella Chiesa, sono dei capolavori, in cui si fondono teologia e poesia. Sono testi che fanno vibrare le corde del cuore per esprimere lode e gratitudine al Santissimo Sacramento, mentre l’intelligenza, addentrandosi con stupore nel mistero, riconosce nell’Eucaristia la presenza viva e vera di Gesù, del suo Sacrificio di amore che ci riconcilia con il Padre, e ci dona la salvezza.

Anche se dopo la morte di Urbano IV la celebrazione della festa del Corpus Domini venne limitata ad alcune regioni della Francia, della Germania, dell’Ungheria e dell’Italia settentrionale, fu ancora un Pontefice, Giovanni XXII, che nel 1317 la ripristinò per tutta la Chiesa. Da allora in poi, la festa conobbe uno sviluppo meraviglioso, e ancora molto sentita dal popolo cristiano.
Vorrei affermare con gioia che oggi nella Chiesa c’è una “primavera eucaristica”: quante persone sostano silenziose dinanzi al Tabernacolo, per intrattenersi in colloquio d’amore con Gesù! È consolante sapere che non pochi gruppi di giovani hanno riscoperto la bellezza di pregare in adorazione davanti alla Santissima Eucaristia. Prego perché questa “primavera” eucaristica si diffonda sempre più in tutte le parrocchie, in particolare in Belgio, la patria di santa Giuliana. Il Venerabile Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, constatava che “in tanti luoghi […] l'adorazione del santissimo Sacramento trova ampio spazio quotidiano e diventa sorgente inesauribile di santità. La devota partecipazione dei fedeli alla processione eucaristica nella solennità del Corpo e Sangue di Cristo è una grazia del Signore, che ogni anno riempie di gioia chi vi partecipa. Altri segni positivi di fede e di amore eucaristici si potrebbero menzionare” (n. 10).

Ricordando santa Giuliana di Cornillon rinnoviamo anche noi la fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Come ci insegna il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, “Gesù Cristo è presente nell'Eucaristia in modo unico e incomparabile. È presente infatti in modo vero, reale, sostanziale: con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua Anima e la sua Divinità. In essa è quindi presente in modo sacramentale, e cioè sotto le specie eucaristiche del pane e del vino, Cristo tutto intero: Dio e uomo” (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 282).

Carissimi amici, la fedeltà all’incontro con il Cristo Eucaristico nella Santa Messa domenicale è essenziale per il cammino di fede, ma cerchiamo anche di andare frequentemente a visitare il Signore presente nel Tabernacolo! Guardando in adorazione l’Ostia consacrata, noi incontriamo il dono dell’amore di Dio, incontriamo la Passione e la Croce di Gesù, come pure la sua Risurrezione. Proprio attraverso il nostro guardare in adorazione, il Signore ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per trasformarci come trasforma il pane e il vino (cfr Benedetto XVI, Omelia nella Solennità del Corpus Domini, 15 giugno 2006). I Santi hanno sempre trovato forza, consolazione e gioia nell’incontro eucaristico. Con le parole dell’Inno eucaristico Adoro te devote ripetiamo davanti al Signore, presente nel Santissimo Sacramento: “Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami!”. Grazie.


Dio ci parla ora Massimo Camisasca - mercoledì 17 novembre 2010 – il sussidiario.net

La pubblicazione dell’attesa Esortazione apostolica postsinodale sulla Parola di Dio ci invita ad una seria riflessione sul posto che tale Parola occupa nella vita delle nostre comunità.
La Sacra Scrittura è come un’acqua profonda: non tutti possono attingervi. Ma molti ne godono i frutti attraverso coloro che sono stati bagnati dalle sue piogge. Così, di fatto, è accaduto nei duemila anni di storia della Chiesa, e così accade anche oggi.

Ci sono stati lunghissimi periodi in cui il popolo cristiano non ha avuto un accesso diretto alle pagine della Bibbia, per analfabetismo (quanti sapevano materialmente leggere nel medioevo e nella stessa età moderna?), ma anche a causa della difficoltà ad entrare nel testo biblico, sia dell’Antico che del Nuovo testamento (fatta forse eccezione per le pagine più significative dei Vangeli sinottici). Un altro fattore determinante è stato l’assenza di educatori che fossero in grado di accompagnare in modo adeguato tale lettura.

Si aggiunga a tutto ciò la rarità dei libri che, almeno fino al sedicesimo secolo, obbligava alla memorizzazione coloro che, per compito o vocazione, avevano un rapporto particolare con la Scrittura.
Proprio quando la stampa avrebbe reso più accessibile il testo biblico, la Riforma protestante - con la sua assolutizzazione della sola scriptura - finì per allontanarlo dal popolo cattolico per altri 400 anni, fin quasi al Vaticano II.

Eppure non dobbiamo ignorare il fatto che il popolo cristiano era pur sempre in contatto frequente col testo scritturistico. Le vetrate e gli affreschi delle chiese nell’alto medioevo, le vite dei santi che si tramandavano oralmente, la catechesi orale dopo il Concilio di Trento (di cui San Carlo fu uno dei più convinti promotori e maestri)... tutto concorreva ad un rapporto costante con la storia sacra - così allora si chiamava la Bibbia accessibile a tutti - che irrorava i tessuti quotidiani della vita cristiana.

All’interno del popolo di Dio vi erano poi tre tesori. Innanzitutto i commenti sapienziali dei Padri, che forniranno ben più di una chiave di lettura a tutto l’occidente cristiano. Essi saranno una calamita che attirerà molti credenti verso il testo biblico, alimento della preghiera e della meditazione. «I padri della Chiesa ci mostrano ancora oggi una teologia di grande valore perché nel suo centro sta lo studio della Sacra Scrittura nella sua integralità. Il loro esempio può insegnare agli esegeti moderni un approccio veramente religioso alla Sacra Scrittura. Come anche un’interpretazione che si attiene costantemente al criterio di comunione con l’esperienza della Chiesa […]. E dall’esegesi patristica impariamo che si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo» (n. 37).
Vi era poi la vita liturgica, con le sue preghiere, i suoi canti, le sue letture e le sue feste, che si alimentavano direttamente al testo scritturistico. Questo patrimonio sarà all’origine del teatro e di tanti testi letterari, dal medioevo in poi. Scrive il papa Benedetto XVI nell’esortazione postsinodale: «È questo l’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente della nostra vita, parla oggi al suo popolo che ascolta e risponde […]. Qui appare anche la sapiente pedagogia della Chiesa che proclama e ascolta la Sacra Scrittura seguendo il ritmo dell’anno liturgico. Questo distendersi della Paola di Dio nel tempo avviene in particolare nella celebrazione eucaristica e nella liturgia delle ore» (n. 52).

Dobbiamo infine citare la vita monastica, vero «polmone della Chiesa», in cui lectio, ruminatio, e contemplatio del testo biblico costituivano l’ossatura lenta e solenne di tutta l’esistenza.
Per accostarsi alla Scrittura occorre educare a leggere e a far silenzio. La Scrittura è un racconto di fatti che avviene attraverso una molteplicità di generi letterari, che vanno anch’essi conosciuti. Ma questo ci riguarda soltanto in un secondo momento. Innanzitutto, infatti, deve prevalere l’incontro con una storia reale, composta di avvenimenti che si succedono: ecco il significato dell’espressione “storia sacra”. In tutto ciò sarà molto di aiuto la lettura continua e corsiva della Bibbia.

È fondamentale notare il primato della storia sul racconto. La Bibbia parla di qualcosa che sta accadendo ora, che sta accadendo nella nostra piccola comunità e in tutto il mondo. «Il rapporto tra Cristo, Parola del Padre, e la Chiesa non può essere compreso nei termini di un evento semplicemente passato, ma si tratta di una relazione vitale in cui ciascun fedele è chiamato ad entrare personalmente» (n. 51). La Bibbia è l’esposizione privilegiata dell’evento, il racconto che Dio ha ispirato e voluto scegliere tra tanti racconti, per farci percepire il senso salvifico dell’evento, anche se questo non esaurisce minimamente l’ampiezza di ciò che è accaduto ed accade. Anzi, l’evento ha bisogno di crescere in noi e tra noi per essere veramente compreso.

Essenziale a questo proposito è il riferimento alla liturgia e alla vita comune. Celebrazione liturgica (messa, lodi, vespri, confessione...), vita comune vissuta come esperienza concreta dell’alleanza e della propria conversione a Dio e lettura personale della Bibbia costituiscono un vero e proprio circolo ermeneutico, in cui ogni elemento non può essere scisso dagli altri perché ne costituisce la carne, la direzione, la realizzazione.
Liturgia, vita nella comunità, ascolto di brani o testi biblici: tutto ciò vive ancora, seppure in brandelli occasionali e sfilacciati, nelle nostre comunità cristiane. Ma perché non porta frutto?
Manca il silenzio, cioè l’esperienza del maestro. Noi abbiamo avuto don Giussani che ci ha messo in mano il Libro delle Ore, che ci ha collocati in un contesto in cui diventava normale lo sguardo a sé e alla storia dentro l’orizzonte dell’alleanza, in cui i testi biblici (sopratutto san Giovanni e san Paolo) erano continuamente citati e commentati. Ma don Giussani ha fatto ancora di più. Ha attuato in noi l’immedesimazione, attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento, con gli avvenimenti a cui abbiamo partecipato e partecipiamo nella nostra vita quotidiana.

Realmente noi ci siamo seduti sotto il querceto di Mamre con Abramo e i tre angeli misteriosi; realmente abbiamo vissuto con Maria la partenza dell’angelo dopo l’Annunciazione; davvero siamo stati sul Giordano quando Gesù ha detto ad Andrea e Giovanni venite e vedrete. Anche noi abbiamo detto sì con Pietro sulle rive del lago di Genezareth, dopo la Resurrezione.
Tutto ciò vive nel silenzio, e in esso solo un maestro ci può introdurre. Egli è quindi una persona chiamata da Dio a guidarci dentro le cose, ed infine verso il Mistero.


16/11/2010 – PAKISTAN - Vescovo di Islamabad: “Una vergogna” il caso di Asia Bibi. Continua la campagna di AsiaNews di Jibran Khan - Per mons. Rufin Anthony occorre cancellare la legge sulla blasfemia, “per nulla adatta al mondo del 21mo secolo”. Continua la raccolta di firme per salvare Asia Bibi e cancellare la legge sulla blasfemia in Pakistan, Italia, Stati Uniti, India, Francia. In poche ore il sito di AsiaNews ha ricevuto oltre 500 adesioni. Anche monasteri di clausura pregano per Asia Bibi. Un testo da inviare al presidente Asif Zardari.

Islamabad (AsiaNews) – “É davvero una vergogna”: così mons. Rufin Anthony, vescovo cattolico di Islamabad- Rawalpindi commenta ad AsiaNews la sentenza di morte contro Asia Bibi (v. foto), la donna pakistana condannata per blasfemia nel Punjab. Il prelato sottolinea che la legge è abusata e manipolata con motivazioni grette e che è tempo di eliminarla per rendere il Pakistan un Paese moderno.

“Nei villaggi – dice il vescovo – c’è molta meschinità. Ho domandato a una donna quali sono le caratteristiche del suo [di Asia Bibi] villaggio. Mi ha risposto subito: Malizia, invidia, apatia, brutalità. Ecco il quadro completo. Può questo giustificare l’uccisione di una persona buona? La risposta è no! Io penso che la legge sulla blasfemia debba essere cancellata; non è per nulla adatta al mondo del 21mo secolo”.

Già da un anno la Commissione Giustizia e pace in Pakistan aveva domandato l’abolizione della legge sulla blasfemia, raccogliendo oltre 75 mila firme di cristiani e musulmani. AsiaNews aveva aiutato a diffondere la loro campagna in Italia e presso il parlamento europeo (v. dossier Salvate i cristiani e il Pakistan dalla legge sulla blasfemia).

In questi giorni, dopo la sentenza contro Asia Bibi, molte organizzazioni non governative nel Paese stanno raccogliendo firme per lo stesso motivo. In pochi giorni più di 40 mila firme hanno invaso gli uffici governativi chiedendo la liberazione della donna.

Aiuto alla Chiesa che Soffre ha lanciato anch’essa una raccolta di firme in Francia e in Italia. Altre associazioni hanno varato campagne contro la legge sulla blasfemia in India e negli Stati Uniti.

La campagna che AsiaNews ha lanciato ieri, sollecitata dai suoi lettori “a fare qualcosa”, ha raccolto in poche ore più di 500 firme da Italia, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, India, Gran Bretagna,…

Fra i primi a firmare vi sono p. Samir Khalil Samir, il famoso islamologo egiziano; Phil Lawler, editore cattolico statunitense; Kenneth Lewis, presidente dell’International Christian News; Davide Cantagalli, editore. Vi sono anche diversi messaggi da monasteri di clausura, che pregano per Asia Bibi e per il Pakistan.

Come già riferito ieri, la campagna chiede di salvare Asia Bibi e il Pakistan, con l’invio di un messaggio e-mail a salviamoasiabibi@asianews.it, o direttamente al presidente pakistano Asif Zardari a questo indirizzo: publicmail@president.gov.pk.

Alcuni lettori chiedono che venga loro dato un testo-base da inviare come messaggio al presidente Zardari. Eccolo:


To Mr Asif Ali Zardari,
The President of Pakistan

November 15, 2010

Mr. President,
Asia Bibi’s death sentence is not just a sentence, it is a State crime.
Therefore I hope you will not  permit that, not only because of your sense of Justice
but also because it is badly affecting the reputation of your country.
Please intervene as soon as possible to reduce the pains Asia Bibi and her family are suffering.

Moreover the constant deliberate persecution of Pakistani Christians through the law on
blasphemy is offending the Almighty God more than any human being.

Sincerely
 (firma)

Traduzione:

Al Sig. Asif Ali Zardari,
Presidente del Pakistan

Sig. Presidente,
la condanna a morte per Asia Bibi non è solo una sentenza, essa è un crimine di Stato.
Per questo io spero che lei non la permetterà, non solo per il vostro senso di giustizia, ma anche perché essa mette in cattiva luce la reputazione del suo Paese.
La prego di intervenire quanto prima per ridurre le sofferenze che Asia Bibi e la sua famiglia stanno sopportando.

Inoltre, la costante e deliberata persecuzione dei cristiani pakistani attraverso la legge sulla blasfemia, è un’offesa a Dio, oltre che agli uomini.

Sinceramente
(firma)


Testimoni «digitali», Sakineh e Asia Bibi - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele  Curatore: Leonardi, Enrico Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 novembre 2010

Accade sempre più spesso, in questa nostra società segnata dalla comunicazione, che le notizie ci invadano la mente, il tempo, la fantasia: ma anche che scorrano davanti ai nostri occhi senza più interpellarci, urgendoci ad una responsabile presa di posizione.
Allora sembra che valga e sia degno di attenzione solo ciò che – nel modo di comunicare – abbia la capacità di scuoterci.
Ho appena finito di vedere, in TV, le immagini sbiadite della presunta confessione di Sakineh. Come se il potere che l’ha condannata a morte abbia bisogno di giustificarsi davanti all’opinione pubblica. Quando sappiamo bene che non interessa affatto a quel potere quello che l’occidente pensa. Bisogna ricordare a quel potere quanto ha detto Benedetto XVI al suo Presidente, pochi giorni fa: «In alcuni Paesi queste comunità affrontano situazioni difficili, discriminazione e perfino violenza, e non hanno la libertà di vivere e professare pubblicamente la loro fede».
Ho però anche di fronte a me la notizia, sfuggita ai più, soprattutto affastellata tra le tante, senza che se ne potesse dare un rilievo anche emotivo, quel rilievo che merita, della condanna a morte di Asia Bibi. Condanna, forse sospesa, motivata dalla sua fiera volontà di essere fedele a quella religione il cui fondatore, Gesù Cristo, a differenza di Maometto, ha dato la sua vita per salvarla. Tale volontà di fedeltà è stata ripagata con la condanna a morte, perché il suo paragonare Gesù con Maometto sarebbe stato inteso come una bestemmia.
Questo mi ha fatto ripensare alla nostra presenza nel mondo della comunicazione, quella presenza che il Papa vorrebbe sempre più incisiva e capace di comunicare a tutti, e non solo ai credenti, le proprie ragioni.
Siamo una rete, e non solo virtuale: abbiamo amici, rapporti, conoscenze. In occasione della legge 40 abbiamo fatto sentire la nostra voce, più forte di Corriere e Repubblica e di tutti i mezzi di comunicazione del mondo, del potere. Perché non pensare di dare rilievo e consistenza a ciò che ci sta a cuore?
Quasi un anno fa si è tenuto il Convegno «Testimoni digitali». Il Papa ha lanciato un invito pressante a tutti noi, così sintetizzabile: «I media possono diventare fattori di umanizzazione “non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali”. Ciò richiede che “essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale”. Solamente a tali condizioni il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità». Vogliamo fare sempre più nostra la consegna, sentirci uniti con tutti coloro che testimoniano quell’amore alla verità che è sempre difesa della vita, della libertà, della dignità di ogni uomo. Vogliamo soprattutto difendere il diritto di ognuno – siamo grati e vicini ad Asia Bibi – di esprimersi e difendere ciò in cui crede.
Oggi l’emergenza più grave è certo quella educativa, ma per l’educazione di un popolo che sappia camminare a testa alta e difendere i propri diritti e quelli di ogni uomo. Nei tempi gloriosi di Solidarnosč il motto che più ci ha affascinato è stato: «Per la nostra e la vostra libertà». Anche ora!


Radio Vaticana - notizia del 16/11/2010 - Violenza in Iraq: 2 cristiani uccisi nelle loro case a Mossul

Sette persone, fra cui due cristiani, sono rimaste uccise oggi in diversi attentati a Mossul e a Qaim, ad ovest di Baghdad. 5 persone sono morte per l’esplosione di autobombe e ordigni, mentre nel caso dei due cristiani si è trattato di un’esecuzione. Nella parte orientale di Mossul sconosciuti sono entrati nell’abitazione dei due e li hanno uccisi con armi automatiche, prima di fuggire. Si teme una nuova ondata di attacchi di al Qaeda contro la comunità cristiana, già duramente colpita nelle scorse settimane. Il 31 ottobre, quasi 60 cristiani, tra cui bambini, donne e due preti, sono stati uccisi in un attentato compiuto durante la Messa da un commando di al Qaeda nella cattedrale siro-cattolica a Baghdad. Altri attacchi hanno preso di mira i cristiani la scorsa settimana. Marina Tomarro ha intervistato Padre Aysar Saaed, nominato nuovo parroco di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad:

R. – Dopo l’attentato del 31 ottobre scorso, alla chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, la situazione è brutta. I nostri fedeli cristiani hanno tanta paura per la situazione nel Paese e per la mancanza di sicurezza.

D. – Dall’ultimo Sinodo per il Medio Oriente sono emerse tante prospettive di pace. Quante di queste possono essere realmente messe a frutto in questo momento, in Iraq?

R. – La pace … da dove viene, questa pace? E chi sono gli autori della pace? Questa è una domanda importante. Oggi noi stiamo soffrendo le conseguenze della guerra. Manca la tolleranza politica, la tolleranza etnica, anche. E secondo me, è questo ciò che crea i problemi maggiori al popolo iracheno ed ai cristiani – perché noi siamo minoranza in questa terra! Il fatto è che oggi, uccidere la gente da noi è diventato il sistema più facile, perché la vita umana non vale niente. Ecco perché oggi non dobbiamo aspettare che la pace, la tolleranza, la riconciliazioni arrivino da fuori. Noi dobbiamo impegnarci tutti per costruire e ri-costruire una società capace di vivere nel rispetto, in pace e in fratellanza.

D. – Dove si trova il coraggio di affrontare i pericoli?

R. – Se oggi il popolo iracheno ed il popolo cristiano resistono, in questa terra, è un miracolo di Dio. Ringraziamo il Signore perché nonostante tutto quello che sta accadendo in Iraq, nonostante la grande paura, sono rimasti legati alla Chiesa. E’ quello che hanno dimostrato anche all’interno della Chiesa, in modo particolare i nostri fratelli, i martiri sacerdoti che hanno chiesto di lasciare andare le persone, i fedeli, e di prendere soltanto i sacerdoti in ostaggio. I terroristi non hanno accettato, e loro sono stati uccisi per primi. A questo punto io chiedo a tutti i capi religiosi di usare il loro peso morale per educare, per fare crescere la nuova generazione secondo la volontà di Dio: cioè, insegnare il valore della vita umana, che è un dono di Dio, e anche che noi tutti – cristiani e musulmani – siamo chiamati a dare il nostro contributo per lo sviluppo della vita umana! (gf)


Radio Vaticana - notizia del 16/11/2010 - Filippine: un milione di rosari per combattere la legge pro-aborto

Continua la battaglia tra Chiesa cattolica e governo filippino sulla legge per il controllo delle nascite, in fase di approvazione. In questi giorni il cardinale Ricardo Vidal, arcivescovo di Cebu e altri prelati hanno invitato tramite Youtube, tutti i cattolici del mondo a recitare un rosario a sostegno della vita e della famiglia. L’obiettivo è raccogliere oltre un milione di preghiere, inviate via mail e posta, per costringere il parlamento a fermare la proposta di legge. La campagna dal nome “Crociata dei Rosari” è stata lanciata nelle parrocchie il 31 ottobre scorso (Rosary Christ Crusade) e durerà fino al 16 gennaio 2011. Non tutti i cattolici sono però concordi sulla linea portata avanti dai prelati. Secondo questi gruppi la Chiesa dovrebbe accogliere la proposta di mediazione fatta dal governo, che di recente si è detto disposto a eliminare quelle parti considerate a favore dell’aborto. “Con questo movimento – afferma il cardinale Vidal su Youtube – vogliamo offrire a Dio le nostre preghiere autentiche per la difesa della famiglia e della vita, affidando a Lui e alla Madonna il destino del nostro Paese”. Su esempio dell’arcivescovo di Cebu, hanno pubblicato il loro messaggio diversi tra prelati, sacerdoti e laici. Tra essi anche mons. Paciano Basilio Aniceto arcivescovo di S. Fernando a capo della Commissione episcopale per la vita e la famiglia, che definisce la legge “un enorme pericolo, perché diffonde la cultura della morte”. Il dibattito sulla Reproductive Health è in corso da quattro anni. La legge rifiuta l’aborto clinico, ma promuove un programma di pianificazione familiare, che impedisce alle coppie di avere più di due figli e favorisce la sterilizzazione volontaria. Chi non si attiene alla legge rischia il pagamento di una sanzione e in alcuni casi il carcere. Chiesa e associazioni cattoliche sostengono invece il Natural Family Programme (Nfp), che mira ha diffondere tra la popolazione una cultura di responsabilità e amore basata sui valori cristiani. Il prossimo 20 novembre gruppi di laici cattolici e associazioni pro-life terranno una veglia di preghiera a Lipa City (Batangas) per protestare contro la legge e sostenere la campagna mediatica lanciata dai vescovi. (R.P.)


LOCKE, MASSONERIA, MICROMEGA, UAAR, VOLTAIRE - MicroMega, il razionalismo e l’esoterismo massonico. - In Contraddizioni, assurdità atei, UAAR e Ateismo militante on 16 novembre 2010 http://antiuaar.wordpress.com

L’altra parrocchia dell’ateismo italiano, oltre a quella dei fantarazionalisti uaarini, è rappresentata da MicroMega, tipico esempio di scientismo made in Italy (tiratura inferiore a Camper Italia). Vengono intervistati a turno i 4-5 antiteisti moderni e su quanto dicono si confezionano articoli cha spaziano dalla cucina alla microbiologia, dalla politica al giardinaggio, tutto in chiave anticattolica ovviamente. Nell’ultimo numero tocca al chimico Peter Atkins che, improvvisandosi teologo, intitola il suo pezzo: “Miseria della Fede” (chi ha avuto l’onore di leggerlo commenta così: «una tesi sostenuta da una “fiera dei luoghi comuni” a cui si potrebbe facilmente obiettare contrapponendo alla “miseria” della fede gli “splendori” dell’ateismo firmati da Stalin e Pol Pot»). Sul sito Libertà e Persona troviamo un’interessante disserzione su questa rivista e soprattuto sull’origine del nome. Infatti -spiega l’articolo- Micromega «è il titolo di un racconto di Voltaire e al riguardo siamo autorizzati a pensare che, poiché la rivista è stata fondata da un filosofo come Paolo Flores d’Arcais, la scelta del nome non possa non essere stata profondamente ponderata. Riducendo ai contenuti essenziali il racconto di Voltaire a cui si fa riferimento, troviamo che il protagonista, Micromega, partito dalla stella Sirio in cui vive, giunge sul pianeta Saturno dove stringe un’amicizia con un suo abitante. Insieme a questi si dirige quindi su Giove e infine sulla Terra, dove scopre degli esseri minuscoli chiamati Uomini e ai quali, prima di partire, dona un libro contenente il “senso della vita”». Ecco che la storia di riferimento della nota rivista sembra lontana dall’essere una vicenda che propone il razionalismo materialista. E’ infatti un viaggio iniziatico: «Sirio è quella che nelle tradizioni esoteriche rappresenta la dea egizia Iside e che il più grande occultista del novecento, Aleister Crowley, riteneva così importane da riattivare un antico ordine iniziatico a lei dedicato. Saturno e Giove hanno anche in questo caso dei significati cari al mondo dell’esoterismo, simbolicamente rappresentati nell’opera alchemica “Melancholia” di Dürer». In reatà il genio razionalista di Voltaire, adorato dalle note sette ateorazionaliste, un iniziato alla massoneria. Dal sito del Grande Oriente d’Italia scopriamo infatti che fu iniziato nella loggia delle “Nove Sorelle”. Ecco allora spiegati i collegamenti con Iside e Osiride, che nell’esoterismo massonico sono di casa. Ma anche un altro dei maggiori filosofi razionalisti della storia, John Locke, viene indicato come fratello massone! L’articolista Pennetta si accorge anche che il già citato numero di MicroMega, inizia con una frase del filosofo anarchico Pierre-Joseph Proudhon: “La scienza non ha fatto progressi che dopo aver eliminato Dio” (una banalità sfatabile in cinque minuti) . Guarda caso, anche lui era un fratello massone e anche lui, come Locke Voltaire e MicroMega era fermamente anticattolico. La scelta della rivista di riferirsi quindi alla massoneria non può che essere pienamente coerente, ciò che stupisce è il fitto intreccio tra razionalismo ed esoterismo massonico anticattolico, il che lascia molto pensare…


ANTONI GAUDI, BUDDHISMO, CONVERSIONE, SAGARADA FAMILIA - Etsuro Sotoo, il successore di Gaudì: la Sagrada Familia mi ha convertito al cattolicesimo. - In Convertiti al cristianesimo, al cattolicesimo, Famosi credenti, cristiani, cattolici on 16 novembre 2010 http://antiuaar.wordpress.com

Lo scultore giapponese Etsuro Sotoo ha completato l’incredibile opera della Sagrada Familia creata da Gaudì. Arrivò casualmente a Barcellona nel 1978 e il suo incontro con Antoni Gaudì, genio dell’Architettura Modernista Catalana, lo ha spinto a convertirsi al Cattolicesimo. Avvenire lo ha intervistato in merito alla sua esperienza, e, fra le altre cose, ha risposto: «Iniziai a sentire una grande curiosità per il “genio” Gaudì. Mi chiedevo: da dove tirava fuori queste idee? Dopo dieci anni l’ho scoperto: il segreto di Gaudì era la fede. Lui sapeva obbedire alla forza della natura, ovvero al “messaggio” di Dio, grazie alla fede. Senza, non avrebbe mai potuto fare ciò che fece. Mi convertii al Cattolicesimo nel 1991: come Gaudì, capii che dovevo collaborare alla costruzione della Chiesa di pietra chiedendo aiuto alla Spiritualità. Io non ero Battezzato, ma piano piano mi misi a studiare la Spiritualità di Gaudì e capii che chi cerca la verità, alla fine raggiunge sempre lo stesso cammino».

In questo cammino è stato anche seguito poi dalla famiglia: «Anche mia moglie, che è pianista, tre anni fa si è convertita al Cattolicesimo. Ma non è stato per obbligo, io non le ho mai chiesto niente. È stata lei stessa, senza dirmi niente, ad avvicinarsi al Catechismo. Anche mia figlia, che ha 23 anni, è cattolica. La Sagrada Familia è la grande occasione per capire qual è il cammino corretto dell’umanità. Siamo quasi agli inizi del Terzo Millennio, la gente ha molti problemi, ha paura di vivere. Bisogna apprendere da Gaudì a collaborare alla Creazione Divina!»


Le memorie scomode del cardinale Biffi - Esce in libreria la nuova edizione della sua autobiografia. Con cento pagine in più e molte sorprese: sul dopoconcilio, gli ebrei, la donna, la castità, l'omosessualità. Eccone un'anteprima di Sandro Magister

ROMA, 16 novembre 2010 – Tra due giorni uscirà nelle librerie italiane la nuova edizione ampliata delle memorie del cardinale Giacomo Biffi, 82 anni, milanese, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003.

La prima edizione del libro, uscita nel 2007, ebbe una forte risonanza. Nella Quaresima di quello stesso anno Benedetto XVI aveva chiamato Biffi a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano.

Di quel primo volume colpirono i giudizi con cui il cardinale criticava l'ingenuità di Giovanni XXIII, i frutti negativi del Concilio Vaticano II, i silenzi sul comunismo, i "mea culpa" di Giovanni Paolo II, e tante altre cose ancora.

Anche questa nuova edizione farà sicuramente rumore. Nel ripercorrere la sua vita, Biffi ha aggiunto nuovi capitoli e nuove riflessioni. Sempre col suo stile pungente, ironico, anticonformista.

Le pagine in più sono un centinaio, delle quali sono anticipati più sotto tre brani: sulle aberrazioni del dopoconcilio, sulla Chiesa e gli ebrei, sull'ideologia dell'omosessualità.

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Ma c'è molto altro ancora di nuovo, in questa seconda edizione del libro.

Un intero nuovo capitolo è dedicato, ad esempio, alla "sfida della castità", con riflessioni originali e sorprendenti sulla risposta cristiana – compreso il celibato "per il regno dei cieli" – alle teorie e alle pratiche sessuali dominanti.

Un'altra ampia "digressione" riguarda la concezione che il cristianesimo ha della donna, rivoluzionaria rispetto a quelle prevalenti in vari tempi e in varie culture.

Altre pagine rivisitano un papa molto criticato, Pio IX, con osservazioni acute sulle scelte lungimiranti da lui compiute.

Inoltre, da milanese purosangue qual è, il cardinale Biffi non tace sulle vicissitudini del rito ambrosiano, l'antichissimo e splendido rito liturgico in uso nella diocesi di Milano dai tempi di sant'Ambrogio.

Dopo aver seriamente rischiato di essere abolito subito dopo il Concilio, il rito ambrosiano è stato adattato alle novità conciliari con un imponente lavoro del quale Biffi è stato uno dei protagonisti, quand'era vescovo ausiliare di Milano.

Di recente, però, è capitato qualcosa che lo stesso Biffi ha già denunciato pubblicamente, e che così riassume nella nuova edizione delle sue memorie:

"A partire dal 2008, la serie dei libri ambrosiani ha cominciato a essere accresciuta dei volumi di un sorprendente lezionario offerto ai cultori della liturgia milanese.

"Vi si trova di tutto: archeologismi vani e talora anche forvianti; avventurose iniziative rituali; prospettive teologiche poco fondate ed equivoche; proposte pastorali senza buon senso e perfino qualche curiosa amenità linguistica.

"È un’impresa di grande respiro, audace senza alcun dubbio e ambiziosa: più audace che saggia, più ambiziosa che illuminata. Rimarrà viva a lungo nella memoria allibita della nostra Chiesa.

"Adesso possiamo solo affidarci alla speranza che un 'opus singulare' come questo non divenga il primo esempio di una nuova serie di testi liturgici, elaborati con analoga improntitudine e con lo stesso deplorevole risultato".

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Un altro riferimento alla diocesi di Milano è in un capitolo che il cardinale Biffi ha aggiunto verso la fine del libro, per confortare chi teme un declino o perfino una scomparsa del cristianesimo nel mondo.

Per mostrare che Dio "può sempre capovolgere a favore dei credenti le situazioni che si dimostrano più disperate", Biffi porta due esempi.

Il primo è la nomina di Ambrogio nel 374 a vescovo di Milano:

"Dopo il ventennio di episcopato di Aussenzio, un uomo dalla fede inquinata, ammanicato con l’ariana imperatrice Giustina e docile strumento delle invadenze della corte nella vita della 'nazione santa', umanamente parlando nessuno avrebbe puntato un soldo sulla ripresa del cattolicesimo milanese. Ma venne Ambrogio e tutto cambiò. 'Dopo la tarda morte di Aussenzio – scrive san Gerolamo nel suo 'Chronicon' – a Milano diventa vescovo Ambrogio e tutta l’Italia tornò alla vera fede'".

Il secondo esempio è l'arrivo di Carlo Borromeo nel 1566 alla guida della diocesi:

"Nella seconda parte del secolo XVI, dopo il lungo periodo della irreperibilità 'de facto' dei pastori nominati (con l’episcopato, tra l’altro, dei due mondani prelati ferraresi, Ippolito I e Ippolito II d’Este) nessuno poteva decentemente sperare in un rifiorire della cristianità ambrosiana. Ma arrivò nel 1566 Carlo Borromeo, un cardinale ventisettenne, e incominciò la vera 'Riforma cattolica'".

Commenta Biffi:

"In ambedue i casi il 'miracolo' fu compiuto utilizzando le storture comportamentali degli uomini. La scelta episcopale di Ambrogio, un leale e abile funzionario imperiale, era nei piani di Valentiniano I per accrescere la sua inframmettenza politica nella vita ecclesiale. La carriera di Carlo Borromeo originava dal deplorevole nepotismo del papa Pio IV, fratello della sua mamma.

"È, ancora una volta, l’umorismo di Dio, che si diverte a ricavare il bene dal male. Come si vede, anche nelle stagioni più deprimenti, il popolo dei credenti può sempre guardare in alto, pregare con animo sereno e sperare".

Sui vescovi di Milano degli ultimi trent'anni non una parola, in questo capitolo. Ma basta leggere l'intero suo libro di memorie per capire come Biffi li giudichi.

Per lui, l'epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant'Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è conclusa con Giovanni Colombo. Mentre i suoi successori Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi non hanno affatto brillato. Dopo di loro, c'è solo da sperare in un altro "miracolo".

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Infine, un altro capitolo nuovo di questo libro del cardinale Biffi riguarda Giuseppe Dossetti, politico e poi sacerdote, uomo chiave del Concilio Vaticano II, personalità straordinariamente influente nella cultura cattolica degli ultimi decenni, non solo in Italia.

Biffi conobbe bene Dossetti, che viveva nella diocesi di Bologna. Lo definisce un "autentico uomo di Dio" e un "discepolo generoso del Signore". Ma alla domanda: "È stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella sacra dottrina?", la risposta del cardinale è no.

Un no molto argomentato. Che farà sicuramente discutere. Ma su questo www.chiesa tornerà in un successivo servizio.

Ecco intanto tre assaggi delle molte novità contenute nella seconda edizione delle memorie del cardinale Biffi.

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CONCILIO E "POSTCONCILIO"

(pp. 191-194)


A fare un po’ di chiarezza nella confusione che ai nostri giorni affligge la cristianità, è incombenza preliminare e ineludibile distinguere con ogni cura l’evento conciliare dal clima ecclesiale che ne è seguito. Sono due fenomeni diversi ed esigono un apprezzamento differenziato.

Paolo VI sinceramente credette nel Concilio Vaticano II e nella sua positiva rilevanza per l’intera cristianità. Ne fu un decisivo protagonista, seguendone con attenzione quotidiana i lavori e le discussioni, aiutandolo a superare le ricorrenti difficoltà dei suoi percorsi.

Egli si aspettava che, in virtù del comune impegno sia di tutti i titolari del carisma apostolico sia del successore di Pietro, un’epoca benedetta di accresciuta vitalità e di fecondità eccezionale dovesse da subito beneficare e allietare la Chiesa.

Invece il “postconcilio”, in molte sue manifestazioni, lo preoccupò e lo deluse. Allora con ammirevole schiettezza rivelò il suo accoramento; e l’appassionata lucidità delle espressioni colpì tutti i credenti; quelli almeno la cui vista non fosse troppo obnubilata dall’ideologia.

Il 29 giugno 1972, nella festa dei santi Pietro e Paolo, parlando a braccio, arriva ad affermare "di avere la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il diavolo) venuto nel mondo per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno di gioia di aver riavuto in pienezza la conoscenza di sé". Sono parole dolenti e severe sulle quali non bisogna stancarsi di riflettere.

Come è potuto succedere che dai pronunciamenti legittimi e dai testi del Vaticano II sia derivata una stagione così diversa e lontana?

La questione è complessa e le ragioni sono multiformi; ma senza dubbio ha avuto il suo peso anche un processo (per così dire) di aberrante “distillazione”, che dal “dato” conciliare autentico e vincolante ha estratto una mentalità e una moda linguistica del tutto eterogenee. È un fenomeno che nel “postconcilio” affiora qua e là, e continua a riproporsi più o meno esplicitamente.

Potremo, per farci capire, avventurarci a indicare il procedimento schematico di tale curiosa “distillazione”.

La prima fase sta in un accostamento discriminatorio del dettato conciliare, che distingua i testi accolti e citabili da quelli inopportuni o almeno inutili, da passare sotto silenzio.

Nella seconda fase si riconosce come prezioso insegnamento del Concilio non quello in realtà formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe elargito se non fosse stata intralciata dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito.

Con la terza fase si insinua che la vera dottrina del Concilio non è quella di fatto canonicamente formulata e approvata, ma quella che sarebbe stata formulata e approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coerenti, più coraggiosi.

Con una metodologia teologica e storica siffatta – non enunciata mai in forma così palese, ma non per questo meno implacabile – è facile immaginare il risultato che ne deriva: quello che viene in maniera quasi ossessiva addotto ed esaltato non è il Concilio che di fatto è stato celebrato, ma (per così dire) un “Concilio virtuale”; un Concilio che ha un posto non nella storia della Chiesa, ma nella storia dell’immaginazione ecclesiastica. Chi poi si azzarda pur timidamente a dissentire, è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura annoverato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.

E poiché tra i “distillati di frodo” dal Concilio c’è anche il principio che ormai non c’è errore che possa essere più condannato entro la cattolicità a meno di peccare contro il dovere primario della comprensione e del dialogo, diventa oggi difficile, tra i teologi e i pastori, il coraggio di denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando l’innocente popolo di Dio.



UN CARDINALE E UN PAPA IN DIFESA DEGLI EBREI

(pp. 360-362)


Il 4 novembre 1988 gli ebrei di Bologna hanno doverosamente pensato di fare pubblica memoria, nel 50.mo anniversario, delle infami e vergognose leggi antisemite del 1938. Con tutto l’animo e con pieno convincimento ho voluto manifestare in quell’occasione a nome dell’intera Chiesa della città la mia totale adesione, assicurando la personale presenza al rito commemorativo nella sede della sinagoga, dove sono stato accolto con viva cordialità e ho preso parte alla preghiera.

Nella circostanza mi sono tornati alla mente i fatti di quel lontano 1938, che già allora mi avevano singolarmente colpito, benché non avessi neppure undici anni di età.

In quei giorni le norme antiebraiche – precedute da diverse pubblicazioni sulla “razza”, di natura pseudoscientifica, avallate se non addirittura commissionate dal regime – piovvero a più riprese sull’attonita nazione italiana. Per citare solo quelle di cui ho qualche notizia, il 1° settembre un decreto-legge del consiglio dei ministri cominciò a vietare agli stranieri di origine israelitica la stabile dimora sul nostro territorio. Il 2 settembre un altro decreto-legge estromise da tutte le scuole del regno di ogni ordine e grado i docenti e gli alunni di razza ebraica. Il 10 novembre, sempre con un decreto-legge si esclusero gli ebrei da ogni impiego nella pubblica amministrazione, negli enti parastatali e nelle aziende municipalizzate. E non eravamo che all’inizio delle vessazioni, che poi si fecero sempre più fitte e devastanti.

Il nostro popolo, colto di sorpresa, era disorientato e sgomento, quando improvvisamente si levò a Milano una voce – era la prima e rimase l’unica – che ebbe il coraggio di prendere apertamente le distanze da tanta follia.

Il 13 novembre il cardinale Schuster dal pulpito del duomo di Milano, per l’inizio dell’Avvento ambrosiano, pronunciò un’omelia che fin dalle prime parole, invece di richiamare il contesto liturgico, affrontò subito l’argomento che più lo preoccupava:

"È nata all’estero e serpeggia un po’ dovunque una specie di eresia, che non solamente attenta alle fondamenta soprannaturali della cattolica Chiesa, ma materializzando nel sangue umano i concetti spirituali di individuo, di nazione e di patria, rinnega all’umanità ogni altro valore spirituale, e costituisce così un pericolo internazionale non minore di quello dello stesso bolscevismo. È il cosiddetto razzismo".

È difficile oggi rendersi conto dell’impressione suscitata da quelle parole di critica nei confronti del pensiero e comportamento di un governo che, ormai da decenni, non tollerava neppure la più tenue espressione dissonante. Esse non rimasero confinate entro la pur solenne atmosfera di una cattedrale affollata: furono stampate nella "Rivista Diocesana Milanese" e, due giorni dopo che erano state pronunciate, divulgate ne "L’Italia", il quotidiano cattolico che entrava nelle nostre case. A Roma, dagli ambienti fascisti, si cominciò a chiedere una ritrattazione o almeno un evidente cambio di indirizzo del giornale, con la minaccia (in caso contrario) di una soppressione senza appello.

Il cardinale però non fu lasciato solo. Da parte del papa arrivò un messaggio a firma del segretario monsignor Carlo Confalonieri: "Il Santo Padre esorta il cardinale di Milano a sostenere con coraggio la dottrina cattolica, poiché non si può cedere su questo punto, né il giornale 'L’Italia' può cambiare indirizzo. 'Aut sit ut est, aut non sit' [O così, o niente]. Che, se fosse costretto a cessare le pubblicazioni, si passino i nominativi degli abbonati all’'Osservatore Romano'".

L’ultima frase ci ricorda che Pio XI non abbandonava mai la sua “concretezza milanese”, nemmeno nei momenti più decisivi e drammatici della sua azione pontificale.

Ero solo un ragazzo; ma da quella vicenda ho capito quale fortuna “laica” e razionale sia, quando sopraggiunge l’ora della generale pavidità e del conformismo accondiscendente, la presenza nel nostro paese della Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (cfr. 1 Timoteo 3, 15).

C’è stato invece recentemente in Italia chi (dall’alto di una delle massime cariche dello stato), in un intervento pubblico del tutto immotivato, ha parlato di un deplorevole silenzio della Chiesa in quella circostanza. Certo, essendo egli del 1952, ha l’attenuante che all’epoca non era ancora nato; ma ha l’aggravante di aver voluto, ciò nonostante, intervenire nel merito, rivelando al tempo stesso i suoi gratuiti preconcetti e la sua singolare disinformazione.



L'IDEOLOGIA DELL'OMOSESSUALITÀ

(pp. 609-612)


Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.

La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione – afferma il testo sacro – è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cfr. Romani 1, 21).

L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: "Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: "Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi" (Romani 1, 24).

E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:

"Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo cos. in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne" (Romani 1, 26-28).

Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (cfr. Romani 1, 32).

È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.

Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.

L’ideologia dell’omosessualità – come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.

Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.

Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?

Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1, 21-32 non è mai citato da nessuno? Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?

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Il libro:
Giacomo Biffi, "Memorie e digressioni di un italiano cardinale", nuova edizione ampliata, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 688, euro 25,00.


Welby (dall'al di là) sconfessa Saviano di Giuliano Guzzo del 16/11/2010, in Eutanasia, dal sito http://www.libertaepersona.org


Povero Roberto Saviano, non capita a tutti d’esser smentiti – nella trasmissione che si sta conducendo, in diretta televisiva - da un morto. E’ un’umiliazione bruciante, di quelle che ridicolizzerebbero e metterebbero ko chiunque. Per cui anche se ieri l'autore di "Gomorra", ormai a suo agio sotto i riflettori[, ha fatto abilmente finta di nulla, è bene ricordare a chi ha visto “Vieni via con me” – e pure a chi s’è perso tanta meraviglia – l’accaduto. Deciso a spiegare il fondamento del presunto diritto a morire ai suoi colti telespettatori, Saviano, nella seconda parte della trasmissione andata in onda ieri sera, s’è improvvisato bioeticista affrontando tutto d’un fiato l’argomento più spinoso in assoluto: il cosiddetto “fine vita”.

L’argomentare della star partenopea, in sintesi, è stato questo: nessuno osa rifiutare un bene prezioso come la vita, ci mancherebbe; tutti vogliono vivere, tutti inneggiano al diritto alla vita. E’ per il diritto alla vita Beppino Englaro, ha detto Saviano, esattamente come ieri lo erano Piergiorgio Welby e Luca Coscioni. E’ poi seguita una ricostruzione commovente della vicenda Welby, nella quale il nemico della camorra ha spiegato come costui, poveraccio, non volesse altro che il rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’ha ripetuto decine di volte: il rifiuto dell’accanimento terapeutico. Era questo, ha insistito con la sua aria messianica Saviano, il solo, vero obbiettivo politico di Welby.

Terminato il monologo strappalacrime, la parola è passata a Fabio Fazio che, probabilmente senza volerlo, ha teso al suo collega il peggior sgambetto possibile: far leggere alla vedova Welby l’elenco delle ultime parole del marito prima di morire, o di essere sottratto all’accanimento terapeutico, come direbbe Saviano. Mina Welby, in tutta serenità, ha iniziato la lettura di queste parole. Ebbene, dopo pochi vocaboli, la signora ha pronunciato quattro parole che hanno letteralmente polverizzato la tesi dello scrittore di Gomorra:”la lotta per l’eutanasia”. A questo, anche prima di morire, pensava Piergiorgio Welby: alla “lotta per l’eutanasia”. E lo diceva, vincolato come purtroppo era a potersi esprimere solo con gli occhi, senza giri di parole, con chiarezza.

Una domanda a questo punto sorge spontanea: perché Roberto Saviano s’è avventurato in un monologo di bioetica cercando di convincere i telespettatori che la lotta di Welby fosse contro l’accanimento terapeutico – pratica che tutti, ma proprio tutti, laici, laicisti e clericali, rifiutano – mentre quest’ultimo, in realtà, ha approfittato degli ultimi istanti della sua vita per rivendicare l’importanza della “lotta per l’eutanasia”? Perché confondere così palesemente i termini del discorso? Forse perché incitare milioni di telespettatori a battersi contro l’accanimento terapeutico, anziché per l’eutanasia, suona più soft? In attesa di chiarimenti che verosimilmente mai arriveranno, è bene porsele, certe domande. Perché quando uno ti dice “vieni via con me”, prima, deve dirti cosa vuole davvero.


Bambini? Meglio di no - di Giulia Tanel del 16/11/2010, in Attualità, dal sito http://www.libertaepersona.org

Sul Corriere della Sera di oggi, 16 novembre, è apparso un articolo a firma di Elvira Serra dal titolo: “Dagli aerei ai ristoranti, avanza il fronte «no kids» - «Gli insofferenti» arrivano in Italia: ingresso vietato ai bimbi”.
Per dirla con Alessandro Piperno, ospite da Daria Bignardi: “I bambini mi irritano anche nei ristoranti”.

Anche questa volta l’Italia giunge in ritardo, ma in merito a questa tematica non possiamo che rallegrarcene.

In Germania, per esempio, già da alcuni anni si possono trovare annunci immobiliari nei quali si propongono appartamenti solo per coppie senza figli; come si possono trovare bar, ristoranti e alberghi “Kinder verboten”. Tutto questo viene fatto non per discriminazione, ma semplicemente perché c’è chi vuole dei luoghi in cui essere sicuro di poter stare tranquillo, senza pianti disperati o bambini agitati che corrono ovunque.
La situazione è la medesima anche in Svezia: molti alberghi sono vietati a chi ha bambini di età inferiore ai dodici anni. Stessa musica negli alberghi di Spagna e di Austria.
In Inghilterra e negli Stati Uniti la politica anti-bambini è stata attuata anche dalle compagnie aeree: evidentemente la “mobilità infantile” non si è rivelata essere particolarmente lucrosa, quindi meglio che i bambini rimangano a terra.

L’Italia ha una media di 1,2 figli per donna e di certo non si distingue per le sue azioni a favore della famiglia. Il fatto che sia ora giunto anche da noi il movimento “No Kids” non potrà fare altro che peggiorare ulteriormente le cose.
La nostra speranza è che qualcuno alzi la voce – magari un economo, così non può essere tacciato di essere di parte – per spiegare che il proseguire su questa strada "ammazza-famiglie" non porterà alcun giovamento alla società, anzi.


Dalla pedofilia al nodo celibato le risposte del Papa in un libro-intervista

Il giornalista Peter Seewald (un tempo marxista militante) rivolge 90 domande a Benedetto XVI di Nina Fabrizio © Copyright Gazzetta del sud, 17 novembre 2010

Le vere cause che hanno portato all'esplosione dello scandalo pedofilia, gli scottanti temi legati al rapporto tra Chiesa e sessualità – dal celibato alle relazioni omosessuali passando per i contraccettivi – , l'opportunità di convocare un Concilio Vaticano III da più parti sollevata, l'ombra di uno scisma nella Chiesa cattolica e persino il tema, tra i più delicati per un Pontefice, dell'ipotesi dimissioni.
Senza reticenze e senza indugi, a questi e ad altri quesiti che l'ANSA è in grado di anticipare, papa Ratzinger risponde nel libro-intervista "Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi" che martedì prossimo, in Vaticano, verrà presentato alla stampa mondiale.
A sottoporre Benedetto XVI a oltre novanta domande che vanno dalla stringente attualità fino ai temi più eminentemente religiosi, relativi alla dimensione universale e salvifica della Chiesa, il giornalista tedesco Peter Seewald, già autore con l'allora card. Ratzinger dei libri-intervista "Il sale della Terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" e "Dio e Il Mondo. Essere cristiani nel terzo millennio". Da quando è salito alla Cattedra di Pietro, però, per Ratzinger si tratta del primo libro a quattro mani con un giornalista.
Una sfida che il Papa ha affrontato con grande serenità confrontandosi vis-a-vis per una settimana l'estate scorsa a Castel Gandolfo con il giornalista con cui condivide la lingua madre (Seewald ha alle spalle un passato da marxista militante: ha poi percorso un lento cammino di riscoperta delle proprie radici cristiane). Ne è nato un volume in cui il Papa, come spiega chi ha avuto occasione di visionarlo già, «parla a cuore aperto, con assoluta franchezza» e «un linguaggio molto semplice».
Così scorrendo le 284 pagine del testo edito in Italia dalla Lev, la Libreria editrice vaticana, il Papa confida il suo pensiero sulla possibilità di un dialogo «genuino» con l'Islam, sull'ipotesi di uno «scisma» all'interno della Chiesa cattolica, sulla «speranza» per l'unità della Chiesa, sulla «dittatura del relativismo». Benedetto XVI affronta anche temi come il rinnovamento della Chiesa, la formazione dei cristiani e il dialogo con le altre confessioni cristiane.
Il Pontefice non si sottrae nemmeno alle domande sui recenti scandali. Quali sono state le cause degli abusi sessuali tra i preti, se siano stati volutamente «coperti», e anche se la dimensione dello scandalo lo abbia portato a prendere in considerazione le dimissioni. E ancora, l'intervistatore chiede se la Chiesa debba ripensare il suo insegnamento sul celibato, sul sacerdozio femminile, sulla contraccezione, sulle relazioni tra persone dello stesso sesso e sulla comunione ai divorziati risposati.
L'orizzonte poi si allarga, e dopo aver considerato l'opportunità di indire un Concilio Vaticano Terzo, il Papa spiega perché la cristianità sia l'unica verità e come possa il Pontefice proclamarsi infallibile.
L'attesa per il libro, che cade a cinque anni dall'inizio del pontificato, è grande come le aspettative di vendita. La Lev, che distribuirà il volume nel mondo tranne che in Germania (dove verrà edito dalla Herder), ha predisposto al momento una tiratura in 50 mila copie solo per la prima stampa. Il testo «debutterà» dapprima in dieci lingue: italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, catalano, croato, polacco, danese e svedese. Non sono escluse future traduzioni in cinese e in arabo. La parola del Papa, si sottolinea in Vaticano, è aperta a tutti.


Avvenire.it, 17 novembre 2010 - La tv tribunizia/ 1 Chiesa nel mirino - Nel nuovo tempio un antichissimo livore di Davide Rondoni

Quanto sussiego. Quanta retorica. E che propensione al predicozzo. Quanto ricorso al tremolare di lacrimuccia sotto i fari tv. Poca storia. Molte chiacchiere e molta furbizia. Molti slogan. La De Filippi in confronto è una dilettante. «Aria nuova» dicono i vertici di Raitre. Sarà… Aspettiamo dunque che di questa aria possa godere anche chi non la pensa come i due predicatori Saviano-Fazio. La puntata di lunedì ha avuto un convitato di pietra. Come se i due "mattatori" avessero un complesso grande come una casa. E questo complesso si chiama cristianesimo, si chiama Chiesa.

L’unico bersaglio vero, tenacemente e persino violentemente cercato, è stata infatti la Chiesa. Fatta passare per una realtà assurda che disonora i giusti, asseconda i potenti e i ladri, viola le coscienze e non vuole i poveri tra i piedi. La Chiesa evidentemente va bene, ma solo se la pensa come loro. È insopportabile per questi nuovi "giusti" tribunizi che ci sia qualcuno che non segue il filo così buono, carino, ricercato eppure casual, moderno, ovvio delle loro posizioni. Lo diceva cent’anni fa Newman: non la vogliono eliminare, ma vorrebbero la Chiesa come ancella. E infatti, han trovato qualche prete vanitoso che si è prestato a fare in tv da scendiletto delle loro prediche squinternate e faziose. Un servo vanitoso si trova sempre.

Ma come tutti quelli oppressi da un complesso Saviano e Fazio restano per così dire impigliati, e un poco grotteschi, nel loro agitarsi. Come quelli che hanno il complesso della statura e mettendosi tacchi evidenziano di più la loro insofferenza. Un che di posticcio come risultato. Di finto. Hanno dato fondo al repertorio più consono a somigliare a custodi di una verità, hanno dato il massimo finendo per diventare in definitiva una brutta caricatura del loro avversario dichiarato. E si è capito che non sono giornalisti – ché non lo sono, evidentemente – non sono solo predicatori, ma possibilmente a vescovi e papi vorrebbero farsi somiglianti, ma non a quelli veri bensì a quelli che spacciano per veri e insolentiscono. Finendo più volte nel patetico e nel grottesco.

La Rai coi nostri soldi ha permesso loro di celebrare la liturgia dell’attacco fazioso, del pensiero a senso unico su questioni drammatiche e discusse, su ferite aperte per migliaia di famiglie. Ha permesso di pontificare con sussiego su questioni gravi. Forti del successo di share (naturalmente i successi tv sono sporchi e cattivi solo quando li fanno altri e con la massificazione no, loro non c’entrano) ora fanno dire in Rai: era ora che si sperimentassero vie nuove. Certo, c’è bisogno di nuove piste, di nuove idee. Di volti nuovi. Di nuovi "format". E di «aria nuova». Ma non di questa retorica vecchia di almeno cinquant’anni.

Non c’è bisogno di questi visini compunti da finti chierichetti già veduti mille volte. Non di questi oratori complessati. Non di queste faziose ricostruzioni dei fatti, di questi monologhi da inviato della Giustizia nei salotti tv. Forse i nuovi predicatori non capiranno mai la differenza tra il loro predicare e il cristianesimo. Forse il loro complesso li porta a pensare di essere in questo modo quel che la Chiesa dovrebbe essere. Lo fanno persino (forse) in buona fede, certo non solo per i molti soldi che ci guadagnano. Lo fanno per salvarci tutti. Per rendere tutti migliori. Così da non aver più bisogno del cristianesimo. Di non aver più bisogno della Chiesa. Perché bastano loro, piacevoli, in primo piano, in quel che hanno deciso essere il nuovo tempio: la tv.

Ma nel luccichio che a tutti compiace i più svegli vedono lo scintillio di uno strano, nuovo e antichissimo livore.


Avvenire.it, 17 novembre 2010 - La tv tribunizia/2 La propaganda eutanasia - Gli «indiscutibili» sanno disinformare di Lucia Bellaspiga

Sa parlare è Roberto Saviano, le «orazioni» sono «civili» e i monologhi «potentissimi»: lo asseriscono i comunicati di Rai 3 e tutte le agenzie di stampa devotamente rimbalzano. E chi oserebbe dissentire? Nemmeno chi non ha mai letto una sola riga di Saviano se la sentirebbe più di mettere in dubbio le sue verità assolute: perché Saviano è Saviano, un po’ come Sanremo. E così, di guru in guru, se un Saviano e un Fazio uniscono le sapienze, il risultato non può che essere indiscutibile. La tecnica è antichissima, valida ai tempi delle Catilinarie come a quelli del tivucolor: se passa l’assunto che l’oratore non solo non può mentire ma nemmeno sbagliare, ciò che dice è sempre «indiscutibilmente» vero e chiunque lo metta in dubbio sarà esposto al pubblico ludibrio. Raggiunto tale risultato, non sarà più nemmeno necessario fingere di rispettare le regole minime del dibattito e della ricerca di una verità: largo ai tribuni e ai loro monologhi, senza mai un contraddittorio. E il pubblico (del foro come del piccolo schermo) si berrà tutto come vero: «L’ha detto la tivù!».

Anche la Rai di Fabio Fazio è (o dovrebbe essere) servizio pubblico, anche la sua è pagata da tutti gli italiani (almeno quelli che versano il canone), eppure l’uso che ne fa, in compagnia dei suoi ospiti, è di un salotto privato dal quale diffondere e inculcare quelli che ritiene «valori» e «princìpi di civiltà» (è suo diritto), ma che per la gran parte degli italiani sono disvalori gravissimi (e tener conto di questo è invece suo preciso dovere).

Anche l’altra sera, com’è suo costume, la tribuna l’ha quindi concessa, senza contraddittorio alcuno, oltre che a Saviano anche a Beppino Englaro e a Mina Welby, chiamati a recitare ognuno il suo "elenco" di verità inoppugnabili. Nessuno toglie loro il diritto di avere certezze e convinzioni, più o meno fondate, ma nessuno può nemmeno imporle a noi come fossero Vangelo, eppure questo è stato fatto ancora una volta ai milioni di telespettatori seduti davanti a "Vieni via con me". Togliere la vita a Eluana è stata cosa buona e giusta? Basta che lo dicano Fazio, e Saviano, ed Englaro che è pure suo padre (come potrebbe sbagliare?), non occorre ascoltare con onestà intellettuale le voci opposte. Nessuno spazio alla sacralità della vita e al rifiuto di una pratica spaventosa come l’eutanasia, sebbene questa agiti ancora nella nostra coscienza memorie recenti e colpe incancellabili, e nel nostro Paese sia un reato punito alla stregua di un omicidio.

Si gioca con le parole, si evita accuratamente di pronunciare il termine "eutanasia" (salvo invocarla in altre sedi e occasioni), la si sostituisce con «principio di diritto sancito dalla Cassazione in seguito alla vicenda Englaro». Non si dice, però, che dal giorno in cui la Cassazione stessa spianò la strada all’eutanasia di Eluana, e quindi di chiunque volesse seguire le orme di quel padre, nessuno lo ha fatto. Né si racconta la verità su Eluana, perché farlo lascerebbe attoniti gli italiani, ancora convinti che fosse malata, che fosse terminale, che vivesse attaccata a macchine, che soffrisse, e magari pure che la sua volontà fosse morire.

E come mai ne sono convinti? Lo raccontarono all’epoca i Saviano e i Fazio... Di una Eluana condannata a «farsi tenere in vita per decenni dalle macchine» scrisse Saviano nel febbraio 2009, alimentando l’errore (speriamo in buona fede, forse non conosceva la materia); di lei parlò come di un «viso deformato, smunto, gonfio, le orecchie callose» e addirittura «senza capelli» (di nuovo lo giustifichiamo: a differenza nostra, la descriveva senza averla vista). E Fazio? Prima e dopo la morte della giovane invitò Englaro nel suo salotto privato di Rai 3, senza confronto, senza dibattito. Eluana fu spenta il 9 febbraio 2009, il 21 febbraio Fazio in diretta abbracciava Englaro: «Grazie a nome di tutti gli italiani per ciò che ha fatto». Di tutti gli italiani. È questo il suo stile, questo il giornalismo dei Fazio e dei Saviano. «Il giornalista non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento. Non deve intervenire sulla realtà per creare immagini artificiose» (Carta dei doveri del giornalista, 8 luglio 1993).


Avvenire.it, 17 novembre 2010  - TV E ATTACCHI ALLA VITA - "Vieni via...", le famiglie dei malati: «Così ci hanno umiliato» di Pino Ciociola

Stavollta pensano sia stato passato il segno: i familiari di chi è in stato vegetativo – e le loro associazioni – hanno preso malissimo la trasmissione di Fabio Fazio, le sue parole e quelle dei suoi ospiti. Prendiamo Massimo Pandolfi, presidente del club “L’inguaribile voglia di vivere”, che ha scritto una lettera aperta a Fazio e Saviano: «Magari non ve ne siete neppure accorti, o magari sì, ma parlando di Eluana Englaro e Pier Giorgio Welby avete offeso e umiliato centinaia di migliaia d’italiani».

Spiega a Saviano perché: «Ripeta certe cose lunedì prossimo a tutti quegli italiani che resistono, e soprattutto esistono, ad esempio attaccati a un respiratore. Se vuole, gliene porterò una bella rappresentanza in studio. Dica loro: “La vostra non è vita”, ma guardando in faccia i malati o i disabili e le loro mogli, i mariti, i figli, gli amici. Vedrà che scoprirà un altro mondo». Post scriptum, infine, per il conduttore: «Caro Fazio – chiude Pandolfi – faccia pure l’ultrà radicale con la faccia del bravo ragazzo. Ma almeno racconti la verità. E su Eluana lei ha detto a milioni di italiani una grande bugia: era in coma da 17 anni. No, signor Fazio. Prenda un vocabolario e impari cosa vuol dire la parola coma. Non è un dettaglio, è una deriva».

È stata «una trasmissione a senso unico che mina la libertà di espressione – secondo Fulvio De Nigris, direttore del Centro studi per la ricerca sul coma “Gli amici di Luca” –. Ma è possibile definire il coma in maniera così distorta e dare della convivenza con la disabilità e la malattia un’immagine così fosca e deprimente?». Con quella trasmissione «sembrava essere tornati indietro nel tempo quando, attraverso le parole del padre di Eluana, si costruiva l’immaginario collettivo delle persone in stato vegetativo come attaccati a tubi e macchinari, in fine vita e senza prospettive di relazioni», mentre «sappiamo che non è così» e, soprattutto, lo sanno «i tanti familiari che vivono questa condizione e che anche oggi (ieri, ndr) ci hanno telefonato. Vorrebbero avere diritto di replica ma, a loro, sembra non sia dovuto».

Il malumore è forte e diffuso. In quella trasmissione «sono state pronunciate frasi fortemente offensive verso chi segue valori diversi, e siamo il 99,9 per cento – dice Claudio Taliento, vicepresidente dell’"Associazione Risveglio" –. Non si possono definire "non vite" o "vite indegne" quelle di chi è in stato vegetativo: stessero dunque attenti a esprimere le loro opinioni», che «vanno rispettate per carità», però espresse «senza offendere chi opera scelte diverse». Ancora: «La cosa aberrante – sottolinea Taliento – è che si sta sviluppando intorno al signor Englaro un fenomeno mediatico» ed oltre tutto «senza mai invitare una persona che vive o ha vissuto una situazione come la sua».

Margherita Coletta, presidente dell’associazione "Bussate e vi sarà aperto" – che andò più volte a trovare Eluana a Lecco – si dice «sdegnata» per una trasmissione, «dal titolo inappropriato, Vieni via con me, visto che Eluana è stata costretta "ad andar via" per decisioni di altri». Domanda, la Coletta, «in un Paese che si definisce democratico come si possa mandare in onda una trasmissione nella quale gli ascoltatori non possono ascoltare voci che dissentono da quanto viene detto».

Sono arrabbiati anche diversi operatori della giustizia: «La lettura in trasmissione degli stralci della sentenza della Cassazione dell’ottobre 2007 era corretta – spiega Rosaria Elefante, presidente dell’Associazione nazionale biogiuristi – peccato che nessuno tuttavia fosse lì a raccontare come per Eluana non sia stato applicato nulla di quanto previsto in quella sentenza: un consenso attuale e informato lei non l’aveva mai dato, come neppure non aveva mai espresso il rifiuto delle cure e, soprattutto, lo stesso signor Englaro dichiara "noi siamo stati la voce di Eluana" e appunto andava indagata l’autentica volontà di Eluana prima di dare voce a dichiarazioni, presunte, della ragazza».

Anche nel "Palazzo" l’umore non è dei migliori. Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, scrive una lettera aperta che oggi pubblica Libero: «Caro Saviano, in tanti abbiamo creduto che fossi un uomo di coraggio. Invece eccoti lì, davanti alle telecamere di Vieni via con me, a raccontare la storia di Welby senza mai avere il coraggio di pronunciare la parola fatidica: eutanasia», usando invece «sempre, accuratamente, solo il termine "accanimento terapeutico", come se intubare una persona costituisse di per sé una forma di accanimento». Pier Ferdinando Casini, leader Udc, trova «sbagliato che siano andati in onda solo Mina Welby e Beppino Englaro, che hanno parlato di eutanasia e che non si sia ascoltato chi vuole vivere». Perciò a Casini piacerebbe «che in una trasmissione di così grande audience del servizio pubblico non si ascoltasse una campana sola, ma ci fosse un confronto tra chi la pensa diversamente sul tema della vita».


Fini nel Paese delle meraviglie. Vera e falsa destra pubblicata da Massimo Introvigne il giorno mercoledì 17 novembre 2010

Il giornalista Massimo Gramellini non è certo un uomo di destra. Ma è difficile dargli torto quando, sulla prima pagina de La Stampa del 17 novembre, scrive che quelli proposti da Gianfranco Fini come elenchi dei valori della destra «non erano elenchi, ma frasi fatte». La questione può apparire priva di senso in un’epoca di «dittatura del relativismo» – l’espressione, com’è noto, ricorre spesso nel Magistero di Benedetto XVI – in cui ognuno dà alle parole il significato che più gli aggrada. Il dittatore segreto del mondo che ci circonda è il malvagio Humpty Dumpty di Attraverso lo specchio (1872), il fortunato seguito che Lewis Carroll (1832-1898) diede al suo Alice nel Paese delle meraviglie (1865). Nel sesto capitolo di Attraverso lo specchio troviamo questo dialogo fra Alice e Humpty Dumpty:
«Quando io uso una parola, – disse Humpty Dumpty in tono d'alterigia, – essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
- Si tratta di sapere, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
- Si tratta di sapere, – disse Humpty Dumpty, – chi ha da essere il padrone. Questo è tutto».

In questa pagina di grande letteratura troviamo un tema sviluppato da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona del 2006 e nelle encicliche Spe salvi del 2007 e Caritas in veritate del 2009: o la ragione accetta di farsi misurare dalla verità oppure sarà misurata soltanto dal potere. Che cosa sia la verità o che cosa significa una parola sarà deciso dal «padrone», da chi controlla la comunicazione e i media. Se tutte le parole hanno un padrone, che opera contro la verità, siamo di fronte allo scenario apocalittico evocato da un altro geniale scrittore inglese, don Robert Hugh Benson (1871-1914) nel suo Il Padrone del mondo (1907).

L’Apocalisse e la sacra Scrittura non ci portano lontano dal nostro tema. È qui infatti che troviamo l’origine delle espressioni «destra» e «sinistra». Un commentario alle lettere di san Pietro e alla lettera di san Giuda spiega che dopo l’Ascensione «Cristo è ormai “alla destra” di Dio. Per comprendere tale posizione bisogna ricordare la valenza positiva della “destra” nella Scrittura e nella civiltà antica e il significato negativo della sinistra. […] [Nella Scrittura] la destra assume il significato di lato positivo, fortunato, salvifico, divino, mentre la sinistra assume significato negativo, maledetto e satanico; così i salvati-benedetti saranno collocati da Gesù alla destra e i maledetti alla sinistra (cfr. Mt 25, 31-46)» (Michele Mazzeo, Lettere di Pietro, Lettera di Giuda, Paoline, Milano 2002, p. 141).

Non è dunque un caso se dopo la Rivoluzione francese, restaurata la monarchia, coloro che si opponevano ai principi rivoluzionari andarono a occupare la parte destra dei banchi del Parlamento e coloro che accettavano tali principi o almeno non li condannavano radicalmente la parte sinistra, così dando origine ai moderni concetti politici di «destra» e «sinistra». Agli inizi del secolo XIX che cosa queste parole volessero significare era dunque chiaro. Era di destra chi si opponeva ai principi della Rivoluzione francese. Era di sinistra chi non vi si opponeva.

Ma è necessario un rapido approfondimento. La destra non era costituita da semplici nostalgici della monarchia così com’era esistita prima del 1789. Secondo l’osservazione di un pensatore cattolico della generazione successiva, René de La Tour du Pin (1834-1924), chi avversa la Rivoluzione francese non è interessato a tornare al 1788, perché sa che un anno dopo verrà il 1789. La monarchia del 1788 soffriva già dei morbi dell’assolutismo e del centralismo, che la Rivoluzione non avrebbe curato ma esasperato. L’ordine cristiano della monarchia tradizionale – che è cosa ben diversa dalla monarchia assoluta – riconosceva che sopra al sovrano c’è un limite costituito dalla legge di Dio e dalla legge naturale. Il sovrano non può emanare norme che contraddicano la legge iscritta da Dio nella natura: se lo fa, non si tratta di vere leggi né si è tenuti a rispettarle. Se rispetta questo limite in alto, il sovrano rispetterà anche un limite in basso, costituito dai diritti non del «cittadino» astratto, invenzione dell’Illuminismo, ma delle persone concrete riunite in comunità e corpi intermedi.

La scienza politica formulerà poi questo rispetto del limite in basso come principio di sussidiarietà e come federalismo. Ma non c’è rispetto del limite in basso senza rispetto del limite in alto. La destra si oppone quindi a ogni potere assoluto, solutus ab, sciolto dal limite della legge naturale in alto e quindi sciolta dal limite del rispetto dei diritti delle persone e delle comunità in basso. Come scrive un pensatore cattolico del secolo XX, il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, «l’atteggiamento della “destra” concorda maggiormente con i princì pi di ordine, di gerarchia, di autorità e di disciplina, che contraddistin guono l’ordine medioevale. “Sinistra” significa poi l’allontanar si da questi princìpi e perciò, ipso facto, l’esser legati ai prin cìpi opposti» (Prefazione per un’edizione tedesca, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura di Giovanni Cantoni. Sugarco, Milano 2010, p. 336).

L’«ordine medioevale» però non ha nulla a che fare con la monarchia assoluta, proprio perché non è «assoluto» ma riconosce i limiti in alto e in basso. E la destra non si caratterizza solo per un momento negativo – il rifiuto della Rivoluzione francese, e del processo di allontanamento dalla verità naturale e cristiana che l’ha preceduta e seguita – ma anche per un momento positivo che fa riferimento in alto alla legge naturale, il cui autore è Dio, e in basso ai diritti della persona, dei corpi intermedi e delle comunità locali – di qui il principio di sussidiarietà e la preferenza federalista – garantiti appunto dal rispetto della legge naturale. Le forme di Stato e di governo sono secondarie rispetto a questa definizione di destra, che è primaria. La democrazia, per esempio, può rispettare la legge naturale e il principio di sussidiarietà, ma – come insegna la dottrina sociale della Chiesa, fino a Benedetto XVI – non garantisce affatto in modo automatico tale rispetto.

Se per «Rivoluzione» intendiamo non solo la Rivoluzione francese, ma un processo più ampio che nega la legge naturale iniziato ben prima del 1789 e che continua fino ai nostri giorni, la geografia della politica – continua Corrêa de Oliveira nel brano citato – diventa più chiara. «Vi è stata una Rivoluzione. Anche gli uomini si lasciano classifi care secondo tre tendenze: quelli che riconoscono la Rivoluzio ne – almeno confusamente – e vi si contrappongono: la destra; quelli che sono al corrente della Rivoluzione e la portano a ter mine rapidamente o lentamente: la sinistra; quelli che non sanno della Rivoluzione in quanto tale, ne percepiscono solo aspetti superficiali e si sforzano, mediante la conservazione dello status quo, di trovare una pacificazione con la Rivoluzione: il centro» (ibid., pp. 336-337). Capita che le necessità della politica impongano alleanze di centro-destra o di centro-sinistra. In tal caso, almeno in tesi, «centro e destra si sforzano di lottare contro la Ri voluzione. Centro e sinistra si sforzano di far progredire la Rivoluzione senza però cadere nell’estremo» (ibid., p. 337).

Ma ben presto arriva Humpty Dumpty, il quale è precisamente qualcuno che pensa di avere un potere «assoluto», sciolto da ogni limite morale, anche sulle parole. Dal momento che la parola «destra», per ragioni che come si è visto sono antiche addirittura quanto la Bibbia, evoca valori che suscitano un certo consenso anche elettorale,  a mano a mano che il processo rivoluzionario avanza nascono quelle che Corrêa de Oliveira chiama «false destre». In particolare, nel corso del secolo XIX emerge una prima «falsa destra», costituita da coloro che accettano i principi liberali nella loro versione del 1789 ma rifiutano il socialismo. E con l’affermazione del marxismo-leninismo nel secolo XX nasce anche una seconda «falsa destra», costituita da quei socialisti che rifiutano il comunismo, pur mantenendo fermi numerosi elementi del pensiero socialista. E così via. Le «false destre» sono innumerevoli, perché il loro orizzonte si sposta continuamente. Rifiutano l’ultima fase, la più estrema, del processo rivoluzionario, ma accettano le fasi precedenti. E queste «destre» sono chiamate a buon diritto «false» perché, a ogni generazione, accettano porzioni sempre più grandi dei principi della sinistra.

La questione si complica con il «fusionismo». Spesso si pensa che questa espressione sia nata negli Stati Uniti per designare l’idea di mettere insieme tutte le possibili «destre» per sconfiggere la sinistra. In realtà nacque già tra i monarchici francesi alla fine del secolo XIX, dalla proposta della famiglia Orléans di riunire tutti i monarchici – che fossero cattolici ostili al 1789, liberali disposti a difendere almeno alcuni aspetti della Rivoluzione francese e anche massoni e anticlericali –  intorno al comune progetto di restaurare la monarchia in Francia. I fascismi sono, a loro modo, «fusionismi» che cercano di mettere insieme destre diverse: quella vera e quelle false. I cartelli elettorali «fusionisti» spesso funzionano, tanto più nel sistema elettorale degli Stati Uniti. Ma dottrinalmente il «fusionismo» implica un certo relativismo, un certo atteggiamento che fa prevalere l’interesse elettorale sulle idee. E in un clima relativista la falsa destra più omogenea al relativismo fatalmente prevale sulle altre destre e dà il tono a tutto l’insieme. Né va sottovalutata la forza di corruzione del relativismo, nel mettere al suo servizio parole d’ordine apparentemente «di destra», il cui senso è poi sovvertito fino a significare il contrario. «Quando a una parola faccio far tanto lavoro, – disse Humpty Dumpty, – la pago di più» (Attraverso lo specchio, cap. 6).

Che c’entra tutto questo con Gianfranco Fini? C’entra molto, perché chi mi ha seguito fin qui dovrebbe avere ricavato almeno il criterio per distinguere la destra autentica dalle false destre. È vera destra quella che chiede al potere di rispettare un limite in alto costituito dalla legge naturale, quindi – come logica conseguenza – un limite in basso, definito dal principio di sussidiarietà come rispetto da parte dello Stato dei diritti delle persone, dei corpi intermedi e delle autonomie locali. La posizione di Fini è molto confusa quanto al limite in basso. Se talora afferma di non opporsi al federalismo, più spesso difende il centralismo e lo statalismo insieme al pilastro economico che li sorregge, il sistema «tassa e spendi» che caratterizza l’assistenzialismo di Stato.

Come si è visto, c’è un criterio sicuro per prevedere se una certa politica rispetterà il limite in basso. Occorre chiedersi se comincia con il rispettare il limite in alto costituito dal riconoscimento teorico e pratico dell’esistenza di una legge naturale. Nel libro da lui firmato – non importa qui se davvero scritto da lui - Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989 (Rizzoli, Milano 2009) Fini afferma di rifiutare il «dogmatismo […] di tipo religioso» (ibid., 118). Da questo rifiuto fa subito discendere l’affermazione del diritto degli uomini e delle donne all’autodeterminazione in campo bioetico e la forte rivendicazione della posizione a suo tempo assunta in tema di procreazione assistita (ibid., 119), ma anche – perché non si tratta solo di bioetica – un’idea di nazione, quindi di cittadinanza – con riflessi sulla questione degli immigrati – come una realtà dinamica, plastica, plasmabile che continuamente muta e si ridefinisce nel tempo.

A proposito di Eluana Englaro (1970-2009), Fini plaude alla sua soppressione in nome di una presunta «sovranità del singolo […] su se stesso, sulla propria vita e sul proprio lasciare la vita» (ibid., 103). Gli esempi potrebbero continuare – in ogni occasione, Fini insiste sull’urgenza di un riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, anche omosessuali – ma forse non occorre insistere troppo per convincersi che Fini non riconosce nella legge naturale un limite per l’azione dello Stato e delle sue leggi a proposito della vita e della famiglia. Non occorre, come si dice, bere il mare per concludere che è salato.

Non si tratta di problemi secondari: anzi, come ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate sono questi oggi i problemi cruciali della vita sociale e il terreno dove si gioca la battaglia per la definizione della vera libertà e del vero futuro dell’uomo. «Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi – spiega l’enciclica  – quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio» (n. 74); «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Nel momento in cui Fini ribadisce la sua posizione, antitetica a quella cattolica, sulla fecondazione assistita, sul caso Englaro e sulle unioni omosessuali non sta parlando di questioni marginali, ma del «campo primario e cruciale» della politica.

Non si tratta, naturalmente, di affermare che solo un cattolico o un credente può essere «di destra», né di arruolare la dottrina sociale della Chiesa al servizio delle scelte tecniche di una parte politica, il che sarebbe sbagliato e arbitrario. Certo è un fatto storico che la destra nasce cattolica, ma la legge naturale è accessibile alla ragione umana anche a prescindere dalla fede e quindi s’impone a ogni uomo dotato di retta ragione: che sia credente o non credente, che sia cattolico, ebreo o buddhista.  Non si tratta dunque d’indebita ingerenza della Chiesa o del «dogmatismo» religioso – una vecchia espressione massonica, che è significativo vedere ripresa da Fini – ma di riconoscere o meno la legge naturale. Se le parole hanno un senso, e non siamo nel regno di Humty Dumpty, chi riconosce la legge naturale è di destra e chi non la riconosce è di sinistra.

Proprio in tema di fine vita, Fini accusa i sostenitori del mantenimento in vita di Eluana Englaro di essersi mostrati prigionieri di vecchie «linee […] dell’“essere”, vale a dire le linee, in definitiva rassicuranti ma immobili, dell’“identità”» (ibid., 103), mentre si tratta di passare alle «linee contemporanee del “fare”» (ibid.), a una politica giudicata «per ciò che realizza» e non «per ciò che rappresenta» (ibid.). «In principio era l’azione», per dirla con il Faust di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) e con i futuristi tanto cari a Fini. Ma per la vera destra in principio era il Verbo, cioè la verità, e Faust non è un modello ma una semplice vittima del Diavolo.

Né si tratta solo di bioetica, perché quelle di Fini sulla vita e sulla famiglia sono applicazioni di principi generali sull’autodeterminazione, e su una libertà svincolata da una legge morale naturale e non negoziabile, che emergono anche in altri campi. L’evocazione della libertà e del futuro non è specificamente «di destra». Né lo è quella della legalità come obbedienza formale alla legge, a meno che sia accompagnata dalla chiara affermazione secondo cui le leggi che non rispettano i principi del diritto naturale non sono vere leggi. Inoltre, il rispetto della legge naturale e del principio di sussidiarietà non può non accompagnarsi a un giudizio storico preciso su chi ha costruito una politica che ha teorizzato la negazione di quella legge e di quel principio, dai padri della Rivoluzione francese a molti di quelli del Risorgimento, ideologia statalista e centralista da tenere distinta dal fatto storico dell’unità politica dell’Italia. I giudizi storici di Fini vanno precisamente in senso contrario.

In un contesto democratico nessuno può naturalmente vietare a Fini di presentare le sue idee e i suoi programmi all’attenzione degli elettori. Si può però contestare la sua pretesa di spacciarli come «di destra». E si può – anzi, si deve – svolgere un’opera pedagogica che richiami le nozioni di vera e di falsa destra. Humpty Dumpty, quando pretende che il significato delle parole sia indipendente dalla realtà e sia diventato una questione di puro potere, non è soltanto grottesco ma è anche pericoloso. Va combattuto seriamente. Alimentando la speranza con la filastrocca che Alice «ripeteva dolcemente a se stessa:
Humpty Dumpty sedeva sul muro,
Humpty Dumpty cascò sul duro,
tutti i fanti che accorsero tosto
non seppero alzarlo e rimetterlo a posto» (Attraverso lo specchio, cap. 6).


Intervista / la psicologa - «Ritmi frenetici ed egoismo E così la società si disgrega» - Anna Svensson: molti anziani vengono dimenticati da figli e nipoti. Non di rado si scoprono corpi di persone decedute da mesi - DA STOCCOLMA di Francesco Saverio Alonzo – Avvenire, 17 novembre 2010

C he la solitudine stia diventando un problema sociale non indifferente a Stoccolma, una delle città più moderne del mondo, viene confermato dalla psicologa Anna Svensson. La studiosa ha dedicato al fenomeno una ricerca ap profondita. «In ultima analisi – dice la dottoressa Svensson –, si tratta di un rigetto societario che esclude, per ragioni di puro e goismo o di incapacità di adeguamento ai modelli più freneti ci di vita, intere fasce di cittadini che una volta, nell’ambito fa miliare, e ancor meglio nell’accogliente comunione della civiltà contadina, trovavano persone con le quali dividere la vita quo tidiana in un clima di reciproca fiducia e di mutuo aiuto. Gioie e dolori sono difficili da sopportare da soli».

Ma questa tendenza si riscontra sol tanto per le persone anziane?

Molti anziani vengono abbando nati, dimenticati da figli e nipoti, che vivono con ritmi di vita e con e sigenze che richiedono il massimo della loro concentrazione egoisti­ca. Non di rado si scoprono i corpi di persone decedute da mesi senza che nessuno si sia preso la pena di constatare come stessero. In que sto senso, è molto meglio per una persona anziana scegliere di vivere nelle strutture assistenziali create dallo Stato dove, oltre ad u sufruire di ogni comodità e di assistenza sanitaria, può in contrare altra gente sola, stabilendo nuove conoscenze ed a micizie, che aiutano a vivere.

Lei ritorna sugli anziani. Ma moltissime delle persone che vi vono sole sono giovani o nel pieno vigore degli anni. Perché scel gono di isolarsi?

Non lo fanno certo di proposito. In moltissimi casi, sono indi vidui arrivati in città per far carriera o studiare o cercare un la voro e, con i prezzi proibitivi degli affitti di Stoccolma, vengo no costretti a vivere in spazi minimi. Spesso si tratta di persone reduci da divorzi, che vivono sole perché non trovano altre com pagnie. In ogni caso, nonostante la tanto vantata libertà di scel ta che dovrebbe esistere nelle grandi città, molti devono vivere forzatamente da soli. O perché non conoscono nessuno o per ché non hanno i mezzi o l’indole per cercare amicizie in un am biente dove non è facile rompere il ghiaccio.

Si dice che nei bar ci si può incontrare facilmente...

In realtà, rimane la triste consolazione di una sbornia, ma, do po la bevuta, a prezzi stratosferici, le amicizie momentanee si sciolgono e ognuno torna a casa propria più solo e più sconso lato di prima. Non parliamo poi dei pericoli, fisici e psicologici, ai quali è esposto chi vive da solo. In caso di malattia, non c’è nessuno che possa prestare assistenza e la tristezza della pro pria situazione può provocare depressioni, talvolta fatali, in chi non ha una persona vicina con cui confidarsi. La solitudine, in sostanza, è un grave male sociale, assai trascurato, ma reale, di cui rimane vittima una quota sempre più vasta di cittadini.


A Stoccolma il 59% vive da solo. Un suicidio choc scuote il Paese - DA STOCCOLMA FRANCESCO SAVERIO ALONZO – Avvenire, 17 novembre 2010

È di pochi giorni fa la notizia choc che un gio vane svedese, Marcus Jannes, 21 anni, soffe rente da tempo di depressione, si è tolto la vi ta riprendendosi con una telecamera collegata con tutti gli utenti della rete 'Flashback' di Facebook, i deata da un suo coetaneo, Jan Axelson, per aprire di scussioni in rete riguardanti ogni tema scabroso, dal l’uso di droghe al sesso, dalle indiscrezioni sulle fa miglie dei personaggi famosi alle avventure extraco niugali.

Marcus sembra aver agito in perfetta lucidità per por re fine alle proprie sofferenze psichiche, ma hanno forse contribuito al gesto fatale i commenti ironici degli altri utenti, i quali non credevano alla sua deci sione e lo definivano un vigliacco che non avrebbe mai osato suicidarsi davanti a tutti.

C’è stato anche chi ha reagito in modo più 'umano', avvertendo la polizia, ma quando gli agenti e l’au toambulanza che li seguiva (nel giro di appena ven ti minuti) sono giunti nell’appartamento in cui Mar cus viveva da solo, il giovane era già spirato.

E allora almeno una parte del Paese ha dovuto com mentare: quanta ricchezza, quanta modernità tec nologica, ma anche quanta solitudine. A mano a ma no che gli svedesi vedono 'progredire' la loro nazio ne, aumenta il numero di coloro (50% della popola zione) che vivono da soli, senza una persona con cui condividere gioie e dolori, chiusi in miniappartamenti dotati delle più avanzate risorse informatiche ed e lettroniche, ma privi di calore umano. A Stoccolma, la cifra dei single arriva al 59%, un record mondiale. Ben distanziate sono altre nazioni europee indu strializzate (Finlandia 39%, Danimarca 37%, Germa nia 34%), mentre i Paesi del bacino mediterraneo fan no registrare cifre fra il 10 e il 15%. Sebbene sussista ancora in Europa il mito del 'modello svedese', l’al bero della solitudine al quale si deve aggrappare la metà degli abitanti di questo Paese 'felice' affonda le proprie radici nella politica perseguita dai governi socialdemocratici durante gli anni Settanta, ben po co attenta alla famiglia. Attualmente, tutte le donne lavorano e sono economicamente autosufficienti, matrimoni e divorzi si pareggiano (30.000 'si' ed al trettante separazioni). E trentamila sono gli aborti le gali annui. È vero che lo Stato è presente dappertutto con le sue solide strutture assistenziali, ma la solitudine?

«La nostra società si sta sviluppando verso un indivi dualismo che non deve essere necessariamente in terpretato in senso negativo», sostiene Lars Tornstam, professore di Sociologia presso l’Università di Up psala. E prosegue: «In certe nazioni, si è costretti a convivere con altri componenti della famiglia per ra gioni di dipendenza economica, e non di rado tale convivenza viene interpretata come mancanza di li bertà per il singolo, che deve sempre comportarsi in modo conforme alle esigenze degli altri. Qua da noi, chi vive da solo ha spesso una vasta rete di cono scenze e di amicizie che lo rende molto più libero di scegliere i contatti sociali che preferisce. Oggi – con clude Tornstam – la percentuale più alta di single si riscontra fra i trentenni di ambo i sessi, spesso redu ci da esperienze matrimoniali fallite. Ma in quella fa scia di età si registra anche il più elevato numero di utenti di ogni forma di comunicazione elettronica, come il 'famigerato' Flashback, Facebook, Twitter e tutte le possibilità offerte da Internet. In questo, la Svezia è all’avanguardia mondiale, e chi vive solo non è in realtà più solo. Inoltre, se uno lavora tutto il gior no in mezzo a tanta gente, può trovare rilassante di stendersi in solitudine». Ciò non toglie che continuamente si debbano ascol tare le espressioni di disagio, sui giornali, alla radio o in televisione, di moltissime persone che vivono so le e si sentono emarginate. Che la solitudine sia dan nosa per la salute, addirittura più dell’obesità e del l’alcolismo, riducendo del 50% la possibilità di vive re oltre la media, è confermato, ad esempio, da uno studio condotto su un campione di 300.000 persone dall’Università dello Utah, negli Usa.

«La mancanza di contatti sociali può provocare il de terioramento dell’organismo umano al pari di 15-20 sigarette fumate al giorno», spiega il professore Denny Vaagerö, esperto di sociologia medica, facendo no tare l’influsso delle depressioni da solitudine sulla pressione arteriosa. «Parenti ed amici possono alleg gerire la situazione, ed è proprio la mancanza di con tatti sociali che può risultare nociva – dice la dotto ressa Julianne Holt dell’Università dello Utah –. Quan do si è legati a un gruppo e ci si sente partecipi dei destini degli altri, si dà un senso alla propria vita e si ha maggior cura di se stessi. Non per nulla, le stati stiche indicano che le persone celibi vivono meno di quelle sposate».


Non date al peccato l’ultima parola - idee - Il cardinale di Bologna legge l’orizzonte della misericordia di Dio alla luce delle parole di due grandi scrittori: Manzoni e Dostoevskij. - Il perdono come balsamo contro la disperazione DI Carlo Caffarra – Avvenire, 17 novembre 2010

L’ uomo oggi – intendo l’uomo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del perdono da parte di Dio, e quindi l’esperienza della sua misericordia.

L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza. Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conseguenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo manzoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.

È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze.

«Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione» [ Promessi Sposi , cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più» [ VIII, 3]. Con le proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: «erano lui». Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io con le scelte della nostra libertà. Se penso a un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro. Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: «attaccata a tutti», come dice Manzoni.

La soluzione, la via di uscita sarebbe quella di un «ricominciare da capo», come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma «come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» [Gv 3,4]. Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato e in ventato altre vie palliative di liberazione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il per dono di Dio. Non li enumero tutti.

Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la negazione del male morale. È un tentativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvolto nel destino della persona umana.

Ciò non è avvenuto per caso. La negazione di Dio non ha coinciso casualmente con la negazione del ma le morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme. Nessuno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov . «Se Dio non esiste tutto è permesso»: il frutto della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Karamazov? Vengono distrutti, alla fine, dal delitto che hanno compiuto.

Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno imperiosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a «legare» la sua libertà.

È il cuore del dramma dell’uomo di oggi. Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fine di accontentarsi dei vari surrogati al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimorso. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – «precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo 'castigo' la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delitto ricada su di lui, la distruzione psicologica che segue al delitto afferma ugualmente la 'divinità della legge' » (Divo Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo, ed. Messaggero di Padova). Ma forse oggi si è già imboccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro essere coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa. «Il mistero della coscienza verrà progressiva mente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza » ( John Searle, Il mistero della coscienza , Cortina). L’evento cristiano è la possibilità offerta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di nascere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibilità di dire in qualunque circostanza: «ora ricomincio da capo», per ché è il perdono di Dio sempre offerto all’uomo, ad ogni uomo. Dire 'Dio perdona' non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sorta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo. Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.

Ancora Dostoevskij ha espresso mirabilmente la forza rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera, nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chiede pietà. «Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ultimo giorno … Tutti saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai mansueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro turno: 'Avvicinatevi anche voi', ci dirà, 'avvicinateci, voi beoni, avvicinate vi, voi disperati'. E ci avvicineremo tutti senza timore… E i saggi e i benpensanti diranno: 'Signore, per ché accogli costoro?'. 'Io li accolgo… Perché nessuno di loro si è creduto degno di questo favore'. E ci tenderà le braccia e noi ci precipite remo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto… E capiremo tutto… Signore venga il tuo Regno ». La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della prostituta perdonata e che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quel l’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che E gli rivela la sua divinità.