martedì 23 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    RECORD NEL CALO DELLE NASCITE IN GERMANIA - A rischio gli equilibri all'interno dell'Unione Europea di Paolo Mari
2)    BENEDETTO XVI: NEWMAN, UN UOMO CHE CERCAVA ONESTAMENTE LA VERITÀ - Messaggio a un congresso sul pensiero del beato inglese
3)    22/11/2010 – IRAQ - Uccisi due fratelli cristiani a Mosul - Nuovo attacco alla comunità religiosa: commando spara e uccide a sangue freddo due commercianti. L’appello: “Pregate per noi cristiani perseguitati d’Iraq”.
4)    Pubblicati gli atti del convegno per il quarantesimo anniversario dell'«Humanae vitae» - Paolo VI avvocato della persona umana (©L'Osservatore Romano 22-23 novembre 2010)
5)    Quanto vale la felicità? Pigi Colognesi - martedì 23 novembre 2010 – il sussidiario.net
6)    Avvenire.it, 23 novembre 2010 - Le sofferenze inflitte per odio - Estrema blasfemia di Giuseppe Anzani
7)    Avvenire.it, 23 novembre 2010 - Il libro-intervista di Benedetto XVI - Alla fine, una certezza il cristianesimo dà gioia di Pierangelo Sequeri
8)    testimone - Gigi Radaelli: «Da una settimana gli scrivo inutilmente Provo vergogna per quelle menzogne»  - «Caro Fazio, ti presento Susi» - DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 23 novembre 2010
9)    «Così lottano per vivere Saviano venga a vederli» - Dalla clinica di Crotone l’appello del neurologo Dolce - All’Istituto Sant’Anna l’unità specializzata che si occupa dei pazienti in stato vegetativo non ci sta: «Il medico rimuove le cause di un disagio, non le sopprime» - DA CROTONE ANDREA GUALTIERI – Avvenire, 23 novembre 2010

RECORD NEL CALO DELLE NASCITE IN GERMANIA - A rischio gli equilibri all'interno dell'Unione Europea di Paolo Mari

ROMA, lunedì, 22 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il numero delle nascite in Germania ha raggiunto lo scorso anno il livello più basso dalla Seconda Guerra Mondiale. Secondo i dati dello Statistisches Bundesamt (l'Ufficio Statistico Federale, con sede a Wiesbaden, nell'Assia), presentati recentemente e ripresi dai media tedeschi, nel 2009 sono nati nella prima economia europea circa 665.000 bambini, ossia 17.000 in meno rispetto all'anno 2008 e neppure la metà di quelli che hanno visto la luce nel 1964, quando furono circa 1,4 milioni. In quell'anno la Germania contava 75 milioni di abitanti, oggi sono circa 82 milioni.

Il dato fa abbassare ulteriormente il tasso di fertilità, che nel 2009 è sceso a 1,36 figli per donna, rispetto a 1,38 nel 2008 e 1,37 nel 2007. Mentre il tasso di fecondità è rimasto uguale nella Germania Orientale (1,4 figli per donna), nelle regioni occidentali è sceso da 1,37 nel 2008 a 1,35 l'anno scorso. Secondo gli esperti le cause del
continuo calo delle nascite in Germania sono due. Non solo le donne tedesche fanno sempre meno figli, ma scende anche il numero di donne in età fertile, conseguenza della discesa della natalità registrata già negli anni '80.

Un altro fenomeno che pesa sulle nascite è il fatto che molte donne rimandano la nascita del primo figlio. Mentre negli anni '70 l'età media delle donne al primo parto era ancora inferiore ai 25 anni, oggi ha superato largamente la soglia dei 30 anni. Come ricorda Stefan Fuchs sul sito Die Freie Welt del 12 novembre, rispetto all'inizio degli anni '90 la percentuale di figli nati da donne con meno di 30 anni è crollata oggi in Germania di più del 40%.

Tipico è il caso del Land Schleswig-Holstein, nell'estremo nord della Germania, al confine con la Danimarca, dove l'anno scorso sono nati 21.923 bambini, ossia il 3,4% in meno rispetto al 2008 e ben il 10% in meno rispetto al 2004. Le conseguenze del calo si nota anche nelle scuole della regione. Secondo il sito dello
Schleswig-Holsteinische Zeitungsverlag (SHZ), quest'autunno 25.400 bambini sono andati per la prima volta a scuola nel “Land” più settentrionale della Germania, cioè lo 0,5% in meno rispetto all'anno precedente.

Per la cancelliera democristiana Angela Merkel, l'ulteriore calo delle nascite è una brutta notizia. Uno dei progetti chiave del suo primo governo (la “Grande coalizione”) era il lancio del cosiddetto “Elterngeld” (sussidio parentale), entrato in vigore il 1° gennaio del 2007. Promosso dall'allora ministro della Famiglia, degli Anziani,
della Donna e della Gioventù, Ursula Von der Leyen, medico e madre di 7 figli, la normativa prevede un assegno per i neogenitori che decidono di assentarsi per un anno dal posto di lavoro per dedicarsi ai figli. Fino ad un massimo di 1.800 €, le madri lavoratrici ricevono per un anno il 67% dello stipendio netto. Quelle che guadagnano meno di 1.000 € al mese, ricevono invece l’intera busta paga.

I problemi demografici del paese rischiano di avere conseguenze importanti per gli equilibri all'interno dell'Unione Europea. Se la Turchia dovesse entrare a far parte dell'UE, potrebbe infatti diventare presto il paese membro più popoloso dell'Unione. Mentre la popolazione della Germania, che conta oggi circa 82 milioni di abitanti, è destinata a scendere già nei prossimi anni, quella della Turchia si avvicina rapidamente a quota 80 milioni. Se la popolazione della Turchia dovesse superare quella della Germania, la frazione turca diventerebbe la più grande del Parlamento europeo, una prospettiva che non piacerà a tutti.

E, come ha fatto capire nel settembre scorso a margine dell'Assemblea plenaria delle Nazioni Unite a New York il vice premier di Ankara, Ali Babacan, la Turchia vuole occupare un ruolo di rilievo nell'UE. “Quando la Turchia diventerà membro dell'UE, non starà in seconda fila”, così ha detto Babacan secondo il quotidiano austriaco Die Presse del 24 settembre.


BENEDETTO XVI: NEWMAN, UN UOMO CHE CERCAVA ONESTAMENTE LA VERITÀ - Messaggio a un congresso sul pensiero del beato inglese

ROMA, lunedì, 22 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il beato John Henry Newman è stato in primo luogo un uomo “onesto nella ricerca della verità”, perché “il primato di Dio è il primato della verità”.

Papa Benedetto XVI lo afferma in un messaggio indirizzato al Simposio “Il primato di Dio nella vita e negli scritti del beato John Henry Newman”, in svolgimento a Roma e organizzato dal Centro Internazionale Amici di Newman.

Il beato, afferma, “mai si abbassò a falsi compromessi o si accontentò di facili consensi. Egli rimase sempre onesto nella ricerca della verità, fedele ai richiami della propria coscienza e proteso verso l’ideale della santità”.

“Il primato di Dio si traduce dunque, per Newman, nel primato della verità, una verità che va cercata anzitutto disponendo la propria interiorità all’accoglienza, in un confronto aperto e sincero con tutti, e che trova il suo culmine nell’incontro con Cristo”, ha aggiunto.

Il primato di Dio, afferma il Papa, è la “prospettiva fondamentale che ha caratterizzato la personalità e l’opera del grande teologo inglese”, e deriva dal momento della sua conversione.

Newman “scoprì quindi la verità oggettiva di un Dio personale e vivente, che parla alla coscienza e rivela all’uomo la sua condizione di creatura. Comprese la propria dipendenza nell’essere da Colui che è il principio di tutte le cose, trovando così in Lui l’origine e il senso dell’identità e singolarità personale”.

Dopo la conversione, il beato “si lasciò guidare da due criteri fondamentali” che “manifestano appieno il primato di Dio nella sua vita”.

Il primo era “la santità piuttosto che la pace”, che “documenta la sua ferma volontà di aderire al Maestro interiore con la propria coscienza, di abbandonarsi fiduciosamente al Padre e di vivere nella fedeltà alla verità riconosciuta”.

Il secondo era “la sua disposizione ad una continua conversione, trasformazione e crescita interiore, sempre fiduciosamente appoggiato a Dio”, afferma il Papa. “Newman è stato lungo tutta la sua esistenza uno che si è convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre rimasto lo stesso, ed è sempre di più diventato se stesso”.

Questi ideali hanno comportato “un grande prezzo da pagare”, sottolinea il Pontefice, perché Newman, “sia come anglicano che come cattolico, dovette subire tante prove, delusioni e incomprensioni”.

Nonostante tutto, “fu sempre attento anche a trovare il linguaggio appropriato, la forma giusta ed il tono adeguato. Cercò di non offendere mai e di rendere testimonianza alla gentile luce interiore, sforzandosi di convincere con l’umiltà, l’allegria e la pazienza”, conclude Benedetto XVI.


22/11/2010 – IRAQ - Uccisi due fratelli cristiani a Mosul - Nuovo attacco alla comunità religiosa: commando spara e uccide a sangue freddo due commercianti. L’appello: “Pregate per noi cristiani perseguitati d’Iraq”.

Baghdad (AsiaNews) – A due giorni dall’attacco a una casa di cristiani a Mosul, la città del nord Iraq ha visto nuove violenze contro la comunità religiosa, ormai oggetto di vera persecuzione nel Paese. Oggi, nel quartiere di al Sina’a, un gruppo di criminali anonimi, riferiscono fonti di AsiaNews, è entrato nel negozio di due fratelli cristiani uccidendoli a sangue freddo. Le vittime sono Wahad Hanna e Saad, di 40 e 43 anni.

Gli aggressori gli hanno sparato: Hanna è morto sul colpo, mentre Saad è spirato dopo due ore.

 La comunità cristiana in Iraq è stata duramente colpita nelle scorse settimane in una recrudescenza di episodi di violenza. Come quello del 31 ottobre, il più sanguinoso, quando l'assalto di un commando di al Qaeda, che ha definito i cristiani "obiettivi legittimi", alla cattedrale siro-cattolica di Baghdad durante la messa ha fatto morti quasi 60, tra i quali 44 fedeli e due religiosi.

Dopo l’ennesimo episodio di barbarie contro i cristiani, oggi la comunità lancia un nuovo appello: “Pregate per noi cristiani perseguitati”. (LYR)


Pubblicati gli atti del convegno per il quarantesimo anniversario dell'«Humanae vitae» - Paolo VI avvocato della persona umana (©L'Osservatore Romano 22-23 novembre 2010)

Intento dell'enciclica non è quello d'imporre pesi perché il Pontefice è ben consapevole dei problemi delle singole persone
Sono appena stati pubblicati nel volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell'enciclica "Humanae vitae" gli atti del convegno che si è tenuto dall'8 al 10 maggio 2008 - in occasione del quarantesimo anniversario dell'enciclica - presso la Pontificia Università Lateranense. Nel volume, curato da Lucetta Scaraffia (Roma, Lateran University Press, 2010, Dibattito per il Millennio, 15, pagine 253, euro 35), è compreso un testo poco noto scritto nel 1995 dal cardinale Ratzinger. Lo anticipiamo insieme ad alcuni stralci dell'introduzione.

di Joseph Ratzinger
Con la convocazione e l'apertura del concilio Vaticano II, Giovanni XXIII aveva lasciato in eredità al suo successore Paolo VI il compito di una riforma generale della Chiesa. Quando il concilio ebbe inizio, la fase della ricostruzione postbellica volgeva alla fine. Le distruzioni, che la dittatura anticristiana di Hitler aveva lasciato, parlavano un linguaggio eloquente. Esse avevano impresso un nuovo orientamento ai fondamenti cristiani dell'Europa e suscitato una volontà comune di risvegliare a nuova vita questo continente tormentato e smembrato. Nella necessità dell'ora era nata un'intesa nel pensiero e nell'azione, che si dissolse nel momento in cui fu completata nell'essenziale l'opera di ricostruzione. Lo sforzo di rinnovamento della Chiesa non può essere compreso prescindendo da questo contesto sociale e dai suoi cambiamenti. Nella prima fase postbellica la Chiesa appariva come il baluardo dell'umanità nella coscienza di coloro che avevano sperimentato il dominio della disumanità. Era la realtà sicura che aveva tenuto e aveva dato buona prova di sé. Pertanto essa poteva uscire dal ghetto in cui era stata cacciata nel diciannovesimo secolo:  il liberalismo e l'idea da esso ispirata degli stati nazionali non erano più - così in ogni caso sembrava - in contraddizione con la Chiesa. Lo spirito della modernità e la Chiesa non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l'uno verso l'altro.
Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi. L'epoca moderna non continuò a rimanere nella specifica situazione degli anni del dopoguerra. L'anno 1968 fu il segnale della svolta:  un mondo veramente nuovo e l'uomo nuovo dovevano essere generati dalle forze proprie della ragione e della potenza umana. Gli avvenimenti del 1968 significarono per così dire una rivolta dell'epoca moderna contro se stessa:  proprio la società liberale, organizzata in modo democratico e borghese, appariva ora come il carcere dell'insensatezza e del vuoto, che doveva essere infranto per trovare la libertà vera, assoluta e la vita piena.
La riconciliazione fra epoca moderna e fede, che in qualche modo era stata un'idea conduttrice del Vaticano II, era così messa in discussione nella sua forma concreta. Quell'epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi, ora non doveva più esserci. La rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte. Chi non aveva pensato a una riforma in modo deciso a partire dal contenuto della fede e dei suoi criteri riteneva anche ora di non poter restare in ritardo rispetto al nuovo e poteva facilmente perdere il terreno sotto i piedi. Vi erano però anche gli altri, che ora dichiaravano come fallita l'impostazione stessa del concilio e nelle resistenze contro di esso ritenevano di vedere la salvezza. Guidare la navigazione fra Scilla e Cariddi fu il difficile compito toccato a Paolo VI. In uno sforzo quasi sovrumano egli ha lottato per restare fedele alla vitalità e al dinamismo interiore della fede sottolineati dal concilio:  la fede non è mai formula congelata del passato, ma significa sempre il vero progresso. Essa infatti va incontro a Cristo, che non è solo l'Alfa, ma anche l'Omega della storia. "Le opere di Cristo non vanno all'indietro, ma in avanti", ha detto una volta san Bonaventura. La fede è sempre l'autentica novità e ha qualcosa da dire in ogni tempo; in ogni epoca può parlare nella sua lingua. Il miracolo di Pentecoste non implica solo la possibilità sincronica delle molte lingue e culture di un periodo, ma anche il miracolo diacronico, la forza di parlare nelle lingue di ogni presente e futuro. Ma in tale sviluppo vivente rimane sempre l'unica fede nell'unico Signore. Perciò il Papa considerò come suo compito quello di difendere e di mettere in luce questa entità della fede invece di dissolvere il messaggio in un semplice contrappunto o ripetizione delle ideologie che vengono e che vanno. Nella confusione delle dittature essa aveva dato buona prova di sé proprio per la sua non disponibilità a lasciarsi corrompere:  si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Se molti classificano il pontificato di Papa Montini come contraddittorio, come dialettica irrisolta fra progresso e tradizione, essi trascurano ciò che più lo caratterizza, quest'unità interiore della sua azione, che proviene dall'immutabilità e dal dinamismo dell'amore a Cristo.
Retrospettivamente appare assai significativo che Paolo VI abbia pubblicato proprio nell'anno fatale del 1968 due grandi documenti, che sono una testimonianza della sua capacità di comprensione e della fermezza della sua azione a partire dalla fede. Vi è innanzitutto la Professione di fede, che egli ha consegnato alla Chiesa il 30 giugno 1968 a conclusione dell'anno della fede da lui proclamato; vi è poi l'enciclica Humanae vitae del 25 luglio dello stesso anno. Merita rileggere questi documenti 25 anni dopo. Essi corrispondono a un determinato momento e alle sue sfide, ma vanno molto al di là del momento storico e appartengono al patrimonio permanente della Chiesa, anzi, se li rimeditiamo adesso - dopo tutto quel che è avvenuto - notiamo quanto essi siano attuali e adatti al momento presente.
Veniamo ora al secondo grande documento dell'anno 1968, all'enciclica Humanae vitae. Raramente un testo della storia recente del Magistero è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta. Due obiezioni fondamentali vengono sollevate contro il testo, una procedurale e una contenutistica. Dal punto di vista della procedura si rileva che il Papa avrebbe deciso contro la maggioranza della commissione di studio appositamente costituita e si sarebbe collocato in tal modo su di un terreno poco stabile; dal punto di vista del contenuto viene rimproverato all'enciclica che la sua affermazione centrale riposerebbe su di un concetto di natura superato, essa avrebbe mescolato biologia ed etica.
Il problema del rapporto fra maggioranza della commissione e decisione definitiva del Papa tocca questioni di fondo, che vanno molto al di là della problematica dell'enciclica Humanae vitae. Qui si dovrebbero porre problemi come i seguenti:  quando una maggioranza è veramente rappresentativa? Chi deve rappresentare? Come può farlo? Senza che il problema possa venire qui discusso in tutta la sua ampiezza, possiamo al riguardo dire quanto segue:  una commissione, che dà un parere sulla dottrina della Chiesa, non deve in ogni caso rappresentare la maggioranza dei pareri dominanti, ma l'esigenza interiore della fede. La verità non viene decisa a maggioranza; davanti alla questione della verità ha termine il principio democratico. Nella Chiesa inoltre non conta mai solo la società attualmente presente. In essa i morti non sono morti, perché come comunione dei santi essa va al di là dei confini del tempo presente. Il passato non è passato, e il futuro proprio per questo è già presente. Detto anche con altre parole:  nella Chiesa non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi, contro i grandi testimoni della fede che caratterizzano tutta la storia. Essi appartengono sempre al presente, e la loro voce non può essere messa in minoranza. La responsabilità nei confronti della continuità della dottrina ecclesiale aveva perciò giustamente per Paolo VI un'importanza maggiore di una commissione di sessanta membri, il cui voto era da tenere in considerazione, ma non poteva costituire l'ultima istanza di fronte al peso della tradizione.
Chi legge serenamente l'enciclica, troverà che essa non è affatto impregnata di naturalismo o biologismo, ma è preoccupata di un autentico amore umano, di un amore, che è spirituale e fisico in quella inseparabilità di spirito e corpo, che caratterizza l'essere umano (in particolare il n. 9). Poiché l'amore è umano, per questo motivo ha a che fare con la libertà dell'uomo, e pertanto deve essere amore, che ama l'altro non per me, ma per se stesso. Per questo fedeltà, unicità e fecondità sono ancorate nella essenza interiore di questo amore. A Paolo VI sta a cuore difendere la dignità umana dell'amore umano e coniugale. Perciò la libertà - che nella sua essenza è libertà moralmente ordinata - è al centro delle sue riflessioni:  il Papa ritiene la persona umana capace di una grande cosa:  capace di fedeltà e capace di rinuncia. Per questo motivo egli non vuole che il problema della fecondità responsabile - il controllo delle nascite - sia regolato in modo meccanico, ma che venga risolto in modo umano, cioè morale, a partire dallo spirito dell'amore e della sua libertà stessa. Se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un'idea troppo grande dell'essere umano, della capacità della sua libertà nell'ambito del rapporto spirito-corpo. Chi ha conosciuto anche solo globalmente la figura di Paolo VI, sa che non gli mancavano la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone. Intenzione dell'enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell'uomo contro una visione deterministica e materialistica. Egli parla nella prospettiva dell'eternità, nella sua responsabilità davanti alla totalità della storia. Sotto questo punto di vista egli non poteva parlare altrimenti, e a partire da questa prospettiva si deve leggere l'enciclica:  come arringa in favore dell'umanità dell'amore e in favore della dignità della sua libertà morale. Qui si manifesta come Paolo VI anche in questo punto, proprio in questo punto, parli come avvocato della persona umana; come la fede, che lo ispirava, difende la persona umana, anche là ove essa la sprona.


Quanto vale la felicità? Pigi Colognesi - martedì 23 novembre 2010 – il sussidiario.net

Una recente ricerca, condotta da psicologi dell’Università di Harvard, ha concluso che, per ottenere un minimo di serenità nella vita, bisogna «vivere il presente». Il quotidiano italiano che ne ha riportato i risultati titolava: «La felicità è adesso».

Non è necessario addentarsi nei particolari dello studio. Basti dire che alla fin fine gli psicologi americani hanno rispolverato l’interpretazione più ovviamente corrente dell’oraziano «carpe diem», cogli l’attimo. Ognuno di noi, in sintesi, sarebbe più felice quando si dedica a quello che sta facendo, senza rimuginare sul passato né immaginare il futuro, quando, appunto, «vive il presente».

Ma bisogna intendersi. Faccio un esempio banale. Stamattina avevo la periodica seduta per l’igiene orale; ho paura dei dentisti fin da quand’ero piccolo e un’operazione pur tanto semplice mi procura sempre un po’ di agitazione. Per distrarmi, cercavo di concentrarmi proprio sulla ricerca americana e sul commento che avrei voluto fare; a un certo punto l’addetto all’aspirazione ha fatto una manovra maldestra e quasi mi ha infilato in gola il tubicino. Ho pensato: ecco, se il presente fosse solo questo attimo, soffocherei. Per sopportare il piccolo disagio devo pensare al futuro: devo avere una prospettiva positiva. Ed è ragionevole aspettarsela perché ho, nel passato, l’esperienza che il mio dentista e i suoi collaboratori non sono dei macellai.

Dunque «vivere il presente» non è tagliare i ponti con le altre due dimensioni del tempo che al presente stesso danno la compiuta prospettiva. Anche i maestri cristiani dello spirito invitano ad attenersi al momento presente. «Age quod agis» suggeriscono: fa quello che stai facendo. E fallo bene, senza attardarti sul passato e senza disperderti nell’immaginazione del futuro. Ma senza dimenticarli.

Il passato esiste e pesa inesorabilmente sul presente. La scespiriana lady Macbeth appare a un certo punto in scena in uno stato quasi ipnotico e si sfrega continuamente le mani; vorrebbe lavare il sangue dei delitti di cui si è macchiata, sangue che, nonostante le sue mani siano pulite, lei continua a vedere. «Quello che è fatto è fatto» si dice disperata. Ed è posizione realistica; nessuno può far sì che il nostro passato non sia stato quello che è stato. Esso ci inchioda.
A meno che una potenza a noi nascosta ci dimostri che tutto il passato appartiene a un disegno che conduce a un presente in cui trova il suo significato; a meno che il perdono sia in grado di illuminare anche il passato cattivo, fino a poter dire, come fa l’abate di Milosz a Miguel Mañara che continua a pensare ai suoi peccati: «Tutto questo non è mai esistito».

Quanto al futuro, se l’immaginazione - come dicevano i monaci medievali - è sorgente di distrazione e inciampo, l’alternativa non è appiattirsi sull’effimera reazione emotiva dell’istante. Ogni gesto ha delle conseguenze. Scordarselo non è «vivere il presente», ma condannarsi all’insignificanza.

È curioso che la citata ricerca concluda che al primo posto della lista delle “attività” che più ci rendono felici ci sarebbe il sesso, perché lì massimamente succederebbe di «vivere il presente». Ma si parla di un atto da cui è stata eliminata ogni dimensione di passato - la storia di rapporto affettivo che vi ha condotto - e di futuro - l’apertura alla generazione. Ma così appiattito nella soddisfazione istantanea si può ancora, descrivendolo, parlare di felicità?


23 novembre 2010
Avvenire.it, 23 novembre 2010 - Le sofferenze inflitte per odio - Estrema blasfemia di Giuseppe Anzani

È di nuovo morte ai cristiani, in Iraq. Le stragi d’ottobre, esecrate dal mondo, non hanno saziato la voglia di sangue contro quelli che al-Qaeda ha definito «obiettivi legittimi». La recente uccisione di due fratelli, di fede cristiana, a Mossul, di nuovo riapre la ferita che grida verso la coscienza del mondo, e lo scuote dalle sue distratte percezioni.

Sono i cristiani, il bersaglio. A Mossul la situazione è da tempo più critica che altrove, per chi rammenta il caos e l’abbandono che la vedono in balìa di una alleanza fra antichi baathisti e nuovi fondamentalisti, e rievoca quel crescendo di gesti di terrore che già in passato ha reso la vita dei cristiani difficile e minacciata. Le speranze nel governo iracheno sono fioche; prendono voce piuttosto le forti istanze alle Nazioni Unite, perché discutano seriamente il problema dei cristiani iracheni, perché mandino una vera commissione d’inchiesta, e facciano pressione sul governo per dare sicurezza ai villaggi cristiani, alle loro chiese. Noi ci aspettiamo che queste voci, queste richieste e queste pressioni si diffondano, siano riprese e rafforzate nel mondo, siano partecipate da tutti gli uomini di buona volontà, dalle istituzioni che nel mondo tengono prezioso il rispetto dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali.

C’è probabilmente, nell’azione terroristica di al-Qaeda che prende a bersaglio «i cristiani» qualcosa che rasenta l’odium fidei, mescolato peraltro a rancori globali divenuti marchio di un’ostilità indefinita e mortale contro un ordine del mondo da essi esecrato. Qualcosa che pur riproduce, dentro i sentieri del mistero d’iniquità, le tracce di una via dolorosa che per i cristiani è il toponimo della croce, e che nell’orizzonte terrestre resta per il mondo il crinale fra la civiltà dell’odio e la civiltà dell’amore, fra la vita offerta e la vita predata.

Un’altra notizia subentra ora, nella storia di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte in Pakistan per "blasfemia". Il grido delle diplomazie del mondo, forse anche il nostro di italiani levatosi per primo, può averla strappata al boia, se son vere le voci, ancora incerte, di una sua liberazione imminente. Una gioia, una giustizia infine; il ministro Shahbaz Bhatti l’aveva accertata innocente.
Ma prima della gioia, la pugnalata rivelata. Prima d’esser consegnata agli inquirenti, Asia Bibi è stata stuprata dai suoi accusatori. Sì, si aggroviglia così con un sadismo immondo la menzognera virtù degli accusatori, come accade ogni volta che si prende a bandiera la difesa del sacro per opprimere l’uomo. È questo infatti il sacrilegio immanente, lo sprezzo della dignità umana, lo sfregio dello spirito che abita in quell’immagine di Dio che è ogni persona umana. Tutti sappiamo che il mondo deve difendere la libertà religiosa.

E maggior risolutezza ci vorrebbe. Ma oggi, io credo, il mondo deve ancora riflettere su che cosa sia la fede in Gesù Cristo. Non grezzamente "una religione", e neppure un’etica per quanto eccelsa, ma l’abbraccio di un incontro vivo con il Vivente che per tutti ha dato la vita in croce. E per tutti è risorto. Che il mondo d’ogni fede o senza fede apprenda, per mezzo dei cristiani, che l’offesa alla gloria divina si verifica in ciò che oltraggia e sfigura l’uomo, poiché la gloria di Dio è l’uomo vivente, e fra le sue tende ha preso dimora.

L’odio è la distruzione del sacro. La menzogna dell’odio in nome del sacro è la distruzione del giusto, l’estrema blasfemia.


Avvenire.it, 23 novembre 2010 - Il libro-intervista di Benedetto XVI - Alla fine, una certezza il cristianesimo dà gioia di Pierangelo Sequeri

«Ecco, ora mi cade addosso, non ho scampo». L’uomo di Dio Joseph Ratzinger confessa di aver pensato proprio questo, nell’istante interminabile che ha preceduto la sua elezione per il ministero di Pietro. È la barca di Pietro, in effetti, non una tavola da surf. Non ci sali sopra per scivolare spensierato dove ti porta l’onda. In verità, non ci saliresti proprio, fosse per te. Se poi pensi che devi guidarla nell’attuale «costellazione mondiale, con tutte le forze di distruzione che ci sono, con tutte le contraddizioni che in essa vivono», lo choc è inevitabile.

Il papa Benedetto XVI, nel suo libro-intervista con Peter Seewald, Luce del mondo, che ora tutti potremo leggere (e andiamo davvero a leggercelo, cessando di affaticarci in pericolosi esercizi di stile sulle sue "spulciature"), usa più di una volta la parola «shock» (all’inglese). O espressioni equivalenti. Il tono fondamentale del suo discorrere svela, qui più che in altre conversazioni analoghe, il tono emotivo del suo personale confronto con l’enormità delle sfide che devono essere affrontate e portate da un uomo di Dio che «deve fare il Papa».

Qui più che altrove, Benedetto XVI ci consente di entrare nel senso di sproporzione che accompagna ogni volta il sincero riconoscimento della portata degli eventi in cui il cristianesimo deve seminare il vangelo. E in tale cornice, ci rende affettuosamente partecipi della passione con la quale gli eventi devono essere abitati e vissuti, dal credente che accetta il ministero di Pietro, per onorare la consegna ricevuta.

La sorpresa, che ci deve fare un gran bene, è proprio questa: «Anche il Papa fa questo». Anzi, il Papa in primo luogo. Il Papa attraversa lo sgomento della propria umana piccolezza, senza dissimularlo a se stesso, fingendosi un super-uomo. Il Papa accetta l’azzardo della fede e del suo migliore discernimento, sapendo che egli è il primo a doverlo onorare, perché è l’ultimo che vi si può sottrarre. Il Papa sa di avere deboli forze, proprio mentre accetta coraggiosamente il fatto che – finché ha forza – non può scaricare su altri neppure un grammo del compito che tocca a lui.

Il Papa sa che nel piccolo punto del tempo e dello spazio in cui si ritrova, semplicemente umano com’è, deve riflettere, senza reticenze, la consapevolezza delle contraddizioni che abitano il Mondo e anche la Chiesa. Il Papa sa che, per questo, ha ogni genere di sostegno, nella Chiesa: dal più piccolo gesto di simpatia ai doni più grandi della collaborazione nel ministero. Ma sa anche, e lo sa perfettamente, che deve chiedere tutto questo, lui per primo, «come un mendicante» al Signore, «l’amico di antica data».

Il Papa dice e lascia scrivere queste cose: nel genere, non paludato, della conversazione all’impronta. E in questo modo ci rende "reale" il ministero cristiano. E "reale" il cristianesimo. Il Papa esce dal mito, ed entra nel realismo della fede. Emozionato, a volte meravigliato, a volte impressionato, a volte accorato dell’enorme responsabilità di fronteggiare le potenze mondane, a volte sorridente del suo modo di essere fedele al ministero ricevuto, per tutti noi.
La partitura di questa improvvisazione orchestrale in cui vibrano i contrappunti dell’uomo di Dio consegnato al ministero singolare del Papa, va ascoltata una prima volta – per intero – con questo orecchio sensibile.

La musica di questa confessio papae è il suo insegnamento più profondo e originale per l’oggi del cristianesimo e dell’epoca. Ha una cadenza precisa, che ne armonizza la forma, per chi saprà ascoltare. «Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto "contro" sarebbe insopportabile». Gli infaticabili decostruttori e dietrologi di ogni cosa, si fermino per una volta. E ascoltino questa musica. Poi parliamo.


testimone - Gigi Radaelli: «Da una settimana gli scrivo inutilmente Provo vergogna per quelle menzogne»  - «Caro Fazio, ti presento Susi» - DI LUCIA BELLASPIGA – Avvenire, 23 novembre 2010

D alla sera in cui ha vi sto 'Vieni via con me', continua a scri vere a Fazio e alla redazione di Rai3: «Chiedo solo la pos sibilità di raccontare la nostra vicenda, proprio come En glaro ha avuto la sua, ma non ricevo nessuna risposta, nemmeno un no. Fazio è uo mo di libertà? Allora garanti sca anche a noi il diritto di e sporre una posizione diver sa: dopo ognuno resterà libe ro di pensarla come vuole, ma la verità è importante». E la verità per Gigi Radaelli, 39 anni, e sua moglie Graziella, 35, di Spino d’Adda (Cremo na), si chiama Susi. Susi è u na dei sette figli di casa Ra daelli, fino a sette anni fa il ri tratto della salute e della gra zia femminile, poi, a 13 anni, un arresto cardiaco l’ha la sciata in uno stato di 'mini ma coscienza'. E la verità si chiama soprattutto Eluana: «Nel novembre del 2008 sen tii Englaro a 'Porta a Porta' dire cose che non mi torna vano, perché io da anni assi stevo giorno e notte la mia Susi e non capivo come E luana potesse essere consi derata 'morta 17 anni fa', co­me lui ripeteva. Così il giorno dopo partii per Lecco e andai a trovarla. Mi bastò il tempo di una preghiera, di una ca rezza sui capelli e qualche mi nuto tenendole le mani per cogliere che era viva più che mai».

Ma non è questo che vorreb be andare a dire in tivù, per ché ormai Eluana è stata sa crificata. «Vorrei spiegare che solo chi vive ogni istante fian co a fianco con persone come loro sa percepire 'comunica zioni' che agli altri sfuggono completamente. Che sono vi vi e, a modo loro, ci chiedono solo di non abbandonarli e di amarli». Susi è sulla sedia a rotelle, non cammina, non parla, non è autonoma in nulla, ma sa bene come farsi sentire: «Il suo modo di coin volgere il mondo attorno a sé è un sonoro pianto, che non indica dolore ma un qualsia si bisogno, come fanno i neo nati. Poi c’è il sorriso, e quan to le è stato insegnato in un centro di riabilitazione post­coma, ovvero palpebre chiu se per dire sì, testa girata per dire no». Bocca spalancata si gnifica ho fame o ho sete, e distinguere tra i due desideri «è comunicazione a pelle, il nostro linguaggio segreto che nasce da ore e ore insieme e tanto spirito di sacrificio... Ma ben inteso, per noi è tutta gioia». Un furgone attrezzato per Susi, e l’intera famiglia si muove portandola ovunque con sé, al mare, allo stadio, al cinema...

«Conosco bene l’argomento - spiega oggi Gigi - , e davanti alla trasmissione di Fazio ho provato un senso di vergogna per quanta falsa informazio ne è passata quella sera. A Fa zio dico questo: come hai in vitato un esponente di destra e uno di sinistra, così devi da re voce anche a noi, che sia mo tantissimi. Voglio poter raccontare che assistere Susi è amarla, non torturarla». E raccontare di medici così di versi da quanto ha insinuato Saviano: «Angeli veri, guida ti dal professor Emilio Bru nati, primario a Niguarda, professionisti la cui forma zione e competenza è laica, ma che sanno metterla al ser vizio del vivere, non del rot tamare le vite imperfette». Da sette anni Susi li ripaga «re stituendo tutto ciò che rice ve »: pian piano ha recupera to la vista, poi l’udito, il ricor do, forse anche l’olfatto. E poi sa farsi rispettare molto be ne, specie dai fratellini più piccoli, 11, 8 e 4 anni, che fin dalla nascita hanno giocato sul lettone con quella 'stra na' sorella. Di sette figli, solo i tre piccoli sono vispi e sani, gli altri quattro sono tutti vite fragili. E solo i tre piccoli sono nati da Gigi e Graziella, gli altri li han no accolti dall’abbandono al trui: «Ma per noi sono tutti fi gli nostri, non biologici ma ri generati nell’incontro, nell’a more ». Una scelta condivisa tra marito e moglie dopo aver incontrato don Benzi: «Ab biamo la gioia di aver messo al mondo tre bambini sani, vogliamo condividere la no stra vita con le Eluane altrui, che il buon Dio ci ha messo sulla strada».


«Così lottano per vivere Saviano venga a vederli» - Dalla clinica di Crotone l’appello del neurologo Dolce - All’Istituto Sant’Anna l’unità specializzata che si occupa dei pazienti in stato vegetativo non ci sta: «Il medico rimuove le cause di un disagio, non le sopprime» - DA CROTONE ANDREA GUALTIERI – Avvenire, 23 novembre 2010

Giuliano Dolce, 82 anni, è il di rettore sanitario dell’Istituto Sant’Anna di Crotone, quello che tutti conoscono come 'la clinica dei risvegli'. Davanti alla porta della Suap, l’unità speciale di accoglienza prolungata, si volta ed afferma: «Ecco, io vorrei che Saviano venisse qui a ve dere queste persone, a parlare con me».

Cosa gli direbbe, professore?

Lo considero una persona intelligen te e su camorra e ’ndrangheta è mol to documentato. Ma quando parla di accanimento terapeutico non ha le i dee chiare.

Cosa glielo fa pensare?

Non c’è accanimento terapeutico su questi pazienti: qui non si prolunga un’agonia. I medici rispettano il rifiu to del malato a sottoporsi a terapie ma le persone che si trovano in queste condizioni non hanno bisogno di cu re in senso clinico: devono solo esse re assistite perché non sono autosuf ficienti. E non sempre nelle loro case c’è qualcuno che è nelle condizioni di farlo.

Per questo ci sono le Suap?

Noi siamo stati i primi ad attivarla. La gente che è qui viene seguita, si man tiene il decoro.

Ma loro lo percepiscono?

Rispetto a ciò che si credeva anni fa, gli esperti sono ora concordi nel dire che anche in stato di incoscienza il cer vello è in grado di svolgere alcune fun zioni. Ci sono delle isole che lavorano, solo che non bastano a farlo capire al l’esterno. Ma ad esempio ascoltando alcune musiche queste persone pro vano emozioni. Lo provano le analisi strumentali. Basta registrare un elet trocardiogramma e analizzare la va riabilità del ritmo cardiaco: possiamo dire che è il cuore che parla, quando loro non sono in grado di farlo. Noi li chiamiamo 'stati di coscienza som mersa'.

È per questo che davanti alla com missione Affari sociali della Camera lei ha detto che il coma vegetativo non esiste?

Questa espressione è il primo grande errore culturale nell’affrontare la que stione. È un termine usato dagli an glosassoni, ma da loro 'vegetativo' si gnifica autonomo, da noi evoca le piante. Noi del Sant’Anna ci siamo fat ti promotori di un incontro presso il ministero della Salute: insieme a 15 e sperti europei abbiamo fondato un gruppo di lavoro e il primo passo è sta to cambiare il nome in 'sindrome del la veglia arelazionale'. Le persone che si trovano in queste condizioni sono infatti sveglie, anche se non si relazio nano.

Saviano afferma che gli individui han no diritto di scegliere di non vivere in queste condizioni. Lei è d’accordo?

Questo è il tema del testamento bio logico e come ogni testamento, cia scuno lo può sottoscrivere ma deve anche poterlo modificare in qualsiasi momento. La gente che si trova rico verata qui non è nelle condizioni di farlo, ma dopo tre giorni senza cibo e senz’acqua, qualsiasi persona con at tività mentali normali cambierebbe i dea sulla prospettiva di lasciarsi mo rire di sete.

Perché ne è così sicuro?

Perché si tratta di una morte doloro sissima, e scientificamente è stato pro vato che anche le persone in condi zioni di veglia arelazionale avvertono il dolore. Nel 2010 in un Paese civile non si può far morire la gente in que sto modo.

Eluana Englaro e Terry Schiavo han no sofferto così...

Di certo sono state sedate. Ma questo è l’assurdo: da una parte si agisce creando una fonte di dolore, dall’altra si interviene clinicamente con l’anti dolorifico. Questo va prima di tutto contro l’etica professionale: un medi co deve rimuovere le cause di disagio, non sopprimerle. E poi procedendo in questo modo non si può certo parla re di abbandono attivo. Questa è un’eutanasia e per di più è attuata nel modo peggiore. Questo vorrei spiega re a Saviano.

Piergiorgio Welby però era cosciente delle sue scelte.

Infatti il suo caso è diverso da quello di Eluana. Ma ugualmente non pote va essere un anestesista a provocare la sua morte: il nostro codice deontolo gico non lo prevede. Io applico la bioe tica razionale: non do medicine, non intervengo chirurgicamente. Ma non per questo provoco la morte. E provo carla sotto l’effetto di anestetici non è una soluzione perché equivale a un’i niezione letale. E questo la legge non lo ammette.

Pensa che tutte queste polemiche sia no finalizzate a far cambiare la legge?

Dopo il caso di Eluana si è discusso molto su questa problematica. Si po teva fare una conferenza europea di esperti, elaborare un documento lar gamente condiviso per orientare le de cisioni di chi deve legiferare. Invece si prosegue al buio.