martedì 9 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    CARD. BAGNASCO: I VALORI NON NEGOZIABILI CREANO UNITÀ - “Si deve obbedire più a Dio che agli uomini” di Antonio Gaspari
2)    Avvenire.it, 8 novembre 2010 - 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani - Richiamo di Bagnasco: piano d'emergenza per il lavoro
3)    Avvenire.it, 8 novembre 2010 – Prolusione di S.E. Card. Angelo Bagnasco - Un piano d'emergenza per il lavoro»
4)    LA DOTTRINA SOCIALE DI LEONE XIII - di Fabio Trevisan - saggio su “La Dottrina sociale di Leone XIII” edito da Fede&Cultura di Massimo Introvigne
5)    I MIRACOLI INEDITI DI PADRE PIO, IL SANTO DELLE STIMMATE - Parla l'autore del nuovo libro, José María Zavala di Carmelo López-Arias
6)    CARD. SCOLA: LA NATURA VA RICONSIDERATA COME “CREATO” - Le istituzioni diano una mano all'imprenditoria veneta, in ginocchio dopo l'alluvione
7)    08/11/2010 – IRAQ - Nuovi attacchi ai cristiani a una settimana dalla strage di Baghdad di Layla Yousif Rahema
8)    Peccato originale e politiche per la famiglia - Autore: Amato, Gianfranco  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 novembre 2010
9)    Avvenire.it, 7  novembre 2010 - AL VIA LA CONFERENZA DI MILANO - Sacconi: primato pubblico a matrimonio e procreazione
10)                      "Europa, non avere paura!" - Da Santiago de Compostela e da Barcellona, l'appello di Benedetto XVI perché il continente si apra a Dio e torni a pronunciare il suo nome non invano, ma in gioia e santità. Con "stella polare" la croce di Sandro Magister
11)                      Martedì 09 novembre 2010 - Ma Bagnasco non si unisce al coro dei moralisti no-Cav - di Andrea Tornielli
12)                      La famiglia non è uno slogan Giuseppe Frangi - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net
13)                      IL FATTO/ Viene dalla Germania l’aiuto migliore per le famiglie italiane - INT. Pierpaolo Donati - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net
14)                      CINEMA, TELEVISIONE E MEDIA - CATTIVISSIMO ME/ La favola un po’ cinica ma geniale sul cambiamento di un uomo Matteo Contin - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net
15)                      Avvenire.it, 9 novembre 2010 - La visita del Papa e la risposta spagnola - Gaudì batte Zapatero - La modernità non è atea di Davide Rondoni
16)                      SEMPRE PIÙ IN TV E SUL WEB CON LE ECOGRAFIE - Quei bambini proiettati nella realtà virtuale di Luigi Ballerini – Avvenire, 9 novembre 2010

CARD. BAGNASCO: I VALORI NON NEGOZIABILI CREANO UNITÀ - “Si deve obbedire più a Dio che agli uomini” di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 8 novembre 2010 (ZENIT.org).- Per garantire il bene comune, difendere i diritti umani, garantire la giustizia, rafforzare e trasmette le virtù “si deve obbedire più a Dio che agli uomini”. Lo ha detto questo lunedì ad Assisi, il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), nel corso della prolusione svolta alla 62a Assemblea generale dei Vescovi italiani.
Prendendo spunto dal discorso che il Pontefice Benedetto XVI ha tenuto nella storica sala di Westminster Hall, a Londra, il Presidente della CEI ha precisato che “l’uomo non è un prodotto della cultura che, nel proprio evolversi, si compiace di elargire questo o quel riconoscimento; l’uomo in sé è il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi  in una continua tensione verso la pienezza della verità”.
E’ in questo contesto – ha spiegato il Cardinale Bagnasco – che si colloca il terreno “solido e duraturo dei principi o valori ‘essenziali e nativi’ detti anche ‘non negoziabili’, che sono definiti tali ‘non perché non si debbano argomentare ma perché, nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili’”.
Questi valori – ha aggiunto – appartengono al “DNA della natura umana”, perché “il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è ‘l’apertura alla vita’”.
Come spiegato nella Caritas in veritate quando una società si incammina verso la negazione della vita, “finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono”.
Il Presidente della CEI ha ripreso la Dichiarazione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, recentemente tenutosi in Croazia, in cui si ribadisce che “senza un reale rispetto di questi valori primi che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità”.
“Ogni altro valore, infatti, necessario al bene della persona e della società – il lavoro, la salute, la casa, l’inclusione sociale, la sicurezza, l’ambiente, la pace… – germoglia e prende linfa dai primi. Mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della 'vita nuda', questi ultimi valori inaridiscono e perdono di senso”.

A chi sostiene che i valori non negoziabili, sarebbero divisivi per il tessuto sociale, e quindi inopportuni e scorretti, l’Arcivescovo di Genova ha risposto che essi sono “intrinsecamente dotati di una forza unitiva che si esprime a più livelli e in più ambiti”, a cominciare dal principio di uguaglianza tra tutti i cittadini.
“Questi valori – ha detto – risultano unitivi anche in un'altra accezione: rappresentano il vincolo che può di volta in volta dare espressione all’unità politica dei cattolici, ovunque essi si collochino in base alla loro opzione politica”.
Quanto poi alla scena internazionale, secondo il porporato questi valori sono “la base insostituibile e conveniente” in ragione della loro “stabilità, universalità e interpretazione in ogni caso favorevole alla persona” e costituiscono il presupposto per il “dialogo possibile tra culture, religioni e Stati sovrani”.
Parlando del “ruolo della religione in ambito politico-sociale” il Presidente della CEI ha spiegato che compito della Chiesa è quello di “aiutare nel purificare e gettare luce nell’applicazione della ragione, nella scoperta dei valori morali oggettivi” nel senso che “recupera la profondità dei singoli principi e, ad un tempo, rischiara sull’applicazione che ne viene fatta, aiutando dunque, quando serve, a rettificare le distorsioni, a indirizzare meglio l’azione, a non lasciarsi deviare dai riduzionismi concettuali o dalle manipolazioni ideologiche, a non confondere mai il fine coi mezzi e viceversa”.
E’ infatti evidente – secondo il Presidente della CEI – che il mondo della ragione, il mondo della fede, il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà.
Citando il Pontefice Benedetto XVI il Cardinale Bagnasco ha ribadito che “la religione per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico della nazione”.
Mentre il privatismo religioso si sta rivelando “un’ipotesi asettica sul piano sociologico e avvizzita sul piano esistenziale. Per uno Stato moderno, l’autoreferenzialità valoriale si rivela presto infeconda e propiziatrice di inedite paure”.
In merito al ruolo dei cattolici in ambito pubblico, l’Arcivescovo di Genova ha affermato che “aspettarsi che i cattolici circoscrivano il loro apporto all’ambito sempre importante della carità fosse pure per contribuire ai doveri dello Stato in ordine al bene comune  – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria. I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata”.
A questo proposito il Presidente della CEI ha criticato il conformismo per il quale, come ha detto il Pontefice, “diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti. Le sottili aggressioni contro la Chiesa, al pari di quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura”.
Il presidente della CEI ha quindi sostenuto che “dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità” perché questo “è esigito dalla dignità di ciò in cui si crede” e perché “si deve obbedire più a Dio che agli uomini”.
“Se nei vari campi, i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, - ha sottolineato il porporato - verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti. Il punto non è una smania di rilevanza, ma il dovere di servire. L’immagine insuperabile cui rifarci è quella evangelica del ‘sale della terra’ e della ‘luce del mondo’, dove il sale suggerisce lo stile dell’incarnazione, la discesa nella pasta della storia per diventare vicinanza e condivisione rispetto alla vita di tutti”.
“Va da sé – ha continuato il Cardinale Bagnasco – che la mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito.  Bisogna invece che noi salviamo l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi variamente mascherati, alle lusinghe. In questo senso capiterà talora di essere scomodi, ma non sarà per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza”.


Avvenire.it, 8 novembre 2010 - 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani - Richiamo di Bagnasco: piano d'emergenza per il lavoro

"La politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto”. È uno dei passi salienti della prolusione del card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani, che si è aperta oggi ad Assisi, fino all’11 novembre. Nel testo, il cardinale esorta i cattolici ad adottare in politica “un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali”.

“Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia”: queste, per il card. Bagnasco, le “situazioni che continuano a farsi sentire”, in tempo di crisi. Di qui la richiesta che “le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili”, in modo da assicurare “maggiore stabilità per il Paese intero”. Per quanto riguarda la “scena politica”, il presidente della Cei parla di “caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte”.

“Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa”, l’ammonimento della Cei, che in politica raccomanda una “tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati”. Per i vescovi italiani, “non è più tempo di galleggiare”, perché il rischio “è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte. Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale”. Il presidente della Cei chiede quindi un “esame di coscienza” e propone di “convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione”.

“Grande vicinanza”, poi, nei confronti delle “popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti”. “Calamità naturali”, ma anche “incuria e imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano” dimostrano che l’Italia ha bisogno “di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio”, cui va data “priorità”.

Aspettarci che i cattolici circoscrivano il loro apporto nell’ambito sempre importante della carità – ha ribadito il presidente della Cei – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria. I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata”. “Dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità – l’esortazione del card. Bagnasco: “Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non solo l’istinto di far da padroni né le logiche di mera contrapposizione”. Di qui l’invito a reagire al “conformismo”:

“Se i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti”, l’ammonimento della Cei. “La mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito”, ha proseguito il cardinale, che ha esortato a salvare “l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi, alle lusinghe”. Cattolici “scomodi”? Talvolta forse sì, ma “non per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza”.

La lettera del Papa ai seminaristi; i giovani e l’itinerario di “avvicinamento” alla Gmg di Madrid; la traduzione della prima parte del Messale Romano. Questi gli argomenti affrontati dal card. Bagnasco nella prima parte della prolusione, che termina con una riflessione sulla questione educativa, tema degli Orientamenti pastorali della Cei per questo decennio. In Italia, per il cardinale, non siamo ancora arrivati “ad una vera e propria disfatta educativa”, ma la cronaca ci segnala “inquietanti episodi che danno la percezione di quanto profondo sia l’abisso in cui può cadere l’animo umano”. Di qui la necessità di chiedersi se “la nostra generazione vive ancora di rendita mentre le scorte si vanno esaurendo”. Un numero rilevante di coppie di sposi e di famiglie – segno di un “tessuto connettivo della società che tiene” - dimostrano che “non è impossibile l’impresa”, ma l’educazione è anche questione di “ambiente” e il “realismo” cristiano deve innestarsi nello “scetticismo imperioso di questi tempi fintamente allegri e spensierati”.

Un "piano emergenziale sull'occupazione" messo a punto da governo, forze politiche, sindacati e parti sociali in spirito di collaborazione: chiede il card. Bagnasco. "È possibile - chiediamo rispettosi - convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull'occupazione? Sarebbe un segno - osserva Bagnasco - che il Paese non potrebbe non apprezzare".
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Avvenire.it, 8 novembre 2010 – Prolusione di S.E. Card. Angelo Bagnasco - Un piano d'emergenza per il lavoro»

Venerati e Cari Confratelli,

come già lo scorso anno, anche in questo 2010 ci ritroviamo in autunno, ad Assisi, per un’assemblea residenziale, al cui ordine del giorno figurano argomenti importanti, meritevoli di una considerazione approfondita e di una circolarità di valutazione quali scaturiscono dalla collegialitas affectiva che è consolazione e stimolo del nostro ministero.

Esprimiamo fin d’ora la nostra gratitudine ai Frati Minori che gentilmente ci ospitano nella loro Domus Pacis e in edifici ad essa adiacenti, alle Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino e alle Suore Francescane Alcantarine che vi cooperano con tanta sollecitudine. Un saluto particolarmente cordiale lo dobbiamo al Vescovo di questa Chiesa assisiate, S.E. Mons. Domenico Sorrentino, e fin d’ora gli assicuriamo il nostro speciale ricordo all’altare del Signore. Deferente ossequio rivolgiamo al Nunzio Apostolico in Italia, l’Arcivescovo Giuseppe Bertello, e lo ringraziamo sentitamente per l’affabilità della sua presenza e per le parole che vorrà rivolgerci.

All’inizio dei nostri lavori salutiamo i Presuli che, nei mesi trascorsi dall’ultima Assemblea Generale, il Santo Padre ha chiamato a far parte della nostra Conferenza:
- S.E. Mons. Guglielmo Borghetti, Vescovo di Pitigliano – Sovana – Orbetello;
- S.E. Mons. Vito Angiuli, Vescovo eletto di Ugento – Santa Maria di Leuca;
- S.E. Mons. Douglas Regattieri, Vescovo eletto di Cesena – Sarsina;
- S.E. Mons. Emidio Cipollone, Arcivescovo eletto di Lanciano – Ortona;
- Dom Diego Gualtiero Rosa, Abate Ordinario di Monte Oliveto Maggiore.
Affidiamo con fiducia il loro ministero al Signore, grati del contributo che vorranno recare alla nostra Conferenza Episcopale, nella comunione delle Chiese d’Italia.
 Hanno terminato il servizio pastorale attivo:
- S.E. Mons. Gerardo Pierro, Arcivescovo emerito di Salerno – Campagna – Acerno;
- S.E. Mons. Sebastiano Dho, Vescovo emerito di Alba;
- S.E. Mons. Ercole Lupinacci, Vescovo emerito di Lungro;
- S.E. Mons. Carlo Ghidelli, Arcivescovo emerito di Lanciano – Ortona;
- S.Em. Card. Severino Poletto, Arcivescovo emerito di Torino;
- Dom Michelangelo Riccardo Tiribilli, già Abate Ordinario di Monte Oliveto Maggiore;
- Dom Benedetto Chianetta, già Abate Ordinario di Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni.

A loro va la nostra riconoscenza per il generoso servizio alle Chiese particolari loro affidate e per il contributo di idee alla Conferenza Episcopale. Affidiamo alla misericordia del Padre, S.E. Mons. Alberto Ablondi, Vescovo emerito di Livorno, già Vice Presidente della CEI, e S.E. Mons. Simone Scatizzi, Vescovo emerito di Pistoia. Il Signore ricompensi i suoi servi fedeli.

Fra qualche settimana inizierà per la Chiesa, in concomitanza col nuovo anno liturgico, il periodo dell’Avvento, che è tempo forte anche per noi Vescovi, chiamati «a servire la Chiesa con lo stile del Dio fatto uomo» (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi di recente nomina, 11 settembre 2010). E proprio sotto questo profilo, desideriamo ricordare, nel centenario della sua nascita, il cardinale Antonio Poma, arcivescovo di Bologna, che fu presidente della nostra Conferenza per dieci anni – dal 1969 al 1979 – contribuendo a dotarla della sua attuale fisionomia. Pastore lungimirante e sapiente, affabile e austero, ebbe – come amava confidare – la vita segnata dall’evento conciliare, e in quella altissima scuola imparò la gioia del seminare e l’arte di custodire soprattutto − e nonostante le inquietudini del tempo − la comunione ecclesiale e, a fondamento di questa, la collegialità episcopale nei modi per l’Italia voluti dal Papa Paolo VI. A lui e alle altre indimenticabili figure di Pastori che ci hanno preceduto negli anni del Concilio Vaticano II, va la nostra commossa memoria e la perenne riconoscenza della Chiesa pellegrina in questo Paese.

1. Con un gesto semplice e inatteso, Benedetto XVI ha indirizzato – il 18 ottobre scorso, festa di san Luca evangelista – una Lettera ai seminaristi, come per consegnare loro – in una ideale staffetta – il testimone dell’importantissima iniziativa dell’Anno Sacerdotale da poco concluso. Di quest’Anno, il citato documento è come compendio e corona. Un testo ispirato, pervaso di confidenza e di amicizia  che inizia con una scena di vita personale datata dicembre 1944. Il giovane Ratzinger intuiva che, dopo le enormi devastazioni causate dalla follia nazista, «ci sarebbe stato bisogno più che mai di sacerdoti». Anche oggi c’è questo bisogno, in un’ora in cui  «l’uomo cerca rifugio nell’ebbrezza o nella violenza, dalla quale proprio la gioventù viene sempre più minacciata». Ma – ecco il fatto sconvolgente – «Dio vive. Ha creato ognuno di noi e conosce, quindi, tutti. È così grande che ha tempo per le nostre piccole cose […] ha bisogno di uomini che esistono per Lui e che Lo portano agli altri». Dio «non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il “big bang”». Egli si è mostrato in Gesù Cristo, nelle cui «parole sentiamo Dio stesso parlare con noi»: parlare e chiamarci con amore. È il lieto annuncio che riguarda personalmente ogni seminarista, raggiunto nella sua personalissima esistenza, come ghermito dalla grazia, giacché proprio di lui Dio ha bisogno. «Oggi – è sempre il Papa a parlare, commentando la vocazione di sant’Angela da Foligno – siamo tutti in pericolo di vivere come se Dio non esistesse: sembra così lontano dalla vita odierna. Ma Dio ha mille modi, per ciascuno il suo, di farsi presente nell’anima, di mostrare che esiste e mi conosce e mi ama» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 13 ottobre 2010). A quanti hanno risposto sì, il Papa dice: «Avete fatto bene […]. Sì, ha senso diventare sacerdote: il mondo ha bisogno di sacerdoti, di pastori, oggi, domani e sempre, fino a quando il mondo esisterà» (Benedetto XVI, Lettera cit.).

Il testo continua e dettaglia l’itinerario tipico di un giovane che tende al sacerdozio. Si sofferma sul rapporto intimo che lega a Dio. Il vero bene è stare vicino a Lui: «Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita». Egli non è solo parola, «si dona a noi in persona, attraverso cose temporali». Con l’Eucaristia riceviamo il «nostro pane quotidiano»; grazie al sacramento della Penitenza impariamo ad essere onesti con noi stessi, a non fingere, a non dar corso ad alcuna doppia vita, a opporci cioè all’abbrutimento dell’anima, «all’indifferenza che si rassegna al fatto che siamo fatti così». Ricorda poi che la fede cristiana «ha una dimensione razionale e intellettuale che le è essenziale» e che richiede uno studio assiduo. E ancora si fa intrepido, il Papa, evocando «il giusto equilibrio» tra cuore e intelletto, un equilibrio che sia «umanamente integro», perché «quando non è integrata nella persona, la sessualità diventa banale e distruttiva allo stesso tempo». Comprensibile qui l’accenno agli abusi orribili che anche di recente sono venuti a galla, ma per concludere: «Ciò che è accaduto deve renderci più vigilanti e attenti» (ib).
Noi Vescovi d’Italia sentiamo vivo bisogno di ringraziare il Papa per questo atto di paternità e di magistero: vorremmo infatti che nell’abbondanza dei documenti e delle proposte, esso conservasse un posto di tutta evidenza nella crescita e nella formazione dei nostri seminaristi. Che figurasse tra le cose essenziali che ognuno di questi giovani porta con sé, ricorrendovi spesso come prova di quel colloquio «cuore a cuore» che è sempre stato decisivo nella tradizione educativa della Chiesa. Tradizione che oggi, in una stagione di soggettivismi leggeri e smodati, richiede invece interpreti, come il beato John Newman, sapienti e illuminati.

2. Dai seminaristi ai giovani. Da tempo infatti è in corso l’itinerario di avvicinamento alla 26ª Giornata mondiale della Gioventù, in calendario per l’agosto  2011, a Madrid, con la presenza del Papa che, quindi, ritornerà in Spagna dopo l’importante visita compiuta tra sabato e domenica, avendo per tappe Santiago de Compostela e Barcellona. Il Messaggio che il 6 agosto scorso è stato diffuso, è dunque già nelle mani dei nostri giovani, i quali si stanno preparando a vivere questa esperienza che ancora una volta potrà rivelarsi «decisiva per la vita» (ib). Il tema è, come tutti sappiamo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede”, e sulle sue note Benedetto XVI ha composto un testo in cui qualcuno ha visto quasi una mini-enciclica scritta apposta per i giovani che spesso mancano di punti di riferimento veri:  «Il relativismo diffuso – riflette il Papa − secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento». «Il giovane è come un albero in crescita: per svilupparsi bene ha bisogno di radici profonde che, in caso di tempeste, lo tengano ben piantato al suolo» (Benedetto XVI, Angelus, 5 settembre 2010). Riteniamo con ciò che il lavoro pastorale che si è sviluppato attorno alle GMG, meriti una considerazione serena e non sbrigativa. Noi Pastori abbiamo la grazia di vivere tra i giovani e ben ne conosciamo aspirazioni e problemi, slanci e fragilità. Se da una parte sembra che la secolarizzazione abbia trionfato – e lo ha fatto per diverse partite – dall’altra, nel suo insieme, si presenta come terra impalpabile che promette una libertà senza vincoli in cambio di solitudine senza futuro. Ma una libertà che si arrotola sulla sua assolutezza è triste e mortale. La nostalgia di felicità vera, di luce e respiro, è incomprimibile e reagisce: fa dei giovani dei cercatori di infinito, dei cercatori di Dio e dei suoi sentieri  Questi sentieri hanno la libertà dello Spirito: attraversano la vita ordinaria delle Parrocchie e dei gruppi, si vestono anche dell’abito straordinario di occasioni ed eventi come la felice intuizione e la decisa prosecuzione delle Giornate Mondiali della Gioventù. Tutto ciò che si vive – anche oltre l’ordinario – lascia il segno nell’anima e rifluisce nella vita quotidiana di ciascuno. Per questo noi Vescovi incoraggiamo i giovani, da qualunque ambiente provengano, a non mancare alla GMG, vero appuntamento di grazia.

I milioni di pellegrini che si sono messi in marcia per l’Anno santo compostelano, come quelli che nei mesi precedenti avevano cercato nell’icona della Sindone l’ombra misteriosa del Gesù storico, o che si sono messi in fila per venerare i resti mortali di Sant’Antonio da Padova o di San Pio da Pietrelcina, o che hanno raggiunto Lourdes, Fatima, Loreto, Pompei, come i singoli Santuari che costellano le nostre regioni, o ancor più i Luoghi della Terra Santa, sono un segno che merita un’attenta considerazione, e non solo nostra. Non sfugga l’autocritica dello studioso americano, anche da noi assai noto, Georg Weigel: troppo presto – ha detto in sostanza – ho sentenziato sulla decadenza del cattolicesimo europeo. Oggi mi sento obbligato a cercare una risposta più plausibile che tenga debitamente conto dei fenomeni di pietà popolare che sono indubbiamente in contro tendenza, e a loro modo incoraggianti (cfr Avvenire, 10 ottobre 2010, Agorà pag. 1). Ben sappiamo che queste esperienze alimentano la vita cristiana e, non di rado, l’accendono. Devono però trovare nelle nostre comunità dei focolari vivi e l’accompagnamento disponibile dei nostri Sacerdoti.
L’istituzione da parte del Santo Padre di un Pontificio Consiglio impegnato nella nuova evangelizzazione, come il Motu proprio Ubicumque et semper che lo avvia, e infine l’annuncio per il 2012 di un Sinodo mondiale sulla nuova evangelizzazione, a 38 anni di distanza da quello voluto da Paolo VI e dal quale nacque l’Evangelii Nuntiandi, prospettano il cammino che la Sede Apostolica intende perseguire. E sono per noi indizi che ci confermano sull’orizzonte cui merita mirare per attraversare, senza complessi e con determinazione, i processi di secolarismo in atto.

3. Uno degli ambiti che saranno considerati nel corso di questa assemblea è la vita liturgica della Chiesa che è in Italia. Giunge infatti a conclusione la traduzione della prima parte dell’editio typica tertia del Messale Romano. Naturalmente non entro nel merito di quello che concretamente sarà sottoposto al vaglio comune; mi limito, con la vostra benevolenza, a dire una parola sul tema più ampio. La liturgia, infatti, «mediante la quale – afferma il Concilio Vaticano II – , specialmente nel divino Sacrificio dell’Eucaristia, ‘si attua l’opera della nostra Redenzione’, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla futura città verso la quale siamo incamminati» (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Parole che non solo hanno la forza della chiarezza, ma che commuovono l’anima e inquadrano l’orizzonte della nostra missione: «La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Poiché il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla mensa del Signore» (ib, n. 10).

La liturgia è  talmente al cuore della vita e del mandato ecclesiale  che, come è noto,  il primo dei sedici volumi dell’Opera omnia di Papa Benedetto XVI, è quello dedicato agli scritti liturgici. E parlando − appunto − del Concilio, Benedetto XVI osserva che «cominciando con l’argomento della liturgia, si poneva inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità assoluta del tema ‘Dio’. Prima di tutto Dio: questo dice l’iniziare con la liturgia. La dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento» (Joseph Ratzinger, Opera omnia, Teologia della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 5-6). Se «la gloria di Dio − come afferma sant’Ireneo – è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio», allora la gloria di Dio è l’uomo che guarda a Dio e si lascia guardare da Dio, è l’uomo che riceve la  forma della sua vita dallo sguardo rivolto a Cristo: la liturgia è infatti l’incontro tra il volto dell’uomo e quello di Dio in Gesù. Da questo incontro di sguardi e di cuori l’uomo trova gli altri e li riconosce fratelli, e la Chiesa si rinnova nel suo mistero e nella sua missione.  Accennando poi  ai suoi lavori sulla liturgia, il Papa precisa: «Il mio obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza umana» (ib, pag. 6). Veramente la liturgia è il fuoco dal quale si accende  la vita, e il grande Protagonista è Cristo: «La singolarità della liturgia eucaristica consiste appunto nel fatto che è Dio stesso ad agire e che noi veniamo attratti dentro a questo agire di Dio» (Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Davanti al Protagonista, Cantagalli Edizioni, pag. 123). Sono solo alcune parole che appartengono alla nostra vita di discepoli e di Pastori, e che ci possono aiutare nell’impegno di questi giorni.

4. Una vasta eco ha avuto, all’interno del recente viaggio compiuto da Benedetto XVI nel Regno Unito, il Discorso che egli ha pronunciato nell’incontro con le Autorità civili (il 17 settembre 2010). Invitato dalla Regina Elisabetta a compiere il primo viaggio di Stato di un Pontefice romano in quella nazione cruciale per le sorti del cristianesimo dell’età moderna, il Papa ha avuto quello che lui stesso ha chiamato il «privilegio» di parlare nella Westminster Hall, edificio simbolicamente unico nella storia della democrazia non solo inglese. Ebbene, in una circostanza tanto significativa, ha affrontato quella che è la vertenza nodale di ogni democrazia, chiamata a confrontarsi con le sfide della modernità avanzata e del dominio tecnologico. «Dove – si è chiesto – può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche?», convogliando su questo interrogativo anche le «esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi».

Nello stesso contesto, s’è domandato anche : «A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?» (ib). Questioni cruciali, appunto, che evocano il terreno su cui si svolge oggi «la reale sfida per la democrazia». L’argomentazione svolta – raccontano le cronache – ha colpito gli interlocutori. Ci si attendeva probabilmente un discorso modulato su un impianto confessionale o emozionale, e invece è stato ancora una volta articolato dalla parte della ragione, attraverso un susseguirsi logico di argomenti plausibili per se stessi. «Le norme obiettive – ha detto – che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione». E sono leggi scritte nel modo più vincolante e stringente che se fossero stillate da mano d’uomo, o fossero istruite attraverso un consenso partecipato eppure transeunte. Sono regole desumibili dalla struttura dell’uomo stesso, quale bene che sta al vertice, indisponibile per qualunque transazione. Solo indicando l’uomo nella sua integralità, dotato di diritti incomprimibili, e salvaguardato prima di ogni ulteriore determinazione politica, si ha il codice basilare, quello che acquista il valore di fondamento razionale oggettivo comune a tutti i popoli.

In altre parole, il rinvio alla legge iscritta anzitutto nella natura umana, diventa la garanzia per ogni persona di poter affermare la propria dignità non a motivo di circostanze più o meno benevole o a convenzioni più o meno illuminate, ma in ragione della verità profonda della propria essenza personale. L’uomo non è un prodotto della cultura che, nel proprio evolversi, si compiace di elargire questo o quel riconoscimento; l’uomo in sé è il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi  in una continua tensione verso la pienezza della verità.

Esiste, insomma, un «terreno solido e duraturo» (Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti del Consiglio d’Europa, 8 settembre 2010) che è quello dei principi o valori «essenziali e nativi» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 71), detti anche «non negoziabili», e che sono definiti tali non perché non si debbano argomentare ma perché, nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili (cfr Benedetto XVI, Discorso cit.). Appartengono, per così dire, al DNA della natura umana, al ceppo vivo e originario di ogni altro germoglio valoriale. Il Santo Padre, nella Caritas in veritate, dopo aver osservato che «la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità» (n. 18), dichiara che il vero sviluppo ha un centro vitale e propulsore, e questo è «l’apertura alla vita» (n. 28). Infatti, quando una società si incammina verso la negazione della vita, «finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» (ib). In questo decisivo orizzonte, si pone la recente Dichiarazione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, a conclusione dell’incontro svoltosi in Croazia: «Siamo convinti che la coscienza umana è capace di aprirsi ai valori presenti nella natura creata e redenta da Dio per mezzo di Gesù Cristo. La Chiesa, consapevole della sua missione di servire l’uomo e la società con l’annuncio di Cristo Salvatore, ricorda le implicazioni antropologiche e sociali che da Lui derivano. Per questa ragione non cessa di affermare i valori fondamentali della vita, del matrimonio fra un uomo e una donna, della famiglia, della libertà religiosa e educativa: valori sui quali si impianta ed è garantito ogni altro valore declinato sul piano sociale e politico» (Assemblea plenaria CCEE, Zagabria 3 ottobre 2010). Senza un reale rispetto di questi valori primi che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore, infatti, necessario al bene della persona e della società – il lavoro, la salute, la casa, l’inclusione sociale, la sicurezza, l’ambiente, la pace… – germoglia e prende linfa dai primi. Mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della «vita nuda», questi ultimi valori inaridiscono e perdono di senso.

A chi sostiene che i valori essenziali, in quanto non negoziabili, sarebbero divisivi per il tessuto sociale, e quindi inopportuni e scorretti, vorrei dire invece che, a ben vedere, essi sono intrinsecamente dotati di una forza unitiva che si esprime a più livelli e in più ambiti. Si pensi al principio di uguaglianza tra tutti i cittadini: quanto è decisivo il fatto che – nonostante le diversità che si possono registrare sotto diversi profili – gli uomini siano essenzialmente eguali, e come tali possano combattere le disuguaglianze e costruire società e culture strutturate sulle «pari opportunità»? Serve qui comprendere che un criterio comportamentale acquista spessore e autorevolezza quando, anziché essere motivato solo da convenienze pragmatiche, è radicato sul terreno ontologico, connesso cioè con la natura stessa dell’uomo. Questi valori tuttavia risultano unitivi anche in un'altra accezione: rappresentano il vincolo che può di volta in volta dare espressione all’unità politica dei cattolici, ovunque essi si collochino in base alla loro opzione politica. Quanto poi alla scena internazionale, questi valori sono la base insostituibile e conveniente, dunque non arbitraria o strumentale, per l’azione che viene condotta dalle istituzioni comunitarie. In ragione infatti della loro stabilità, universalità e interpretazione in ogni caso favorevole alla persona, costituiscono il presupposto per il dialogo possibile tra culture, religioni e Stati sovrani (cfr Benedetto XVI, Discorso cit.). Su molte questioni si procede attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni, per quanto volonterose, giacché non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati.

5. Anche da qui discende il ruolo della religione in ambito politico-sociale, che non è quello di «fornire» le norme obiettive che regolano il retto agire «come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti; ancor meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete – cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce nell’applicazione della ragione, nella scoperta dei valori morali oggettivi» (Benedetto XVI, Discorso con le Autorità cit.,). E dà un nome, il Papa, a questo compito della religione nei riguardi delle cose della ragione: è un ruolo – dice – «correttivo», nel senso che – illuminando – recupera la profondità dei singoli principi e, ad un tempo, rischiara sull’applicazione che ne viene fatta, aiutando dunque, quando serve, a rettificare le distorsioni, a indirizzare meglio l’azione, a non lasciarsi deviare dai riduzionismi concettuali o dalle manipolazioni ideologiche, a non confondere mai il fine coi mezzi e viceversa. Ma nella visione di Benedetto XVI, anche la ragione ha, a sua volta, un compito «purificatore» e «strutturante» da svolgere all’interno della religione, in particolare nell’arginare fenomeni come il settarismo o il fondamentalismo religioso, nei quali il deficit di razionalità è generalmente uno dei fattori caratteristici. Si tratta cioè di «un processo che avviene nel doppio senso», ossia in una reciprocità all’interno della quale nessuna delle due diverse realtà – ragione e religione – viene umiliata. E conclude, il Papa: «Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà» (ib). Chi non coglie l’impostazione realistica che è sottesa a questa visione? La religione infatti, diversamente da quanto preconizzato in frettolose previsioni, continua ad avere un ruolo importante nella vita della gente.

A trovarsi immediatamente corretta qui è anche la prospettiva di uno Stato «neutrale», evidentemente ingenua e non avvalorata fino ad oggi da esperienze in grado di imporsi per credibilità ed efficacia. Se uno Stato, in nome di un’ipotetica neutralità o di altri pregiudizi, non si allarmasse a fronte di un prosciugamento dei presupposti etico-culturali cui deve invece attingere se vuole prosperare, come potrà rispondere con solidarietà e  giustizia a situazioni e sfide emergenti? Ad esempio, di fronte a ondate di nuovi cittadini che, per età o storia personale, non hanno sufficientemente interiorizzato il codice fondativo della nazione in cui vivono? Oppure a fronte della stessa crisi economico-finanziaria? E come potrebbe la collettività garantirsi una continuità di ideali e una gradualità di evoluzione nei costumi se non c’è l’apporto, sul piano educativo e culturale, di agenzie in grado di ricaricare la riserva interiore e morale di cui ogni Paese necessita nel fronteggiare le spinte più tumultuose quando non le degenerazioni più disinibite? Ecco la ragione per cui, con passo mite ma a fronte alta, il Papa − dinanzi al più antico Parlamento del mondo −  ha detto: «La religione per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico della nazione» (ib). Il privatismo religioso si sta rivelando un’ipotesi asettica sul piano sociologico e avvizzita sul piano esistenziale. Per uno Stato moderno, l’autoreferenzialità valoriale si rivela presto infeconda e propiziatrice di inedite paure.

Che in una società pluralista le Chiese possano essere se stesse, e secondo il loro statuto capaci di interloquire potenzialmente con tutti, esercitando al meglio le proprie attitudini di annuncio teologale, di educazione per i più giovani, di formazione delle coscienze, di riserva critica, di partecipazione ragionata al dibattito pubblico, è una risorsa non surrogabile; come lo è la presenza di un cattolicesimo interferente con il più vasto tessuto culturale. Aspettarsi che i cattolici circoscrivano il loro apporto all’ambito sempre importante della carità – fosse pure per contribuire ai doveri dello Stato in ordine al bene comune  – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria. I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.

6. A nessuno oggi, nei Paesi liberi, viene formalmente inibito di manifestare liberamente le proprie posizioni culturali o religiose. Ma agisce sottilmente un conformismo per il quale «diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti. Le sottili aggressioni contro la Chiesa, al pari di quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura» (Benedetto XVI, Omelia alla Pontificia Commissione Biblica, 15 aprile 2010). Per quel che ci riguarda, nell’orizzonte di una benevolenza complessiva, dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità (cfr. Benedetto XVI, Messaggio per la 46ª Settimana sociale dei cattolici italiani), perché questo è esigito dalla dignità di ciò in cui si crede. Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non sono l’istinto di far da padroni né logiche di mera contrapposizione

Si deve obbedire più a Dio che agli uomini (cfr At 4,19), «ma ciò suppone che conosciamo veramente Dio e che vogliamo veramente obbedire a Lui» (Benedetto XVI, Omelia cit.). Se nei vari campi, i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti. Il punto non è una smania di rilevanza, ma il dovere di servire. L’immagine insuperabile cui rifarci è quella evangelica del «sale della terra» e della «luce del mondo» (cfr Mt 5, 13-14), dove il sale suggerisce lo stile dell’incarnazione, la discesa nella pasta della storia per diventare vicinanza e condivisione rispetto alla vita di tutti. Mentre la luce della città posta sul monte ricorda al discepolo, come a tutta la Chiesa, che la visibilità non è quella artefatta, inseguita per apparire e mostrarsi, ma quella intrinseca all’essere, e dunque dello stare – quando serve – anche in faccia al mondo. Viene facile notare, al riguardo, come Gesù assuma toni non tanto esortativi, dicendo “siate” sale e luce, ma affermi perentorio che i discepoli “sono” sale e luce, rivelando così ciò che Egli ha fatto non solo per loro, ma di loro. Va da sé che la mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito.  Bisogna invece che noi salviamo l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi variamente mascherati, alle lusinghe. In questo senso capiterà talora di essere scomodi, ma non sarà per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza.

Su questo orizzonte desidero collocare il felice esito della recente Settimana sociale, convocata a Reggio Calabria nel mese di ottobre, come di una occasione che ha segnato un passo in avanti rispetto a elaborazioni precedenti. E tra le ragioni del genuino successo, c’è senz’altro quella di essersi svolta al Sud, in quella terra calabra non poco tribolata, la quale tuttavia sa puntualmente raccontare come esista un altro Meridione, motivo di fierezza e di consolazione per l’Italia tutta. L’altra circostanza positiva è stata assicurata dalla consistente rappresentanza giovanile che figurava in assemblea come tra i volontari. E con i giovani, la Settimana ha parlato delle esperienze di riscatto, di maturazione delle coscienze, della necessità di leggere al positivo anche i momenti socialmente più difficoltosi. Un terzo motivo di riuscita è da individuarsi nella chiave della speranza per cercare di leggere e di ordinare i problemi secondo un’agenda propositiva, in modo ragionato e plausibile, e comunque non schiacciata sul pessimismo dilagante. Un quarto elemento è l’aver messo al centro di ogni problematica storica e sociale la “questione antropologica” nella sua integralità, sulla scorta dell’enciclica Caritas in veritate. Vogliamo dunque esprimere la gratitudine più sincera, da una parte all’Arcidiocesi di Reggio e al suo Pastore, S.E. Mons. Vittorio Mondello, per l’ospitalità pronta e generosa che hanno assicurato all’incontro e ai suoi partecipanti, e dall’altra al Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali e al suo Presidente, S.E. Mons. Arrigo Miglio, per l’intelligente dedizione con cui questa Settimana è stata pensata e realizzata: insieme – Arcidiocesi di Reggio Calabria e Comitato – hanno condotto in porto un’iniziativa di pregio, che rimarrà nella memoria della nostra comunità ecclesiale.

7. Nel contempo, vorrei segnalare come stia progressivamente emergendo, dal vissuto delle nostre Chiese, un approccio che ci pare sempre più consapevole – dunque meno imbarazzato e scevro anche da manicheismi – verso la dimensione politica, per ciò che essa è, e per quello che esprime ai vari livelli. Non c’è dubbio che si sia passati da un atteggiamento più preoccupato della denuncia, spesso anche veemente o semplicistica, ad un approccio più articolato ai problemi, seppure non meno pervaso di tensione etica e di slancio verso il futuro. La politica è esigente anche perché richiede un’attitudine di analisi che va acquisita con l’applicazione, così da superare un certo genericismo, e approdare invece a visioni più pertinenti e più incalzanti sui problemi, non per questo però meno attente sotto il profilo morale.

È probabile che allo stadio attuale si sia arrivati anche grazie alle tante attività e scuole di formazione socio-politica che negli ultimi vent’anni si sono dispiegate, senza dare forse quei risultati immediati sui quali si faceva affidamento. Hanno però attrezzato persone e gruppi ad esprimersi con una maggiore competenza e autonomia culturale. Sarà bene che nel prossimo futuro ci si interroghi su come, alla luce delle esperienze fatte, si possa procedere per favorire la maturazione spirituale e culturale richiesta a chi desidera servire nella forma della politica, e così preparare giovani all’esercizio di quella leadership che difficilmente può essere improvvisata. Dunque, la politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto. E soprattutto adottando un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali.

E i problemi hanno oggi obiettivamente una dimensione preoccupante. Non dimentichiamo certo che la crisi ha colpito il mondo e Paesi più ricchi del nostro, e neppure ci sfugge che molto si è fatto e ancora si sta facendo; ma purtroppo sembra non sufficiente rispetto ad una situazione critica che perdura e sotto alcuni profili si aggrava. Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia, sono situazioni che continuano a farsi sentire con accoratezza. È necessario inoltre che le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili, perché non si indebolisca la rappresentatività politica. Finché infatti non si profilano condizioni realistiche di una maggiore stabilità per il Paese intero, è comprensibile che si avverta una sorta di esitazione e di diffusa incertezza. Si aggiunge a livello della scena politica una caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte. Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa, cade lo slancio partecipativo, tutto diventa pesante e contorto, ma soprattutto viene meno quella possibilità di articolata e dinamica compattezza che è assolutamente necessaria per affrontare insieme gli ostacoli e guardare al futuro del Paese. In causa qui è non solo la dimensione tecnicamente politico-amministrativa, ma anche quella culturale e morale che ne è, a sua volta, lo specifico orizzonte. Questo prende forma nella tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati. In sostanza, è la politica intesa come «casa comune» quella che ancora una volta si propone quale aspirazione persuasiva ed urgente: alla casa tuttavia non basta un tetto, ha bisogno di strutture varie e elementi diversi, tra loro ben congegnati e connessi; e per vivere in essa in modo accettabile, c’è bisogno di un comune atteggiamento di fondo, che fa clima e rende possibile quel senso di appartenenza che motiva al sacrificio e dà senso all’impegno di tutti.

Dicevamo – un mese e mezzo fa – che, nel nostro animo di sacerdoti, «siamo angustiati per l’Italia» che scorgiamo come inceppata nei suoi meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato. Non abbiamo peraltro suggerimenti tecnico-politici da offrire, salvo un invito sempre più accorato e pressante a cambiare registri, a fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise. Non è più tempo di galleggiare. Un rischio – lo diciamo con un senso di apprensione profonda –, è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte. Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale. Mentre tuttavia si fa quest’ultimo esame di coscienza, è possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno che il Paese non potrebbe non apprezzare. Grande vicinanza esprimiamo alle popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti, come in precedenza da smottamenti che hanno provocato violente trasformazioni del territorio. C’è di continuo una parte consistente della comunità nazionale che deve essere soccorsa e aiutata a risorgere, dovendo affrontare le conseguenze di eventi dovuti a calamità naturali, ma anche all’incuria e all’imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano. Già in un’altra occasione, abbiamo avuto modo di osservare che il Paese abbisogna di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio, e che a quest’opera va riconosciuta la necessaria priorità, in un’ottica di concreta e solerte cooperazione tra i diversi livelli dell’amministrazione pubblica.

8. Una parola vorrei offrire ancora circa il tessuto connettivo della società italiana, che tiene nonostante le prove e le tensioni di una stagione non facile. Verrebbe da dire che le difficoltà temperano e probabilmente inducono non pochi a riscoprire il fascino di esperienze e testimonianze davvero forti, quelle «capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes, n. 31). Si sa che osservatori di altri Paesi, guardando più attentamente a quello che succede da noi, rilevano come una singolare opportunità la circostanza che in Italia non si sia ancora arrivati ad una vera e propria «disfatta educativa». Rinunciamo in questo momento ad approfondire le ragioni di questa affermazione, e assumiamo la provocazione positiva che potrebbe essere interna a tali parole. Non occorre cioè arrivare agli esiti ultimi prima di prendersi in carico la responsabilità di una risalita. La cronaca non manca, d’altra parte, di indicare come sintomi inquietanti episodi che danno la percezione di quanto profondo sia l’abisso in cui può cadere il cuore umano. Casi che probabilmente sono sempre accaduti nella storia delle comunità umane, e fatale sarebbe che, per una sorta di illuministica illusione, si pensasse che quasi all’improvviso spariscano dal costume. Per questo dobbiamo chiederci sempre di nuovo: che cosa stiamo facendo per mantenere o ricostituire il patrimonio spirituale e morale indispensabile anche all’uomo post-moderno? Non è che la nostra generazione vive, tutto sommato, ancora di rendita mentre le scorte si vanno esaurendo, anzi in varie situazioni sono già esaurite? Ecco il senso del piano decennale – Educare alla vita buona del Vangelo – che abbiamo da pochissimo varato e che ora è delineato negli “Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020”. Se potessimo anche solo per un istante parlare al cuore di ogni coppia di sposi e di ogni famiglia, noi Vescovi vorremmo dire loro una parola di fiducia, di incoraggiamento, di sostegno al loro essere nativamente votati ad educare. Non è impossibile l’impresa. Certamente non è facile, ma essa è assolutamente possibile, possibile anche a questa generazione di adulti, i quali sperimentano che crescere non è un automatismo legato all’età o ai titoli di studio, ma richiede la coltivazione di sé, la  capacità di riflessione, la palestra delle virtù. L’educazione è anche questione di «ambiente»: una società, una famiglia ripiegate, litigiose, miopi − in una parola egocentriche − generano figli complessati, che si ritengono inferiori o superiori agli altri. Da genitori che rifiutano il dolore che è connesso al ruolo educativo, ai “no” che pur bisogna saper dire, discendono adolescenti scompaginati e atrofizzati dentro, incapaci di captare alcunché della cultura che li ha preceduti. Tra i singoli e l’insieme vi è sempre un circolo ermeneutico che dobbiamo saper evidenziare per il benessere comune. Non c’è crescita, non c’è maturità ad di fuori della fatica che queste esigono inderogabilmente da ciascuno, e rispetto alla quale non c’è esonero possibile, neppure se decretato per eccesso di amore. Occorre che sulla cultura del soggetto si innesti il principio di realtà, «qualcosa» che è ostico allo scetticismo imperioso di questi tempi fintamente allegri e spensierati; si innesti cioè quel realismo che è caratteristico della cultura classico-cristiana, per la quale le pulsioni interiori vanno regolate − e occorre saperlo fare − se non si vuol finire deragliati da se stessi.
Oggi, è vero, c’è una frontiera prodigiosa, quella mediatica comprensiva dei nuovi media, che esalta le opportunità di conoscenza e di relazione. È però anche una cultura capziosa che, mentre  offre molto, se non si sta attenti ruba alla persona sempre qualcosa, e qualcosa di importante. Questo vale per i giovanissimi e i giovani per ore davanti ad internet, ma vale anche per gli adulti quando si lasciano drogare da una informazione morbosa che sembra dare sempre qualche particolare in più, mentre di fatto induce alla indifferenza e al cinismo. Inaridisce il cuore e suggerisce una serie di alibi per non migliorare se stessi. Nessuno ha rimpianti per stilemi autoritari e illiberali, per sistemi monopolistici e monoculturali; e tuttavia la corsa all’audience ha fatto raggiungere livelli di esasperazione brutale. «Essendo in concorrenza sempre più forte – osservava di recente il Papa – i mezzi di comunicazione si credono spinti a suscitare la massima attenzione possibile. Inoltre, è il contrasto che fa notizia in genere, anche se va a discapito della veridicità del racconto» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Germania, 13 settembre 2010). Forse, proprio in questo decennio, sarebbe necessaria una riflessione più profonda e onesta su questi meccanismi per ravvivare una responsabilità più grande ed incisiva verso la missione e le potenzialità proprie di questo straordinario mondo.

Come comunità ecclesiale vorremmo sommessamente dire all’intera comunità nazionale che, per quello che possiamo, per tutto quello che siamo e saremo in grado di mettere in campo in termini di passione educativa, di dedizione per la vocazione e la felicità delle nuove generazioni, noi continueremo ad esserci. Ci sono stati deficit e anche degli scandali, dei peccati di omissione e dei tradimenti della fiducia. Per di più, non sempre siamo stati pronti a identificare la gravità di certe azioni e abbiamo adeguatamente compreso che vi sono condizioni non guaribili con l’ammonizione, il pentimento, la volontà di ricominciare in situazioni nuove. Ci sono storture della psiche che necessitano di un pronto isolamento e di cure particolari, oltre che di una sanzione commisurata alle ingiustizie. Su questo fronte la comunità nazionale, che tanta stima e confidenza da sempre nutre verso la Chiesa, deve sapere che ha tutto il nostro impegno assunto nel modo più solenne. Abbiamo vivissime nell’anima le parole pregnanti, e per noi programmatiche, del Santo Padre pronunciate sabato 30 ottobre dinanzi ai centomila ragazzi dell’Azione Cattolica. Un evento che ci rallegra e ci incoraggia ad essere più decisi, attenti ed entusiasti nella missione educativa che è specifica della Chiesa.

Gli “Orientamenti” che poc’anzi citavo sono già nelle mani dei nostri sacerdoti, dei religiosi, dei laici attivi nelle comunità diocesane e parrocchiali. Naturalmente non posso non augurarmi che trovino la migliore accoglienza, e siano – sulla base dei Piani pastorali promulgati dai Vescovi – assunti quale binario per un’adeguata, ulteriore riflessione sulla situazione locale. Probabilmente meriterà ritornare su questo, ma fin d’ora segnalo che il 5° capitolo, che porta il titolo «Indicazioni per la progettazione pastorale» contiene già, nella sua novità metodologica, una serie di suggerimenti preziosi sui quali conviene non sorvolare.

Concludo, venerati e cari Confratelli, affidando alla vostra magnanimità e alla vostra considerazione queste mie riflessioni, unendo un invito – che vale per me anzitutto – a continuare i nostri lavori respirando il respiro del mondo, il respiro della Chiesa universale. Oltre gli argomenti toccati, altri avrebbero meritato a partire dal recente Sinodo per il Medio-Oriente, incentrato cioè su quella terra che tra tutte è la più cara – perché quella di Gesù – eppure così tormentata e vessata. Un posto speciale hanno nel nostro cuore i cristiani dell’Iraq, solo ultimi nel tempo, bersaglio continuo di attentati sanguinosi, forieri di lutti e di dolore. Ancora otto giorni fa la cattedrale siro-cattolica di Bagdad è stata scenario di decine di morti e feriti, fra i quali due sacerdoti e un gruppo di fedeli riuniti per la santa Messa. E poi l’Afghanistan dove altri 4 alpini sono di recente morti per la pace, lasciando nello strazio le rispettive famiglie. Sono tutte «ferite aperte» che vogliamo presentare alla Vergine Maria, Madre di Cristo e Madre della Chiesa, perché si chini su questi figli. Il 1° novembre di sessant’anni fa Pio XII proclamava verità di fede la sua Assunzione al Cielo: così continuiamo a contemplarla e a invocarla, per noi e i nostri lavori, per ciascuna delle nostre amate Chiese.
Angelo Card. Bagnasco



LA DOTTRINA SOCIALE DI LEONE XIII - di Fabio Trevisan - saggio su “La Dottrina sociale di Leone XIII” edito da Fede&Cultura di Massimo Introvigne

ROMA, lunedì, 8 novembre 2010 (ZENIT.org).- Con un interessante saggio su “La Dottrina sociale di Leone XIII” edito da Fede&Cultura, Massimo Introvigne, vice-responsabile nazionale di Alleanza Cattolica e direttore del CESNUR (Centro Studi Nuove Religioni) intende colmare una incomprensibile lacuna riguardo il silenzio che ha accompagnato il bicentenario della nascita di Papa Leone XIII (Gioacchino Pecci,  1810-1903).
Nonostante le raccomandazioni dell’attuale regnante Pontefice Benedetto XVI, che ha sollecitato di celebrare e studiare i documenti del Magistero di Leone XIII, non sembra esservi stato un particolare interesse nell’accostare la dottrina sociale della Chiesa emersa dall’imponente mole dei suoi scritti.
A questo proposito Introvigne suggerisce di leggere le nove encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma seguendo l’orientamento proposto dallo stesso Pontefice nell’enciclica del 1902 Pervenuti all’anno vigesimoquinto (enciclica scritta per il venticinquesimo anno di pontificato).
Si inizia così con l’Aeterni Patris del 1879, che costituisce e sprona il ritorno alla “solida e limpida filosofia di San Tommaso d’Aquino”, soprattutto a quel rapporto tanto caro anche all’attuale Pontefice, fede e ragione.
La seconda enciclica nell’ordine proposto da Leone XIII è la Libertas del 1888, con la quale il Pontefice tratta il problema della libertà umana. Leone XIII spiega l’importanza della distinzione fra libertà naturale e libertà morale. Se la libertà naturale (o libero arbitrio) costituisce la facoltà di scegliere, la libertà morale costituisce la facoltà di scegliere “il bene conforme a ragione”. La libertà morale è quindi l’uso buono del libero arbitrio. Nell’enciclica si indica come la nozione di libertà morale non è esclusiva del soggetto singolo, ma si estende anche alla società, onde per cui la libertà non è fare quello che si vuole, ma perseguire il bene comune dei cittadini.
L’enciclica Arcanum Divinae Sapientiae del 1880 illustra l’importanza della famiglia e del matrimonio cristiano nel piano originario di Dio. Riprendendo anche i classici greci pre-cristiani, in particolare Aristotele, la famiglia, società naturale, precede lo Stato ed ha dei diritti inalienabili posti da Dio.
L’enciclica Humanum genus del 1884 si scaglia contro la Massoneria, come del resto la Chiesa Cattolica ha sempre fatto, se si considerano i ben 586 documenti di condanna della massoneria.
Come rileva Massimo Introvigne, la struttura dell’enciclica muove dalla dottrina esposta da Sant’Agostino (354-430) nel De civitate Dei  per condannare, senza mezzi termini, principi e azioni della massoneria. Significativa è la riproposizione efficace di una frase dell’enciclica: “La prima cosa da fare, anzitutto, è mostrare il vero volto della massoneria, dopo averne strappato la maschera”. Nel far ciò, Leone XIII ribadisce il primato della preghiera e della vita spirituale.
Nell’enciclica Diuturnum illud bellum del 1881, Leone XIII espone la dottrina cattolica sull’autorità ed i suoi fondamenti. Anche l’autorità deriva da Dio e siccome non c’è società senza autorità, Dio, volendo la natura umana sociale, ha voluto l’autorità.
Precisata la natura dottrinale e la vera fonte dell’autorità, Leone XIII evidenzia come essa non implichi una scelta preferenziale né tantomeno obbligata fra le possibili legittime forme di governo. Introvigne afferma la validità perenne del magistero della Chiesa facendo mirabilmente notare come la parte dedicata all’autorità nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 è, nella sostanza, un compendio dell’enciclica Diuturnum del 1881.
In successione, l’enciclica Au milieu des sollecitudes del 1892, pone una questione scottante ancor oggi per la presenza cattolica nel mondo sociale e politico. Questione scottante ma precisata da Leone XIII: i cattolici devono essere uniti, non riguardo le forme di governo (opinabili), ma per la legislazione (potremmo dire, con termini attuali, per i principi non negoziabili).
L’autentica architrave del Corpus Leonianum, come suggerisce brillantemente l’Autore, è l’enciclica Immortale Dei del 1885, nella quale si sottolinea come la Chiesa sia opera immortale di Dio, per sua natura ordinata alla salvezza delle anime.
Leone XIII ammonisce che alla dottrina sociale cristiana si va sostituendo un “diritto nuovo”, che muove, afferma il Pontefice, dall’idea della “sovranità popolare” secondo cui l’origine dell’autorità deriva dagli uomini attraverso il “contratto sociale” e non dalla natura e quindi da Dio. Nel “diritto nuovo” (si possono individuare qui, ancora molto attuali, i temi del laicismo e del soggettivismo) né le persone né gli Stati hanno obblighi verso Dio. Potremmo dire che si parla tanto (giustamente) dei diritti dell’uomo; ed i diritti di Dio ?
Introvigne evoca, a sostegno ed in continuità con il magistero di Leone XIII, l’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI del 1832, con la quale si condannavano i principi del “diritto nuovo” e successivamente un radiomessaggio di Pio XII del 1941, nel quale si afferma: “Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s’insinua anche il bene e il male nelle anime”.
Con la Quod apostolici numeris del 1878, dedicata al socialismo e al comunismo, il Pontefice rimarca le negazioni che queste ideologie introducono: la negazione dell’autorità, della famiglia, della proprietà, delle fondamenta della vita sociale.
Oltre all’esplicita denuncia delle ideologie e della loro portata sovversiva, Leone XIII ci conduce alla sorgente degli errori: la separazione della ragione dalla fede, la separazione fra fede e vita sociale, la separazione fra fede e vita, con l’insorgere di un materialismo pratico in cui (parole di Leone XIII): “L’ardente desiderio della felicità venne rinserrato fra gli angusti confini del presente”.
La celeberrima enciclica Rerum novarum del 1891, la quale, ribadisce l’Autore, non va letta come un documento isolato, rinnova la condanna del socialismo quale “falsa soluzione della questione operaia” e pone invece i veri auspicabili protagonisti: la Chiesa, lo Stato e le associazioni dei lavoratori. La Chiesa ricorda tre principi importanti per comprendere la “questione operaia”:
il primo è che “togliere dal mondo le disparità sociali è impossibile”, il secondo è che “non si può eliminare dalla vita dell’uomo il lavoro” ed il terzo è che “considerare la lotta di classe inevitabile è cosa contraria alla ragione e alla verità”.
Con l’enciclica Sapientiae christianae del 1890, alla constatazione del progresso materiale il Papa pone dei precisi doveri ai fedeli cristiani: il dovere di amare la Chiesa, il dovere dell’apostolato, dell’unità, direi sostanziale e sui principi e del dovere della prudenza (non della “falsa prudenza” né della “stolta temerità”).
A conclusione di questo importante saggio, Massimo Introvigne sottolinea che c’è in Leone XIII, una vera passione per l’unità dei cattolici attorno ai principi essenziali della dottrina sociale che lo fa essere, ancora oggi, un Papa di grandi speranze.


I MIRACOLI INEDITI DI PADRE PIO, IL SANTO DELLE STIMMATE - Parla l'autore del nuovo libro, José María Zavala di Carmelo López-Arias

MADRID, lunedì, 8 novembre 2010 (ZENIT.org).- E' stato pubblicato in Spagna il libro “Padre Pío. Los milagros desconocidos del santo de los estigmas” (“Padre Pio. I miracoli sconosciuti del santo delle stimmate”, LibrosLibres), in cui l'autore, José María Zavala, ha raccolto testimonianze di conversioni e guarigioni sperimentate per sua intercessione.

“Non avevo mai provato tanto desiderio di condividere un'esperienza che mi ha cambiato per sempre”, ha affermato l'autore in questa intervista concessa a ZENIT, ricordando che la canonizzazione di Pio da Pietrelcina (1887-1968), nel 2002, ha battuto tutti i record di fedeli nella storia.

Come viene ricordato Padre Pio nel convento di San Giovanni Rotondo, dove ha trascorso quasi tutta la vita?

José María Zavala: Con immenso affetto. Ci sono fedeli che continuano a percepire l'intenso profumo delle sue stimmate come il miglior segnale del fatto che non li abbandona mai, quella stessa fragranza che ha gelato più di un incredulo.

Sono vive ancora molte persone che hanno avuto uno stretto rapporto con lui?

José María Zavala: Sono poche, ma ho avuto la grande fortuna di intervistarle, come nel caso di suor Consolata, una monaca di clausura di 95 anni che mi ha accolto nel convento per riferirmi episodi tanto indimenticabili quanto sconosciuti. Non la ringrazierò mai abbastanza. Lo stesso vale per Pierino Galeone, sacerdote ottuagenario con fama di santo, che Padre Pio curò miracolosamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, e per Paolo Covino, il cappuccino che amministrò l'Estrema Unzione a padre Pio. Tutti rompono per la prima volta il silenzio per parlare di Padre Pio in questo libro.

Esprimono qualche idea comune?

José María Zavala: Tutti concordano nel dire che ha agito come Gesù sulla terra: ha convertito i peccatori, ha guarito i malati, ha consolato gli afflitti... Ha portato la Croce per tutta la vita per redimere gli uomini dal peccato. Padre Pio sapeva molto bene che senza sacrificio personale era impossibile guadagnare anime per il Signore.

Chi è stato Padre Pio?

José María Zavala: Un dono che Dio ha fatto agli uomini in pieno XX secolo perché continuino a credere in Lui. E' impossibile avvicinarsi con semplicità e senza pregiudizi alla sua figura e restare insensibili. Conosco molta gente la cui fede era morta per mancanza di opere e che per sua intercessione è ora molto vicina al Signore, prega ed è felice facendo felici gli altri.

C'è un rapporto tra le sue ore al confessionale e le stimmate?

José María Zavala: Tutto è un gioco d'amore, diceva. D'Amore, con la maiuscola, per il prossimo; sapeva molto bene che il meglio si compra sempre al prezzo di un grande sacrificio. Padre Pio ha vissuto “crocificato” per cinquant'annni con stimmate alle mani, ai piedi e al costato che sanguinavano ogni giorno. Una simile sofferenza morale e fisica era un mezzo infallibile per liberare molte anime dai legami di Satana. Per questo a volte trascorreva 18 ore di seguito nel confessionale.

Come un nuovo curato d'Ars...

José María Zavala: E' in questo che si radica la grandezza di quest'uomo di Dio. San Giovanni Rotondo, dov'è vissuto ed è morto, continua ad essere oggi un'autentica via di Damasco lungo la quale migliaia di peccatori tornano al Signore. E' il primo sacerdote con le stimmate della storia della Chiesa, e con alcuni carismi che lo rendono molto speciale, dalla bilocazione alla capacità di scrutare i cuori, che gli permetteva di leggere l'anima dei penitenti.

“Farò più rumore da morto che da vivo”, disse un giorno. Che cosa intendeva?

José María Zavala: Bisognerebbe chiederlo alle centinaia di persone in tutto il mondo che per sua intercessione continuano oggi a convertirsi e/o a guarire miracolosamente da una malattia mortale. Molti di loro apportano le proprie testimonianze toccanti in questo libro. Possiamo affermare che Padre Pio continua ad operare dal Cielo più prodigi di quando era sulla terra.

Lei riporta alcune conversioni toccanti...

José María Zavala: Gianna Vinci mi ha riferito a Roma uno di quei miracoli che lasciano a bocca aperta. In un'occasione, una donna malata di cancro pregò suo marito, agnostico, di portarla a San Giovanni Rotondo, perché aveva sentito dire che Padre Pio operava miracoli. L'uomo pose una condizione: avrebbe aspettato fuori dalla chiesa. Entrò quindi solo la donna, insieme al figlio di dieci anni.

Gianna Vinci era lì e ha visto tutto. La donna si inginocchiò al confessionale di Padre Pio mentre questi diceva al bambino di avvisare il padre. Il piccolo obbedì: “Papà, ti vuole Padre Pio!”, gli disse dalla porta. Ma quel bambino... era sordomuto! Emozionato, il padre finì per confessarsi, e la moglie guarì immediatamente.

Qual è il segreto della popolarità di questo santo?

José María Zavala: Insisto, l'Amore per gli altri. Padre Pio continua a raccogliere oggi i frutti della sua semina dal Cielo. In Italia si può percepire il grande affetto che la gente ha per questo santo. Tornando a Madrid, mentre facevo il check-in all'aeroporto, un poliziotto ha iniziato a farmi problemi, ma quando ha visto il ritratto di Padre Pio che portavo per un amico mi ha fatto passare con un sorriso. “Piccolo salvacondotto!”, ho pensato.

Padre Pio è conosciuto fuori dall'Italia?

José María Zavala: Spero che questo libro serva a farlo conoscere di più in Spagna, dove ha già fatto alcuni miracoli. In Argentina, Messico, Cile e Filippine ha sempre più devoti.

Che cosa significa questo libro nella sua bibliografia?

José María Zavala: E' senz'altro la mia opera più importante. Non avevo mai provato tanto desiderio di condividere un'esperienza che mi ha cambiato per sempre. Dicono che quando Padre Pio eleva un'anima non la lascia più cadere. L'ho sperimentato personalmente. Invito chiunque, per quanto possa essere scettico, a conoscere quest'uomo di Dio. Gli assicuro che non resterà indifferente.
Per ulteriori informazioni, www.libroslibres.com
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


CARD. SCOLA: LA NATURA VA RICONSIDERATA COME “CREATO” - Le istituzioni diano una mano all'imprenditoria veneta, in ginocchio dopo l'alluvione

ROMA, lunedì, 8 novembre 2010 (ZENIT.org).- Le inondazioni che si sono verificate in Veneto, causando innumerevoli danni, devono portare a una più approfondita riflessione sul nostro rapporto con l’ambiente, inteso come Creato. E' quanto ha dichiarato alla Radio Vaticana il Card. Angelo Scola, Patriarca di Venezia e Presidente della Conferenza Episcopale Triveneta.
L'ondata di maltempo abbattutosi sul nord della Penisola ha portato all’esondazione del fiume Bacchiglione a Vicenza e a Padova, dell'Alpone e del Trampigna nel Veronese, e del Frassine in provincia di Padova. Ora la crisi sembra interessare anche il Po. Intanto, a Padova e provincia, un migliaio di persone hanno dovuto evacuare le proprie abitazioni.
“Voglio anzitutto esprimere la partecipazione nella preghiera e nell’affetto al dolore di quei familiari che hanno perso i loro cari – ha detto il Card. Angelo Scola –. Poi la mia partecipazione alla grande prova – perché non so se risulta chiara a tutto il Paese la misura della devastazione – di tante famiglie della regione, molte delle quali hanno perso tutto e anche di molte piccole industrie – di cui il nostro Veneto è particolarmente ricco - che sono state messe in gravi difficoltà”.
“Ma poi anche la mia ammirazione per la grande dignità con cui le persone stanno affrontando questo disastro e la forte solidarietà con cui si stanno reciprocamente sostenendo e stanno cercando una via d’uscita”, ha aggiunto.
“Certamente – ha continuato – sarà anche importante che le istituzioni facciano la loro parte e che tutti insieme cerchiamo di imparare anche da questa prova, molto dura, un rapporto autenticamente corretto con la natura, che vuol dire questo: riscoprirla come ‘Creato’”.
“Bisogna cioè – ha spiegato – superare due limiti con cui noi normalmente la trattiamo perché ci dimentichiamo che è ‘creatura di Dio’. Il nostro primo limite è che l’uomo si pensa come padrone assoluto della terra, considerata come una sorta di miniera da cui ricavare sempre tutto. Il secondo limite è un concetto astratto di relazione con il Creato stesso che confonde il mantenimento passivo dell’esistente con il rispetto della natura”.
Questa distinzione, ha continuato, “mette in moto un rapporto equilibrato in cui il Creato è vissuto come la nostra dimora che Dio ci ha affidato, di cui dobbiamo prenderci un’attenta cura, e non sfruttarlo come dei dominatori, né d’altra parte pensare che senza il nostro intervento il Creato possa mantenere per le generazioni presenti e future il suo autentico destino”.
Riguardo invece al duro colpo inferto all’imprenditoria locale, il porporato ha detto: “E’ necessario assolutamente che le istituzioni si facciano carico di questa situazione. In maniera chiara, costruendo dei tavoli di concertazione, ascoltando le esigenze di tutti e senza mai dimenticare che quando siamo posti di fronte a queste prove sono sempre gli anelli più deboli della società a pagare di più”.
“Io mi auguro che ci sia realmente da parte di tutti – ma mi pare di vederla già – una disponibilità a un serio lavoro comune, è questo quello di cui abbiamo bisogno sempre a tutti livelli nel nostro Paese: un’amicizia civica e costruttiva”.
“E quando si verificano circostanze eccezionali ed eventi traumatici di questo genere questa amicizia si dimostra ancora più decisiva”, ha concluso.


08/11/2010 – IRAQ - Nuovi attacchi ai cristiani a una settimana dalla strage di Baghdad di Layla Yousif Rahema

Uccisi ieri due fedeli a colpi d’arma da fuoco a Baghdad. Imam musulmani a Kirkuk condannano le violenze contro la Chiesa e chiedono di preservare il “mosaico iracheno”. Accordo sul nuovo governo dopo otto mesi di stallo politico. Ieri la prima messa nella cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso dopo il massacro del 31 ottobre.


Baghdad (AsiaNews) – Nuovo attentato ai cristiani d’Iraq, una settimana dopo la strage nella chiesa siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad. Due fedeli sono stati uccisi ieri, 7 novembrea Baghdad: Louay Daniel Yacoub, 49 anni, era davanti all’ingresso del suo appartamento quando sconosciuti lo hanno freddato a colpi d’arma da fuoco. Un altro cristiano è stato ucciso lo stesso giorno, ma di lui non si conosce ancora l’identità. Lo riferiscono fonti locali di AsiaNews, anonime per motivi di sicurezza.

I cristiani sotto attacco in Iraq raccolgono la solidarietà e la vicinanza della comunità musulmana. Lo scorso 5 novembre, durante la preghiera del venerdì, tutte le moschee a Kirkuk hanno condannato il “barbarico attentato” contro la chiesa della capitale. Il sindaco e gli sheikh delle tribù arabe, curde e turkmene sono andati a fare le condoglianze e a portare la loro solidarietà all’arcivescovado caldeo della città. Il giorno successivo, imam sunniti e sciiti della città dell’Iraq del nord hanno condannato anche loro, insieme all’arcivescovo mons. Louis Sako, la strage che a Baghdad il 31 ottobre ha tolto la vita a oltre 50 persone. I responsabili religiosi musulmani hanno chiesto a gran voce che venga preservato il “mosaico iracheno” di etnie e religioni.

Gli stessi imam hanno chiesto ai musulmani di proteggere i cristiani, che sono un “modello  di lealtà”, e lanciato un appello perché gli iracheni tutti non cedano alla paura e non lascino il loro Paese.

Le violenze in Iraq avrebbero accelerato la formazione del nuovo governo iracheno, in stallo dopo otto mesi dalle elezioni. Secondo quanto ha dichiarato il portavoce del governo Ali al Dabbagh, si sarebbe arrivati a un accordo per un esecutivo di unità nazionale. Lo sciita Nouri al Maliki rimarrebbe premier, dopo aver conquistato il sostegno del partito laico sunnita-sciita Iraqiya guidato dal rivale ex premier Iyad Allawi, nonché vincitore alle urne a marzo. A quest'ultima formazione andrà “la guida del Parlamento”.  Anche la presidenza rimarrebbe invariata: in carica si conferma Jalal Talabani, come unico candidato dell'Alleanza curda. Gli Usa non hanno ancora confermato la notizia, ma invitano le autorità irachene a formare un governo “inclusivo”.

I cristiani di Baghdad hanno assistito ieri alla prima messa celebrata nella cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso dopo il massacro del 31 ottobre. All'interno nessun banco, nessuna sedia: lungo la navata centinaia di candele sono state posate a terra, formando una grande croce in mezzo alla quale erano stati posti i nomi dei 46 fedeli vittime del massacro di domenica scorsa. ''Oggi noi preghiamo per coloro che ci hanno aggredito, che hanno attaccato la nostra chiesa e ucciso i padri Thaher e Wassim'', ha detto nell'omelia padre Mukhlas Habbash, citando i nomi dei due preti di 32 e 27 anni uccisi sette giorni fa. I loro volti sorridenti sono presenti nei poster affissi ai muri della cattedrale, anneriti e crivellati di pallottole.


Peccato originale e politiche per la famiglia - Autore: Amato, Gianfranco  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 7 novembre 2010

Con tanto di solenne conferenza stampa il Governo italiano, lo scorso maggio, annuncia al mondo l’iniziativa della Seconda Conferenza Nazionale sulla Famiglia, che si terrà a Milano dall’8 al 1o novembre 2010. A conferma che il tema sta a cuore all’Esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Come viene spiegato, il simbolo scelto per l’evento è costituito un “doppio infinito”, per rappresentare il senso di legame di una coppia di genitori con i loro due figli. Motto di questa seconda iniziativa è: «Famiglia, storia e futuro di tutti».
Nel corso della conferenza stampa, si ribadisce l’attenzione particolare del Governo di centrodestra alla famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, definita, tra l’altro, «caposaldo della Costituzione» e «pilastro fondamentale della società».
Viene, poi, annunciato il progetto di un apposito Piano della Famiglia, per poter dare risposte politiche adeguate, e che dovrà costituire la «stella polare» verso la quale orientare le politiche familiari del Governo.
A pochi giorni dall’inizio della Conferenza, il Presidente del Forum per le Famiglie, Francesco Belletti, inciampando su un aggettivo durante un’intervista, si arrischia a definire «imbarazzante» l’eventuale presenza di Berlusconi alla stessa Conferenza governativa, a causa delle esternazioni del Premier sulla propria natura di impenitente libertino ed inguaribile tombeur de femmes.
Si scatena una ridda di polemiche strumentali, ed un intossicante moralismo peloso sembra ammorbare l’aria della politica italiana. Si odono persino strillare dai pulpiti mediatici, improbabili ed improvvisati Savonarola, che fino al giorno prima brandivano l’arma della privacy per proclamare la più assoluta libertà in tema di orientamento sessuale, invocando pieni diritti per gay, lesbiche, bisessuali, transessuali e transgender, e propugnando la cosiddetta “famiglia arcobaleno” in alternativa all’odiata e tanto vituperata famiglia tradizionale.
Di questa polemica su Berlusconi, però, tre cose non mi convincono.
Primo. La Conferenza per la Famiglia è un’iniziativa istituzionale del Governo, per cui appare davvero singolare che ad essa non possa partecipare il Capo di quel Governo che l’ha organizzata. Se qualcuno ritenesse inopportuna la presenza del Premier potrebbe esercitare un’opzione molto semplice: non aderire. Se a creare imbarazzo, infatti, è il padrone di casa, dovrebbero essere gli ospiti a declinare l’invito, e non il padrone a lasciare la casa.
Secondo. Che una parte del mondo cattolico abbia da tempo deciso di assumere il ruolo farisaico degli evangelici sepolcri imbiancati, è cosa che può solo intristire. Se dovessimo pretendere che della famiglia si occupino soltanto politici puri di spirito e moralmente perfetti, finiremmo per far sparire il tema dall’agenda politica. Non si possono non distinguere i comportamenti personali – di cui ciascuno risponde alla propria coscienza, o a Dio, se credente – dall’azione concreta di chi ha una responsabilità pubblica nei confronti della comunità. Ciò lo impone, peraltro, una sana concezione di laicità. Personalmente, comunque, preferisco l’incoerenza del cattolico Berlusconi, alla “coerenza” dei cattolici democratici, puritani ad intermittenza, che propugnano il riconoscimento delle unioni omosessuali, la fecondazione assistita eterologa, ed il riconoscimento di forme alternative di famiglia. Non provo nessuna nostalgia del tempo in cui si discuteva dei DICO bindiani.
Terzo. Davvero incomprensibile appare, invece, il rigurgito moralista espresso da alcuni religiosi, esponenti della Chiesa Cattolica. Ad essi, più che ad altri, dovrebbe apparire evidente come il peccato originale non possa costituire un limite ed un ostacolo al perseguimento del bene comune. Nessun governo come quello del peccatore Silvio Berlusconi, ha affrontato ed intende affrontare, in sintonia con il Magistero, i delicati ambiti connessi ai cosiddetti temi eticamente sensibili (vita, famiglia, educazione), ovvero a quei valori definiti non negoziabili da Benedetto XVI. Ed oggi, in tutta Europa, un Governo che riconosce la famiglia come unione fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna, è merce davvero rara.
Nessuna realtà umana conosce, meglio della Chiesa Cattolica (Casta et Meretrix, secondo la celebre definizione coniata da Sant’Ambrogio), la differenza tra peccato e peccatore, e sa distinguere i limiti personali dalle responsabilità istituzionali.
Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, fu uno dei Papi più impresentabili della storia della Chiesa. Lussurioso, giocatore, nepotista, simoniaco, avido, adultero, e padre di una nidiata di figli illegittimi, quel Vicario di Cristo non si preoccupò minimamente di celare la scandalosa condotta di vita che amava condurre. Si ritiene orami unanimemente che la sua sia stata una sessualità compulsiva, e che l’esasperato erotismo e la continua ricerca del piacere fisico fossero attribuibili ad una devianza patologica della sua psiche.
Questi gravi limiti umani non gli hanno impedito, però, di essere un ottimo Pontefice, sotto il profilo dottrinale e devozionale. Fu, infatti, un esemplare tutore del “depositum fidei” e persino fautore di pratiche di pietà devozionali e penitenziali, come la diffusione tra il popolo della pratica quotidiana del rosario, ed il culto verso il Santissimo Sacramento
A lui si deve pure l’istituzione della preghiera quotidiana dell’Angelus, per invocare la protezione della Beata Vergine contro il pericolo dell’invasione turca. Nessuno però – fin’ora – si è sognato di mettere in discussione questa pratica devozionale perché opera di un Papa davvero imbarazzante.


Avvenire.it, 7  novembre 2010 - AL VIA LA CONFERENZA DI MILANO - Sacconi: primato pubblico a matrimonio e procreazione
«La famiglia è una straordinaria risorsa per l'intera collettività, è fondamento insostituibile per lo sviluppo e il progresso di una società aperta e solidale». È quanto sottolinea il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, in occasione della seconda Conferenza nazionale sulla famiglia, aperta oggi a Milano e organizzata dal governo. «Sostenere e salvaguardare il miglior svolgimento delle sue funzioni - avverte il Capo dello Stato - costituisce una doverosa attuazione dei principi sanciti al riguardo dalla Carta costituzionale». 

Napolitano osserva che «la complessità dei temi all'esame della Conferenza richiama tutti i soggetti istituzionali all'esigenza di affrontare con determinazione e lungimiranza i problemi principali che ostacolano il formarsi delle famiglie: la precarietà e l'instabilità dell'occupazione, la difficoltà di accesso ai servizi e sostegni pubblici e la loro disomogenea distribuzione sul territorio nazionale».

I lavori sono stati aperti dai messaggi dell’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, e delle massime autorità locali (il sindaco Moratti, i presidenti di Provincia e Regione Podestà e Formigoni), poi l'intervento di apertura del senatore Carlo Giovanardi, in rappresentanza del premier Silvio Berlusconi che nei giorni scorsi aveva fatto sapere che non avrebbe presenziato all'evento.

TETTAMANZI: FAMIGLIA SPESSO LASCIATA SOLA
«Da parte della politica «non basta la semplice proclamazione di valori, impegni e mete, ma serve il lavoro quotidiano sulle condizioni concrete perché i valori che tutti proclamano siano resi concreti sulla rete delle famiglie». È quanto ha spiegato l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, intervenuto alla Conferenza. Il cardinale ha espresso la sua preoccupazione per il fatto che «nelle difficoltà la famiglia è spesso lasciata sola», e ha detto che è necessario «un coinvolgimento generale, una grande alleanza tra tutte le forze politiche, culturali, imprenditoriali, associative, che possano occuparsi della famiglia».

GIOVANARDI: LA FAMIGLIA E' VITALE, IL FISCO L'AIUTI
Nonostante le crisi, demografiche e coniugali, «la famiglia è vitale e resta un riferimento essenziale in un momento di incertezza. Protegge i figli, gli anziani, i componenti più deboli. È centro di legami di solidarietà oltre che di affetti. Questa funzione della famiglia va sostenuta, certamente: non si può chiederle di supplire alle mancanze del sistema di welfare, che va anche apprezzata e valorizzata più di quanto normalmente si faccia». Così è intervenuto alla Conferenza il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi. Una famiglia che, a suo avviso, va intesa secondo quella definita dall'articolo 29 della Costituzione. «È evidente - ha aggiunto - che per far fronte ai fenomeni di disgregazione familiare è indispensabile l'impegno di tutta la collettività nazionale: della scuola, della cultura, delle comunità religiose, dell'associazionismo, del mondo del lavoro e delle imprese per tutti quegli aspetti che vanno al di là del mero dato economico».

Giovanardi si è augurato che dalla Conferenza esca la base del Piano nazionale di politiche per la famiglia, quale «quadro organico e di medio termine di politiche specificatamente rivolte alla famiglia, cioè aventi la famiglia come destinatario e come soggetto degli interventi». Citando tre aree di intervento per il futuro: la riforma fiscale, la conciliazione tra tempi di vita e quelli di lavoro e la necessità di un nuovo quadro delle competenze dello Stato nel settore della Famiglia. «Tutti dicono di essere disposti a votare una riforma fiscale in un senso favorevole alle famiglie. Maggioranza e opposizione - ha aggiunto - sono disposte a votare questa riforma. È arrivato il momento di farla. Non so se si chiamerà quoziente familiare o fattore famiglia, ma il nuovo fisco dovrà tenere conto dei numeri dei componenti della famiglia».

E il sottosegretario ha ricordato, per quanto riguarda la tutela della famiglia, il valore della legge sulla fecondazione assistita: «I progressi della scienza e le biotecnologie possono togliere ai figli il diritto di nascere all'interno di una comunità d'amore con una identità certa paterna e materna», «La rottura della diga costituita dalla Legge 40 aprirebbe la porta a inquietanti scenari, tornando a un vero e proprio far west della provetta, dove fin dal primo momento il concetto costituzionale di famiglia andrebbe irrimediabilmente perduto».

CARFAGNA: SI' AL QUOZIENTE FAMILIARE
«È assolutamente fondamentale intervenire sul fisco per potere aiutare le famiglie. Questo è il prossimo obiettivo ambizioso che si pone il governo. Abbiamo dovuto tenere i conti in ordine, ora le prime risorse che saranno disponibili dovranno essere indirizzate alle famiglie, attraverso interventi come quello del quoziente familiare. Aiutare le famiglie significa aiutare tutto il Paese». Così ha detto il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna.

SACCONI: FAMIGLIA NATURALE ORIENTATA ALLA PROCREAZIONE HA IL PRIMATO PUBBLICO
«Ho sentito ieri dai cosiddetti futuristi - ha detto il ministro per il lavoro e le politiche sociali, Maurizio Sacconi - mettere in discussione il primato pubblico della famiglia naturale fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione. Senza nulla togliere al rispetto che meritano tutte le relazioni affettive, che però riguardano una dimensione privatistica, le politiche pubbliche che si realizzano con benefici fiscali sono tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione». «Su questi punti - ha aggiunto Sacconi - ho avvertito ieri con l'assemblea futurista e il presidente Fini una differenza di opinioni, in particolare con l'intervento di Della Vedova».
Sempre secondo il ministro, «la crisi porta il governo a fare delle scelte e gli interventi di welfare vanno riorientati». «La famiglia deve essere l'unità di riferimento che ci consente di compiere quell'operazione di razionalizzazione delle prestazioni dirette e indirette necessarie perchè gli obiettivi che vogliamo raggiungere per sostenere la natalità possano essere perseguite. Di affabulazioni senza fondamento se ne sentono tante, io guardo ai fatti e ai numeri».
Nel pomeriggio si è scatenata una polemica sulle parole di Sacconi, accusato di fare discriminazioni tra coppie sposate e non sposate. «Le politiche pubbliche si occupano della famiglia naturale e quindi anche dei figli nati al di fuori del matrimonio», ha precisato Sacconi. «Io ho citato la Costituzione e in particolare gli articoli 29, 30 e 31 – ha detto Sacconi – dove si indica che le politiche pubbliche si occupano della famiglia naturale basata sul matrimonio e ovviamente anche della natalità fuori dal matrimonio. Più in generale - ha osservato Sacconi - ho fatto una distinzione tra una dimensione pubblicistica e una privatistica. Nel caso della pensione di reversibilità, si può dare a un sopravvissuto di una relazione omosessuale?», ha osservato il ministro sottintendendo la sua contrarietà.

FORUM FAMIGLIE, BENE LAVORI CONFERENZA IN CORSO
Il Forum delle associazioni familiari ha espresso "apprezzamento" per come la Conferenza nazionale della famiglia sta trattando il tema. Lo ha detto il presidente del Forum, Francesco Belletti. "Per noi - ha osservato - è importante che la Conferenza abbia messo la famiglia al centro dell'agenda del paese e al centro dell'attenzione della pubblica opinione. Apprezziamo anche l'identità di famiglia che è stata esplicitata, quella dell'articolo 29 della Costituzione, e quindi quella formata da un uomo ed una donna coniugata e con figli. Una famiglia cioè socialmente responsabile".

Belletti ha poi espresso giudizio positivo sulla bozza di Piano nazionale che è qui in discussione: "È un punto di partenza per un'ampia discussione, apprezziamo le priorità sul fisco che sono state anche evidenziate dal governo stamattina. Anche noi presentiamo il nostro progetto sul fisco, il "fattore famiglia", che consiste in una no-tax area familiare crescente con il numero di figli ed equa anche fra i redditi".


"Europa, non avere paura!" - Da Santiago de Compostela e da Barcellona, l'appello di Benedetto XVI perché il continente si apra a Dio e torni a pronunciare il suo nome non invano, ma in gioia e santità. Con "stella polare" la croce di Sandro Magister

ROMA, 8 novembre 2010 – Come fa quasi sempre dopo un suo viaggio, nell'udienza generale di mercoledì prossimo Benedetto XVI commenterà la visita che ha compiuto sabato e domenica a Santiago de Compostela e Barcellona.

Ma una cosa è parsa subito chiara fin dall'inizio del viaggio. Lo sguardo del papa non è rimasto confinato nelle due città, e neppure nella Spagna, ma ha abbracciato l'Europa e l'umanità intera.

Consacrando a Barcellona la basilica della Sagrada Família – capolavoro di Antoni Gaudí ma anche opera collettiva in corso da più di un secolo come un'antica cattedrale – papa Joseph Ratzinger l'ha portata ad esempio universale di arte cristiana che non si chiude in se stessa, ma vuole porre davanti a tutti gli uomini "il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo".

Ecco infatti che cosa ha detto in un passaggio chiave dell'omelia della messa di dedicazione della chiesa, domenica 7 novembre:

"In questo ambiente, Gaudí volle unire l’ispirazione che gli veniva dai tre grandi libri dei quali si nutriva come uomo, come credente e come architetto: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della liturgia. Così unì la realtà del mondo e la storia della salvezza, come ci è narrata nella Bibbia e resa presente nella liturgia. Introdusse dentro l’edificio sacro pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina, ma, allo stesso tempo, portò fuori i 'retabli', per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.

"In questo modo, collaborò in maniera geniale all’edificazione di una coscienza umana ancorata nel mondo, aperta a Dio, illuminata e santificata da Cristo. E realizzò ciò che oggi è uno dei compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza. Antoni Gaudí non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo".

*

Un altro momento chiave del viaggio è stata l'omelia della messa di sabato 6 novembre, nella piazza della cattedrale di Santiago de Compostela.

In essa, Benedetto XVI ha ricapitolato la sua visione complessiva circa la missione assegnata alla Chiesa nell'Europa e nel mondo di oggi.

Portare gli uomini ad aprirsi a Dio, e non a "un dio qualsiasi" o peggio "nemico" come quello dei paganesimi antichi e moderni, ma a quel Dio amorevole "fino all'estremo" rivelato dalla croce di Gesù, è apparsa ancora una volta come la cifra esplicativa di questo pontificato.

Infatti, dopo aver detto che il camminare di tanti pellegrini fino a Santiago de Compostela esprime ricerca "di verità e di bellezza, di un’esperienza di grazia, di carità e di pace, di perdono e di redenzione", e che "nel più nascosto di tutti questi uomini risuona la presenza di Dio e l’azione dello Spirito Santo", il papa ha proseguito come nel brano che segue:



DALL'OMELIA DI BENEDETTO XVI A SANTIAGO DE COMPOSTELA


... Chi compie il pellegrinaggio a Santiago, in fondo, lo fa per incontrarsi soprattutto con Dio, che, riflesso nella maestà di Cristo, lo accoglie e benedice nell’arrivare al Portico della Gloria.

Da qui, come messaggero del Vangelo che Pietro e Giacomo firmarono con il proprio sangue, desidero volgere lo sguardo all’Europa che andò in pellegrinaggio a Compostela. Quali sono le sue grandi necessità, timori e speranze? Qual è il contributo specifico e fondamentale della Chiesa a questa Europa, che ha percorso nell’ultimo mezzo secolo un cammino verso nuove configurazioni e progetti?

Il suo apporto è centrato in una realtà così semplice e decisiva come questa: che Dio esiste e che è lui che ci ha dato la vita. Solo lui è assoluto, amore fedele e immutabile, meta infinita che traspare dietro tutti i beni, verità e bellezze meravigliose di questo mondo; meravigliose ma insufficienti per il cuore dell’uomo. Lo comprese bene santa Teresa di Gesù quando scrisse: "Solo Dio basta".

È una tragedia che in Europa, soprattutto nel XIX secolo, si affermasse e diffondesse la convinzione che Dio è l’antagonista dell’uomo e il nemico della sua liberà. Con questo si voleva mettere in ombra la vera fede biblica in Dio, che mandò nel mondo suo Figlio Gesù Cristo perché nessuno muoia, ma tutti abbiano la vita eterna (cfr. Giovanni 3, 16).

L’autore sacro afferma perentorio davanti a un paganesimo per il quale Dio è invidioso dell’uomo o lo disprezza: come Dio avrebbe creato tutte le cose se non le avesse amate, lui che nella sua infinita pienezza non ha bisogno di nulla? (cfr. Sapienza 11, 24-26). Come si sarebbe rivelato agli uomini se non avesse voluto proteggerli?

Dio è l’origine del nostro essere e il fondamento e culmine della nostra libertà, non il suo oppositore. Come l’uomo mortale si può fondare su se stesso e come l’uomo peccatore si può riconciliare con se stesso? Come è possibile che si sia fatto pubblico silenzio sulla realtà prima ed essenziale della vita umana? Come ciò che è più determinante in essa può essere rinchiuso nella mera intimità o relegato nella penombra?

Noi uomini non possiamo vivere nelle tenebre, senza vedere la luce del sole. E, allora, com’è possibile che si neghi a Dio, sole delle intelligenze, forza delle volontà e calamita dei nostri cuori, il diritto di proporre questa luce che dissipa ogni tenebra?

Perciò, è necessario che Dio torni a risuonare gioiosamente sotto i cieli dell’Europa; che questa parola santa non si pronunci mai invano; che non venga stravolta facendola servire a fini che non le sono propri. Occorre che venga proferita santamente. È necessario che la percepiamo così nella vita di ogni giorno, nel silenzio del lavoro, nell’amore fraterno e nelle difficoltà che gli anni portano con sé.

L’Europa deve aprirsi a Dio, uscire all’incontro con lui senza paura, lavorare con la sua grazia per quella dignità dell’uomo che avevano scoperto le migliori tradizioni: oltre a quella biblica, fondamentale a tale riguardo, quelle dell’epoca classica, medievale e moderna, dalle quali nacquero le grandi creazioni filosofiche e letterarie, culturali e sociali dell’Europa.

Questo Dio e questo uomo sono quelli che si sono manifestati concretamente e storicamente in Cristo. Cristo che possiamo trovare nei cammini che conducono a Compostela, dato che in essi vi è una croce che accoglie e orienta ai crocicchi.

Questa croce, segno supremo dell’amore portato fino all’estremo, e perciò dono e perdono allo stesso tempo, dev’essere la nostra stella polare nella notte del tempo.

Croce e amore, croce e luce sono stati sinonimi nella nostra storia, perché Cristo si lasciò inchiodare in essa per darci la suprema testimonianza del suo amore, per invitarci al perdono e alla riconciliazione, per insegnarci a vincere il male con il bene. Non smettete di imparare le lezioni di questo Cristo dei crocicchi dei cammini e della vita, in lui ci viene incontro Dio come amico, padre e guida. O croce benedetta, brilla sempre nelle terre dell’Europa!

Lasciate che [la croce] proclami da qui la gloria dell’uomo, che avverta delle minacce alla sua dignità per la privazione dei suoi valori e ricchezze originari, l’emarginazione o la morte inflitte ai più deboli e poveri. Non si può dar culto a Dio senza proteggere l’uomo suo figlio e non si serve l’uomo senza chiedersi chi è suo Padre e rispondere alla domanda su di lui.

L’Europa della scienza e delle tecnologie, l’Europa della civilizzazione e della cultura, deve essere allo stesso tempo l’Europa aperta alla trascendenza e alla fraternità con altri continenti, al Dio vivo e vero a partire dall’uomo vivo e vero. Questo è ciò che la Chiesa desidera apportare all’Europa: avere cura di Dio e avere cura dell’uomo, a partire dalla comprensione che di entrambi ci viene offerta in Gesù Cristo.


Martedì 09 novembre 2010 - Ma Bagnasco non si unisce al coro dei moralisti no-Cav - di Andrea Tornielli
«Non è più tempo di galleggiare, ma occorre fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise». La navigazione della politica italiana deve cambiare, anche perché sulla scena si assiste a «una caduta di qualità» che si presta ad essere strumentalizzata.
Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, apre ad Assisi i lavori della 62esima assemblea generale della Cei con una prolusione attenta e misurata, contenente soltanto un accenno riferibile alle recenti vicende che hanno coinvolto il premier. È evidente l’intenzione di non farsi usare dagli avversari del Cavaliere in questa fase politica delicatissima, di non fornire, come Chiesa cattolica, nuovi elementi per la spallata contro il premier. Richiamando l’importanza dell’impegno dei cattolici in politica, e constatando che «nel vissuto delle Chiese» si è passati «da un atteggiamento più preoccupato della denuncia, spesso anche veemente o semplicistica, a un approccio più articolato ai problemi», Bagnasco ha auspicato che i cristiani adottino «un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali».
Certo, il presidente della Cei non manca di denunciare che «a livello della scena politica» si registra «una caduta di qualità». Ma questa «va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte». Perché, se la gente «perde fiducia nella classe politica», viene meno quella compattezza che «è assolutamente necessaria» per affrontare la crisi.
Bagnasco spiega che qui è in causa non solo la dimensione politico-amministrativa, «ma anche quella culturale e morale che ne è, a sua volta, lo specifico orizzonte». Un orizzonte, dice ancora il cardinale, con un passaggio riferibile alle polemiche sulla vita privata di Berlusconi, che «prende forma nella tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati».
Il presidente della Cei ha anche manifestato «apprensione profonda» per quei trend «che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte. Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia», proprio nel momento in cui celebra i 150 anni della sua unità. E propone, ancora, di «convocare attorno a uno stesso tavolo», governo, forze politiche, sindacati e parti sociali per approntare «un piano emergenziale sull’occupazione».
Bagnasco si scaglia poi contro un’«informazione morbosa che sembra dare sempre qualche particolare in più, mentre di fatto induce all’indifferenza e al cinismo», con una «corsa all’audience» che «raggiunge livelli di esasperazione brutale».
Forte del discorso pronunciato lo scorso settembre da Benedetto XVI in Inghilterra alla Westminster Hall, nella sede del Parlamento più antico del mondo, il presidente della Cei ha voluto presentare in modo articolato il tema dei valori «non negoziabili», definiti tali non perché «non si debbano argomentare», ma perché «nel farlo e nel legiferare, non possono essere intaccati in quanto inviolabili, inalienabili e indivisibili»: sono il valore e la difesa della vita, il matrimonio fra uomo e donna, la famiglia, la libertà religiosa ed educativa.
«Senza un reale rispetto di questi valori primi - ha spiegato il cardinale - è illusorio pensare a un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità». Ogni «altro valore - il lavoro, la salute, la casa, l’inclusione sociale, la sicurezza, l’ambiente, la pace... - germoglia e prende linfa dai primi», senza i quali, invece, inaridisce. I «valori non negoziabili» non dividono, ma anzi «sono dotati di forza unitiva», perché connessi «con la natura stessa dell’uomo». E «rappresentano il vincolo che può dare di volta in volta espressione all’unità politica dei cattolici, ovunque essi si collochino in base alla loro opzione politica».
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La famiglia non è uno slogan Giuseppe Frangi - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net

Sotto l’urgenza di una campagna elettorale sempre più vicina, il tema della famiglia risale imperiosamente nell’agenda della politica. È successo ieri alla Conferenza in corso a Milano, aperta con i messaggi dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi e del presidente Napolitano.

I lavori della Conferenza sono stati guidati dal sottosegretario Carlo Giovanardi, che si è augurato che dalla stessa esca la base del Piano nazionale di politiche per la famiglia, e hanno visto la presenza del ministro Sacconi, che invece ha voluto sottolineare le differenze profonde sul tema famiglia tra la cultura del Pdl e quella dei futuristi di Fini espresse domenica dalla convention umbra («hanno messo in discussione il primato pubblico della famiglia naturale fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione», ha sottolineato polemicamente Sacconi).

Il piano annunciato da Giovanardi si muove su tre coordinate: la riforma fiscale, la conciliazione tra tempi di vita e quelli di lavoro e la necessità di un nuovo quadro delle competenze dello Stato nel settore della Famiglia. Sul primo punto in particolare si sta discutendo di due strumenti nuovi: le Deduzioni familiari corrette (deduzioni per ogni figlio a carico) e il Quoziente familiare pesato (cioè un quoziente familiare che a differenza di quello francese produce meno disparità per i meno abbienti).

Tutte buone idee, come ha sottolineato il Forum delle Associazioni famigliari. C’è da sorvegliare che non restino solo un ennesimo annuncio. La questione vera è che non ci si può illudere di inserire la famiglia come priorità senza che questo modifichi la scaletta di tutte le altre priorità. Sia per un problema molto concreto di risorse. Sia per un problema, solo apparentemente meno concreto, di visione della società del futuro.
Le politiche della famiglia, infatti, si vanno a scontrare con tanti interessi consolidati che nessuno ha il coraggio e la forza di andare a intaccare. Qualche tempo fa Luigi Campiglio, economista e da sempre fautore del quoziente famigliare, aveva lanciato una piccola provocazione: distribuire diversamente il peso del voto elettorale, assegnando ai genitori anche il voto dei minorenni. Il ragionamento era semplice: la macchina della politica, chiamata alla verifica elettorale ogni cinque anni, non può ragionare a lunga gittata. E così finisce sempre con l’accondiscendere agli interessi di chi mette le scheda nell’urna. E in paese in cui gli equilibri demografici sono sempre più spostati verso le fasce di popolazione anziana, non c’è spazio dare ascolto alle ragioni di chi non vota.

Ora lo squilibrio si sta facendo insostenibile, in una prospettiva neanche molto lontana. E quindi c’è l’urgenza di sostenere le famiglie innanzitutto come soggetto centrale dell’economia in Italia: non più in quanto soggetto “ornamentale” dal punto di vista dei riferimenti valoriali, ma, come spiega sempre Campiglio in quanto «unità decisionale economica fondamentale, fattore che può spingere realmente la crescita».

Non è quindi primariamente una questione di valori, ma di efficacia: ad esempio, se uno non crede alla famiglia come valore può sempre misurare l’efficacia di una politica fiscale dedicata, come quella che è stata ventilata ieri alla Conferenza di Milano. E oltre l’efficacia ne potrà misurare finalmente anche l’equità: fattore non meno importante, che rende giustizia a un soggetto come la famiglia, vera cenerentola del sistema Italia.


IL FATTO/ Viene dalla Germania l’aiuto migliore per le famiglie italiane - INT. Pierpaolo Donati - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net

Le posizioni di Fli hanno influenzato anche la Conferenza nazionale della famiglia in corso a Milano. Oggi il ministro Sacconi ha criticato l’equiparazione sostenuta da Fini tra coppie di fatto e famiglia fondata sul matrimonio. «Senza nulla togliere al rispetto che meritano tutte le relazioni affettive che però riguardano una dimensione privatistica - ha detto Sacconi -, le politiche pubbliche che si realizzano con benefici fiscali sono tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio». Apriti cielo: “Aiuti solo agli sposi con figli” hanno subito titolato i quotidiani online.
Discusse anche le posizioni del sottosegretario Giovanardi, per il quale «la rottura della diga costituita dalla legge 40 aprirebbe la porta ad inquietanti scenari, tornando ad un vero e proprio far west della provetta dove fina dal primo momento il concetto costituzionale di famiglia andrebbe irrimediabilmente perduto». Ma secondo Pierpaolo Donati, sociologo e relatore alla Conferenza, Sacconi ha ragione.

Professore, è giusto - per usare le parole di Sacconi - che le politiche pubbliche siano tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio?

In tutti i sistemi fiscali non c’è un regime di agevolazione delle famiglie se non c’è una “legalizzazione” del rapporto attraverso il matrimonio. Quindi l’affermazione di Sacconi mi sembra pienamente giustificata. Diverso è se parliamo di servizi agli individui: quelli verso i figli non richiedono necessariamente il matrimonio tra i genitori, ma il trattamento fiscale della famiglia richiede, come dice la Costituzione, che questa venga intesa come famiglia naturale fondata sul matrimonio.

In tutto questo è significativo che agenzie e giornali abbiano fatto titoli come: «Sacconi, aiuto solo a sposi che procreano». C’è chi ha parlato di logica razzista.

C’è dietro il pregiudizio ideologico di chi vuole che per famiglia si intenda solo un qualunque aggregato di individui. In ogni caso Sacconi non ha detto: aiuti solo a quelle con figli, ma ha voluto dire che c’è un trattamento che deve essere equo nei confronti della famiglia con figli. Come ho mostrato nella mia relazione, a stare male in Italia - e solo in Italia - è la famiglia con figli.
 
Vuole dire che il fattore che porta una famiglia nella povertà è il fatto di avere figli?
Sì. Tutte le statistiche dimostrano che in Italia le famiglie monogenitoriali, comparate con gli altri paesi europei, stanno meglio delle famiglie con figli. Vale perfino per gli anziani soli. Se guardiamo la distribuzione della povertà per tipologia familiare nei paesi europei, vediamo che diversamente da quanto accade per Germania, Spagna, Francia, Svezia e Regno Unito in Italia i nuclei familiari senza figli, al pari di quelli monoparentali, hanno un indice di concentrazione di povertà che è il più basso d’Europa. Ma quando si passa alle famiglie con figli, l’indice Ocse è il più alto. 

Quali spunti sono emersi ieri nella Conferenza a favore di un sostegno fiscale alle famiglie?

Dalla conferenza viene unanime la richiesta di una riforma fiscale a favore della famiglia. Non vuol dire accordare privilegi, ma ispirarsi a principi di equità come giustizia: le famiglie devono essere trattate allo stesso modo. Il problema è che oggi quelle che hanno più figli sono penalizzate rispetto a quelle che non ne hanno. E questa è una grave ingiustizia.

Quali sono le ipotesi di riforma sul tappeto?

Una è quella nota del quoziente familiare. Il quoziente alla francese somma i redditi di tutti i membri della famiglia, e anziché tassare questo reddito complessivo lo divide per un coefficiente dato dal numero degli adulti, dalle loro condizioni di salute e dal numero di figli. In questo modo la tassazione viene molto diminuita. Si tratta di un sistema di redistribuzione, cioè che tassa i redditi familiari e ridistribuisce alle famiglie a seconda dei carichi famigliari.

Può fare un esempio?

Se una famiglia con un reddito di 50mila euro ha tre figli, e ogni figlio vale 0,7, tre figli valgono 2,1 e sommati ai due genitori danno un coefficiente di 4,1. Quello che viene tassato è il reddito di 50mila euro diviso 4,1: vuol dire che si tassano poco più di 12mila euro. Questa è l’ipotesi invalsa fino ad oggi per tutti coloro che parlano di quoziente familiare.

E l’altra strada?
L’altra ipotesi che sta emergendo ha una filosofia molto diversa, basata sul principio di sussidiarietà alla tedesca. C’è una sentenza della Corte suprema tedesca che dice che non va tassato il reddito minimo che serve ad una famiglia per vivere dignitosamente. Non entro qui in ulteriori dettagli tecnici. Questo vuol dire che se una famiglia è composta da due componenti e sappiamo che il reddito minimo è di, supponiamo, mille euro, quei mille euro non vanno tassati. Si tassano solo i redditi da mille euro in su. Questo sistema è basato sulla creazione di una no tax area.

E dove sta la differenza?

Sta nel fatto che questo sistema non è basato su di un principio di redistribuzione equitativa: non si tassano le famiglie per poi ridistribuire a seconda dei carichi familiari, ma si parte lasciando il reddito alla famiglia. Non si tassa la famiglia avendo come riferimento il minimo necessario per la sua sussistenza e si comincia invece a tassare solo al di sopra di quel livello. Questo sistema costituisce il punto di forza di una proposta che non si chiama quoziente familiare ma “fattore famiglia”.

Quest’ipotesi è candidata a prevalere su quella del quoziente?

Ha due indubbi vantaggi. Il primo è di essere graduabile: è vero che il costo complessivo della riforma, se fatta in maniera completa, sarebbe di 16 miliardi di euro, però si potrebbe cominciare con due miliardi, poi passare a cinque miliardi, e portarla a regime, in ipotesi, nel giro di cinque anni. Il quoziente familiare invece può essere fatto solo in toto.

E il secondo vantaggio?

La seconda ragione è legata all’area di non tassabilità delle famiglie. Mentre con il quoziente familiare le famiglie incapienti non hanno vantaggi, con il “fattore famiglia” se le famiglie incapienti stanno sotto il reddito minimo hanno diritto a quella che si chiama tassa negativa sul reddito: prendono dallo Stato quello che manca per arrivare al livello “minimo” di vita.

C’è una grossa differenza nel modo di intendere il ruolo dello Stato, par di capire.
Sì, perché il “fattore famiglia” mette molto meno l’accento sulle redistribuzione statale - prelievo dalle famiglie e redistribuzione - e nel fare questo evidenzia gli svantaggi del quoziente familiare: primo, l’enorme costo di una grande macchina burocratica che per fare la redistribuzione spende una gran quantità di soldi; secondo, non è detto che arrivi là dove c’è più bisogno. Il fattore famiglia invece non richiede alcuna macchina redistributiva, lasciando i soldi nelle famiglie. È un sistema che sta piacendo a sindacati e Confindustria.

Prima ha detto che in Italia le famiglie con figli sono svantaggiate e più povere. Nel nostro paese la natalità è in calo perché il governo non aiuta la famiglia?

È una questione complessa. Nell’ultimo rapporto Cisf da me coordinato (Il costo dei figli. Quale welfare per le famiglie?, ndr)e condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana, abbiamo avuto modo di appurare che anche i fattori soggettivi sono importanti, se non determinanti. Innanzitutto, sappiamo che le coppie italiane hanno meno figli di quelli che desiderano. Vorrebbero in media un figlio in più, e il fatto che non ce l’abbiano dipende da molti fattori: alcuni sono economici, oggettivi, come il reddito, l’abitazione, o altri problemi di tipo materiale. Ma i fattori più importanti, che danno conto di una percentuale molto elevata - all’incirca il 60 percento - delle cause che inducono a rinunciare ad un altro figlio, sono di carattere soggettivo e fanno leva sul rischio, sull’incertezza del destino della famiglia, sulla paura per il futuro dei figli, sul timore di non essere all’altezza di educarli. Tutti motivi non economici.

Quali conseguenze ne trae?

Diciamo che le coppie giovani hanno ricevuto poco o nulla dai genitori in termini di capacità di fare famiglia sotto il profilo culturale. Si sposano, ma non sanno cosa voglia dire educare. C’è stata una grande perdita in termini di trasmissione culturale tra le generazioni. È chiaro che un sistema economico che rendesse favorevole l’avere figli, potrebbe incidere anche sotto l’aspetto psicologico. Ma non c’è una causalità lineare e non si può certamente dar la colpa solo all’elemento economico.

Il problema di un fisco a misura di famiglia riguarda solo il mondo cattolico?

Assolutamente no e nella conferenza sta emergendo molto chiaramente: chiedere un fisco a misura di famiglia non è una questione “cattolica” ma di laicità matura, positiva, che non necessariamente coincide con il punto di vista cattolico, ma che rispetta i valori naturali, i valori di una tradizione che non può essere cancellata se non vogliamo accelerare il passo verso il nostro stesso suicidio demografico e culturale.


CINEMA, TELEVISIONE E MEDIA - CATTIVISSIMO ME/ La favola un po’ cinica ma geniale sul cambiamento di un uomo Matteo Contin - martedì 9 novembre 2010 – il sussidiario.net

Il cinema d'animazione negli ultimi cinque anni ha vissuto del duopolio formato dalla Pixar e dalla Dreamworks, realtà antistanti che si contrappongono l'una con colpi di geniale autorialità, l'altra con inutili e stupidi sequel di inutili e stupidi film. A parte qualche rara eccezione (la Sony con la trilogia decaduta de "L'era glaciale") sembrava che questo duopolio non potesse venire attaccato da nessuno.

Eppure lo scorso anno la Sony sforna quel piccolo capolavoro di intelligenza ed ironia che è "Piovono polpette", mentre quest'anno la Universal fa il suo ingresso nel cinema d'animazione con "Cattivissimo me", divertente favola che mischia con abilità un cinismo all'acqua di rose (ma funzionale e spesso divertente) e la descrizione tenera del cambiamento di un uomo.

Gru di lavoro fa il cattivo. Ha rubato un Jumbotron, la Statua della Libertà (quella piccola di Las Vegas) e scoppia i palloncini ai bambini. Un giorno però Vector, il rivale di Gru, riesce a rubare una piramide. Gru, roso dall'invidia, inizierà a pensare al furto più stupefacente a cui l'umanità potrà assistere: il furto della Luna. Ma per farlo Gru ha bisogno dell'aiuto di tre orfanelle, che metteranno alla prova la durezza del suo cuore.

Diretto dalla coppia formata da Pierre Coffin e Chris Renaud (quest'ultimo nominato agli Oscar per il cortometraggio "No time for nuts" e già nel team di animatori di "Ortone e il mondo dei Chi" e "L'era glaciale 3 – L'alba dei dinosauri"), "Cattivissimo me" è la storia tenera e simpatica di un villain impacciato costretto ad essere cattivo sin da piccolo per colpa di una madre che riversa sul figlio i suoi sogni e i suoi desideri.

Così il timido Gru (un mix azzeccato tra lo zio Fester e il Pinguino di Batman) si ritrova a fare il cattivo mentre sotto sotto nasconde un animo nobile, che affiora in prima battuta con il rapporto che intrattiene con i Minions (i suoi tirapiedi) e, in seconda battuta, con le tre orfanelle che riusciranno a far prendere coscienza a Gru dei suoi reali bisogni. È questo che racconta, sotto forma di favola comica e spensierata, "Cattivissimo me": la storia di un uomo che trova la sua identità e scopre finalmente ciò che davvero vuole essere nella vita e cosa, da essa, vuole avere.

Pur senza avvicinarsi ai capolavori della Pixar o all'originalità di "Piovono polpette", il film prodotto da Chris Meledandri (già produttore della saga dell'Era glaciale) convince grazie ad un umorismo funzionale (mi sa che i Minion ce li ritroveremo presto ovunque, un pò come i pinguini di "Madagascar") e ad una sceneggiatura capace di concentrarsi sull'evoluzione del personaggio principale senza disperdere inutilmente le forze sui personaggi secondari.

Piccola nota sulla versione italiana: per quanto il doppiaggio di Gru ad opera di Max Giusti (il comico da qualche anno alla guida del quiz "Affari tuoi") non sia totalmente disprezzabile, si consiglia la visione del film in lingua originale. Il doppiaggio originale dona al film una dimensione ancora più divertente ed interessante grazie alle pttime performance di Steve Carrel (Gru), Jason Segel (Vector), Russel Brand (Dr. Nefario) e Julie Andrews (la mamma di Gru).


Avvenire.it, 9 novembre 2010 - La visita del Papa e la risposta spagnola - Gaudì batte Zapatero - La modernità non è atea di Davide Rondoni

Domenica è stato giorno strano a Barcellona. Addirittura alcune organizzazioni sindacali hanno pensato di indire uno sciopero, così da non fare funzionare alcune linee ferroviarie. Uno sciopero domenicale è una cosa inedita. Sì, un giorno strano. Perché a Barcellona c’eran sì le "solite" cose: le ramblas piene di gente, la luce autunnale e vivida del mare, la ressa verso i negozi ufficiali del Barça con le maglie di Messi. E però c’era il Papa, c’era la festa della Sagrada Familia. Un evento popolare. Ma un evento di pietra e storia, di invenzione e carità, che dura da più di un secolo. Ormai chiamiamo "evento" anche l’inaugurazione di una modesta bottega di moda, di parrucchiera o una palestra. Tale è la fame di "eventi" veri che la nostra vita annoiata patisce. Ormai nel gergo delle feste e del mondano è diventato tutto "evento", forse perché nulla lo è veramente. Qui invece l’evento c’è. Da un secolo e passa. E ora l’evento della sua consacrazione. Una chiesa che, secondo la previsione di Gaudí, avrebbe attraversato attacchi, violenze, morte e incomprensioni, ma sarebbe stata ultimata da Giuseppe. E lui intendeva il padre della Sacra Famiglia.

Ma non è sfuggita né al cardinale di Barcellona nel suo saluto né al Papa stesso la singolare coincidenza che a consacrare questa opera vertiginosa e gentile è stato, dopo oltre un secolo, un vescovo di Roma che si chiama Joseph. Un giorno strano, le strade si sono affollate di gente animata dal desiderio di esserci in questa giornata storica. Catalani, ma anche gente da ogni parte di Spagna e, tra i tanti europei, molti italiani. I turisti si sono mischiati alla folla. C’erano anche i manifesti in giro con scritto "Io non ti aspetto", rivolto al Papa. E altre cose meno decenti. Ma si sa, Gesù Cristo non era uno che tendeva a unire le persone per forza, smussando le differenze. Se uno non aspetta il Papa fa bene a dirlo. E chi invece lo aspetta ha fatto bene a essere lungo le vie di Barcellona. L’unanimismo è spesso indifferenza, e Gesù non lasciava indifferenti. E così chi c’era ha potuto vedere un altro evento.

Sì, insomma, se uno guardava bene, si guardava un po’ intorno, vedeva un evento dentro l’evento. E siccome domenica scorsa era di campionato (per gli spagnoli campioni del mondo è cosa importante, c’era pure il derby a Madrid), diciamolo con linguaggio calcistico. L’evento nell’evento è che Gaudí ha battuto Zapatero due a zero. Perché il premier e quel che vuole rappresentare è stato sconfitto dal mite alacre Gaudí. Bastava guardarsi intorno per capire che raccolta intorno alla Sagrada Familia non c’era una Spagna retriva e imbalsamata. Vicino a me, ad esempio, c’erano alcune ragazze vestite alla moda, carine e attente nel seguire le preghiere e i canti. E tanti i volti di giovani che sono impegnati non solo ad andare a zonzo con una bottiglia in mano. Insomma, la modernità non è quella propaganda anticlericale che vorrebbero far credere Zapatero e quelli come lui. Come se ci fosse un’etica moderna da una parte e una superata, che coincide con la Chiesa. Come se ci fosse una bellezza moderna da una parte e una vetusta simboleggiata dalla Chiesa. No, Gaudí è più moderno del laicismo.

Questa Spagna commossa perché ora la Sagrada Familia è davvero una chiesa, che proprio come tale continua a dover essere costruita, ha dato un segno al mondo intero. Un segno non di tipo politico. Ma di quel genere che segna la storia profonda del mondo: qualcosa in cui si incontrano l’arte e il senso religioso dell’uomo. E, come fu scritto nella pergamena che sta nella prima pietra della chiesa, tutto questo avviene per supplicare Dio «todopoderoso». Contro ogni sempre insorgente tentazione – personale e politica – di sentirci noi, così piccoli per le vie di Barcellona, gli onnipotenti.


SEMPRE PIÙ IN TV E SUL WEB CON LE ECOGRAFIE - Quei bambini proiettati nella realtà virtuale di Luigi Ballerini – Avvenire, 9 novembre 2010

Si moltiplicano i programmi dove i bambini sono protagonisti. Rai, Mediaset e canali satellitari sembrano fare a gara per accaparrarsi piccoli talenti da esporre in scena per commuovere un’audience dai gusti sempre più facili e prevedibili. Tutto ciò è davanti agli occhi di ognuno.

Meno noti, ma nella stessa direzione, sono invece i risultati di un recente studio commissionato da Avg, società specializzata nella sicurezza informatica, sulla presenza dei piccolissimi nel web. Dal campione di mamme intervistate nel mondo è emerso che l’81% dei bimbi sotto i due anni è già in qualche modo esposto in rete (con foto o filmati); negli Usa il dato arriva al 92%, mentre in Italia si assesta sul 68%. Il 24% dei neonati americani è addirittura in Internet prima di nascere, grazie al sollecito inserimento di video e immagini ecografiche in pagine Facebook. Poco consola che in Italia parliamo di 'solo' il 14% dei casi. Essere visibili per esistere. Ed esistere per avere (un certo tipo di) successo. Sembra che in entrambi i casi sia questa la logica 'educativa' prevalente in tanti genitori.

Educare è invece introdurre alla realtà e nella realtà. Senza dimenticare che il mondo dei bambini, specie quelli piccoli, non prescinde mai dalla materia. Prima che la terra diventi Terra, non è altro che quella polvere scura in cui si piantano i semi e si ripete la magia del fiore che spunta. Prima che i soldi diventino Soldi, non sono altro che le monete regalate dalla nonna per comprare il gelato. È al reale che vanno innanzitutto introdotti i bambini, non alla realtà virtuale. Per questo motivo vengono subito presentati alla compagnia di amici e parenti quando nascono. Nessun provincialismo: non si tratta affatto di un atto privato dato che quegli adulti particolari diventano rappresentanti dell’Universo di tutti gli altri. Esattamente come un Battesimo celebrato in una parrocchia periferica coincide con la presentazione del bambino alla Chiesa intera. Perdere il senso e il valore, ossia il potere, della realtà fino alla tentazione di smaterializzare l’altro nell’etere o lungo le fibre ottiche testimonia l’insoddisfazione dell’adulto per la sua condizione esistenziale. In fin dei conti, voler rendere il figlio famoso, ossia visibile e riconoscibile dai più, rappresenta pur sempre una soluzione, seppur diseconomica. Diseconomica perché magari genera denaro, ma raramente ricchezza della persona.

Che cos’è infatti il successo di un bambino se non la riuscita nei suoi rapporti e il saper prendere iniziativa nella realtà? Non è certo il bel voto a scuola, né essere sempre ordinato né tantomeno esibirsi di fronte al vasto pubblico. È invece allearsi con la maestra per conoscere di più, è desiderare di collezionare i francobolli del Kenia perché li ha visti a casa di un amico, è crollare addormentato a fine giornata quando proprio non ce la fa più, è mangiare di tutto sapendo riconoscere ciò che preferisce.

Rispetto ai figli, in quanto adulti, rischiamo di guardare troppo lontano restando ciechi di fronte a ciò che abbiamo davanti agli occhi. Ogni bimbo, infatti, è già famoso, presso chi si prende cura di lui e presso coloro da cui si fa voler bene. E prima di avere successo, ogni bimbo è già un successo: essere nato significa che qualcuno ha fatto in modo che potesse esistere. È successo, nel senso che è accaduto e accade in ogni istante.

Meglio tornare a guardare i nostri piccoli con la certezza che non c’è bisogno di aggiungere niente; a noi solamente il compito di sostenerli e permettere che si esprimano con la libertà che è loro propria.

Il resto è puro supplemento.