giovedì 25 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA CATERINA DA SIENA- Nell'Udienza Generale del mercoledì
2)    24/11/2010 - VATICANO – CINA - La Santa Sede condanna l’ordinazione episcopale illecita a Chengde
3)    IL DOLORE NELLE RELIGIONI MONOTEISTE - Quali spiegazioni offre la fede agli uomini che soffrono di Mariaelena Finessi
4)    Pensieri e passioni (da Il Mattino di Napoli), Scuola, Educazione, Giovani, Consumo, Identità, November 23, 2010 - Tecnica e artigianato per l’occupazione - Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 22 novembre 2010, www.ilmattino.it
5)    Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Serra e compagni: vergogna! - Antonio Socci Da “Libero” 24 novembre 2010
6)    200 MILIONI DI CRISTIANI PERSEGUITATI NEL MONDO - Presentato il Rapporto sulla Libertà Religiosa di ACS
7)    Tutti per ognuno, ognuno per tutti Giorgio Vittadini - giovedì 25 novembre 2010 – il sussidiario.net
8)    COLLETTA/ Quella Carità che parla la lingua di Chen, Mohamed, i carcerati e John Elkan Redazione - giovedì 25 novembre 2010 – il sussidiario.net
9)    Avvenire.it, 25 novembre 2010 - Nel libro c’è il pastore che s’immedesima con la difficoltà di ciascuno - La luce riaccesa dal Papa: la Verità è per le persone mai sulle persone - Mauro Cozzoli
10)                      Avvenire.it, 25 novembre 2010 - Senza libertà religiosa 5 miliardi di persone - La tragica fantasia dei persecutori di Giulio Albanese
11)                      La tv di Fazio - Il nichilismo con la maschera della bonarietà di Michele Aramini – Avvenire, 25 novembre 2010
12)                      Salute riproduttiva: sul Web i giovani che l’Onu ignora – Avvenire, 25 novembre 2010

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA CATERINA DA SIENA- Nell'Udienza Generale del mercoledì

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 23 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l'Udienza generale svoltasi in Piazza San Pietro. Nel suo discorso, il Pontefice si è soffermato sulla figura di Santa Caterina da Siena (1347-1380), mistica, Dottore della Chiesa e copatrona d'Europa.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlarvi di una donna che ha avuto un ruolo eminente nella storia della Chiesa. Si tratta di santa Caterina da Siena. Il secolo in cui visse - il quattordicesimo - fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento. Caterina è una di queste e ancor oggi ella ci parla e ci sospinge a camminare con coraggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.
Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì nella sua città natale, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati.
Quando la fama della sua santità si diffuse, fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo il Venerabile Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia.
Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al punto che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capitolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo "figlio spirituale", scrisse una prima biografia completa della Santa. Fu canonizzata nel 1461.
La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.
In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: "Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne" (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.
Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: "Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo" (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, "… non vivo io, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).
Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione. Anche Caterina appartiene a quella schiera di santi eucaristici con cui ho voluto concludere la mia Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (cfr n. 94). Cari fratelli e sorelle, l’Eucaristia è uno straordinario dono di amore che Dio ci rinnova continuamente per nutrire il nostro cammino di fede, rinvigorire la nostra speranza, infiammare la nostra carità, per renderci sempre più simili a Lui.
Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spirituale. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livello di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Molti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano "mamma", poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.
Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate. "Figlio vi dico e vi chiamo - scrive Caterina rivolgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il certosino Giovanni Sabatini -, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio" (Epistolario, Lettera n. 141: A don Giovanni de’ Sabbatini). Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: "Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù".
Un altro tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: "Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso" (Epistolario, Lettera n. 16: Ad uno il cui nome si tace).
Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava "dolce Cristo in terra", ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: "Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia" (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363).
Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio.
Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: "Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (...) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia" (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Grazie del vostro entusiamo. In particolare, saluto i partecipanti al convegno promosso dal Movimento Apostolico e li esorto a proseguire nel cammino della santità personale, punto di partenza di ogni evangelizzazione. Saluto i fedeli di Troina ed auspico che, sull’esempio del patrono S. Silvestro ciascuno possa aderire sempre più generosamente a Cristo e al suo Vangelo. Saluto i rappresentanti della Città di Cervia, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Giuseppe Verucchi, e li ringrazio per il tradizionale omaggio di un prodotto tipico della loro terra.
Rivolgo, infine, il mio cordiale saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi, ricordando Sant'Andrea Dung-Lac e compagni, martiri vietnamiti, invito voi, cari giovani, ad essere intrepidi nel testimoniare i valori cristiani, rimanendo sempre fedeli al Signore; esorto voi, cari ammalati, a saper accogliere con sereno abbandono quanto il Signore dona in ogni situazione della vita; auguro a voi, cari sposi novelli, di formare una famiglia veramente cristiana, attingendo la forza necessaria per realizzare tale progetto dalla Parola di Dio e dall'Eucaristia.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


24/11/2010 - VATICANO – CINA - La Santa Sede condanna l’ordinazione episcopale illecita a Chengde

In un duro comunicato il Vaticano esprime il “profondo rammarico” del papa e denuncia “una grave violazione della disciplina cattolica” e alla “libertà religiosa e di coscienza”. Il governo di Pechino ha ignorato le sollecitazioni della Santa Sede e ha lasciato che Liu Bainian, vicepresidente dell’Associazione patriottica ostacolasse il dialogo Cina - Santa Sede. Al vescovo illecito si ricorda la sua posizione di scomunicato latae sententiae.


Città del Vaticano (AsiaNews) – Pubblichiamo il testo integrale del comunicato diffuso dalla Sala Stampa della Santa Sede sull’ordinazione episcopale di Chengde (Hebei), avvenuta lo scorso 20 novembre. Nella comunicazione, molto franca e netta, si afferma che l’ordinazione illecita di p. Guo Jincai, è una “grave violazione della disciplina cattolica” e una “grave violazione della libertà religiosa e di coscienza”, dato che alcuni vescovi sono stati costretti a pressioni e restrizioni per obbligarli a partecipare. Il gesto ha provocato il “profondo rammarico” del pontefice e il dolore della Chiesa cinese e universale. Si accusa la Cina di non essere sensibile alle preoccupazioni e sollecitazioni del Vaticano e di aver lasciato la direzione degli affari ecclesiali nelle mani del laico Liu Bainian, regista dell’ordinazione illecita. Ai vescovi implicati (Guo Jincai e i vescovi ordinanti) si ricorda il rischio di una loro posizione canonica illecita e si manifestano dubbi sulla validità dell'ordinazione stessa.

Riguardo all’ordinazione episcopale del Rev.do Giuseppe Guo Jincai, avvenuta sabato 20 novembre corrente, sono state raccolte informazioni su quanto è accaduto e si è ora in grado di precisare quanto segue.

1)            Il Santo Padre ha appreso la notizia con profondo rammarico, poiché la suddetta ordinazione episcopale è stata conferita senza il mandato apostolico e, perciò, rappresenta una dolorosa ferita alla comunione ecclesiale e una grave violazione della disciplina cattolica (cfr Lettera di Benedetto XVI alla Chiesa in Cina, 2007, n. 9).

2)            È noto che, negli ultimi giorni, diversi Vescovi sono stati sottoposti a pressioni e a restrizioni della propria libertà di movimento, allo scopo di forzarli a partecipare e a conferire l’ordinazione episcopale. Tali costrizioni, compiute da Autorità governative e di sicurezza cinesi, costituiscono una grave violazione della libertà di religione e di coscienza. La Santa Sede si riserva di valutare approfonditamente l’accaduto, tra l’altro sotto il profilo della validità e per quanto riguarda la posizione canonica dei Vescovi coinvolti.

3)            In ogni caso, ciò si ripercuote dolorosamente, in primo luogo, sul Rev.do Giuseppe Guo Jincai che, in forza di tale ordinazione episcopale, si trova in una gravissima condizione canonica di fronte alla Chiesa in Cina e alla Chiesa universale, esponendosi anche alle pesanti sanzioni previste, in particolare, dal canone 1382 del Codice di Diritto Canonico.

4)            Tale ordinazione non soltanto non aiuta il bene dei Cattolici a Chengde, ma li mette in una condizione assai delicata e difficile, anche sotto il profilo canonico, e li umilia, perché le Autorità civili cinesi vogliono imporre loro un Pastore che non è in piena comunione, né con il Santo Padre né con gli altri Vescovi sparsi nel mondo.

5)            Più volte, durante l’anno corrente, la Santa Sede ha comunicato con chiarezza alle Autorità cinesi la propria opposizione all’ordinazione episcopale del Rev.do Giuseppe Guo Jincai. Nonostante ciò, dette Autorità hanno deciso di procedere unilateralmente, a scapito dell’atmosfera di rispetto, faticosamente creata con la Santa Sede e con la Chiesa cattolica attraverso le recenti ordinazioni episcopali. Tale pretesa di mettersi al di sopra dei Vescovi e di guidare la vita della comunità ecclesiale non corrisponde alla dottrina cattolica, offende il Santo Padre, la Chiesa in Cina e la Chiesa universale, e rende più intricate le difficoltà pastorali esistenti.

6)            Papa Benedetto XVI, nella summenzionata Lettera del 2007, ha espresso la disponibilità della Santa Sede a un dialogo rispettoso e costruttivo con le Autorità della Repubblica Popolare Cinese, al fine di superare le difficoltà e normalizzare i rapporti (n. 4). Nel riaffermare tale disponibilità, la Santa Sede constata con rammarico che le Autorità lasciano alla dirigenza dell’Associazione Patriottica Cattolica Cinese, sotto l’influenza del Sig. Liu Bainian, assumere atteggiamenti che danneggiano gravemente la Chiesa cattolica e ostacolano detto dialogo.

7)            I Cattolici di tutto il mondo seguono con particolare attenzione il travagliato cammino della Chiesa in Cina: la solidarietà spirituale, con cui accompagnano le vicende dei fratelli e delle sorelle cinesi, diventa fervida preghiera al Signore della storia, affinché sia loro vicino, accresca la loro speranza e fortezza, e doni loro consolazione nei momenti della prova.

24 Novembre 2010


IL DOLORE NELLE RELIGIONI MONOTEISTE - Quali spiegazioni offre la fede agli uomini che soffrono di Mariaelena Finessi

ROMA, mercoledì, 24 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il dolore, tema fra i più universali, visto nell'ottica della scienza, della filosofia e delle religioni. Questo lo scopo del colloquio messo in piedi lo scorso anno dalla facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma. Di quell'incontro, nato anche per tracciare le dimensioni del dolore cronico (tanto ampie da avere pesanti risvolti socio-economici in termini di perdita di lavoro e comparsa di depressione) sono stati pubblicati finalmente gli atti.
A presentarli al pubblico, alcuni giorni fa, tre esponenti – ognuno a proprio modo – delle tre grandi religioni monoteiste, per raccontare come il Cristianesimo, l'Islam e l'Ebraismo risolvono la questione della sofferenza nella vita degli uomini: Gaspare Mura (docente di Filosofia alle Pontificie Università Urbaniana e Lateranense), Khaled Fouad Allam (docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste) e David Meghnagi (docente di Psicologia della Religione e di Pensiero Ebraico).
Premesso che «la sofferenza appartiene alla vicenda storica dell'uomo – come ben spiegò Giovanni Paolo II nel 2000, in occasione del Giubileo degli ammalati -, il quale deve imparare ad accettarla e superarla», è vero che le risposte che le tre religioni monoteiste danno al quesito del dolore, «convergono tutte – per Gaspare Mura - intorno ad una figura simbolica, quella di Giobbe».
«La ragione per cui ci si riannoda al Libro di Giobbe è che questi non è un personaggio storico ma è figura di narrazione simbolica, è un pagano che non appartiene ad alcuna determinata tradizione religiosa». In altri termini, «Giobbe è "l'uomo" che, nella nudità della sua esistenza, pone le supreme questioni sul dolore a rappresentanza di ogni uomo, di ogni epoca e di ogni cultura».
Ulteriore elemento, è che Giobbe non pone questioni astratte intorno al dolore, non domanda come i filosofi il "perché delle cose", «soprattutto Giobbe mostra che non esiste nessuna tecnica, nemmeno quella terapeutica o psicoanalitica, capace di rispondere al senso esistenziale profondo del dolore».
E così, «il fedele dell’Islam vede in Giobbe – continua Mura - la pazienza con cui il vero credente deve accettare dall’Onnipotente non solo i beni, ma anche i mali che nella sua imperscrutabile volontà gli assegna per metterlo alla prova e premiarlo della vittoria; e soprattutto vede nella figura di Giobbe anche un invito a tutti coloro che sono vicini ad un uomo che soffre, a farsi compassionevoli, ad esercitare la virtù della bontà, dell’assistenza, della pietà, cosicché il dolore di uno possa tornare a beneficio di tutti».
«Da Ferdinand de Saussure – spiega poi Allam - sappiamo che la lingua forma la coscienza. Possiamo dunque ricercare le forme verbali che indicano una situazione di dolore nel Corano, perché attraverso esse possiamo riconoscere la semantica del dolore nell’Islam e dunque la percezione che i musulmani hanno di quella esperienza». Non si dice «io sono malato» ma semplicemente «malato», come ad indicare il dominio della malattia sul soggetto. «Si nota come qui l’individuo perda la sua autonomia, perché tutto risulta rimesso alla volontà divina».
Vero è che si «si riesce a sopportare il dolore - aggiunge Meghnagi - se c'è una porta aperta verso il futuro». «Nel rapporto che l'Ebraismo istituisce con Dio, se questo "fallisce", non è sostituito. È reso migliore. Anche in questo caso si ricorre all'esempio di Giobbe che accusa il suo Dio ma non lo nega. Lo richiama alle sue responsabilità, ma non lo rifiuta».
Dopo la Shoah, con l'uomo messo a dura prova, che va chiedendosi dove è Dio ad Auschwitz, «i testi della tradizione non riescono più a dire qualcosa che non rischi di suonare come un insulto. Il lutto ha investito i fondamenti della civiltà e i suoi simboli religiosi. Nei lager se c'è stato miracolo, è di aver continuato a credere nel bene. Nonostante tutto e perché non v'è altra scelta. Non è più Dio a salvare gli uomini, come nelle vecchie teodicee trionfali. È l'uomo a portare sulle spalle l'idea di Dio, a farla esistere per salvare il mondo».
Se voi mi farete esistere - recita un antico Midrash – io esisto.
Quanto al Cristianesimo, può essere citato – tra i tanti – Jung che nel suo celebre "Risposta a Giobbe" afferma che la risposta al perché di Giobbe è il «perché» pronunciato da Cristo sulla croce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ovvero è  in Cristo che Dio risponde a Giobbe, accogliendo su di sé il «perché» e la stessa sofferenza di Giobbe. Giacché in Cristo Dio ha veramente incontrato il male e lo ha combattuto e vinto in modo definitivo anche per noi.
«In finale – spiega Mura -, la teologia crucis si fonda sulla grande speranza che l’uomo nutre, di avere Dio non come semplice interlocutore o come spettatore del suo dramma o addirittura come avversario, ma come cobelligerante nella lotta contro il male e la sofferenza. Il Padre, secondo la preghiera insegnata dal Signore, è colui che «libera dal male», cioè è a fianco di ogni uomo per liberarlo dal male e dalla sofferenza».
Il senso profondo del Libro di Giobbe non consiste allora nel chiarire l’enigma del male quanto piuttosto nell’indicarci la maniera in cui è possibile affidarsi a Dio pur nella sofferenza. «Credere a Dio nonostante», dice Ricoeur. «Solo così – conclude Gaspare Mura - è possibile amare Dio senza interesse, rinunciando alla ricompensa per le proprie virtù e rinunciando pure al desiderio di immortalità».
Alla fine, scrive Ricoeur, «è detto che Giobbe è giunto ad amare Dio per nulla, facendo così perdere a Satana la sua scommessa iniziale».


Pensieri e passioni (da Il Mattino di Napoli), Scuola, Educazione, Giovani, Consumo, Identità, November 23, 2010 - Tecnica e artigianato per l’occupazione - Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 22 novembre 2010, www.ilmattino.it

Non è chiaro se il più pericoloso difetto degli italiani sia la vanità o l’astrattezza. Solo, infatti, con la vanità, o la testa nelle nuvole si spiega come mai mentre in Inghilterra, Spagna e Scandinavia il 50% degli studenti sceglie una formazione tecnica, da noi non si arriva neppure al 40%. Peccato, però, che soprattutto di tecnici hanno bisogno le industrie, il commercio, e i servizi: l’anno scorso cercavano 235 mila diplomati tecnici o professionali, ne hanno trovato la metà.
In compenso, migliaia di neolaureati rimangono disoccupati, o vengono assunti in posizioni precarie e sottopagate. Decine di migliaia, poi, si perdono nell’iter di studi faticosi e spesso per loro incomprensibili (licei e università), finendo con l’ingrossare un esercito di giovani che non lavorano, né studiano, drammatica incognita per il futuro del paese, oltre che per il loro.
A poco servono i richiami delle associazioni di imprenditori, indeboliti dalla mancanza di maestranze formate, e quelli degli stessi sindacati, paralizzati dall’assenza di personale che corrisponda al sistema produttivo.
Il mito del “pezzo di carta” (la laurea) rimane saldo, sostenuto soprattutto (a quanto risulta da ogni ricerca sul campo), dalle convinzioni delle famiglie, che preferiscono un figlio laureato dopo un lunghissimo iter scolastico, col rischio di restare disoccupato per anni, ad un figlio diplomato, e autonomo già prima dei 18 anni.
Il “mito laurea” è oggi smentito (tra l’altro) dalla versatilità di un’offerta di lavoro in continuo mutamento, che richiede ai giovani competenze pratiche ma anche duttilità, prontezza nel cogliere le nuove professioni (tutto il campo dell’elettronica e delle reti di comunicazione è in perenne movimento).
Gli studi superiori tradizionali, invece, con la loro lunga durata e relativa fissità di contenuti, rischiano di essere sempre scavalcati dagli sviluppi del mercato e delle nuove tecnologie. Licei e lauree oggi sono adatte soprattutto a chi è fortemente determinato a conseguirle, per suoi precisi e riconosciuti interessi; altrimenti è più formativo un rapido tuffo nel “mercato del lavoro”, che sviluppi le qualità della persona, premiando la grande elasticità della mente giovanile e la sua capacità di adattamento.
Adattamento, però, è diventata una parola proibita, impronunciabile. E’ come se il nostro paese, con la sua secolare tradizione di povertà eroica, dopo aver sperimentato il benessere si sia convinto che il denaro abbia decretato la fine della necessità di adattarsi alla vita, e inaugurato il tempo in cui è la vita che si deve adattare ai desideri dell’uomo. Non è così.
Questo rifiuto dell’adattamento alle possibilità reali sta tra l’altro distruggendo un settore storicamente importantissimo per la civiltà italiana, e dotato di grande possibilità per il futuro: l’artigianato. La bottega artigiana, con le sue straordinarie capacità di adattamento ai materiali, e di valorizzazione delle idee, è un luogo di produzione estremamente versatile ed è l’unico in grado di fare concorrenza, con prodotti fini e personalizzati, alle multinazionali standardizzate sui gusti e bisogni del consumatore medio.
I nostri grandi stilisti di moda, tutti partiti da una formazione artigianale (e molti rimasti ad essa fedeli), dimostrano appunto le enormi possibilità dell’Italia in questo campo (come del resto tutto lo sviluppo del turismo di qualità e “di alta gamma”). Ciò chiede però di metter da parte le fantasie di onnipotenza, e di guardare la vita, il mondo, adattandovisi. Un’operazione economica, ma anche artistica. Di sicuro successo.


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Serra e compagni: vergogna! - Antonio Socci Da “Libero” 24 novembre 2010

Sul settimanale satirico “Cuore” c’era una volta la rubrica “Vergogniamoci per loro”, presentata come un “servizio di pubblica utilità per chi non è in grado di vergognarsi da solo”.

Forse oggi dovremmo ricordare quella rubrica proprio a Michele Serra, il fondatore di “Cuore”. Chiedendogli se non crede di meritarla dopo il corsivo che ieri ha pubblicato sulla Repubblica.

Io penso che gli esseri umani, seppure divisi da occasionali diversità di vedute, possano e debbano incontrarsi nell’universale pietà per il dolore che segna tragicamente la nostra condizione umana. Credo che Serra dovrebbe rifletterci seriamente.

Purtroppo ieri, lui che è uno degli autori di “Vieni via con me”, ha liquidato col ditino alzato la richiesta di molte persone affette da gravi malattie, che lottano per vivere e per vivere in condizioni migliori, di potersi raccontare in quel programma così come, nello stesso programma, è stata raccontata la storia di Welby e degli Englaro. 

Da una settimana questi malati lo chiedono ogni giorno dalla prima pagina di “Avvenire”, denunciano che si sentono soli, silenziati e che vogliono continuare a vivere. Ma a quanto pare Serra, Saviano, Fazio e compagni, hanno decretato che costoro non hanno diritto di parola nella “loro” televisione.

Certo la pietà verso il dolore degli altri esseri umani, visitati da malattie terribili, non è un dovere di legge. Ma quando si tratta di televisione pubblica è anche un problema collettivo.

Il corsivo di Serra mi è parso alquanto infelice laddove definisce certi ammalati come coloro che “desiderano rimanere in vita a oltranza”. Con una vena di (spero involontaria) ironia.

Serra è arrivato a sostenere che quanti li assistono hanno “un vantaggio oggettivo” (sic!), che sarebbe quello di “operare senza ostacoli giuridici e senza alcuna ostilità di tipo etico”.

Mi auguro che chi scrive cose del genere non debba mai sperimentare direttamente, sulla propria pelle o su quella dei suoi cari, questo meraviglioso “vantaggio” di cui favoleggia.

Spero che non conosca mai lo strazio disumano di vedere un giovane figlio in coma e di non sapere se si sveglierà e in quali condizioni.

Se Serra uscisse dal suo salotto ideologico piccolo borghese, dove le parole stanno col culo al caldo come lui,  e se andasse negli ospedali ad ascoltare chi vive quel dolore feroce, imparerebbe che alla tragedia – già insopportabile – dei nostri figli crocifissi (dalla Sla o dal coma o da altri orrori) ogni famiglia deve aggiungere l’umiliazione e la sofferenza di trovarsi pressoché sola, smarrita in un inferno, senza aiuti, senza mezzi, senza sostegno (tanto che spesso qualcuno – mamma o papà – è costretto addirittura a lasciare il lavoro).

Ed è una beffa affermare che costoro non hanno ostacoli giuridici o etici.

Sulla sua comoda amaca, Serra sembra non curarsi del grido di aiuto che sale da tante famiglie che letteralmente si svenano e si sfasciano per poter soccorrere i loro figli precipitati nel buio.

Costoro non hanno diritto di raccontare la loro strenua lotta per la vita a “Vieni via con me”. Anzi.

Serra arriva addirittura a definire i cattolici, che vogliono dar voce a questi malati e alle loro famiglie silenziate, come “i forti” che pretenderebbero di coartare i deboli, perché si permettono “di protestare dall’alto di una libertà riconosciuta” per chiedere di far parlare tutti.

Ma che vuol dire? Serra scrive: “dall’alto di una libertà”. Ma di quale altezza e di quale libertà sta sproloquiando? E’ lui, Serra, che pontifica “dall’alto” della sua libertà di opinionista, sano (buon per lui) e autore televisivo.

I nostri figli invece vivono nel baratro della malattia. Dove non hanno neanche la libertà di muovere una mano o di pronunciare una parola o di mangiare.

Serra aggiunge un’altra espressione: “dall’alto di una libertà riconosciuta”. Quale “libertà riconosciuta” avrebbero un ragazzo crocifisso e i suoi genitori? Allude forse alla libertà di vivere?

Dobbiamo forse considerare  una graziosa concessione dello Stato o di lorsignori pensatori il fatto che una figlia ammalata viva?

Non credo. Tale libertà non è una concessione di nessuno stato.

Il problema è semmai rappresentato dalle tantissime libertà che questi malati non hanno. Praticamente non hanno nessuna libertà e – adesso – viene negata loro anche la libertà di gridare in televisione la loro richiesta di aiuto.

Non è serio né giusto cambiare le carte in tavola. Questi malati, insieme ai cattolici – a dire di Serra – protestano “dall’alto di una libertà riconosciuta contro chi uguale libertà non ha. Forti che protestano contro deboli: non è neanche molto sportivo”.

E’ un capovolgimento della verità scandaloso. Perché nessuno dei malati che ogni giorno Avvenire mette in prima pagina ha protestato “contro” Welby o Englaro.

Nessuno di loro ha preteso di impedire che venisse raccontata di nuovo in tv la storia di Welby o Englaro. Semplicemente chiedono di poter raccontare pure la loro. 

I “forti” casomai sono Serra, Fazio e Saviano che da tv e giornali – a loro disposizione – teorizzano che questi non abbiano diritto di parola nel loro programma (dando evidentemente per scontato che la Rai sia cosa loro e non una televisione pubblica, pagata dai soldi di tutti).

Questa logica dei forti contro i deboli si piega solo davanti ad altri forti, come il ministro dell’Interno che è riuscito a ottenere una replica, perché è un ministro potente. Ma ai deboli nulla sembra sia dovuto.

Invece tutti abbiamo – o dovremmo avere – il dovere della pietà. E della solidarietà. Parole che forse non hanno (più) cittadinanza a sinistra.

200 MILIONI DI CRISTIANI PERSEGUITATI NEL MONDO - Presentato il Rapporto sulla Libertà Religiosa di ACS

MADRID, mercoledì, 24 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il Rapporto sulla Libertà Religiosa nel Mondo 2010, presentato ogni due anni dall'organizzazione cattolica internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), rivela che il numero dei cristiani perseguitati nel mondo è di 200 milioni, e quello dei discriminati per la loro religione di 150 milioni.

Il Rapporto di ACS indica che in Europa i cattolici non sono perseguitati, pur essendo oggetto di scherno.

Dal Rapporto precedente la situazione non è migliorata, sostiene questa associazione che presta aiuto ai cristiani di tutto il mondo.

Per ACS, la tendenza crescente alla persecuzione e alla discriminazione per la religione che si professa è dovuta sia alla radicalizzazione del mondo islamico che alla “cristianofobia”, e alla facilità con cui si ridicolizza la Chiesa in alcuni Paesi del mondo sviluppato.

Nella presentazione del Rapporto in Spagna, questo martedì a Madrid, Javier Menéndez Ros, direttore di ACS in Spagna, e il missionario salesiano in Pakistan Miguel Ángel Ruiz hanno citato le parole di Benedetto XVI alla vigilia della beatificazione del Cardinale John Henry Newman: “Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia”.

La fede cristiana è la più diffusa e anche la più perseguitata. Secondo quanto ha spiegato Menéndez, il numero totale è simile a quello del Rapporto di due anni fa, anche se i ricercatori e gli esperti che hanno partecipato a quello di quest'anno hanno assicurato che la situazione per i cristiani è peggiorata.

Il Rapporto analizza 194 Paesi, con problemi in circa 90, tra cui vari dei più popolati al mondo: Cina, India, Indonesia, Russia e Pakistan. Il peggioramento della situazione, ha sottolineato Menéndez, è dovuto soprattutto a una maggiore radicalizzazione nell'ambito musulmano, con più fanatismo, intolleranza e vessazioni.

I Paesi in cui si verificano le maggiori violazioni alla libertà religiosa sono Arabia Saudita, Bangladesh, Egitto, India, Cina, Uzbekistan, Eritrea, Nigeria, Vietnam, Yemen e Corea del Nord.

Menéndez ha osservato che “dove non esiste la libertà religiosa non esiste la libertà democratica”, e ha rimarcato “il dovere di qualsiasi essere umano di rispettare il diritto al culto, evangelizzare e vivere in base alla propria fede”.

In Egitto vige una legge di libertà religiosa, ma i cristiani subiscono discriminazioni e attacchi, permessi, secondo ACS, dal Governo di Hosni Mubarak.

Il missionario salesiano Miguel Ángel Ruiz ha descritto dal canto suo la situazione in Pakistan, affermando che il terrorismo islamico non colpisce solo i cristiani, ma “tutti coloro che non la pensano come i fondamentalisti”.

“Se il terrorismo si concentrasse solo sui cristiani, staremmo molto peggio di ora”, ha affermato.

In base alla sua esperienza nel trattare con i musulmani, il missionario ha sottolineato che “bisogna porre limiti molto chiari ogni volta che si lavora con l'islam”.

Ha anche richiamato l'attenzione sulla disobbedienza civile pacifica. Quando lo Stato pakistano ha cercato di approvare leggi ingiuste o discriminatorie, come quella che pretendeva di includere nella carta d'identità la religione, i cristiani sono scesi in strada per bloccarla, e ci sono riusciti. “Siamo pochi, ma sappiamo far rumore”, ha affermato.

Padre Ruiz ha indicato che se la persecuzione non è maggiore si deve al fatto che i mezzi di comunicazione prestano molta attenzione agli attacchi ai cristiani.

A suo avviso, sia gli Stati Uniti che l'Europa hanno sbagliato molto, e ha raccomandato “che gli europei diano il seguente messaggio agli immigrati di altre religioni e culture: 'Siete i benvenuti qui, ma rispettateci'”.

Il missionario, che dirige un centro di formazione professionale per giovani a Lahore, ha riconosciuto di aver scoperto “una fede profonda” tra i cristiani pakistani, visto che “alla fine della giornata ci si domanda perché questa gente non diventi musulmana per evitare una vita di pressioni e discriminazione”.


Tutti per ognuno, ognuno per tutti Giorgio Vittadini - giovedì 25 novembre 2010 – il sussidiario.net

Sabato prossimo 27 novembre si svolgerà l’annuale “Giornata nazionale della colletta alimentare”, dove milioni di persone su tutto il territorio nazionale potranno donare parte della loro spesa per persone bisognose di aiuto. Per tutti un gesto di generosità semplice, ma profondo, in cui rendersi conto che vale la pena regalare qualcosa per qualcuno in difficoltà.

Un’opportunità che ha particolare rilievo, in un momento in cui il tono pubblico dominante è l’insulto e il sospetto alla ricerca di audience o di maggior potere politico e l’“altro” è, in prima battuta, un nemico da abbattere, anche se per teoremi che raramente si riescono a dimostrare. Ma la generosità può, per chi sia cosciente, diventare ancora più profonda e duratura.

Può diventare giudizio perché, come disse don Giussani, l’esigenza di interessarci degli altri “è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza”. E questo è a fondamento del fatto che una nuova società si costruisce amando l’altro, mostrando che sacrificando qualcosa di sé per qualcuno che ha bisogno si genera immediatamente l’inizio del cambiamento di cui tutti sentono la necessità.

È un cambiamento che non ha bisogno di particolari condizioni per affermarsi, ma viaggia “per contagio” sulle gambe di chiunque ne rimanga colpito, come mostrano le migliaia di volontari che sabato renderanno possibile la “Giornata nazionale della colletta alimentare”. Chi è cristiano, poi, a imitazione della carità infinita di Cristo verso ogni uomo, può percepire il suo gesto come parte di questa novità, “dono di sé commosso”.

Rinascono così piccoli gesti simili a quei grandi gesti che hanno fatto la storia, da san Martino che ha donato il suo mantello, a padre Kolbe che ha donato la sua vita, a tutti i milioni di persone che ogni giorno lì, dove vivono, servono qualcuno che ha bisogno. Non sono imitazioni di qualcosa che non c’è più: sono obbedienza al Mistero presente in coloro che hanno bisogno, come ci ha detto lo stesso Gesù nel discorso della Montagna.
Si può partecipare alla “Giornata nazionale della colletta alimentare” educandosi addirittura a questa coscienza. In tutti i casi (generosità, impeto naturale, carità cristiana), partecipare alla Colletta è un giudizio che costringe a cambiare se stessi e tutta la società. Mentre tutti si lamentano, si insultano e invocano utopisticamente giustizieri o demiurghi che risolvano la situazione, questo gesto popolare ricorda a tutti che l’Italia è sempre venuta fuori dalle crisi per l’iniziativa di tanti “io” motivati in diverso modo e a diversa profondità, ma tutti desiderosi che il loro lavoro e impegno fosse un servizio al bene comune, alla comunità locale, alla società, alla nazione.

Così abbiamo ricostruito l’Italia nel dopoguerra, così abbiamo fatto il boom economico, così possiamo venirne fuori anche oggi.


COLLETTA/ Quella Carità che parla la lingua di Chen, Mohamed, i carcerati e John Elkan Redazione - giovedì 25 novembre 2010 – il sussidiario.net

La Colletta 2010 conquista Chinatown. E’ una delle particolarità dell’evento che si terrà sabato nei supermercati dell’intera Penisola, su iniziativa del Banco alimentare, che quest’anno sarà in grado più che mai di coinvolgere tutta l’Italia. Inclusa quella che parla cinese, grazie ai volantini stampati in lingua orientale e diffusi a Prato per sensibilizzare una delle comunità immigrate più numerose nel nostro Paese. Varcando così una nuova frontiera, dopo quella dei ragazzi musulmani di Porto Franco, che anche quest’anno daranno il loro contributo come volontari. E la Colletta alimentare non varcherà solo tutte le barriere culturali possibili e immaginabili, ma anche le spesse mura del carcere e delle celle d’isolamento, per raccogliere il contributo degli ergastolani di quattro penitenziari di due regioni diverse.

Ma tra i volontari ci sarà anche John Elkann, presidente Fiat e primogenito di Margherita Agnelli e di Alain Elkann, che allestirà un suo banchetto chiedendo ai clienti di un supermercato di donargli pasta, tonno e legumi in scatola per le persone più povere. Anche se l’aspetto più inedito della Colletta 2010 è il suo approdo nella Chinatown di Prato, per volontà del Banco alimentare della Toscana. Finora nessuno dei cinesi che vivono stabilmente nel nostro Paese ha mai partecipato come volontario del Banco alimentare, a differenza di alcuni studenti universitari giunti in Italia con il progetto Marco Polo.

Tra di loro c’è Giuliana Chan, originaria di Macao, iscritta al corso di laurea in Beni artistici di Firenze, che quest’anno parteciperà nuovamente alla Colletta dopo l’esperienza dell’anno scorso. «La prima volta che me l’hanno proposto ho deciso di provare, anche perché non richiedeva tanto tempo - racconta Chan a Ilsussidiario.net -. Come modalità di donare, quella della Colletta è diversa, perché alle persone non è chiesto denaro ma un bene primario come il cibo. E questo suscita subito fiducia, perché è come aiutare un vicino di casa rimasto senza pasta o senza farina. E’ naturale farlo, ed è una cosa molto semplice ma che può risolvere la situazione di chi è in difficoltà».
Per questo Chen ha scelto di tornare, anche perché «aiutare le persone in difficoltà è qualcosa che dà soddisfazione e gioia, ed è un’esperienza che può comprendere chiunque. Sia italiano o cinese, cristiano o di un’altra religione». E quindi «il volantino in cinese è un passo importante. La maggior parte delle persone arrivate in Italia dalla Cina parteciperebbero volentieri alla Colletta alimentare, ma non lo fanno per l’ostacolo della lingua o perché non ha nessuno che fornisce loro delle informazioni. Ma l’esperienza di donare qualcosa agli altri è identica per tutti, a prescindere dalla lingua in cui si parla». Al punto che, spiega Chen, «vedrei volentieri una Colletta alimentare anche a Macao, a Hong Kong o a Taiwan: credo che avrebbe molte possibilità di successo. A Pechino è più difficile, ma lì la situazione è diversa».

Ma soprattutto, la Colletta può essere proprio il fatto in grado di superare un certo isolamento in cui vive la comunità cinese in Italia. «Un conto - spiega Chen - sono gli studenti cinesi come me venuti in Italia per studiare, a cuore aperto e desiderosi di fare un’esperienza positiva. Un altro chi è scappato dal suo Paese perché non riusciva più a viverci, e che qui in Italia si sente un po’ come un fuggitivo. Tendendo quindi inevitabilmente a frequentare solo altre persone simili a sé. Per rompere l’isolamento l’unica soluzione è che ci sia qualcuno in grado di entrare nelle comunità degli immigrati per aiutarli a vedere in modo diverso il Paese in cui si trovano. Facendo sì che si rendano conto che vivono in Italia, e non nella Cina italiana».

Un discorso analogo può valere anche per i volontari musulmani che parteciperanno alla Colletta. Molti di loro sono studenti di Porto Franco, la struttura presente in nove regioni italiane che aiuta gratuitamente i ragazzi nelle materie scolastiche in cui sono in difficoltà. Come Mohamed Bouchbouk, nato in Marocco 19 anni fa, a Milano da quando ne ha nove. «E’ la mia prima volta che partecipo a questa iniziativa - racconta - e ho deciso di farlo perché aiutare delle persone che hanno bisogno è una cosa fondamentale per l’essere umano. Se ho questa possibilità, perché non dovrei? Gli alimenti raccolti saranno destinati alle persone povere, e questa è una cosa positiva».
Anche perché, come sottolinea sempre Mohamed, «tra i cinque pilastri della mia religione c’è il dovere di aiutare gli indigenti, e quindi quando c’è una persona con un bisogno e si ha la possibilità si è quasi obbligati ad aiutarla». E del resto, aggiunge Mohamed, «il fatto che alla Colletta alimentare partecipino musulmani e cristiani insieme vuol dire che è possibile collaborare anche su altre cose. Anche a Porto Franco ci sono molti musulmani, tra cui diverse ragazze con il velo, e ragazzi cristiani molto credenti. E io sto certamente meglio con loro che non con i miei coetanei che non credono in nulla, e che continuano a bestemmiare senza nessun motivo».

Mentre Wady M., 16 anni, musulmano nato in Italia da genitori egiziani, rivela di avere «deciso di partecipare perché per me è una cosa nuova, è la prima volta che vengo e ho deciso di provare. E poi, quando si tratta di aiutare delle persone povere che hanno bisogno, è una cosa che va sempre bene, soprattutto se sono nostri vicini di casa o concittadini. E’ giusto aiutare chi vive negli altri Paesi, ma prima ancora dobbiamo fare qualcosa per le persone bisognose, italiane o immigrate, che si trovano vicino a noi. E ultimamente purtroppo sono sempre più frequenti le famiglie che anche a Milano hanno delle serie difficoltà».

Quest’anno inoltre la Colletta alimentare si terrà anche dietro le sbarre. In tre penitenziari lombardi, Opera, Monza e San Vittore, i carcerati acquisteranno dei generi di prima necessità negli spacci interni e li doneranno al Banco alimentare. Mentre a Massa, in Toscana, 26 detenuti utilizzeranno uno dei pochi giorni di libertà vigilata a loro disposizione per raccogliere generi alimentari nei supermercati, invece che per visitare le famiglie come sarebbe più spontaneo fare. Come racconta Andrea Giusti, responsabile provinciale della Colletta, «sabato una ventina di carcerati si divideranno in gruppi di tre-quattro nei principali supermercati, mentre altri cinque o sei aiuteranno a smistare i pacchi nei magazzini».

Giusti ieri si è incontrato con i 26 volontari «speciali» all’interno del penitenziario e racconta: «Dedicano una loro giornata di libertà a questa iniziativa perché ci credono e sentono il piacere e la gratitudine di fare parte della Colletta, anche se le difficoltà materiali che devono affrontare giorno per giorno nelle loro celle fanno sì che sarebbero le prime persone bisognose dell’aiuto che invece scelgono di destinare agli altri».

Come raccontano in una lettera i carcerati milanesi Rosario, Francesco, Sergio e Fabiano, «oggi molte persone si trovano, dopo una vita di lavoro, nella condizione di avere bisogno di aiuto. Persone che dopo avere perso il lavoro, dopo una vita spesa all’insegna dell’onestà si trovano a non avere da parte delle istituzioni un sostegno quando per l’età avanzata restano senza uno stipendio». E aggiungono i carcerati nella loro lettera: «Siamo lieti di poter concorrere a questa bella e lieta iniziativa e vogliamo anche ringraziare tutti coloro che materialmente si adoperano per la riuscita di tutto ciò, parlo degli organizzatori, i volontari, le persone che si occupano del ritiro e della consegna dei prodotti e ovviamente dei donatori».

(Pietro Vernizzi)


Avvenire.it, 25 novembre 2010 - Nel libro c’è il pastore che s’immedesima con la difficoltà di ciascuno - La luce riaccesa dal Papa: la Verità è per le persone mai sulle persone - Mauro Cozzoli

Servizio della verità e attenzione alle persone sono le due polarità dell’insegnamento morale di Papa Benedetto nel libro "Luce del mondo". Trattandosi di un’intervista, l’attenzione non poteva che essere portata su questioni eticamente sensibili, come la comunione ai divorziati, l’uso del preservativo, i rapporti omosessuali, su cui s’è polarizzata l’attenzione dei media. Non solo il Papa non si sottrae alle domande, ma trae spunto dalla loro concretezza per portare luce sul vissuto difficile, spesso sofferto, da cui muovono.

È la luce della verità, fatta risplendere nella sua interezza. In una socio-cultura scettica ed eclettica eclettica, sensibile alle opinioni prevalenti e alle mode correnti, succube del politicamente corretto, il Papa manifesta il coraggio – san Paolo direbbe la parresia – della verità, dicendola apertamente e facendone valere le esigenze per le libertà e le coscienze. Egli non teme di restare solo a dirla, persuaso di essere a suo servizio, per l’integrale benessere delle persone e delle comunità. Così egli afferma il significato «profondamente umano» della sessualità, irriducibile alla sua dimensione edonica; il carattere «monogamico» e «indissolubile» del matrimonio; il disordine «contro natura» delle relazioni omosessuali e l’«inconciliabilità dell’omosessualità con il ministero sacerdotale». Questo «anche se contraddice le opinioni e gli stili di vita oggi dominanti». Nella dichiarata consapevolezza che «cedere o abbassare l’indice di convinzione non aiuta la società ad innalzare il proprio livello morale». Il Papa mostra così di essere a servizio della verità, di non poterla tacere, di essere da essa illuminato e sollecitato.

Al tempo stesso egli è attento alle persone, considerandone la dignità e le situazioni in cui vengono a trovarsi. La verità non è affermata sulle persone ma per le persone. L’unica verità si singolarizza nelle condizioni di fatto delle persone. Il maestro è nel contempo il pastore che s’immedesima con la difficoltà, la sofferenza, la prova di ciascuno. Egli sa che la verità dalla oggettività dell’enunciazione dottrinale deve essere mediata nella soggettività delle persone e delle situazioni. Per questo in presenza delle vessazioni e delle emarginazioni degli omosessuali, il Papa esige «il rispetto ad essi dovuto come persone» e la riprovazione di ogni discriminazione.

L’illiceità dei rapporti omosessuali non toglie nulla alla dignità dell’omosessuale. Circa i divorziati risposati e la loro sofferenza per l’esclusione dalla comunione eucaristica, il Papa, da una parte, s’immedesima nella situazione di tanti che contraggono matrimonio senza conoscerne appieno – «nel groviglio di opinioni» di oggi – le esigenze di totalità e indissolubilità, così da far dubitare della validità della loro unione e indurre a cercare vie canoniche di soluzione.

Dall’altra, fa appello alla pastorale, chiamata a «vedere come restare vicina alle singole persone e, anche nella situazione irregolare, aiutarle a credere in Gesù Cristo Redentore, a credere nella sua bontà e restare nella Chiesa». In relazione all’uso del preservativo, il Papa mostra attenzione a casi particolari – ne cita uno, quello dei rapporti di prostituzione – in cui le persone non riescono ancora ad evitare il rapporto e per non contrarre o non diffondere l’infezione fanno uso del profilattico. Con questo egli non muta la verità del male morale della contraccezione, ma la considera in rapporto a circostanze che possono dar luogo a una giustificazione soggettiva, a «casi giustificati» egli dice.

In questa attenzione alle persone il Papa è maestro di sapienza dottrinale e pastorale: sapienza che dai livelli alti dei valori e dei principi sa farsi luce di verità nel vissuto concreto e singolare delle persone. «Luce del mondo» è più che un titolo, è uno stile e un metodo di paideia etica.


Avvenire.it, 25 novembre 2010 - Senza libertà religiosa 5 miliardi di persone - La tragica fantasia dei persecutori di Giulio Albanese

La religione fa problema su scala planetaria. È quanto si evince da una lettura del Rapporto sullo stato della libertà religiosa nel mondo 2010, presentato ieri a Roma. Secondo la ricerca di "Aiuto alla Chiesa che Soffre" (Acs), sono circa cinque miliardi (il 70% dei quasi 7 miliardi di abitanti del pianeta) le persone a cui la libertà religiosa è negata, interdetta o repressa. Alle gravi restrizioni da parte di alcuni governi, non di rado si accompagnano conflitti tra le varie religioni o rappresaglie tra i seguaci della stessa componente religiosa. Tra i Paesi con maggiori restrizioni, un peso schiacciante lo hanno le due potenze emergenti – Cina e India – ciascuna con una popolazione che va ben oltre la soglia del miliardo di abitanti. Per non parlare di numerosi Paesi a maggioranza islamica in cui le minoranze religiose sono costantemente emarginate rispetto alla vita pubblica, se non addirittura perseguitate.

È dunque lunga la lista dei cosiddetti Paesi "illiberali" che, in un modo o nell’altro, condizionano, se non addirittura soffocano, il sentimento religioso. E a pagare il prezzo più alto in vite umane sono le comunità cristiane. A riconoscerlo è anche Amnesty International, secondo la quale da almeno due decenni il cristianesimo è la religione più perseguitata del mondo.

Vi sono comunque tanti modi per manipolare o sopprimere la libertà religiosa. Basti pensare a quei vescovi cinesi, sottoposti recentemente a pressioni e a restrizioni della propria libertà di movimento, allo scopo di forzarli a partecipare e a conferire l’ordinazione episcopale a un candidato scelto dalle autorità di Pechino. Come giustamente ha stigmatizzato la Santa Sede, si tratta di una «grave violazione della disciplina cattolica (…) a scapito dell’atmosfera di rispetto faticosamente creata» tra la Chiesa cattolica e il Governo cinese.

Ma il fenomeno è trasversale se si considerano le aperte persecuzioni perpetrate in questi anni dal regime di Pechino nei confronti dei monaci tibetani, dimenticando che la religione è sempre e comunque la quintessenza della coscienza. Basta dare un’occhiata al nostro Catechismo che, citando il Concilio Vaticano II, rileva come la coscienza sia «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (§ 1776).
Su questa cruciale frontiera, è chiaro che, guardando al futuro, sarà determinante il ruolo del cattolicesimo, proprio per la sua natura universale.

Come ha scritto Benedetto XVI, in una missiva al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, il 9 novembre scorso: «I credenti di ogni religione hanno una responsabilità particolare e possono giocare un ruolo decisivo, cooperando ad iniziative comuni. Il dialogo interreligioso e interculturale rappresenta una via fondamentale per la pace». Sarebbe pertanto fuorviante dare adito ai fautori dello "scontro delle civiltà" che vorrebbero strumentalizzare le religioni per fini politici o eversivi.

Non foss’altro perché «ogni autentica religione – come ha sottolineato padre Joaqín Alliende, presidente internazionale dell’Acs – implica una permanente volontà di conversione e miglioramento». E la testimonianza di tanti nostri missionari e missionarie che operano nel contesto delle Giovani Chiese, in situazioni spesso di aperta persecuzione, è motivo di edificazione per le comunità d’antica tradizione. Questi "Uomini di Dio", per usare il titolo di una pellicola nelle sale in questi giorni, ci rammentano che la loro militanza evangelica è davvero l’affermazione della beatitudine più sconvolgente di cui parla il Cristo nel celebre discorso della Montagna. Perché «di essi è il Regno dei cieli» (Matteo 5,10).


La tv di Fazio - Il nichilismo con la maschera della bonarietà di Michele Aramini – Avvenire, 25 novembre 2010

L’aspirazione odierna alla libertà è un bene da apprezzare senza riserve. Mentre molti uomini lottano ancora per la libertà dalla fame, in Occidente questa tensione si concretizza nella richiesta di diritti sempre nuovi, non sempre ragionevoli. Ai giusti diritti civili della rivoluzione francese, sono succeduti i necessari diritti del welfare e oggi siamo alle prese con una terza generazione di diritti: diritto alla sessualità libera, diritto di divorziare; accanto a questi si vuole avere il diritto di aborto, il diritto di fare figli in provetta senza alcuna regola, il diritto di avere benefici con i Pacs senza prendere impegni per il bene della società. La serie delle rivendicazioni vorrebbe completarsi con il diritto all’eutanasia. A proposito di quest’ultima richiesta, occorre dire che la questione del testamento biologico, nelle intenzioni di alcuni, è sempre stata strumentale al raggiungimento dell’obiettivo vero che è l’affermazione del diritto di eutanasia.

Alfiere apparentemente mite di questa ubriacatura di diritti è diventato Fabio Fazio, che con il suo nichilismo bonario fa passare le espressioni più estreme dell’individualismo sotto il facile slogan: 'nessuno deve scegliere per me'. Nelle sue trasmissioni passa con grande naturalezza l’idea che si è moderni e democratici solo se si accetta una concezione del principio di autodeterminazione privo di qualunque limite. Altri diranno se questo è un buon modo di far televisione. A me interessa mettere in luce la povertà e l’acriticità di un pensiero che si presenta mite ma si rivela antidemocratico, con una venatura di arroganza. Il principio democratico, infatti, è certamente amico della libertà, ma di una libertà 'buona', mentre soffre a causa di una libertà 'cattiva'. La libertà che non ascolta e non rispetta gli altri è certamente 'cattiva'; la libertà che rivendica diritti senza rispettare i doveri è certamente 'cattiva'. Infatti la libertà è buona quando si confronta con i valori morali e sceglie ciò che appare buono dopo un’approfondita ricerca e un confronto con gli altri esseri umani; in mancanza di questa ricerca c’è l’arbitrio. Va detto a chiare lettere che solo in un ambiente violento si può fare ciò che si vuole. In ogni altro luogo veramente umano la libertà personale si deve misurare con i diritti degli altri e il rispetto che si deve alla loro persona. L’aspetto deteriore della predicazione di Fazio è proprio l’equiparazione di una libertà fondata sulla verità e di un arbitrio prepotente. In tal modo si mina ogni forma educativa e la stessa compagine sociale, perché se è un bene l’arbitrio ogni regola della società si può aggirare per il solo fatto che mi dà fastidio.
Per stare ai temi bioetici, la libertà di procreare degli adulti deve confrontarsi con il valore cardine della vita e con i diritti dei figli che nasceranno, altrimenti si è padri­padroni violenti. Lo stesso si deve dire per le decisioni di fine vita e la libertà di cura, spesso intesa unilateralmente come rifiuto delle cure. Invece di spingere il sistema sanitario nella direzione di prestare cure adeguate a tutti e in specie ai più deboli, in modo da rispondere a un bisogno umano fondamentale, si insiste sull’idea che la nostra autodeterminazione sia vera solo se possiamo rifiutare le cure. Al contrario, la libertà personale troverebbe la sua piena realizzazione nella ricerca delle vie migliori per proteggere la nostra persona e ogni uomo dalla sofferenza. Ma questa ricerca muore se si usa la mannaia del 'faccio quello che voglio'.


Salute riproduttiva: sul Web i giovani che l’Onu ignora – Avvenire, 25 novembre 2010

C’è una petizione che sta correndo sul web, di nazione in nazione, rilanciata nei singoli Paesi da gruppi cattolici o comunque di impegno pro-life. È la 'Dichiarazione dei giovani alle Nazioni Unite e al mondo', dove si ribadisce il ruolo della famiglia nell’educazione dei figli e la necessità di «rispettare una comprensione corretta della sessualità e delle relazioni sane». La petizione non arriva a caso, ma nel momento in cui l’Onu sta andando in tutt’altra direzione, invocando per i giovani del pianeta, accanto ad altre cose come l’istruzione, il lavoro, la partecipazione, l’eguaglianza dei generi, anche il diritto a un pieno accesso ai servizi «di salute sessuale e riproduttiva» (leggi contraccezione e aborto). Un doveroso altolà, quello della petizione, che arriva nel bel mezzo dell’Anno dei giovani aperto dall’Onu nell’agosto scorso e che finora ha prodotto documenti ufficiali fortemente ambigui proprio sui temi della sessualità e della riproduzione.

Si tratta di una visione unilaterale dei giovani, che cancella il ruolo della famiglia: la parola è citata solo un paio di volte nel Documento Onu approvato alla Conferenza sui giovani di Leon che ha dato l’avvio all’Anno internazionale (Messico, 27 agosto 2010) e nessuna volta nel parallelo Documento approvato nella stessa occasione da 208 ong in rappresentanza di 153 Paesi del mondo, e recepito dalla stessa Onu.


Igruppi giovanili cattolici, guidati e sollecitati da C-Fam (Catholic Family and Human Right Institute), una ong con base a New York che fa azione di lobbying sulle Nazioni Unite e che per questa sua attività è diventata punto di riferimento delle associazioni pro life e pro-family negli Stati Uniti, hanno lanciato una Dichiarazione 'alternativa', ispirata a valori forti come il diritto alla vita e la «intrinseca dignità di ogni essere umano». Al momento la petizione conta quasi 100 mila firme, metà di ragazzi sotto i 30 anni e metà di adulti. Un risultato non da poco, se si pensa che non c’è stato nessun 'passaggio' sugli organi di stampa né in tivù. In Italia la Dichiarazione è stata raccolta dalla rete da Emanuele Rizzardi, blogger pro-life (vedi intervista a lato) impegnato soprattutto nella contro-informazione su ciò che avviene nelle stanze dei bottoni internazionali, in particolare all’Onu e all’Unione Europea.

Dopo averla scovata in rete, Rizzardi l’ha 'postata' sul suo blog (prolifeinternational.blogspot.com ) e poi l’ha volentieri passata agli amici di Nuove Onde, un gruppo di pressione e cultura pro-life animato da giovani, che l’ha messo in evidenza sulla home page del suo sito in modo che potesse 'girare' anche in Italia (www.nuoveonde.it). Un passaparola virtuale che sta funzionando.

a Dichiarazione, forte del suo pacchetto di firme, si vuole esplicitamente porre come 'voce fuori dal coro', nella speranza – piuttosto labile, per la verità, visto il clima fortemente ideologico che si respira all’Onu su questi temi – che l’assemblea di Palazzo di Vetro possa prenderla in considerazione accanto a quelle già approvate. Al di là del suo esito pratico, comunque, è importante che la Dichiarazioni giri sul web, per dimostrare che esistono migliaia di ragazzi che considerano ancora la famiglia – e non lo Stato... – come prima educatrice dei figli e l’educazione sessuale non solo un fatto di accesso alle pratiche contraccettive o all’aborto, ma come indissolubilmente legata al «senso di responsabilità e di rispetto in noi stessi».

«L’espressione piena e corretta della sessualità – si legge ancora nella 'Dichiarazione' che corre sulla rete – può essere realizzata solo nell’impegno totale, disinteressato e per tutta la vita dell’istituzione naturale del matrimonio tra un uomo e una donna».