lunedì 29 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - E il lupo disse all’agnello: “Intollerante!” - 28 Nov 2010 -  Antonio Socci Da “Libero” 28 novembre 2010
2)    IL RIFIUTO DI OGNI VITA UMANA È IL RIFIUTO DI CRISTO - BOLOGNA, domenica, 28 novembre 2010 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo l’omelia che l’Arcivescovo di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra, ha pronunciato sabato 27 novembre nella Chiesa di Santa Maria della Vita in concomitanza con la Veglia voluta dal Santo Padre per la vita nascente.
3)    LA BASSA NATALITÀ È LA MORTE DI UN POPOLO - di padre Piero Gheddo
4)    La fragilità di una nascita Pigi Colognesi - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net
5)    COLLETTA/ 1. I risultati 2010: 9400 tonnellate raccolte +9%. GUARDA IL TG Redazione - domenica 28 novembre 2010 – il sussidiario.net
6)    COLLETTA/ 2. La "formula" della gratuità batte i tanti format dell'indifferenza Alessandro Banfi - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net
7)    RUSSIA/ La "teologia del cuore" di Antonij Blum contro il nichilismo di Sartre (e nostro) Anna Smaina-Velikanova - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net
8)    J’ACCUSE/ Quel grande inganno che ci fa buttare tutto, dal cibo ai bambini Carlo Bellieni - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - E il lupo disse all’agnello: “Intollerante!” - 28 Nov 2010 -  Antonio Socci Da “Libero” 28 novembre 2010

“Intolleranti!”. Così – testualmente – giovedì scorso il regime comunista cinese ha definito la Chiesa cattolica che protestava per l’ennesimo abuso di Pechino: il regime ha nominato vescovo un suo burocrate pretendendo di imporlo ai cattolici.

Avete capito bene: i persecutori definiscono “intolleranti” i perseguitati. Non solo. I carnefici comunisti addirittura aggiungono che la vittima, cioè la Chiesa, “limita la libertà religiosa”. Testuale. In queste surreali e sfacciate dichiarazioni c’è tutta l’assurdità del nostro tempo. 

I comunisti cinesi hanno massacrato i cattolici costringendoli alle catacombe, hanno rinchiuso nei loro bestiali lager sacerdoti e vescovi, facendoli crepare, hanno torturato in ogni modo i credenti, pure imponendo loro dei burocrati di regime come vescovi, ma quando le vittime protestano i carnefici li definiscono “intolleranti”.

Invece di farsi massacrare e perseguitare in silenzio questi odiosi cattolici osano perfino lamentarsi. Che pretese.

I compagni cinesi fanno come il lupo di Fedro che accusava l’agnello di prepotenza. Ma il lupo di Fedro ha molti emuli anche in Italia, fra i compagni italiani e nella sinistra tv che fa “Vieni via con me”.

L’altroieri per esempio sull’Unità Gianni Cuperlo, braccio destro di D’Alema e già leader dei giovani comunisti, occupandosi della richiesta del Cda della Rai di far parlare anche i malati che lottano per la vita a “Vieni via con me” (come hanno potuto farlo la Welby ed Englaro) ha testualmente scritto: “considero questo atto un grave errore di metodo e di principio”, addirittura “un precedente inquietante”.

Cuperlo ha bollato questa richiesta di pluralismo e di libertà di parola come una minaccia alla “concezione aperta e laica del servizio pubblico”, una “violazione” di principio con un fondo “autoritario”.

Sì, avete letto bene: autoritario non è chi usa servizio pubblico, pagato da tutti, infischiandosene perfino del consiglio di amministrazione, del presidente e del direttore generale, per imporre il proprio punto di vista come “pensiero unico”, senza tollerare storie e vite diverse.

No, “autoritario” – secondo il comunista Cuperlo – sarebbe la dirigenza della Tv che invita far parlare anche i malati silenziati e soli (sono tremila famiglie che lottano per la vita), che chiedono una volta tanto di poter far sentire il proprio inno alla vita.

Il prepotente sarebbe l’agnello.

Un rovesciamento della frittata analogo a quello di Michele Serra anche lui proveniente dalla storia comunista (si è iscritto al Pci nel 1974, quando c’era Breznev, immaginate che scuola di sensibilità umana ha avuto…).

Serra, uno degli autori del programma “Vieni via con me”, l’altro giorno sulla Repubblica è arrivato a scrivere – con tono che parrebbe ironico – che i malati che lottano per vivere, contro gravi malattie, sarebbero coloro che desiderano “rimanere in vita a oltranza” e, insieme ai cattolici che se ne fanno portavoce, li ha bollati come “forti che protestano contro deboli”.

I forti sarebbero quelli oppressi dalla malattia e silenziati dalla Tv.

Fra i “deboli” di cui parla Serra ci sarebbe la signora Welby, il cui caso in tv ha avuto da solo più spazio di tutte le tremila famiglie di ammalati che lottano “a oltranza” per la vita.

Ebbene, la signora Welby è intervenuta sulla polemica relativa al pluralismo stabilendo che “non c’è bisogno di alcun contraddittorio” (Corriere della sera, 29/11).

Ha parlato lei. Gli altri devono contentarsi di ascoltarla, ma “non c’è bisogno”, afferma la signora, che dicano la loro e raccontino a loro volta la loro storia, diversa dalla sua (che bell’esempio di tolleranza).

Naturalmente anche “la coppia milionaria Fazio-Saviano”, come li chiama Luca Volonté, fa sapere al consiglio di amministrazione e ai vertici della Rai che loro se ne infischiano della richiesta di pluralismo arrivata appunto dal Cda, perché loro fanno come gli pare e piace e, usando la tv pubblica, si ritengono in diritto di discriminare chi vogliono, a partire dai più deboli e poveri, i malati.

“Concedere” – dicono proprio così: concedere, come se la televisione fosse roba loro – il diritto di parola agli altri ammalati che incitano a lottare per la vita, è – a loro avviso – “inaccettabile”.

Ne fanno addirittura “una ragione di principio”. Sì, perché è noto che loro amano i principi. Hanno perfino chiamato il (post) comunista e il (post) fascista a declamarli: infatti è da comunisti e fascisti che dobbiamo imparare…

Il principio che Fazio e Saviano amano di più è quello per cui parlano solo loro e decidono loro chi ha diritto di parlare. Insieme ai principi amano le regole, ma per gli altri.

Di quelle che richiedono pluralismo nel servizio pubblico televisivo non si danno pensiero.

L’idea che le loro opinioni e i loro proclami senza contraddittorio siano sottoposti a un diritto di replica – affermano testualmente – “ci pare lesiva della libertà autorale, della libertà di scelta del Pubblico, e soprattutto della libertà di espressione”.

Firmato: Fabio Fazio, Roberto Saviano e gli autori di “Vieniviaconme”

Cioè, traduciamo: voi italiani pagate il canone e noi vi facciamo i nostri comizi a senso unico e se pretendete di dire la vostra o di sentire anche un punto di vista diverso ledete la nostra libertà di espressione. E addirittura “la libertà di scelta del Pubblico”.

In realtà tutti i programmi del servizio pubblico sono tenuti a rispettare sempre il pluralismo, non solo politico, ma culturale. Dopo questi precedenti c’è il rischio che in Rai ognuno cominci a fare come gli pare e piace e ognuno si appropri di un pezzo di palinsesto. Fregandosene dei vertici aziendali.

Pensate cosa accadrebbe se Rai 1 decidesse di portare al festival di Sanremo – davanti a dieci milioni di persone – un rappresentante del Movimento per la vita a fare un discorso in difesa della vita umana nascente…

Dopo il precedente di “Vieni via con me” potrebbe benissimo farlo. E il Pd? E i radicali? E la sinistra tv? E i finiani? Scatenerebbero il finimondo. Perché solo loro possono pontificare  e declamare i loro valori senza alcun contraddittorio e senza voci alternative.

Una lettrice mi ha inviato questa divertente lettera:

“Ieri per curiosità sono andata sul sito di ‘Vieni via con me’ ed ho cliccato sulla rubrica ‘i vostri elenchi’.

Ho dato un’occhiata  ai messaggi postati e c’era di tutto: elenco delle proprietà benefiche del peperoncino, elenco di quante puzzette in media fa una famiglia italiana all’anno e così via.

Allora ho voluto lasciare anche io il mio contributo ed ho elencato gli otto motivi per cui non val la pena guardare la loro trasmissione.

Alla sera sono andata a riguardarmi gli elenchi (io lo avevo inviato alle 17): c’era persino l’elenco postato due minuti prima ( 21.30), ma del mio nemmeno l’ombra… Eppure non c’era nemmeno una parolaccia! Perché allora censurare?”.

La cosa tragicomica è che questi radical-chic ogni volta si fanno belli con la famosa frase che attribuiscono a Voltaire: “non condivido quello che dici, ma sono pronto a dare la vita perché tu possa continuare a dirlo”.

A parole – per autocertificarsi tolleranti e di ampie vedute – fanno questa dichiarazione d’intenti. Dopodiché si fanno in quattro per occupare tutta la scena e silenziare o squalificare chi è diverso da loro.

Post scriptum: vorrei informare questi signori (e anche il Corriere della sera che recentemente ha usato la citazione in una campagna pubblicitaria) che quella frase, in realtà, Voltaire non l’ha mai pronunciata.

In effetti risale alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che la scrisse nel 1906 in “The Friends of Voltaire”.

In compenso Voltaire ne disse un’altra: “écrasez l’infame!”. Che vuol dire “schiacciate l’infame”, laddove “infame” sarebbe il credente. Ecco, citino questa, che è davvero di Voltaire e che esprime decisamente meglio la cultura radical-chic.


IL RIFIUTO DI OGNI VITA UMANA È IL RIFIUTO DI CRISTO - BOLOGNA, domenica, 28 novembre 2010 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo l’omelia che l’Arcivescovo di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra, ha pronunciato sabato 27 novembre nella Chiesa di Santa Maria della Vita in concomitanza con la Veglia voluta dal Santo Padre per la vita nascente.

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Cari fratelli e sorelle, non a caso per celebrare la solenne veglia per la vita abbiamo scelto questo luogo santo dedicato a S. Maria della Vita.
Acconsentendo a concepire nella nostra natura umana il Verbo, Maria accoglie la Vita a nome di tutti e a vantaggio di tutti. E’ mediante il consenso dato da essa all’angelo, che Maria si colloca alla sorgente stessa della Vita che Cristo è venuto a donare. «Generando la vita» scrive un monaco medioevale «ha come rigenerato coloro che di questa vita dovevano vivere» [Guerrico d’Igny, Disc. I nell’Assunzione di Maria, 2; PL 185, 188].
In forza di questa sua collocazione nel mistero della salvezza, Maria è posta al centro del grande scontro fra la vita e la morte, fra il potere che distrugge ed il potere che vivifica. La pagina biblica appena proclamata ci invita proprio a considerare questo scontro. Per meglio comprenderla è utile confrontarla e come leggerla assieme ad un’altra pagina della Sacra Scrittura: Ap 12,1-6.
Esiste una opposizione, un’inimicizia fra il “serpente” e la “donna” in quanto sorgente della vita. Nella pagina dell’Apocalisse il “serpente” è raffigurato come un enorme drago rosso [12,3] che raffigura Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le forze del male che operano nella storia umana.
E’ degno di molta attenzione il fatto che l’opposizione fra il Satana e la Vita, in maniera implicita nel testo che abbiamo letto e in maniera esplicita nell’Apocalisse, è presentata come opposizione al parto della donna: alla Vita nel suo sorgere. Alla fine il testo sacro sembra suggerire: il bambino che Maria – la donna vestita di sole – partorisce, il Figlio di Dio fattosi uomo, è anche la figura di ogni uomo, di ogni persona già concepita e non ancora nata minacciata nella sua stessa vita. Infatti “con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” [Cost. Past. Gaudium et spes, 22]. Il rifiuto di ogni vita umana è realmente il rifiuto di Cristo.
Il cantico che abbiamo or ora cantato a Cristo ci ha istruito circa l’esito finale dell’inimicizia fra il “serpente” e la “donna”: «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra, e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre». Facendo eco a questo cantico, un inno liturgico dice: «morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa» [Messale Romano, Sequenza della Domenica di Pasqua].
L’Agnello immolato domina ogni potere e gli eventi della storia, e afferma nel tempo ed oltre il tempo, il potere della vita sulla morte.
Illuminati da questa Parola e forti della speranza fondata sulla vittoria di Cristo, possiamo gettare uno sguardo, sia pure fugace, sulle potenze che Cristo definitivamente sconfigge.
La potenza che contrasta maggiormente la vita, la cultura della vita, è quella che, soprattutto mediante alcuni grandi mezzi della comunicazione, cerca di introdurre l’uomo dentro ad un mondo privo di ogni consistenza reale, iniziando col privare il linguaggio di ogni significato obiettivo. L’aborto non deve essere chiamato ciò che è, un abominevole delitto [Gaudium et spes], ma un mezzo per la salute riproduttiva. L’eutanasia non deve essere chiamata ciò che è, l’omicidio di un ammalato grave, ma una morte degna. La castità non deve essere chiamata ciò che è, una virtù, ma il segno di psicosi.
Ma anche la potenza di questi mezzi dovrà piegarsi al Signore. Della vittoria o quanto meno del depotenziamento dei signori di questo mondo è segno visibile il luogo dove ci troviamo: in esso la Chiesa ha affermato la dignità della persona inferma e povera.
E così è stato, così è ogni giorno anche nella nostra città. La corrente che, come un fiume, vuole spegnere nell’uomo la luce delle evidenze originarie, è come assorbita dalla fede che opera attraverso la carità: la carità verso ogni povero. E’ questa la forza che fa trionfare la vita sulla morte, la civiltà dell’amore sulla civiltà dell’egoismo.


LA BASSA NATALITÀ È LA MORTE DI UN POPOLO - di padre Piero Gheddo

ROMA, domenica, 28 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il valore della vita e delle nascite torna alla ribalta in giornali e telegiornali: la nostra Italia ha pochi bambini, gli italiani diminuiscono di più di 100.000 l’anno, sostituiti da altri popoli più giovani, in buona parte musulmani. Il prof. Angelo Bertolo, storico e scrittore, ha pubblicato nel 2007 un volume che merita di essere ripreso perché  rappresenta “una vigorosa testimonianza, mediante constatazioni di carattere storico e scientifico, utili a quanti desiderano approfondire ogni ragione in favore della vita”. Così l’europarlamentare on.le Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita, commenta il volume: Angelo Bertolo, “Fertilità e Progresso” (Campanotto editore, Udine 2007, pagg. 142, in italiano e in inglese).
L’autore conosce bene l’India ed è membro del “Rajiv Gandhi Institute for Contemporary Studies” di New Delhi. Il sottotitolo del libro precisa meglio i contenuti: “L’imminente crollo dell’Occidente”. Previsione che deriva da tutta l’indagine storica condotta nel volume, che si può sintetizzare in queste parole: “Un alto tasso di natalità è indice di progresso. Un tasso di natalità basso è indice di regresso e preannuncia la morte fisica di quella civiltà e la sua scomparsa dalla faccia della terra”.  Una relazione simile è interconnessa con il rafforzamento o l'affievolirsi del senso morale e religioso in un popolo.
Per dimostrare storicamente la verità di questo assunto, Bertolo esamina il cammino di alcune civiltà umane che si sono succedute in varie parti del mondo. La sua ricerca spazia dalla civiltà greca a quella romana, dall’India, alla Cambogia, alla nostra Italia e ad altre civiltà del mondo, sempre contrassegnate da questo segno caratteristico: il massimo tasso di natalità di un popolo coincide con la massima vitalità e splendore di una civiltà; quando il tasso di fertilità diminuisce, un periodo storico si chiude e una civiltà scompare, travolta dall’arrivo di popoli più giovani e con più alto tasso di crescita demografica.
Nel secondo e terzo secolo a.C., quando Roma era in una fase di forte espansione, di progresso inteso nel senso più ampio,  le matrone romane si dimostravano fiere di fronte alle donne etrusche e greche perché esse avevano più figli e perché il loro senso morale era più alto. E Roma, con la spinta in avanti e l’entusiasmo dei molti giovani, conquistava il mondo allora conosciuto. Al tempo del suo massimo splendore nel terzo-quarto secolo d.C., la città di Aquileia  contava più di 100.000 abitanti, forse 200.000, e tutta la zona compresa dall’attuale Friuli poteva avere una popolazione un po’ inferiore a quella attuale, forse metà di quella attuale. Poi Aquileia decade rapidamente, perde la sua carica di vitalità e la popolazione diminuisce. Due secoli dopo, quando i Longobardi arrivano in Friuli nell’anno 558, essi sono un popolo organizzato di circa 250.000 abitanti. Fra le altre cose, Paolo Diacono ci fa notare che le donne longobarde si dimostravano  fiere di fronte alle  donne romane perché esse erano più prolifiche.  E i Longobardi si sono imposti su tutta l’Italia. 
Dopo l’anno mille, si parla di ripresa della civiltà in Italia, dopo il calo demografico che tutti riconoscono dal tempo dell’Impero Romano e dopo le distruzioni causate dalle invasioni barbariche. Villani, contemporaneo di Dante, ci informa che la sua città, Firenze, in 90 anni cresce da  novemila a centomila abitanti. Tutte le città dell’Italia centrale e della pianura padana  dimostrano una crescita vigorosa. Venezia cresce. Milano cresce. Oltre che dall’espansione fisica delle città, dei suoi palazzi, lo deduciamo dalle Rationes Decimarum, i registri delle decime del tempo,  e dalle cronache di Bonvesin de la Riva, i Magnalibus urbis Mediolani.   La rinascita dopo il mille e il progresso delle città italiane è strettamente legato alla crescita demografica e all’alto senso morale e religioso delle popolazioni.
Nel 14° secolo l’Italia ha avuto la grande pestilenza descritta dal Boccaccio. La popolazione dell’Europa diminuisce di un terzo o forse di una metà. In Italia la Maremma toscana con le sue paludi perde circa l’80% della popolazione, mentre Venezia ne perde un terzo. Il 14° secolo dunque, pur con questa pestilenza e con una fortissima diminuzione della popolazione, è un secolo di grande progresso per l’Italia, il secolo dell’Umanesimo e dell’espansione commerciale delle città italiane, un secolo di progresso, caratterizzato però da una forte natalità. La metà della popolazione che era rimasta in vita, per la forte carica dell’aumento dei giovani, ha potuto continuare a vivere e a progredire verso la civiltà del Rinascimento.
Thomas Malthus basava le sue teorie su due premesse:       
1) La terra è limitata e tutte le risorse sono esauribili. Ma non prendeva in considerazione il fatto che ci possono essere nuove scoperte di risorse naturali (come infatti sta continuamente avvenendo) e non teneva conto dell’ingegno dell’uomo, della sua inventiva.    
2) Gran parte della popolazione è inutile in quanto non produce niente, anzi consuma beni prodotti da altri. Se quindi si potesse eliminare parte della popolazione, i sopravvissuti avrebbero più risorse a loro disposizione. Questo potrebbe apparire vero oggi per le popolazioni in via di sviluppo, in quanto non riescono a fornire a tutti istruzione adeguata e servizi sanitari. A ben vedere, il problema è di governance, di pianificazione economica, non di aumento della popolazione di per sé. Malthus formulava le sue previsioni catastrofiche poco prima dell’anno 1800, quando la popolazione mondiale era meno di un miliardo. I neomalthusiani oggi riformulano le stesse catastrofiche previsioni di due secoli fa, quando la popolazione mondiale è di 6 miliardi. Ma oggi il livello generale della vita si è elevato in modo impensabile due secoli fa e c’è più molto cibo a disposizione per ogni singolo abitante della terra. Il problema non è che mancano le risorse o ci sono troppi uomini, ma di educare i popoli poveri a produrre con metodi moderni e i popoli ricchi a condividere fraternamente con i poveri le loro conoscenze e scoperte.
Conclusione: le previsioni demografiche catastrofiche che oggi leggiamo e sentiamo sventolare come spauracchi da molti studiosi e scrittori, in base alla storia dell’umanità sono più o meno credibili quanto quelle di Malthus.
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


La fragilità di una nascita Pigi Colognesi - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net

C’e una disarmata fragilità nella Natività di William Congdon che campeggia sul manifesto natalizio proposto da CL che si può trovare appeso in case, uffici e scuole. È stata dipinta nel 1960 e il suo autore, allora quarantottenne, è battezzato soltanto dall’anno precedente. Muove i primi passi nella Chiesa cattolica, seguendo come un bambino le indicazioni che gli vengono date. Soprattutto da parte di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi che lo aveva conosciuto qualche anno prima, poi atteso e abbracciato al culmine della disperazione nell’agosto del 1959.

Congdon aveva cercato dappertutto, letteralmente in tutte le parti più belle del mondo, l’immagine che, attraverso l’arte, potesse redimere un’esistenza posta sotto il segno del naufragio, dell’insicurezza, dell’assenza di paternità. Aveva avuto un notevole successo nelle prestigiose gallerie di New York, ma non era stato sufficiente. Quanto più viaggiava in cerca dell’autentico, tanto più l’esile zattera dell’arte perdeva pezzi, lo lasciava sempre più solo e disperato, in balia dell’immensità del mare tanto amato e altrettanto temuto. Il gorgo lo inghiottiva.

Naufrago per l’ennesima volta dopo l’ennesimo viaggio, Congdon è tornato da don Giovanni, senza più nessuna energia. Allora, sorprendentemente, il sacerdote gli ha detto che era pronto per ricevere il battesimo, poteva rinascere da un’altra acqua. Ha accettato. Senza neanche sapere bene cosa fosse il cattolicesimo e come si facesse a viverlo. Perciò ha seguito quello che gli veniva suggerito: dipingi i principali misteri della fede. Ad esempio la Natività.

Il nero pavimento assomiglia alle intricate vie delle città formicolanti che aveva un tempo dipinto; ma ora non sprofonda, sostiene. Le pareti intorno sono simili alla voragine risucchiante del Colosseo o al dirupo da cui Positano cade in mare di vecchi quadri; ma ora diventa la calda scenografia dell’evento, l’abbraccio a qualcosa di fragilissimo, ma reale: quella donna seduta, poco più che una spatolata di tenero azzurro, e suo figlio, nient’altro che un bozzolo bianchissimo. Non poteva proferire altro che questo balbettio il neo cattolico William Congdon.

Ma su questo bozzolo, che è anche un seme, s’appoggia come a centro sicuro tutta la composizione. E si appoggerà tutta la sua vita. Sull’orlo delle pareti, in alto, non ci sono più le case pericolanti di Roma o New York, né i palazzi traballanti di Venezia; ci sono i cori angelici, una festosa confusione di ali. Solo tre anni prima ben altre ali avevano occupato, nere, distese, aggressive, tutto lo spazio del quadro: quelle dell’avvoltoio visto in Guatemala, uccello annunciatore di morte e che di morte si nutre. Angelo funereo che a Congdon parve annunciare la sua stessa morte.
Sopra Maria e il Bambino, quasi invisibile, una capanna dagli esili sostegni e dal tetto traballante. È la casa, il luogo del riposo, del conforto, l’approdo di ogni viaggio. È la Chiesa. Allora, in quel 1960, Congdon non sapeva ancora che forma avrebbe preso per lui questa dimora. Sarà la compagnia del movimento di CL, con la quale camminerà per il resto della vita. In essa scoprirà che per essere artista cristiano non è indispensabile trattare argomenti sacri.

Lui aveva sempre dipinto quello che i suoi occhi vedevano: città, monumenti, deserti. Nella nuova dimora tornerà a questi suoi soggetti. Attraverso un itinerario non privo di fatiche comprenderà che quel Bambino, quel bianco seme, è il fondo di cui consistono tutte le cose che si vedono. E lietamente dipingerà campi, piogge, alberi e colline trasfigurate dalla percezione della loro gloria. La gloria della salvezza di tutti gli uomini e di tutte le cose che è iniziata con la disarmata, potentissima, fragilità della Natività.


COLLETTA/ 1. I risultati 2010: 9400 tonnellate raccolte +9%. GUARDA IL TG Redazione - domenica 28 novembre 2010 – il sussidiario.net

I RISULTATI DELLA GIORNATA NAZIONALE DELLA COLLETTA ALIMENTARE - E' stato un risultato che è andato al di là delle più rosee aspettative quello della XIV edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, svoltasi ieri in più di 8000 supermercati. Grazie all'aiuto di più di 110.000 volontari sono state raccolte 9.400 tonnellate di prodotti alimentari, il 9% in più rispetto a quanto raccolto nel 2009, che saranno distribuiti agli oltre 8.000 enti convenzionati con la Rete Banco Alimentare che assistono 1,5 milioni di persone ogni giorno.

"Siamo cambiati noi. La Colletta Alimentare è la stessa, ma noi no. Abbiamo partecipato, commossi, allo spettacolo della condivisione gratuita del destino dei nostri fratelli uomini - ha spiegato Mons. Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco Alimentare - Il cuore di milioni di persone, piccoli e grandi, lavoratori e pensionati, imprenditori e carcerati - molti dei quali provati dalla crisi economica, e da calamità naturali - è stato mosso dalla carità a una nuova responsabilità personale e sociale, desiderosa di costruire un bene per tutti".

Per la prima vlta quest'anno la Colletta si è svolta anche nelle carceri, con Franco Baresi che si è infilato la pettorina gialla per aiutare i volontari di Incontro e Presenza che hanno portato l'iniziativa nei tre carceri milanesi di San Vittore, Opera e Monza. La colletta, anche qui ha ottenuto risultati sorprendenti. La generosità dei detenuti è stata tale che sono stati riempiti 33 cartoni di cibo solo a San Vittore, mente gli organizzarori se ne aspettavano al massimo una decina. E oltre agli alimenti cosigliati, cioè quelli in scatola, sono arrivati anche olio, riso, pasta, biscotti...


COLLETTA/ 2. La "formula" della gratuità batte i tanti format dell'indifferenza Alessandro Banfi - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net

In uno degli ultimi discorsi pubblici di David Foster Wallace (recentemente pubblicato in Italia dall’Einaudi sotto il titolo Questa è l’acqua), si parla della spesa al supermercato. È una conferenza tenuta di fronte a studenti universitari e Wallace, con la sua arguzia, identifica questo momento della nostra vita consumistica come il paradigma della nostra esistenza. Il grande scrittore, scomparso un anno fa, invita a guardare in un altro modo i nostri vicini indaffarati agli scaffali, o vicini di fila alla cassa. L’uomo esasperato dalla folla, la donna con il passeggino, l’anziano che non capisce... Questa è l’acqua, questa è la realtà in cui viviamo, sembra dire lo scrittore, solo volendole bene la si comprende. Parole che ieri, nella Giornata nazionale della colletta alimentare, mi sono tornate alla mente. Soprattutto nei riguardi di coloro che non hanno aderito alla Colletta del Banco alimentare. Troppo facile, per noi volontari di qualche ora, essere grati a chi lasciava il sacchetto giallo, più o meno pieno. Benestanti o modesti, giovani o vecchi, acculturati o ignoranti... tutti ci hanno commosso!

Ma mi ha incuriosito di più chi non ci è stato ieri, chi non ha aderito, soprattutto ho trovato divertente il modo con cui molti hanno liquidato la faccenda. E mi perdoneranno se ci scherzo su.
Allora, secondo me, negli anni, si sono affinati veri e propri format di scuse, di giustificazioni, anche se spesso non sono richieste. Schemi che si ripetono, come nella produzione televisiva. Innanzitutto c’è il format classico. “Scusate, sono qui, ma non per fare la spesa”, che ti fa venire voglia di replicare: ehi allora perché è venuto al supermarket? Spesso, non richiesti, i campioni di questo format offrono sotto spiegazioni. I maschi di solito scaricano sulle consorti. “Sono qui per cercare una cosa...”, a volte esplicito: “Raggiungo mia moglie che è già dentro”. A volte invece legato ad un mandato preciso: “Devo prendere solo il latte”, “A mia moglie mancava una cosa e mi ha mandato a prenderla...”. Un’altra sottoclasse è quella geografica. “Entro solo un attimo ma poi esco dall’altra parte...”. Boh, roba da navigatore Gps. Le donne invece preferiscono l’appello ai figli. “Ho i soldi contati per i pannolini”; “Mi piacerebbe molto ma sono di corsa”.

Alcuni invece sostengono di avere già offerto la loro quota. “È la terza volta che vengo oggi... stamattina ho dato tanto...”. Veramente siamo qui dalle otto di stamattina... E qui decolla il format specifico della beneficienza. In un solo pomeriggio in un singolo supermercato mi sono state citate benemerite istituzioni: Save the children, alcune parrocchie, persino le Nazioni Unite... Che ti viene voglia di dire: guardi nessuno la obbliga, lasci perdere che poi interviene il Consiglio di sicurezza, quello di New York...

Il tempo è denaro. Grande format quello della velocità... Uno che esce con quattro sacchetti: “Scusate, ma oggi proprio non ho avuto tempo... ci siete domani? No? Peccato”. L’altro popolarissimo: “Andavo di corsa, torno dopo con più calma e vi compro qualcosa...”. Culinario: “Ho la roba sul fuoco e i soldi contati in tasca...”. Un mondo frenetico visto che è sabato pomeriggio di una grande città.

Il format arrabbiato. Diffuso quanto è diffusa l’aggressività nel nostro mondo. In questo caso chi non dona pronuncia frasi dette con veemenza ma senza alcun senso: “I soldi li do, a chi li do io!”. Allusione a destinazioni ben più meritevoli... Fra di loro anche i benefattori che sono quasi offesi, se gli spieghi che cosa devono fare... “Io lo faccio ogni anno, eh!”, manco gli avessi dato dello spilorcio.

Il format della fuga. Poi ci sono quelli che proprio scappano, o aspettano addirittura che tu non li stai guardando per scaraventarsi dentro l’ingresso. Qui l’abilità massima è l’assoluta indifferenza, per cui dieci ragazzi con il pettorale giallo possono non essere visti... In alcuni casi c’è chi è persino caduto per evitare di dire qualcosa...

Il format religioso. È il migliore, perché quasi sempre finisce con una lezioncina di spiegazione o con un’esortazione a fare di più. Da quello cialtrone (“Ho fatto ieri il volontario proprio qui”, peccato che la colletta è un giorno solo...) a quello che coinvolge altri soggetti. “Vengo adesso dalla Caritas”, “Sono d’accordo con il parroco che io lo faccio domani...”, “Fate bene i pacchi...”, “Ma non sono poche le cose che avete raccolto per i bambini?”.

Seriamente, il volantino del Banco diceva giustamente che il povero è un uomo solo, e faceva appello alla necessità di ogni uomo di sentirsi amato. Le facce spesso chiuse e tristi di chi non donava, contrapposte alle facce liete di chi consegnava il sacchettino giallo, fanno riflettere: forse proprio costoro sono i poveri... Come nel Vangelo il ricco diventa il vero povero, la gratuità scalza il muro di indifferenza che regna nel benessere.
E allora anche questa è l’acqua, anche questi volti grigi e duri (solo una fortuna che mi è capitata non mi annovera oggi fra di loro) sono da amare ancora di più.


RUSSIA/ La "teologia del cuore" di Antonij Blum contro il nichilismo di Sartre (e nostro) Anna Smaina-Velikanova - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net

Antonij Blum (1914-2003), metropolita e  figura di spicco nell’ortodossia russa del XX secolo, diceva che “la Chiesa è il ‘luogo’ attraverso cui anime vive si incontrano con il Dio vivo e in misura non minore si incontrano fra loro”. Parlando della Chiesa possiamo ripetere senza timore di sbagliare ciò che Pasternak dice della poesia: essa non è una forma, ma è parte stessa del contenuto, una sua piccola parte, interiore e misteriosa. Non è un contenitore, ma un luogo; non è il tempo di durata della liturgia o della regola di preghiera, ma una disposizione interiore; non delle norme di comportamento, ma la condizione dell’incontro; non delle forme esteriori, ma il significato che vi è sotteso.

Due drammaturghi e filosofi francesi hanno espresso quasi contemporaneamente in due celebri aforismi l’attuabilità e il senso della comunione (il metropolita Antonij li citava spesso entrambi). Sartre dice che l’inferno sono gli altri, e Gabriel Marcel afferma che dire all’altro “ti amo” significa dirgli “tu non morirai mai”. A questi giudizi diametralmente opposti sull’incontro se ne può aggiungere un altro, appartenente a Rozanov, cui pure fa riferimento il metropolita Antonij nelle sue riflessioni sull’incontro: l’uomo per l’altro è come un “pezzo di legno”. L’incontro fra le persone è dunque impossibile; oppure è inevitabile, ma come una maledizione; oppure, ancora, l’incontro è possibile ed è la condizione della vittoria sulla morte. Tutte queste posizioni sono già presenti nella Sacra Scrittura.

Il metropolita Antonij parla di incontro con l’uomo e con Dio, quasi come se fossero la stessa cosa: “Ogni incontro è un avvenimento di straordinaria importanza, e quello con Dio lo è in modo particolare”. Pur sottolineando la maggior intensità e radicalità del nostro incontro con Dio, equiparabile al Giudizio ultimo, non vede una differenza fondamentale fra questi due incontri. E la Chiesa è la condizione di questo duplice e insieme unico incontro. Questo perché l’incontro con Cristo è l’avvenimento originario. Incontrandosi con Cristo, l’uomo si incontra con se stesso e con gli altri. Invece, senza questo incontro, non è in grado di incontrare nessuno. Come nell’oscurità fisica: non solo non vediamo le persone o il mondo circostanti, ma non sappiamo se i nostri occhi sono aperti, se ci vediamo o no.

Ciascuno di noi, probabilmente, ricorda la sensazione di panico provata nell’infanzia, quando ci sembrava che il buio non fosse fuori, ma che noi fossimo accecati. Ed ecco che in questa oscurità (così il metropolita descrive l’incontro di Cristo con il cieco nato, Gv 9) si accende una luce, e la persona vede. La prima cosa che vede è lo sguardo di Cristo che la fissa. E solo dopo, con l’aiuto di Cristo, alla Sua luce, comincia a scorgere le altre persone - simili ad alberi che camminano (cfr. Mc 8,23). Il metropolita pone la domanda: dove avviene questo incontro?

L’incontro fra le persone avviene in Cristo. Dopo aver conosciuto Cristo, dopo aver imparato a distinguerne i lineamenti, l’uomo comincia a vedere una somiglianza con Lui o a vedere Lui stesso in coloro che prima non riusciva a vedere, o in cui vedeva delle belve o viceversa il proprio pasto - cioè, in definitiva, qualcosa da sfruttare o da cui difendersi. E il luogo di questo incontro - il metropolita Antonij lo attesta con fermezza, in termini tradizionali e inattesi al tempo stesso - è il cuore.

Tutti noi siamo stati creati nell’atto dell’incontro e abbiamo la medesima natura di esseri incontrati dal Creatore, cioè di creature. “Il Signore ha chiamato ogni creatura per nome, non c’è creatura che sia nata in maniera anonima, senza nome, come qualcosa di indefinito, ogni creatura per Dio ha un’esistenza personale”. Questo significa che noi siamo fatti per l’incontro. La nostra consustanzialità è un incontro potenziale, che nel corso della vita siamo chiamati a realizzare in modo tale che l’universo abitato non diventi un caos, ma un luogo di incontro, anzi l’incontro stesso con il creato.

Tuttavia, come sappiamo, l’uomo ha tradito la propria vocazione, e l’incontro con Dio nella storia si è tramutato per lui in condanna e separazione. Proprio per trasformare nuovamente questa separazione in incontro, avviene l’incarnazione del Figlio di Dio.
Alla luce di questa convinzione il metropolita Antonij legge il Vangelo. I racconti della vita di Gesù sono una storia d’amore, la storia di un incontro dell’amore. L’incontro con l’altro in Cristo si trasforma da urto casuale o fagocitazione in rapporto di amore e di comunione. In questo modo, tutto diventa passo o aspetto che ci introduce all’esperienza della Chiesa: tutto diventa luogo, contenuto o condizione dell’incontro, del fatto che Cristo è in mezzo a noi.


J’ACCUSE/ Quel grande inganno che ci fa buttare tutto, dal cibo ai bambini Carlo Bellieni - lunedì 29 novembre 2010 – il sussidiario.net

È notizia di questi giorni che dal prossimo gennaio 2011 i cibi rimasti integri e inutilizzati nelle mense delle scuole torinesi non rischieranno più di finire nei cassonetti dei rifiuti, ma verranno destinati a chi ha bisogno di un pasto caldo.

È quanto previsto dal progetto sperimentale di recupero pasti denominato “La pietanza non avanza - Gusta il giusto, dona il resto”, promosso e finanziato dall’assessorato all’Ambiente della Regione Piemonte, in collaborazione con la direzione regionale Sanità, il Comune di Torino, l’Associazione Banco Alimentare del Piemonte e la ditta Compass Group.

Quest’iniziativa accende una lampadina non solo sullo spreco in sé, ma su ben altro. Infatti viviamo in una civiltà dove le eccedenze sono innumerevoli e vanno perse in maniera moralmente colpevole. Anche recentemente allarmi sono stati lanciati verso la perdita di circa un 30% dei cibi che passano per le mense, supermercati o ristoranti, ma anche nelle nostre case. Ma buttar via cibo o oggetti di vario tipo non ci impressiona più, tranne se pensiamo che così “le risorse finiranno”, oppure che “non siamo all’avanguardia nel riciclo”.

Ma questa è una critica infantile: pensare a un’improbabile fine delle risorse è indice di paura e tutto il riciclo del mondo non arresterebbe lo sfascio. Un passo oltre lo fa l’iniziativa torinese, perché mette al centro del recupero le persone bisognose, e questo è importante perché ci apre a un altro punto eticamente grave: è l’idea che ormai siamo convinti che esistano delle cose “in sé” inutili.

L’inutilità delle cose è un’idea postmoderna, che non sa riconoscere l’utilità intrinseca di tutto e dunque la riparabilità, la riutilizzabilità, la scambiabilità e addirittura la preziosità di tutto, e si limita ad accettare quello che è “perfetto”. I nostri vecchi accomodavano anche i piatti rotti con colla e sottili fil di ferro; oggi la maggior parte delle cose che abbiamo in casa sappiamo bene che “non vale la pena” di accomodarle, perché è più economico comprarne di nuovi; e di conseguenza non si trova più chi accomoda scarpe, ombrelli, ma anche radio o computer appena un po’ datati.
Da dove nasce questa fobia, che è alla base dello spreco e che va a braccetto con la “religione del riciclaggio”, che colpevolizza il vecchietto che non butta la cartaccia nel sacco giusto ma non dice nulla degli imballaggi oscenamente ingombranti, dei gadget dei giornali fatti per essere buttati e mai letti? Sono oltre 134.000 le vecchie tv e i vecchi monitor raccolti e avviati al riciclo in Emilia Romagna finora nel 2010 (dati consorzio ReMedia), e sono tv funzionanti, ma che improvvisamente non servono più: si poteva comprare un decoder esterno; invece la gente se ne disfa e basta: perché?

Per l’incapacità di accettare una sfida: quella che “tutto è bene”, concetto donato al mondo dal cristianesimo e che ha portato il progresso di cui godiamo, perché ha insegnato che tutto si poteva conoscere senza paura, che tutto si poteva utilizzare. Invece oggi la cultura postmoderna dice che “è bene solo quello che mi serve”, e butta via tutto il resto, disfacendosi invece di cose preziose.

E, attenzione, questo vale non solo per le bucce delle pere che nessuno mangia più (e che farebbero invece tanto bene), ma vale anche per i rapporti umani, dove il marito che non va più bene per un motivo o un altro va cambiato, il nonno che disturba va invitato a capire che in fondo “non è giusto sentirsi un peso per gli altri” e avviarsi in silenzio a chiedere di morire, il bambino che non passa l’esame dell’analisi genetica prenatale non va fatto nascere.

Siamo nella prima società che genera rifiuti, cosa mai successa prima nella storia del mondo. E “rifiuto” non significa “spreco”, che sarebbe un valore alterato ma in un certo senso positivo se fosse una corsa all’utilizzo infrenabile e creativo; ma significa”fobia”, paura, diffidenza, che ci fa perdere il gusto (e i mille gusti) della vita. L’unica soluzione - e l’ottima iniziativa torinese è un segnale d’allarme per correre ai ripari più generali - è il rispetto, cioè la capacità e la grazia di guardare le cose intravedendo con la coda dell’occhio il Disegno mai insensato, di cui esse fanno parte, riscoprendo la preziosità di tutto.