sabato 13 novembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1)    Il Papa, il Vaticano II e la Parola di Dio. L’esortazione apostolica "Verbum Domini" di Benedetto XVI pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 12 novembre 2010
2)    VERBUM DOMINI: RIFLESSIONI E APPLICAZIONI - Secondo monsignor Gianfranco Ravasi e monsignor Nikola Eterović di Carmen Elena Villa
3)    12/11/2010 – Città del Vaticano (AsiaNews) - “Verbum Domini”: accogliere la Parola di Dio per annunciarla a chi non crede di Bernardo Cervellera
4)    CRISTIANI PERSEGUITATI - L'inquietante silenzio - Perché non alza di più la voce la comunità musulmana nel mondo? Di Elio Bromuri – venerdì 12 novembre 2010
5)    12/11/2010 - IRAQ – GRAN BRETAGNA Birmingham (AsiaNews) - Cattolico caldeo: la tragedia dei cristiani in Iraq non interessa nessuno di Nirmala Carvalho
6)    Se nulla è vero, come dice Eco, perché i “Protocolli” sarebbero falsi? - Notizie dalla rete - Venerdì 12 Novembre 2010 15:57 –  http://www.corrispondenzaromana.it - (Roberto de Mattei su "Il Foglio" del 12/11/2010) Roma. - “Il Cimitero di Praga” di Umberto Eco è un irridente manifesto intellettuale antitetico al messaggio di verità che Benedetto XVI propone agli uomini del nostro tempo. Non a torto L’Osservatore Romano”, per la penna di Lucetta Scaraffia, ne ha colto pericoli e ambiguità (“Il voyeur del male”, 30 ottobre 2010)
7)    Il sequel di "Wall Street" consente a Oliver Stone di firmare una delle sue pellicole migliori - Nel bel mezzo della crisi è tornato Gordon Gekko di Emilio Ranzato
8)    Radio Vaticana, notizia del 12/11/2010 - Scienza e Vita" contro lo spot pro-eutanasia: difendere la dignità della persona
9)    Avvenire.it, 12 novembre 2010 - Tutti uguali i bambini, non le unioni da cui nascono - Equipariamo i figli - Ma senza scardinare la famiglia di Francesco D'Agostino
10)                      Avvenire.it, 13 novembre 2010 - La colpevole inerzia dell'Occidente - Norma da cancellare pressioni da esercitare di Riccardo Redaelli
11)                      BOTTA & RISPOSTA tra IL PRESIDENTE DELLA CAMERA e il direttore di Avvenire – Avvenire.it, 13 novembre 2010 - Il presidente della Camera e leader di Fli - Non voglio parificare matrimonio e unioni ma far incontrare le diverse etiche di Gianfranco Fini - Avvenire.it, 13 novembre 2010 - La risposta del direttore di Avvenire a Fini - Parole non convincenti ma utili di Marco Tarquinio
12)                      VEGLIE DI PREGHIERA PER LA VITA NASCENTE - Le radici che ci danno la speranza per vivere di MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2010

Il Papa, il Vaticano II e la Parola di Dio. L’esortazione apostolica "Verbum Domini" di Benedetto XVI pubblicata da Massimo Introvigne il giorno venerdì 12 novembre 2010

Nelle duecento pagine dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, datata 30 settembre 2010 ma resa pubblica il successivo 11 novembre, Benedetto XVI non si rivolge solo agli specialisti di esegesi biblica. Dal momento che la Parola di Dio è al centro di tutta la vita cristiana, anzi al centro del cosmo e della storia, l’esortazione apostolica è occasione per un’ampia ricognizione che parte dalla Bibbia ma si estende al rapporto tra fede e ragione, alla cultura, alla missione, all’instaurazione dell’ordine temporale e perfino all’arte e a Internet. Una particolare attenzione è dedicata all’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.
In un discorso ormai famoso tenuto il 22 dicembre 2005 ai membri della Curia Romana, Benedetto XVI ha criticato le interpretazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II che ne leggono i documenti secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» (Benedetto XVI 2005) rispetto al Magistero precedente della Chiesa, purtroppo assai diffusa e anzi in molti ambienti prevalente, raccomandando invece una «giusta ermeneutica» (ibid.), insieme «del rinnovamento nella continuità» (ibid.) e «della riforma» (ibid.). Alcuni dei numerosi commentatori di questo storico discorso hanno rilevato che non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Si tratta in effetti ora di riprendere in mano i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, uno per uno, interpretandoli secondo la «giusta ermeneutica» e tenendo conto sia del Magistero precedente, sia di quello successivo.
Nella Verbum Domini Benedetto XVI fa appunto questo, e ci mostra la giusta ermeneutica – per così dire – in azione. Dopo la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è celebrata in Vaticano dal 5 al 26 ottobre 2008 e ha avuto per tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, il Papa rilegge metodicamente la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II, che definisce «pietra miliare nel cammino ecclesiale» (Benedetto XVI 2010, n. 3), servendosi sia del Magistero precedente – in particolare di Leone XIII (1810-1903) e del venerabile Pio XII (1876-1958) –, sia di documenti successivi al Concilio del servo di Dio Paolo VI (1897-1978), del venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005) e dello stesso Benedetto XVI.
Il tema, evidentemente, è di grandissimo rilievo sia per il Concilio Ecumenico Vaticano II sia per la Chiesa e l’umanità in genere. Per gli uomini, infatti, la più grande «buona notizia» (ibid., n. 1) è che la Parola di Dio, «che rimane in eterno, è entrata nel tempo» (ibid.). «Non esiste priorità più grande di questa: riaprire all’uomo di oggi l’accesso a Dio, al Dio che parla» (ibid., n. 2). C’è un annuncio oggettivamente straordinario «che nel quotidiano rischiamo di dare per scontato: il fatto che Dio parli e risponda alle nostre domande» (ibid., n. 4). Per la Chiesa si tratta del «cuore stesso della vita cristiana» (ibid., n. 3): «la Chiesa si fonda sulla Parola di Dio, nasce e vive di essa» (ibid.). Benedetto XVI ricorda come questo tema sia stato particolarmente approfondito nel «pontificato di Leone XIII» (ibid.). Ma l’approfondimento ha raggiunto «il suo culmine nel Concilio Vaticano II, in modo speciale con la promulgazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum» (ibid.). Oltre a riconoscere «i grandi benefici apportati da questo documento» (ibid.), si tratta ora di effettuare una «verifica dell’attuazione delle indicazioni conciliari» (ibid.) e di affrontare, alla luce della Dei Verbum, «le nuove sfide che il tempo presente pone ai credenti in Cristo» (ibid.).
Il Papa pone il documento sotto il patrocinio di san Paolo, infaticabile annunciatore del Vangelo – ricordando che il Sinodo si è riunito durante l’Anno Paolino –, e di san Giovanni, che nel Prologo del suo Vangelo ci ha offerto «una sintesi di tutta la fede cristiana» (ibid., n. 5): «il Verbo, che dal principio è presso Dio, si è fatto carne e ha preso la sua dimora in mezzo a noi (cfr Gv 1,14)» (ibid.). La trattazione è divisa in tre parti. La prima, Verbum Dei, illustra la nozione di «Parola di Dio» e riflette sulla sua ricezione e interpretazione, soffermandosi in particolare sull’esegesi biblica. La seconda, Verbum in Ecclesia, mostra come la Chiesa nella liturgia e nella vita ecclesiale custodisce e proclama la Parola di Dio. La terza, Verbum mundo, insegna che la Parola di Dio vivifica il mondo attraverso l’annuncio missionario e l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale, che comprende la cultura e la vita politica e oggi si estende a campi nuovi come Internet.

I. Verbum Dei
A. Dio parla
1. Parla Dio Padre
Insegna la Dei Verbum che «Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 2). «Ma non avremmo ancora compreso a sufficienza il messaggio del Prologo di san Giovanni – nota Benedetto XVI – se ci fermassimo alla constatazione che Dio si comunica amorevolmente a noi» (Benedetto XVI 2010, n. 6). Le cose sono un poco più complesse. Il Papa propone una ricognizione delle «diverse modalità con cui noi utilizziamo l’espressione “Parola di Dio”» (ibid., n. 7), con un uso che è sempre «analogico» (ibid.), distinguendo fra quattro diversi significati. Anzitutto, la Parola di Dio è la persona di Gesù Cristo, l’eterno Logos del Padre che si fa uomo. In secondo luogo, è Parola di Dio «la stessa creazione, il liber naturae» (ibid.): Dio Padre ha parlato attraverso la creazione, dove tutto «porta in modo indelebile la traccia della Ragione creatrice che ordina e guida» (ibid., n. 8): «tutto ciò che esiste non è frutto di un caso irrazionale, ma è voluto da Dio» (ibid.). In questo senso san Bonaventura (ca. 1217 o 1221-1274) ha potuto scrivere che «ogni creatura è parola di Dio perché proclama Dio» (cit. ibid.). Ed è per questo che nella natura è iscritta quella che «la tradizione filosofica chiama “legge naturale”» (ibid., n. 9).
In terzo luogo, Dio parla nella storia della salvezza, nella predicazione degli Apostoli e nella «Tradizione viva della Chiesa» (ibid., n. 7). Non si devono contrapporre Parola di Dio e Tradizione, perché la Tradizione è essa stessa una Parola di Dio. Infine, nel quarto significato, l’espressione «Parola di Dio» si riferisce alla sacra Scrittura. Ma il terzo e il quarto significato non possono essere disgiunti. «Non essendo la fede cristiana una “religione del Libro”» (ibid.), che riposa esclusivamente su un testo scritto, è più esatta l’espressione di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) «religione della Parola di Dio […] [non di] una parola scritta e muta, ma del verbo incarnato e vivente» (cit. ibid.). Dunque, «la Scrittura va proclamata, ascoltata, letta, accolta e vissuta come Parola di Dio nel solco della Tradizione apostolica dalla quale è inseparabile» (ibid.). È questo l’insegnamento fondamentale del n. 10 della Dei Verbum.
Poiché Dio parla insieme attraverso la creazione e attraverso la Rivelazione «chi conosce la divina Parola conosce pienamente anche il significato di ogni creatura» (ibid., n. 10). Si tratta dunque di «cambiare il nostro concetto di realismo: realista è chi riconosce nel Verbo di Dio il fondamento di tutto» (ibid.), mentre quanto non è fondato su Dio ha solo un «carattere effimero» (ibid.). Di questo insegnamento «abbiamo particolarmente bisogno nel nostro tempo» (ibid.), segnato dal culto dell’effimero e del transitorio.

2. Parla il Signore Gesù
La «condiscendenza di Dio» (ibid., n. 11), che accetta di parlare agli uomini, «si compie in modo insuperabile nell’incarnazione del Verbo» (ibid.). «La Parola qui non si esprime innanzitutto in un discorso, in concetti o regole. Qui siamo posti di fronte alla persona stessa di Gesù. La sua storia unica e singolare è la Parola definitiva che Dio dice all’umanità» (ibid.). Il Papa vorrebbe trasmettere il senso, difficile da esprimere nel linguaggio umano, di «una novità inaudita e umanamente inconcepibile» (ibid.), che dovrebbe sempre suscitare «nel cuore dei credenti stupore per l’iniziativa divina» (ibid.).
Questo stupore è stato espresso dalla «tradizione patristica e medievale» (ibid., n. 12) con un’«espressione suggestiva» (ibid.) già richiamata da Benedetto XVI nella su omelia per la notte di Natale del 2006 (Benedetto XVI 2006): «il Verbo si è abbreviato» (Benedetto XVI 2010, n. 12). «La Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile» (ibid., citando Benedetto XVI 2006). Ma c’è una profonda «unità del disegno divino nel Verbo incarnato» (Benedetto XVI 2010, n. 13). Richiamando un’altra sua omelia, quella per l’Epifania del 2009, il Papa – notoriamente appassionato di musica – spiega che Dio opera «mediante la “sinfonia” del creato. All’interno di questa sinfonia si trova, a un certo punto, quello che si direbbe in linguaggio musicale un “assolo”, un tema affidato ad un singolo strumento o ad una voce; ed è così importante che da esso dipende il significato dell’intera opera. Questo “assolo” è Gesù» (Benedetto XVI 2009, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 13).
Quel bambino nella mangiatoia di Betlemme è la Parola di Dio che si è fatta persona: ma lo è anche il Cristo in croce, dove pure «il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale, poiché si è “detto” fino a tacere, non trattenendo nulla di ciò che ci doveva comunicare» (ibid., n. 12). Sulla croce, «Dio parla anche per mezzo del suo silenzio» (ibid., n. 21), e «questa esperienza di Gesù è indicativa della situazione dell’uomo che, dopo aver ascoltato e riconosciuto la parola di Dio, deve misurarsi anche con il suo silenzio» (ibid.): «momenti oscuri» (ibid.), diventati «esperienza vissuta da tanti santi e mistici, e che pure oggi entra nel cammino di molti credenti» (ibid.). Ma «nel mistero luminosissimo della risurrezione questo silenzio della Parola si manifesta nel suo significato autentico e definitivo» (ibid., n. 12): Cristo è per sempre «il Vincitore, il Pantocrator» (ibid.), la «luce definitiva sulla nostra strada» (ibid.).
Benedetto XVI insiste su un aggettivo: «definitivo». In Gesù Cristo Dio ha detto tutto quello che c’era da dire. «San Giovanni della Croce [1542-1591] ha espresso questa verità in modo mirabile: “Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire…”» (ibid., n. 14). Il Papa che ha commentato in modo profondo – visitando i rispettivi santuari – i messaggi di Lourdes, nel 2008, e di Fatima, nel 2010,  si chiede come si concili questa definitività della rivelazione di Dio con le rivelazioni private. Queste vanno rigorosamente distinte dalla Rivelazione pubblica del Padre in Gesù Cristo. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, di cui il Papa richiama qui il n. 67, il ruolo delle rivelazioni private «non è quello […] di “completare” la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica» (ibid.). Dunque, «il criterio per la verità di una rivelazione privata è il suo orientamento a Cristo» (ibid.), e la rivelazione privata autentica «si manifesta come credibile proprio perché rimanda all’unica rivelazione pubblica» (ibid.). La rivelazione privata «può introdurre nuovi accenti, fare emergere nuove forme di pietà o approfondirne di antiche. Essa può avere un certo carattere profetico (cfr I Tess 5,19-21) e può essere un valido aiuto per comprendere e vivere meglio il Vangelo nell’ora attuale; perciò non la si deve trascurare» (ibid.). Peraltro, nessuno è obbligato a occuparsi di rivelazioni private: «è un aiuto che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso» (ibid.).

3. Parla lo Spirito Santo
«Non v’è alcuna comprensione autentica della Rivelazione cristiana al di fuori dell’azione del Paraclito» (ibid., n. 15), dello Spirito Santo, che dapprima «ispira gli autori delle sacre Scritture» (ibid.), quindi «sostiene e ispira la Chiesa nel compito di annunciare la Parola di Dio» (ibid.). Quanto agli autori sacri, i due concetti fondamentali sono quelli dell’ispirazione e della verità. «Come il Verbo di Dio si è fatto carne per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria, così la sacra Scrittura nasce dal grembo della Chiesa per opera dello Spirito Santo» (ibid., n. 19). L’ispirazione dello Spirito Santo non è una mera dettatura: la Chiesa «riconosce tutta l’importanza dell’autore umano che ha scritto i testi ispirati e, al medesimo tempo, Dio stesso come vero autore» (ibid.).
Benedetto XVI insiste su «quanto il tema dell’ispirazione sia decisivo» (ibid.) per una «corretta ermeneutica» (ibid.). Se si misconosce l’importanza dell’autore umano si adotta – si potrebbe dire – l’atteggiamento che l’islam ha di fronte al Corano, considerato un testo letteralmente «dettato» e non semplicemente ispirato da Dio, e si cade in forme di fondamentalismo. Ma se «si affievolisce in noi la consapevolezza dell’ispirazione» (ibid.) divina, allora «si rischia di leggere la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come opera dello Spirito Santo» (ibid.). Ultimamente, è lo Spirito Santo che garantisce la verità delle Scritture come insegna la Dei Verbum: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 11).
Quanto all’azione dello Spirito Santo in relazione alla comprensione della sacra Scrittura nella Chiesa, l’affermazione di Benedetto XVI è molto forte: «senza l’azione efficace dello “Spirito della Verità” (Gv 14,16) non è dato di comprendere le parole del Signore» (Benedetto XVI 2010, n. 16). Così hanno insegnato i Padri della Chiesa e i dottori. Per san Girolamo (347-419 o 420) «non possiamo arrivare a comprendere la Scrittura senza l’aiuto dello Spirito Santo che l’ha ispirata» (cit. ibid.). E «Riccardo di San Vittore [ca. 1110-1173] ricorda che occorrono “occhi di colomba”, illuminati ed istruiti dallo Spirito, per comprendere il testo sacro» (cit. ibid.).
Non si tratta di un’affermazione priva di conseguenze. «Riaffermando il profondo legame tra lo Spirito Santo e la Parola di Dio, abbiamo anche posto le basi per comprendere il senso ed il valore decisivo della viva Tradizione» (ibid., n. 17) nella sua relazione con la sacra Scrittura, e per interpretare correttamente la Dei Verbum. Ci appare allora come «il Concilio Vaticano II ricord[i] […] come questa Tradizione di origine apostolica sia realtà viva e dinamica: essa “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo”; non nel senso che essa muti nella sua verità, che è perenne. Piuttosto “cresce… la comprensione tanto della cose quanto delle parole trasmesse”, con la contemplazione e lo studio, con l’intelligenza data da una più profonda esperienza spirituale e per mezzo “della predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”»  (ibid.: i riferimenti tra virgolette sono al n. 8 della Dei Verbum). Se si legge la Dei Verbum meditando sull’azione dello Spirito Santo ci si convince che «la viva Tradizione è essenziale affinché la Chiesa possa crescere nel tempo nella comprensione della verità rivelata nelle Scritture» (ibid.): «in definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrittura come Parola di Dio» (ibid.).
«Mediante l’opera dello Spirito Santo e sotto la guida del Magistero, la Chiesa trasmette a tutte le generazioni quanto è stato rivelato in Cristo» (ibid., n. 18). Ma questa trasmissione è impossibile senza che il corpo dei fedeli «sia educato e formato in modo chiaro ad accostarsi alle sacre Scritture in relazione alla viva Tradizione della Chiesa» (ibid.).

B. L’uomo risponde
1. Il dialogo con Dio
«Nella nostra epoca purtroppo si è diffusa, soprattutto in Occidente, l’idea che Dio sia estraneo alla vita ed ai problemi dell’uomo e che, anzi, la sua presenza possa essere una minaccia alla sua autonomia» (ibid., n. 23). Abbiamo visto invece che «Dio parla ed interviene nella storia a favore dell’uomo e della sua salvezza integrale» (ibid.). Anche il nostro tempo deve tornare a scoprire «che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo!» (ibid.). Così, «l’intera esistenza dell’uomo diviene un dialogo con Dio» (ibid., n. 24), come mostrano mirabilmente i Salmi, dove «troviamo tutta la gamma articolata di sentimenti che l’uomo può provare nella propria esistenza e che vengono posti con sapienza davanti a Dio» (ibid.). Non si deve però credere che il dialogo tra Dio e l’uomo sia «un incontro tra due contraenti alla pari» (ibid., n. 22): «non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma puro dono di Dio» (ibid.), che è infinitamente superiore all’uomo e non ha bisogno di parlargli, ma liberamente decide di farlo per amore.
Insegna la Dei Verbum che «a Dio che si rivela è dovuta “l’obbedienza della fede”» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, 5): «con queste parole la Costituzione dogmatica Dei Verbum ha espresso in modo preciso l’atteggiamento dell’uomo nei confronti di Dio. La risposta propria dell’uomo al Dio che parla è la fede» (Benedetto XVI 2010, n. 25). Due libertà s’incontrano. Dio liberamente si rivela, l’uomo liberamente risponde a Dio con la fede. Questo implica pure «la possibilità drammatica da parte della libertà dell’uomo di sottrarsi a questo dialogo di alleanza con Dio per il quale siamo stati creati» (ibid., n. 26), e l’emergere nella storia del «peccato come non ascolto della Parola» (ibid.).
Il contrario del peccato è l’atteggiamento della Madonna. Per sfuggire radicalmente al peccato «è necessario guardare là dove la reciprocità tra Parola di Dio e fede si è compiuta perfettamente, ossia a Maria Vergine» (ibid., n. 27); «è necessario nel nostro tempo che i fedeli vengano introdotti a scoprire meglio il legame tra Maria di Nazareth e l’ascolto credente della divina Parola» (ibid.). E non solo i fedeli, ma anche «gli studiosi» (ibid.), che talora trascurano «il rapporto tra mariologia e teologia della Parola» (ibid.). Mentre da una parte «in realtà, l’incarnazione del Verbo non può essere pensata a prescindere dalla libertà di questa giovane donna» (ibid.), che vive «un’esistenza totalmente modellata dalla Parola» (ibid., n. 28), dall’altra «anche la nostra azione apostolica e pastorale non potrà mai essere efficace se non impariamo da Maria» (ibid.).

2. L’ermeneutica della sacra Scrittura nella Chiesa
Una parte cospicua – circa un quarto – dell’esortazione apostolica Verbum Domini è consacrata all’interpretazione del numero 12 della Dei Verbum. Si tratta di un passaggio d’importanza centrale della dichiarazione conciliare, che conviene anzitutto rileggere: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 12).
«Perciò – continua la Dei Verbum – dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio» (ibid.). Per interpretare questa parte della Dei Verbum il Papa dà rilievo anche al documento del 1993 della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Pontificia Commissione Biblica 1993), che cita ripetutamente anche se non ne riprende tutti i passaggi.
La chiave di lettura proposta da Benedetto XVI è subito enunciata: «il legame intrinseco fra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma» (Benedetto XVI 2010, n. 29). Questo è il «criterio fondamentale dell’ermeneutica biblica: il luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa» (ibid.). L’esegesi biblica cattolica dev’essere condotta nella Chiesa e sotto la guida del Magistero. Diversamente, anziché interpretare la Bibbia la falsifica. «L’ecclesialità dell’interpretazione biblica non è un’esigenza imposta dall’esterno» (ibid., n. 30). Non si tratta di «un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo» (ibid., n. 29). Dopo tutto, quali testi fossero da considerare sacra Scrittura è stato indicato dalla Chiesa. E «come dice mirabilmente sant’Agostino [354-430], “non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica”» (ibid.), mentre «san Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo nell’errore» (ibid., n. 30).
Ne consegue che «un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica» (ibid.), e ogni esegeta deve sentire come rivolto a se stesso l’ammonimento con cui «san Girolamo si rivolgeva a un sacerdote: “Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono”» (ibid.). «Approcci al testo sacro che prescindano dalla fede possono suggerire elementi interessanti soffermandosi sulla struttura del testo e le sue forme; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto» (ibid.). La stessa Pontificia Commissione Biblica, nel testo del 1993 che pure è molto tecnico, non ha mancato di sottolineare «la relazione tra la vita spirituale e l’ermeneutica della Scrittura» (ibid.): chi non vive quello di cui parla il testo facilmente va fuori strada.
Se passiamo a interrogarci «sullo stato degli attuali studi biblici» (ibid., n. 31), tenendo conto dello stesso documento del 1993 e nella linea tracciata dalla Dei Verbum, ci troviamo davanti a luci è ombre. Certo, «è necessario riconoscere il beneficio derivato nella vita della Chiesa dall’esegesi storico-critica e dagli altri metodi di analisi del testo sviluppati nei tempi recenti» (ibid., n. 32), e riaffermare che oggi per l’esegeta «l’attenzione a questi metodi è imprescindibile» (ibid.). Né si tratta di una novità, perché – come il Papa ha richiamato nel suo viaggio in Francia del 2008 e in altre occasioni – fin dalla «cultura monastica, cui dobbiamo ultimamente il fondamento della cultura europea» (ibid.), e in tutta la «sana tradizione ecclesiale» (ibid.), gli esegeti si sono sempre avvalsi della migliore cultura e scienza del loro tempo.
Dobbiamo però interpretare i riferimenti della Dei Verbum ai «nuovi metodi di analisi storica» (ibid., n. 33) alla luce del Magistero, servendoci in particolare delle «encicliche Providentissimus Deus [1893] di Papa Leone XIII e Divino afflante Spiritu [1943] di Papa Pio XII» (ibid.), di cui – ricorda Benedetto XVI, sempre attento agli anniversari – il venerabile Giovanni Paolo II ebbe occasione di celebrare insieme, nel 1993, rispettivamente il centenario e il cinquantenario. Questi due testi fondamentali ci aiutano a sfuggire a due errori contrapposti: interpretare la Bibbia con la sola ragione – che diventa razionalismo – prescindendo dalla fede; e leggerla con la sola fede – secondo un falso misticismo – prescindendo dalla ragione. L’enciclica di Leone XIII Providentissimus Deus «ebbe il merito di proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi del razionalismo, senza però rifugiarsi in un senso spirituale staccato dalla storia» (ibid.). Nell’enciclica Divino afflante Spiritu il venerabile Pio XII invece «si trovava di fronte agli attacchi dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta mistica che rifiutava qualsiasi approccio scientifico» (ibid.). Il venerabile Pio XII, «con grande sensibilità, ha evitato d’ingenerare l’idea di una dicotomia fra l’“esegesi scientifica” per l’uso apologetico e l’“interpretazione spirituale riservata all’uso interno”» (ibid.). A ben vedere, «entrambi i documenti rifiutano “la rottura tra l’umano e il divino […]”» (ibid.), dunque fra fede e ragione.
Alla loro luce dobbiamo leggere «l’ermeneutica biblica conciliare» (ibid., n. 34) del Vaticano II che si è espressa nella Dei Verbum. Correttamente interpretato, il fondamentale n. 12 della costituzione conciliare da una parte «sottolinea come elementi fondamentali per cogliere il significato inteso dall’agiografo lo studio dei generi letterari e la contestualizzazione» (ibid.). Ma «dall’altra» (ibid.) «indica tre criteri di base per tenere conto della dimensione divina della Bibbia: 1) interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; 2) tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, 3) osservare l’analogia della fede» (ibid.).
Se non si tiene conto di questi criteri si separano – come in altri campi – ragione e fede, il che nell’esegesi biblica purtroppo oggi «avviene anche ai livelli accademici più alti» (ibid., n. 35), producendo una «ermeneutica secolarizzata» (ibid.) che è uno dei frutti avvelenati dell’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo l’ermeneutica della discontinuità e della rottura. Benedetto XVI indica tre caratteristiche dell’«ermeneutica secolarizzata»: legge la Bibbia come «un testo solo del passato» (ibid.); è convinta che «il Divino non appare nella storia umana» (ibid.) e «nega la possibilità dell’ingresso e della presenza del Divino nella storia» (ibid.), così che «quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo» (ibid.); e getta «un dubbio sui misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore storico, come ad esempio l’istituzione dell’Eucarestia e la risurrezione di Cristo» (ibid.). E tutto questo avvelena anche la vita spirituale, la pastorale, «la preparazione delle omelie» (ibid.); «produce a volte incertezza e poca solidità nel cammino formativo intellettuale anche di alcuni candidati ai ministeri ecclesiali» (ibid.).
Il problema, insiste Benedetto XVI, non riguarda solo l’esegesi biblica ma «il corretto rapporto tra fede e ragione. Infatti, l’ermeneutica secolarizzata della sacra Scrittura è posta in atto da una ragione che strutturalmente vuole precludersi la possibilità che Dio entri nella vita degli uomini e che parli agli uomini in parole umane» (ibid., n. 36). Così, è opportuno che la Dei Verbum sia letta tenendo conto anche dell’enciclica Fides et ratio (1998) del venerabile Giovanni Paolo II, la quale – insieme a una serie d’interventi dello stesso Benedetto XVI, esplicitamente richiamati – può insegnarci da una parte che «occorre una fede che mantenendo un adeguato rapporto con la retta ragione non degeneri mai in fideismo, il quale nei confronti della Scrittura diventerebbe fautore di letture fondamentaliste» (ibid.), mentre dall’altra «è necessaria una ragione che indagando gli elementi storici presenti nella Bibbia si mostri aperta e non rifiuti aprioristicamente tutto ciò che eccede la propria misura» (ibid.).
In entrambi i casi – del fondamentalismo e del razionalismo – si apre la strada a «interpretazioni soggettivistiche ed arbitrarie» (ibid., n. 44) del testo sacro. Il fondamentalismo, che «tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito» (ibid.), in realtà «rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione» (ibid.). D’altro canto, «coltivare un concetto di ricerca scientifica che si ritenga neutrale nei confronti della Scrittura» (ibid., n. 47) significa precludersi la sua vera comprensione, con conseguenze molto gravi – quando questa forma di razionalismo penetra nelle università cattoliche e nei seminari – anche nella formazione dei candidati al sacerdozio.
L’ascolto della Tradizione e l’attenzione «dalla quale nessuno può prescindere» (ibid., n. 49) ai santi – ognuno dei quali parte, per così dire, da un versetto scritturistico e lo vive in pienezza, così che «costituisce come un raggio di luce che scaturisce dalla Parola di Dio» (ibid.)  – aiuta anche a tornare all’antica questione della relazione fra senso letterale e senso spirituale della sacra Scrittura. Non dimenticando quanto «san Tommaso d’Aquino [1225-1274]  afferma: “tutti i sensi della sacra Scrittura si basano su quello letterale”» (ibid., n. 37), il Papa ricorda come i medievali distinguevano fra quattro sensi delle Scritture – letterale, allegorico, morale e anagogico (gli ultimi tre, spiega, sono suddivisioni del senso spirituale) – citando, come aveva già fatto in Francia, il distico contenuto nel Rotulus pugillaris del domenicano Agostino di Dacia (?-1282) e citato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 118: «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia. La lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare e l’anagogia dove tendere» (ibid.).
Questo tradizionale riferimento ai sensi spirituali ci indica che «Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerlo occorre un trascendimento e un processo di comprensione» (ibid., n. 38), di cui il numero 12 della Dei Verbum ci indica una via maestra: «un tale trascendimento non può avvenire nel singolo frammento letterario se non in rapporto alla totalità della Scrittura» (ibid.). Qui, per comprendere «quanto affermato nel numero 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum, indicando l’unità interna di tutta la Bibbia come criterio decisivo per una corretta ermeneutica della fede» (ibid., n. 39),  «rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore [ca. 1096-1141]: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento”» (ibid.).
Anche qui il problema è l’equilibrio tra fede e ragione. Se guardiamo solo «l’aspetto puramente storico o letterario» (ibid.) della Bibbia, i «singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi» (ibid.), per non parlare delle «pagine oscure» (ibid., n. 42) dove si riferiscono, senza disapprovarli, eventi storici dove i capi del popolo d’Israele, che pure è popolo scelto da Dio per una missione provvidenziale, si comportano con «violenza» (ibid.) e «immoralità» (ibid.). La fede, in dialogo con la ragione, legge in particolare l’Antico Testamento in modo «tipologico» (ibid., n. 41), vedendo nelle opere di Dio del Vecchio Testamento una prefigurazione di quanto nella pienezza dei tempi Dio compirà nella persona di Gesù Cristo. La lettura tipologica, richiamata anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 128, non è una fantasia, «non ha carattere arbitrario ma è intrinseca agli eventi narrati nel testo sacro» (ibid.).
Non deve tuttavia «indurre a dimenticare» (ibid.) che l’Antico Testamento ha anche un «valore suo proprio» (ibid.), così che lo studio della «comprensione ebraica della Bibbia» (ibid.) può sia aiutare l’esegeta sia favorire il dialogo interreligioso con gli ebrei. Così come il fatto che la Bibbia vada letta nella Chiesa non esclude l’utilità di studi prodotti da cristiani non cattolici e il dialogo ecumenico, senza mancare però di riconoscere con franchezza anche gli aspetti che «ci vedono ancora distanti, come ad esempio la comprensione del soggetto autorevole dell’interpretazione della Chiesa e il ruolo decisivo del Magistero» (ibid., n. 46). Tornando agli ebrei, «il concetto di adempimento delle Scritture è complesso, perché comporta una triplice dimensione: un aspetto fondamentale di continuità con la rivelazione dell’Antico Testamento, un aspetto di rottura e un aspetto di compimento e superamento» (ibid., n. 40). Così le importanti affermazioni del venerabile Giovanni Paolo II sullo speciale legame tra cristiani ed ebrei «non significano misconoscimento delle rotture affermate nel Nuovo Testamento nei confronti delle istituzioni dell’Antico Testamento e meno ancora dell’adempimento delle Scritture nel mistero di Gesù Cristo, riconosciuto Messia e Figlio di Dio. Tuttavia, questa differenza profonda e radicale non implica affatto ostilità reciproca» (ibid., n. 43), né deve far dimenticare l’insegnamento di san Paolo, tante volte richiamato e commentato dallo stesso Papa Wojtyla, secondo cui per gli ebrei «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,28-29)» (ibid.).
Tutto rimanda al tema centrale della Dei Verbum, ribadito nel numero 10 della costituzione conciliare: «La sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione  di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 10, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 47). Questo è il vero «insegnamento del Concilio Vaticano II» (ibid.): «lo studio della Sacra Scrittura» (ibid.) deve avvenire «nella comunione della Chiesa universale» (ibid.) e – come afferma ancora la Dei Verbum al numero 23 – «sotto la vigilanza del Sacro Magistero» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 23, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 45).

II. Verbum in Ecclesia
1. La liturgia
La Dei Verbum afferma al numero 1 che la Chiesa sta «in religioso ascolto della parola di Dio» (Concilio Ecumenico Vaticano II 1965, n. 1, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 51). Con queste parole ci è offerta «una definizione dinamica della vita della Chiesa» (ibid.), «comunità che ascolta ed annuncia la Parola di Dio» (ibid.), e che guarda alla Parola del Padre detta definitivamente in Gesù Cristo non come a un «evento semplicemente passato» (ibid.), ma come a una «relazione vitale» (ibid.) che continua ancora oggi.
«L’ambito privilegiato in cui Dio parla a noi nel presente» (ibid., n. 52) è la liturgia: «ogni azione liturgica è per natura sua intrisa di sacra Scrittura» (ibid.). Anzi, in un certo senso «l’ermeneutica della fede riguardo alla sacra Scrittura deve sempre avere come punto di riferimento la liturgia» (ibid.). Per comprendere questa affermazione occorre riflettere su quello che Benedetto XVI chiama «il carattere performativo della Parola» (ibid., n. 53) che, in quanto è Parola di Dio onnipotente, sempre nella storia «realizza ciò che dice» (ibid.). Questo carattere emerge in modo particolarmente evidente nell’Eucarestia, dove «la Parola di Dio si fa carne sacramentale» (ibid., n. 55). Qui vediamo l’efficacia performativa immediata delle parole di Gesù Cristo, e oggi del sacerdote, e comprendiamo qualcosa del carattere performativo della Parola di Dio in genere: «senza il riconoscimento della presenza reale del Signore Gesù nell’Eucaristia, l’intelligenza della Scrittura rimane incompiuta» (ibid.). «In analogia alla presenza reale» (ibid., n. 56) emerge anche una «sacramentalità della Parola» (ibid.), su cui amava insistere il venerabile Giovanni Paolo II.
Naturalmente, perché tutto questo possa essere ben compreso dai fedeli – e le difficoltà non mancano – è necessaria una cura particolare alla liturgia. L’attuale struttura del Lezionario, nota Benedetto XVI, ha arricchito «l’accesso alla sacra Scrittura che viene offerta in abbondanza» (ibid., n. 57): ma ci sono «difficoltà che permangono» (ibid.)  e che «devono essere considerate alla luce della lettura canonica, ossia dell’unità intrinseca di tutta la Bibbia» (ibid.). È necessario anzitutto che coloro che proclamano le letture nella Messa «siano veramente idonei e preparati con impegno» (ibid., n. 58), cioè siano sia dotati di cultura «biblica e liturgica» (ibid.) sia conoscano «l’arte di leggere in pubblico» (ibid.), che non s’improvvisa.
Del tutto fondamentale per proporre ai fedeli il coordinamento tra le diverse letture e l’unità intrinseca della Bibbia è poi l’omelia. Il Papa lo raccomanda con insistenza: è indispensabile «migliorare la qualità dell’omelia» (ibid., n. 59). «Si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico» (ibid.). L’omelia «è veramente un’arte che deve essere coltivata» (ibid., n. 60) non solo attraverso lo studio, ma anche con la preghiera e la vita spirituale, se necessario con futuri «sussidi adeguati» (ibid.) tra i quali il Papa pensa a un «Direttorio sull’omelia» (ibid.).
Quello che vale per la Messa, vale anche per altri ambiti – confessione, unzione degli infermi, liturgia delle ore, benedizioni, celebrazioni della Parola – dove il Papa esorta allo studio e al rigoroso rispetto delle prescrizioni della Chiesa e fornisce pure prescrizioni e suggerimenti pratici. Tra questi, il consiglio di «educare il Popolo di Dio al valore del silenzio» (ibid., n. 66), evitando lungaggini e verbosità inutili; l’invito a «valorizzare quei canti che la tradizione della Chiesa ci ha consegnato […]. Penso in particolare all’importanza del canto gregoriano» (ibid., n.. 70); l’attenzione particolare a forme liturgiche specifiche per «i non vedenti e non udenti» (ibid., n. 71); e la reiterata prescrizione che nella Messa «le letture tratte dalla Sacra Scrittura non siano mai sostituite con altre testi» (ibid., n. 69), dal momento che al Sinodo diversi padri sinodali hanno riferito al riguardo seri «abusi» (ibid.) in questo senso.

2. La vita ecclesiale
Benedetto XVI ha richiamato più volte in tema di sacra Scrittura la figura decisiva di san Girolamo. «Così egli consiglia la matrona romana Leta per l’educazione della figlia: “Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura… Alla preghiera faccia seguire la lettura, e alla lettura la preghiera… Che invece dei gioielli e dei vestiti di seta, essa ami i Libri divini» (ibid., n. 72).  L’esortazione apostolica è un fermo richiamo allo studio serio, alla luce della Dei Verbum correttamente interpretata, della Scrittura da parte di tutti – vescovi, studiosi accademici, sacerdoti, religiosi, diaconi permanenti e anche laici; e ancora giovani, anziani, ammalati – perché è ancora san Girolamo a ricordarci che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (cit. ibid., n. 73). Trascurare questo studio ha un costo: si pensi, per esempio, alla «proliferazione di sette, che diffondono una lettura distorta e strumentale della sacra Scrittura. Là dove non si formano i fedeli ad una conoscenza della Bibbia secondo la fede della Chiesa nell’alveo della sua Tradizione viva, di fatto si lascia un vuoto pastorale in cui realtà come le sette possono trovare terreno per mettere radici» (ibid.). Beninteso, «non si tratta, quindi, di aggiungere qualche incontro in parrocchia o nella diocesi, ma di verificare che nelle abituali attività […] si abbia realmente a cuore l’incontro con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola» (ibid.).
Il primo ambito in cui favorire questo incontro è la catechesi, senza trascurare anche per i bambini «un’intelligente memorizzazione di alcuni brani biblici particolarmente eloquenti dei misteri cristiani» (ibid., n. 74), e purché si ricordi che «l’attività catechetica implica sempre l’accostare le Scritture nella fede e nella Tradizione della Chiesa» (ibid.). Dunque «è importante sottolineare la relazione tra la sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica» (ibid.), che è «rilevante espressione attuale della Tradizione viva della Chiesa, e norma sicura per l’insegnamento della fede» (ibid.). Un altro ambito su cui Benedetto XVI insiste è quello della pastorale del matrimonio e della famiglia. Non solo i genitori «sono davanti ai propri figli i primi annunciatori della Parola di Dio» (ibid., n. 85), ma oggi è necessario difendere una istituzione come la famiglia «posta per molti aspetti sotto attacco dalla mentalità corrente. Di fronte al diffuso disordine degli affetti e al sorgere di modi di pensare che banalizzano il corpo umano e la differenza sessuale, la Parola di Dio riafferma la bontà originaria dell’uomo, creato come maschio e femmina e chiamato all’amore fedele, reciproco e fecondo» (ibid.).
Il Papa si preoccupa poi d’insegnare nuovamente a tutti i fedeli, attingendo alla grande tradizione patristica, come si debba leggere il testo sacro nella lectio divina. «Si deve evitare il rischio di un approccio individualistico» (ibid., n. 86): al contrario, «il testo sacro deve essere sempre accostato nella comunione ecclesiale» (ibid.). Benedetto XVI offre una guida ai cinque tempi della lectio divina, Questa «si apre con la lettura (lectio) del testo, che provoca la domanda circa una conoscenza autentica del suo contenuto» (ibid., n. 87): «senza questo momento si rischia che il testo diventi solo un pretesto per non uscire mai dai nostri pensieri» (ibid.). Il secondo tempo è «la meditazione (meditatio)» (ibid.), dove ciascuno applica il testo a se stesso consapevole che «non si tratta di considerare parole pronunciate nel passato, ma nel presente» (ibid.). Il terzo tempo è il «momento della preghiera (oratio)» (ibid.), che è propriamente la risposta di fede dell’uomo a Dio che parla. Segue – quarto tempo – «la contemplazione (contemplatio)» (ibid.), dove la Parola di Dio diventa «criterio di discernimento» (ibid.), ci cambia e ci converte. Ma «la lectio divina non si conclude nella sua dinamica fino a quando non arriva all’azione (actio)» (ibid.), il suo quinto tempo che mostra come del cambiamento e della conversione si debba dare prova in tutti i campi dell’esistenza umana. Il Papa invita anche a non trascurare la dottrina delle indulgenze, cui la Chiesa non rinuncia, e ricorda che la lectio divina protratta per almeno mezz’ora assicura, alle consuete condizioni, l’indulgenza plenaria.
La lectio divina, peraltro, non è l’unico modo di entrare in contatto con la Parola di Dio. «Memore della relazione inscindibile tra la Parola di Dio e Maria di Nazareth» (ibid., n. 88), la Chiesa raccomanda come «uno strumento di grande utilità» (ibid.) per «meditare i santi misteri narrati dalla Scrittura […] la recita personale e comunitaria del Santo Rosario» (ibid.), così come la preghiera dell’Angelus e gli inni mariani della tradizione orientale. Né si può trascurare il pellegrinaggio verso la Terra Santa, che è in un certo senso «il quinto Vangelo» (ibid., n. 89). «Più volgiamo lo sguardo e il cuore alla Gerusalemme terrena, più si infiammano in noi il desiderio della Gerusalemme celeste, vera meta di ogni pellegrinaggio, e la passione perché il nome di Gesù, nel quale solo c’è salvezza, sia riconosciuto da tutti (cfr. At 4,12)» (ibid.).

III. Verbum mundo
1. La missione
Il quinto tempo della lectio divina è l’actio. L’azione segue l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio e ha due momenti: la missione e l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale. Dobbiamo porci «non soltanto come destinatari della Rivelazione divina, ma anche come suoi annunciatori» (ibid., n. 91). «La Chiesa è missionaria nella sua essenza» (ibid.) e «ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio» (ibid.). La missione «non può essere considerata come realtà facoltativa» (ibid., n. 93), e occorre comprendere bene il suo contenuto: «il Regno di Dio (cfr Mc 1, 14-15), il quale è la stessa persona di Gesù (l’Autobasileia), come ricorda suggestivamente Origene [185-284]» (ibid.). Leggendo, secondo la consueta corretta ermeneutica, un documento del servo di Dio Paolo VI, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, troveremo conferma del fatto che la vera missione «non si limita a suggerire al mondo valori condivisi: occorre che si arrivi all’annuncio esplicito della Parola di Dio. Solo così saremo fedeli al mandato di Cristo» (ibid., n. 98). Insegna appunto la Evangelii nuntiandi: «Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati» (Paolo VI 1975, n. 22, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 98).
Non si può rinunciare alla missio ad gentes, cioè a evangelizzare i popoli non ancora raggiunti dal Vangelo. «In nessun modo la Chiesa può limitarsi ad una pastorale di “mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo» (ibid., n. 95). Per questo il Papa esorta pure a «continuare profeticamente a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a costo della persecuzione» (ibid.): «non cessiamo di alzare la nostra voce perché i governi delle Nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente» (ibid., n. 98).
Nel richiamare «l’importante opera del Venerabile Giovanni Paolo II» (ibid., n. 118) per il dialogo interreligioso con i musulmani, il Papa auspica che in tale dialogo «possano essere approfonditi il rispetto della vita come valore fondamentale, i diritti inalienabili dell’uomo e della donna e la loro pari dignità» (ibid., n. 118). «Il dialogo non sarebbe fecondo se questo non includesse anche un autentico rispetto per ogni persona, perché possa aderire liberamente alla propria religione» (ibid., n. 120). Lo stesso venerabile Giovanni Paolo II, parlando nel 1985 a Casablanca, in Marocco, ha insistito sul tema caro a Benedetto XVI della reciprocità: «il rispetto e il dialogo richiedono la reciprocità in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa» (Giovanni Paolo II 1985, cit. in Benedetto XVI 2010, n. 120).
Oggi poi la missio ad gentes può talora svolgersi in Paesi di antica tradizione cristiana dove è in atto il «fenomeno complesso dei movimenti migratori» (ibid., n. 105), da gestire coniugando due principi, «la sicurezza delle nazioni e l’accoglienza» (ibid.). Con l’immigrazione «un grande numero di persone che non conoscono Cristo, o che ne hanno un’immagine inadeguata, si insediano in Paesi di tradizione cristiana» (ibid.), offrendo «rinnovate possibilità per la diffusione della Parola di Dio» (ibid.). «È necessario che le diocesi interessate si mobilitino» (ibid.), tenendo sempre presente il contenuto della missione: «i migranti hanno il diritto di ascoltare il contenuto del kerygma, che viene loro proposto, non imposto» (ibid.) e che va al di là della mera assistenza umanitaria. Al migrante in difficoltà non ci si può limitare a offrire cibo e coperte: è un grave dovere annunciargli anche la Parola di Dio. Lo stesso vale per i poveri in genere, «bisognosi non solo di pane, ma anche di parole di vita. La diaconia della carità, che non deve mai mancare nelle nostre Chiese, deve essere sempre legata all’annuncio della Parola e alla celebrazione dei santi misteri»  (ibid., n. 107).
Accanto alla missio ad gentes c’è poi – in realtà già preannunciata dalla stessa Evangelii nuntiandi, prima che il venerabile Giovanni Paolo II ne facesse il programma del suo pontificato – la nuova evangelizzazione delle «Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni [che] vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza di una cultura secolarizzata» (ibid., n. 96). Si tratta, allora, di «intraprendere con tutte le forze la nuova evangelizzazione, soprattutto in quelle nazioni dove il Vangelo è stato dimenticato o soffre l’indifferenza dei più a causa di un diffuso secolarismo» (ibid., n. 122).

2. L’instaurazione cristiana dell’ordine temporale
«Tutta la storia dell’umanità sta sotto il giudizio di Dio» (ibid., n. 99): «nel nostro tempo ci fermiamo spesso superficialmente sul valore dell’istante che passa, come se fosse irrilevante per il futuro» (ibid.), mentre la Parola di Dio «ci ricorda che ogni momento della nostra esistenza è importante e deve essere vissuto intensamente, sapendo che ognuno di noi dovrà rendere conto della propria vita» (ibid.). Passare dalla lectio all’actio significa trasformare con la forza del Vangelo tutti i campi dell’agire umano, compresa la «vita politica e sociale» (ibid., n. 100). Il Papa ricorda che «non è compito diretto» (ibid.) della gerarchia ecclesiastica occuparsi della vita politica, «anche se a lei spetta il diritto ed il dovere di intervenire sulle questioni etiche e morali che riguardano il bene delle persone e dei popoli» (ibid.). È «compito dei fedeli laici, educati alla scuola del Vangelo, intervenire direttamente nell’azione sociale e politica» (ibid.), ed è loro dovere dotarsi di «un’adeguata formazione secondo i principi della Dottrina sociale della Chiesa» (ibid.) e della «legge naturale» (ibid., n. 101).
La riflessione sulla Parola di Dio dà l’occasione a Benedetto XVI di riflettere su due temi già in precedenza affrontati nel suo Magistero, e che hanno connessione con l’instaurazione cristiana dell’ordine temporale: l’ecologia e la cultura. «La Rivelazione, mentre ci rende noto il disegno di Dio sul cosmo, ci porta anche a denunciare gli atteggiamenti sbagliati dell’uomo, quando non riconosce tutte le cose come riflesso del Creatore ma mera materia da manipolare senza scrupoli» (ibid., n. 108). Riprendendo la denuncia della tecnocrazia nell’enciclica del 2009 Caritas in veritate, il Papa nota come «l’arroganza dell’uomo che vive come se Dio non ci fosse porta a sfruttare e deturpare la natura, non riconoscendo in essa un’opera della Parola creatrice» (ibid.).
Particolarmente profonda è la riflessione che parte dal «rapporto tra Parola di Dio e cultura. Infatti, Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture» (ibid., n. 109), un rapporto che oggi «entra anche in una nuova fase» (ibid.) sia perché la missione ad gentes incontra culture nuove, sia perché emergono mondi in precedenza inediti come quello di Internet. «Ogni autentica cultura per essere veramente per l’uomo deve essere aperta alla trascendenza, ultimamente a Dio» (ibid.). Contro ogni relativismo, la Bibbia si presenta come «grande codice per le culture» (ibid., n. 110) e giudica le culture, che non sono tutte uguali. Nello stesso tempo, «trasfigura i limiti delle singole culture creando comunione tra popoli diversi» (ibid., n. 116).
Si parla molto d’inculturazione. Ma «l’inculturazione non va scambiata con processi di adattamento superficiale e nemmeno con la confusione sincretista che diluisce l’originalità del Vangelo per renderlo più facilmente accettabile» (ibid., n. 114). Questo va tenuto presente nel dialogo interreligioso, che va condotto «evitando forme di sincretismo e di relativismo e seguendo le linee indicate dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate sviluppate dal Magistero successivo dei Sommi Pontefici» (ibid., n. 117).
Due ambiti culturali su cui il Papa porta una speciale attenzione sono l’arte e Internet. Rilevando che l’arte cristiana affascina sempre più anche non cristiani – Benedetto XVI pensa per esempio, «all’antico linguaggio espresso dalle icone che dalla tradizione orientale si sta diffondendo in tutto il mondo» (ibid., n. 112) – il Papa celebra gli artisti che «hanno aiutati a rendere in qualche modo percepibili nel tempo e nello spazio le realtà invisibili ed eterne» (ibid.). Nello stesso tempo esorta a che, per quanto possibile, «si promuova nella Chiesa una solida formazione degli artisti riguardo alla Sacra Scrittura alla luce della Tradizione viva della Chiesa e del Magistero» (ibid.).
Con Internet «oggi la comunicazione stende una rete che avvolge tutto il globo, e acquista un nuovo significato l’appello di Cristo: “Quello che io vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze” (Mt 10,27)» (ibid., n. 113). Richiamando un importante documento del venerabile Giovanni Paolo II, il Messaggio per la XXXVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, del 2002 (Giovanni Paolo II 2002), Benedetto XVI invita a fare «emergere il volto di Cristo» (Benedetto XVI 2010, n. 113) anche «nel mondo di internet, che permette a miliardi di immagini di apparire su milioni di schermi in tutto il mondo» (ibid.). Internet «costituisce un nuovo forum in cui far risuonare il Vangelo, nella consapevolezza, però, che il mondo virtuale non potrà mai sostituire il mondo reale e che l’evangelizzazione potrà usufruire della virtualità offerta dai new media solo se si arriverà al contatto personale, che resta insostituibile» (ibid.). È una lezione particolarmente pertinente nell’epoca dei social network come Facebook, dove – se si vuole usare lo strumento per l’evangelizzazione – si tratta appunto di passare dal primo contatto virtuale all’insostituibile contatto personale.
In Internet, come altrove, deve alla fine emergere che «tutto l’essere sta sotto il segno della Parola» (ibid., n. 121), e che «sia nella sacra Scrittura che nella Tradizione viva della Chiesa» (ibid.) siamo di fronte «alla Parola definitiva di Dio sul cosmo e sulla storia» (ibid.). Il frutto dell’obbedienza a questa Parola sarà qualcosa che il mondo rischia di dimenticare: la gioia. «Si tratta di una gioia profonda che scaturisce dal cuore stesso della vita trinitaria e che si comunica a noi nel Figlio. Si tratta della gioia come dono ineffabile che il mondo non può dare. Si possono organizzare feste, ma non la gioia» (ibid., n. 123). Questa viene solo dal Signore per mezzo di Maria, che in quanto «Mater Verbi» (ibid., n. 123) è anche «Mater laetitiae» (ibid.).

Riferimenti
Per tutti i testi, che sono disponibili su Internet sul sito della Santa Sede vatican.va è fornito un indirizzo abbreviato con il sistema tinyurl. Nei riferimenti gli indirizzi tinyurl sono indicati da una T maiuscola. Per esempio «T b8f72» indica che per accedere alla pagina del sito della Santa Sede dov’è disponibile il documento occorre digitare http://tinyurl.com/b8f72.
Benedetto XVI. 2005. Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005. T b8f72.
Benedetto XVI. 2006. Omelia nella solennità del Natale del Signore, del 24-12-2006. T 2cwdbep.
Benedetto XVI. 2009. Omelia nella solennità dell’Epifania, del 6-1-2009. T 2ay3k27.
Benedetto XVI. 2010. Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, del 30-9-2010. T 3yf3ouy.
Concilio Ecumenico Vaticano II. 1965. Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum, del 18-11-1965. T 6avj.
Giovanni Paolo II. 2002. Messaggio per la XXXVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali – Internet: un nuovo Forum per proclamare il Vangelo, del 24-1-2002. T 3xzp39j.
Paolo VI. 1975. Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell’8-12-1975. T 37ehsbt.
Pontificia Commissione Biblica. 1993. L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 15-4-1993. T 2sylu.


VERBUM DOMINI: RIFLESSIONI E APPLICAZIONI - Secondo monsignor Gianfranco Ravasi e monsignor Nikola Eterović di Carmen Elena Villa

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 novembre 2010 (ZENIT.org).- Se Papa Benedetto XVI ha voluto dedicare un'Assemblea sinodale alla Parola di Dio nel 2008 “forse c’era un po' di polvere e bisognava rimetterla al centro”, ha affermato il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi.

Il futuro Cardinale è intervenuto questo giovedì alla presentazione dell'Esortazione Apostolica post-sinodale Verbum Domini, svoltasi nella Sala Stampa della Santa Sede e che ha contato anche sulla presenza del Cardinale Marc Ouellet P.S.S., Prefetto della Congregazione per i Vescovi, di monsignor Nikola Eterović, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, e del sottosegretario monsignor Fortunato Frezza.

Monsignor Eterović ha affermato che il titolo dell'Esortazione Apostolica permette di “percepire la concordanza e quindi la continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento”.

Gli obiettivi di questo documento pontificio, ha segnalato, sono “comunicare i risultati dell'Assemblea sinodale, riscoprire la Parola di Dio, fonte di costante rinnovamento ecclesiale”, “promuovere l'animazione biblica della pastorale, essere testimoni della Parola” e “intraprendere una nuova evangelizzazione”.

I pericoli del fondamentalismo

Monsignor Ravasi ha definito il documento pontificio “altamente teologico e pastorale”.

E' un'Esortazione Apostolica che invita a compiere una retta interpretazione delle Sacre Scritture e avverte dei pericoli dei gruppi fondamentalisti, “che usano a volte una traduzione da una traduzione dell'inglese”, ha osservato.

“L’illusione è tale che la fedeltà materiale diventa l'infedeltà al contenuto”, ha sottolineato il Presidente del dicastero vaticano riferendosi al fondamentalismo biblico.

Mezzi che aiutano a comprendere la Parola

Monsignor Eterović ha sottolineato dal canto suo come il documento sottolinei alcuni mezzi che aiutano ad approfondire il messaggio della Parola di Dio, come la liturgia, le missioni, i ritiri spirituali, i pellegrinaggi.

Quanto alle celebrazioni liturgiche, ha detto che è necessario prestare una particolare attenzione a risorse esteriori come “il tempio, l'ambone, l'altare”, e “agli stessi strumenti di diffusione acustica delle letture bibliche”.

Allo stesso modo, risulta di grande importanza il canto, che “favorisce la percezione unitaria della liturgia”, che “si alimenta della Parola di Dio dall'inizio e nello svolgimento delle diverse parti celebrative”.

Il presule ha quindi rimarcato come il Papa, oltre a sintetizzare gli interventi dei Padri sinodali, illumini il tutto con aspetti chiave del suo magistero.

“Prendendo in considerazione tali fatti, si potrebbe concludere che il Santo Padre Benedetto XVI può essere definito il Papa della Parola di Dio”, ha concluso.


12/11/2010 – Città del Vaticano (AsiaNews) - “Verbum Domini”: accogliere la Parola di Dio per annunciarla a chi non crede di Bernardo Cervellera

Diffusa l’esortazione post-sinodale sulla Parola di Dio. Uno strumento per rinnovare la vita dei fedeli e delle comunità, per far loro riscoprire l’impegno della missione ai non cristiani e al mondo secolarizzato post-cristiano. Il più importante documento della Chiesa sulle Sacre Scritture, dopo la Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Il link con l’edizione integrale.


Città del Vaticano (AsiaNews) – Con un occhio ai popoli che ancora non conoscono il Vangelo (missione ad gentes) e uno ai popoli secolarizzati post-cristiani, Benedetto XVI ha fatto pubblicare ieri l’esortazione apostolica Verbum Domini (La Parola del Signore), a due anni dal Sinodo dei vescovi dedicato a “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.

Secondo alcuni analisti, il poderoso volume (quasi 200 pagine) è il più importante documento della Chiesa sulle Sacre Scritture, dopo la Dei Verbum del Concilio Vaticano II. In esso si percepisce la mano ferma, semplice e profonda del teologo Ratzinger, che ha prodotto non un documento burocratico, ma un vero e proprio libro di meditazione, uno strumento che potrebbe rinnovare la vita dei cristiani a partire da una maggiore familiarità, conoscenza, lettura e preghiera della bibbia. In alcuni punti vi sono perfino suggerimenti su come attuare questa meditazione (lectio divina, nn. 86-87), come preparare un’omelia (n. 59), come valorizzare il silenzio (n. 66).

Sebbene diffuso l’11 novembre, il documento è datato 30 settembre, memoria di san Gerolamo, studioso e traduttore della bibbia in latino (Vulgata), abbondantemente citato dal papa per la sua fede nello stretto legame fra la Parola di Dio scritta e il Corpo di Cristo eucaristico.

Benedetto XVI, prendendo come riferimento il Prologo del vangelo di Giovanni (“Il Verbo si è fatto carne”), suddivide la Verbum Domini in tre sezioni.

La prima, dal titolo “Verbum Dei”, mette in risalto la dimensione trinitaria della rivelazione cristiana, sottolineando che il Dio cristiano ha usato “parole umane” per comunicarsi agli uomini; che la Parola di Dio non è “una parola scritta e muta”, ma quella del Dio fatto uomo. Vi sono anche pagine sublimi sulla Parola di Dio che si comunica nell’universo creato, che fondano insieme la profonda bellezza e dignità di tutto ciò che esiste e la grande sete di assoluto che esiste nel cuore degli uomini (v. nn 8-10).
Si passa poi alla “novità inaudita e umanamente inconcepibile”: della Parola di Dio divenuta un uomo, Gesù Cristo, che comunica con la sua vita la stessa vita di Dio, fino al “silenzio della croce” e alla resurrezione.
Contro ogni riduzione mitica, il papa afferma che la parola di Dio è “una Persona” e contro ogni riduzione privatista afferma che la parola di Dio si può comprendere solo all’interno della tradizione vivente della Chiesa. Per questo egli mette in guardia contro due pericoli nel leggere le Scritture: quello del secolarismo, che vede nella bibbia solo dei documenti storici del passato, senza alcun legame col presente; quella del fondamentalismo fideista – praticato da diverse sette protestanti – che rischia il letteralismo senza l’uso della ragione (v. nn. 34-36).
A modelli per una lettura feconda della parola di Dio (e una sana interpretazione), il papa elenca diversi santi, fra cui Teresa di Gesù Bambino, Teresa di Calcutta, i martiri del nazismo e del comunismo (v. n. 48).

La seconda sezione, “Verbum in Ecclesia”, spiega la vitalità della Parola di Dio nella vita della Chiesa, sottolineando l’importanza della liturgia della parola, dell’eucarestia, della preghiera dei salmi, della meditazione, del silenzio come modalità di incontro fra ciò che Dio dice all’uomo e ciò che l’uomo dice a Dio. Benedetto XVI non manca di dare suggerimenti sui canti (recuperando il gregoriano), sull’architettura delle chiese, la struttura dell’altare e dell’ambone, sui modi in cui vanno preparate le omelie. L’onore alla Parola di Dio va ottenuto anche facendola conoscere, studiare e amare da parte dei fedeli e di tutte le vocazioni nella Chiesa, consacrati e sposati.

Benedetto XVI suggerisce preghiere come il rosario, l’Angelus, le preghiere orientali come l’Akathistos e la Paraklesis, che aiutano a meditare i misteri della vita di Cristo (n. 88) e dà ampio spazio al valore ai pellegrinaggi in Terra Santa, i luoghi dove Gesù è vissuto. Assieme ai padri sinodali, egli ringrazia i cristiani di quella terra, sottoposti a enormi difficoltà, e definisce la Terra Santa “il quinto Vangelo” (n. 89).

La terza sezione, “Verbum Mundo”, mette in luce l’ampio ventaglio della missione dei cristiani, “destinatari”, ma anche “annunciatori” della Parola di Dio: avendo parte alla salvezza e alla speranza offerta da Cristo, essi diffondono con la parola e la testimonianza il “Logos della Speranza”: “Non possiamo tenere per noi le parole di vita eterna che ci sono date nell’incontro con Cristo: esse sono per tutti, per ogni uomo. Ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio” (v. n. 91).

Il papa sottolinea che la Parola di Dio è “dirompente” e non soltanto  “consolatoria” (n. 93); che la missione implica un annuncio esplicito, non solo un “suggerire al mondo valori condivisi” (n. 98).
Benedetto XVI ringrazia “i cristiani che non si arrendono davanti agli ostacoli e alle persecuzioni a causa del Vangelo”, soprattutto in Asia e in Africa e chiede a tutti di alzare la voce “perché i governi delle nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione” (n. 98).
Egli chiede anche un maggiore impegno dei fedeli nella testimonianza verso quelle nazioni, “un tempo ricche di fede”, che “vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza di una cultura secolarizzata” (n. 96-97).

Vicino al tema dell’annuncio, vi sono pagine dedicate al dialogo colle diverse religioni: ebraismo, islam, induismo, religioni tradizionali e confucianesimo. Nella prima parte il pontefice aveva già sottolineato l’importanza della lettura ebraica dell’Antico Testamento e il riconoscimento “dell’autorità  delle sacre Scritture del popolo ebraico” (n. 40); anche qui il papa valorizza il rapporto stretto fra cristianesimo e ebraismo (n. 117). A differenza di quanto alcuni media hanno sottolineato, Benedetto XVI non condanna il rapporto con l’islam, ma lo valorizza e chiede ai membri di tutte le religioni di lavorare per garantire “un autentico rispetto per ogni persona, perché possa aderire liberamente alla propria religione” (n.120).

Gli ultimi paragrafi sono un appello ai cristiani a lanciarsi nella missione ad gentes e nella “nuova evangelizzazione”, dove il Vangelo “soffre l’indifferenza” e un invito a chi non è cristiano, o si è allontanato dalla Chiesa o dalla fede, ai quali il Signore dice. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap. 3,20) (n. 124).



CRISTIANI PERSEGUITATI - L'inquietante silenzio - Perché non alza di più la voce la comunità musulmana nel mondo? Di Elio Bromuri – venerdì 12 novembre 2010

Il 21 novembre prossimo, festa di Cristo Re dell'Universo, giornata di preghiera per i fratelli di fede perseguitati dell'Iraq, immersi in un mare di dolore e di paura. Sono i cristiani, soprattutto cattolici, già da tempo oggetto di attacchi e persecuzioni, i fratelli di fede per i quali siamo invitati dai vescovi italiani a pregare. Anche recentemente vi sono stati 50 morti uccisi in chiesa e 80 feriti. Ma la serie degli attentati e dei morti e di coloro che sono dovuti scappare e abbandonare la propria terra è molto lunga. Qualcuno dovrebbe raccogliere e documentare puntualmente, anzi puntigliosamente la storia della persecuzione anticristiana del secolo scorso che continua nel nuovo in tante parti del mondo. Dobbiamo sapere e deve sapere il mondo. Tutti sono informati delle cadute degli uomini di Chiesa, degli errori e inadempienze. Non c'è scandalo che non venga strombazzato ai quattro venti dalla selva mediatica agitata dal vento. Raccontiamo senza falsi pudori ciò che accade a dei poveri cristiani abbandonati a se stessi senza sicura difesa da parte delle istituzioni locali e spesso ignorati da quelle internazionali.
Ora un'organizzazione che si chiama Ministero della guerra dello Stato islamico d'Iraq ha dichiarato che i cristiani, tutti, sono diventati "obbiettivi legittimi". È angosciante la parola "legittimi". Chi è che dà questa legittimazione? Solo Dio è padrone della vita e della morte.
Benedetto XVI ha ripetuto con forza a più riprese, a cominciare dalla famosa lezione di Regensburg, che nessuno può usare la fede e la religione e mettere in mezzo Dio per "legittimare", la violenza è contraria alla religione e alla ragione.
Ma oggi ci sono ancora nel mondo immense moltitudini, per di più ignoranti, che identificano Cristianesimo e Occidente come fossero un'unica realtà, pronte a legittimare l'eliminazione dell'infedele o dell'apostata o semplicemente del trasgressore di una legge divina. Quello che i fanatici considerano "infedele", anche se non fa nulla di male, con la sua stessa presenza disturba, scandalizza, impedisce il cammino nella via di Dio. Se poi si mette nel gioco politico o degli affari, perché deve pur vivere, presta il fianco ad accuse di ogni genere. Questa è la spiegazione degli attentati che avvengono in una fascia che va dall'Indonesia all'India, dal Pakistan al Medio Oriente, e si estende fino ai Paesi islamici dell'Africa subsahariana.
C'è anche un'aspra lotta all'interno del mondo musulmano, tra correnti e gruppi rivali, che provoca molte vittime pure tra i musulmani. Ma qui si deve considerare l'identità degli attentatori. Finché esiste anche l'idea che si possa onorare la propria fede facendo uso del proprio corpo come di una bomba esplosiva contro vittime innocenti, dobbiamo aver paura di una barbarie che avanza.
Con tale barbarie ammantata di religione avanza anche la tentazione dell'ateismo, il cosiddetto "nuovo ateismo" che ha dichiarato guerra alla religione considerata un male sociale. E tale è nel fanatismo mistico e delirante di Al Qaeda.
Sono finiti i tempi dell'illusione dialogica priva di spirito critico. Il dialogo deve aprire un confronto serio e serrato sulle basi della convivenza e sul riconoscimento del diritto alla diversità nei termini consentiti dalla legge e dalla dichiarazione universale dei diritti degli uomini.
Si è detto e si dice ancora che si tratta di attentati che riguardano solo una piccola minoranza esaltata, un'organizzazione estremista e fanatica. Si dice pure che in fondo si tratta di numeri esigui rispetto alla moltitudine di musulmani che supera il miliardo. Qualcuno insiste sul motivo politico che vuole ammantarsi di ragioni religiose, altri che si tratti di ragioni religiose che vogliono camuffarsi di motivazioni politiche. È bene non illudersi. Il pastore evangelico, che voleva bruciare il Corano, è un brutto esempio e, tuttavia, è veramente un personaggio singolo isolato, che i media hanno reso capace di farlo diventare un detonatore di un'arma che si è rivolta contro di lui che ha finito per fare un clamoroso autogol, evocando con il gesto minacciato pagine tristi di storia. Il mondo occidentale cristiano e laico ha protestato contro il fanatico pastore protestante, mentre a fronte degli attentati la grande comunità musulmana, la "umma", sparsa nel mondo con tutti i suoi capi, teologi, sceicchi, mullah, non ha dato molti segni di vita.
Ma qui non si tratta poi tanto di bruciare i libri cristiani che tra i credenti musulmani non possono circolare, ma di uccidere i cristiani, visti, anche dopo il Sinodo dei vescovi cattolici del Medio Oriente svolto a Roma, come una comunità legata all'odiato occidente e all'America. Male fece Bush a fare la guerra contro l'Iraq e ad enunciare il proposito di una crociata per la libertà e la democrazia, ed è una colpa che si paga. Preghiera e studio, conoscenza e confronto, coraggio nel dialogo e nell'analisi, proponendo nella preghiera anche la conversione del cuore, alla luce della vera sapienza e intelligenza che vengono da Dio, dall'unico Dio. Nella lotta tra le religioni, infatti, il perdente è proprio lui. Che Dio non voglia.
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12/11/2010 - IRAQ – GRAN BRETAGNA Birmingham (AsiaNews) - Cattolico caldeo: la tragedia dei cristiani in Iraq non interessa nessuno di Nirmala Carvalho

Sotto Saddam Hussein i cristiani in Iraq erano circa un milione: oggi, più della metà di loro è fuggita e vive come profughi in altri Paesi, in particolare Siria e Giordania. Chi è rimasto si sente tradito e abbandonato dal governo e dalla comunità internazionale. Con un solo desiderio: poter vivere e pregare in pace.


Birmingham (AsiaNews) – “C’è un pericolo reale che i cristiani in Iraq siano sterminati,  per la persecuzione che  l’emigrazione su larga scala”. A parlare è il professor Joseph Seferta, caldeo cattolico nato in Iraq. Oggi vive in Gran Bretagna, dove è un membro della Commissione per il dialogo interreligioso dell’arcidiocesi di Birmingham. In esclusiva per AsiaNews ha parlato della difficile situazione in cui versano i cristiani in Iraq, e in tutto il Medio Oriente.

Di seguito è riportata la sua testimonianza.

Appartengo alla Chiesa cattolica caldea, che costituisce la maggioranza dei cristiani in Iraq. Altre, cattoliche e ortodosse, includono cristiani assiri, siriaci, armeni e bizantini. Sotto Saddam Hussein i cristiani erano circa un milione, ma adesso solo la metà è rimasta nel Paese, gli altri sono fuggiti e vivono come profughi, specie in Siria e in Giordania.

L’atrocità commessa dai fanatici musulmani che ha prodotto decine di morti tra i siriaci cattolici e decine di feriti è stato un duro colpo per l’indifesa minoranza cristiana che lotta. È stata seguita da altri omicidi di cristiani nelle loro case e negozi. Tutti questi fanatici (conosciuti con vari nomi) in Medio Oriente e in altri Paesi a maggioranza musulmana, sono intenzionati a imporre la Shari’a e fondare Stati islamici dove non ci sia posto per i cristiani.

I cristiani in Medio Oriente, ovviamente, precedono i musulmani di centinaia di anni, e risalgono ai tempi apostolici. Dalla conquista islamica nel VII secolo, i cristiani sono ridotti a cittadini di seconda classe, privati quasi di ogni diritto. Essi hanno subito molte ondate di persecuzione che hanno ridotto di gran lunga il loro numero e la loro influenza. Tutti i giorni soffrono pregiudizi e discriminazioni, mentre le minoranze musulmane qui in Occidente godono pieni diritti e costruiscono centinaia di moschee.

I cristiani d’Iraq non hanno niente a che fare con l’invasione americana, ma sono sempre erroneamente accusati di schierarsi con l’Occidente “cristiano”. Adesso si sentono isolati e traditi sia dal loro governo che dalla comunità internazionale. Sono sempre stati cittadini-modello, servendo il loro Paese in ogni campo, e il loro unico desiderio è di essere lasciati in pace a vivere e pregare. Ma sono diventati un facile bersaglio per gli estremisti.

Ora c’è un pericolo reale che i cristiani in Medio Oriente, e in Iraq in particolare, siano sterminati, per la persecuzione e per l’emigrazione su larga scala, a meno che con urgenza non si faccia qualcosa per arrestare l’ondata e salvarli. Troppi di loro non possono sopportare più a lungo la sofferenza e sono stanchi di aspettare che qualcuno venga ad aiutarli. Del resto la gente o non sa o non se ne preoccupa. Anche il recente sinodo delle Chiese in Medio Oriente convocato dal Papa è stato una delusione, per mancanza sia di unità e che di coraggio. È tempo che le Nazioni Unite affrontino seriamente questo enorme problema, altrimenti finiremo con la catastrofe di un Iraq e persino di un Medio Oriente privi di cristiani.

Nell’ottobre 2007, 138 leader musulmani hanno pubblicato “Una parola comune tra noi e voi”, un sostanziale invito ai cristiani al dialogo, sulla base dei comandamenti dell’amore di Dio e amore verso il prossimo, trovati sia nella Bibbia che nel Corano.

Il problema è che nulla del genere esiste nel Corano.

Mentre l’amore è centrale nel cristianesimo, è molto difficile trovarlo nell’islam. I pochi versi coranici che parlano d’amore hanno un significato del tutto diverso dal Nuovo Testamento. Nel Corano, l’amore di Allah è subordinato all’obbedienza cieca dell’uomo alle sue leggi. Così al verso 4:107 leggiamo, per esempio: “Allah non ama l’empio e il colpevole”. L’amore nel Corano è solo un attributo piuttosto che una parte della vera essenza di Dio (“Dio è amore”: 1 Gv 4,8). Il concetto di amore per il prossimo non esiste. C’è solo l’amore per i compagni musulmani; per esempio viene loro detto nel 5:59 “Non prendere ebrei e cristiani come amici”, e nel 9:29: “Combattete coloro che non credono in Allah o nel suo messaggero, anche se sono il Popolo del Libro [cristiani ed ebrei], finché non saranno sottomessi”.


Se nulla è vero, come dice Eco, perché i “Protocolli” sarebbero falsi? - Notizie dalla rete - Venerdì 12 Novembre 2010 15:57 –  http://www.corrispondenzaromana.it - (Roberto de Mattei su "Il Foglio" del 12/11/2010) Roma. - “Il Cimitero di Praga” di Umberto Eco è un irridente manifesto intellettuale antitetico al messaggio di verità che Benedetto XVI propone agli uomini del nostro tempo. Non a torto L’Osservatore Romano”, per la penna di Lucetta Scaraffia, ne ha colto pericoli e ambiguità (“Il voyeur del male”, 30 ottobre 2010).

Ma il discorso merita di essere approfondito. Eco tiene ad assicurarci che nel suo romanzo nulla è fantasioso, ma tutto è storico, tranne la figura del protagonista, Simonino Simonini, l’unico personaggio inventato, che però “è in qualche modo esistito. Anzi, a dirla tutta, egli è ancora tra noi” (p. 515). Per la verità, il geniale falsario Simonini, “incapace di nutrire sentimenti diversi da un ombroso amore di sé, che aveva a poco a poco assunto la calma serenità di un’opinione filosofica” (p. 103), ci appare come una sorta di controfigura dello stesso Eco. Il punto è che, ne “Il Cimitero di Praga”, Eco non si limita a sostenere la falsità di opere come i “Protocolli dei Savi di Sion”, ma è convinto della falsificabilità di ogni documento storico. Simonini – scrive – “ci teneva ache i suoi falsi fossero, per così dire, autentici” (p. 428). D’altronde, “chi deve falsificare documenti deve sempre documentarsi” (p. 121). Ma se nessun documento è, in sé, vero, tutti i documenti sono, almeno potenzialmente, falsi e se nessuno è certamente vero, di nessuno si può dire che è certamente falso. Per dire infatti che un documento è falso, occorre che ve ne sia almeno uno vero, il che non è, non tanto perché non esistano di fatto documenti veri, quanto perché, per Eco, la verità stessa non esiste in sé. Con ciò arriviamo al punto centrale del discorso di Eco: un relativismo assoluto che pretende dissolvere non tanto la verità filosofica quanto quella fattuale, che costituisce la trama oggettiva della storia.

Le radici di questo relativismo stanno nel nominalismo medioevale, che non ha niente a che vedere con la Scolastica, ma ne rappresenta il momento di crisi e di decadenza. Umberto Eco si è formato alla scuola tomista e ci ha consegnato uno dei migliori studi sull’estetica medioevale (“Il problema
estetico in san Tommaso”, Torino 1956). Da allora però la sua deriva intellettuale ha seguito il percorso che dal nominalismo (di cui ha fatto l’apologia ne “Il nome della Rosa”) conduce all’illuminismo.

Dell’illuminismo torinese del Novecento, tanto bene analizzato da Augusto Del Noce, se Norberto Bobbio costituisce la versione neokantiana, Eco incarna quella neolibertina, più dissacrante, ma anche più coerente di quella dei “padri nobili” azionisti. Eco spinge il suo relativismo al punto di considerare correlativi vero e falso, non solo sul piano filosofico e morale, come voleva Spinoza, ma anche su quello fattuale. Ma se il falso storico è indistinguibile dal vero, solo la parola del falsario e dei suoi complici potrà attestare la non veridicità del falso. Con ciò Eco restituisce dignità storica ai “Protocolli dei Savi di Sion”, perché se tutto può essere falsificato e nulla esiste di certamente vero, la verità non è altro che la maschera soggettiva dell’interesse.

E’ vero ciò a cui il documento attribuisce verità. Se, come scrive Eco, “non c’è che parlare di qualcosa per farla esistere” (p. 385), c’è da chiedersi
se definire falso un documento è sufficiente a metterne in dubbio l’esistenza e, di conseguenza, se il suo libro contribuirà a diminuire il numero dei lettori dei “Protocolli dei Savi di Sion” o non contribuirà piuttosto ad aumentarli, stimolandone la morbosa curiosità.

“Il Cimitero di Praga” è l’apologia implicita di quel cinismo morale che segue necessariamente all’assenza di vero e o di bene. Nelle oltre cinquecento pagine del libro non c’è un solo impeto ideale, né figura che si muova spinta da amore o idealismo. “L’odio è la vera passione primordiale. E’ l’amore che è una situazione anomala” (p. 400) fa dire Eco a Rachkovskij. “Odi ergo sum” (p. 23) ripete Simonini, a cui Rachkovskij insegna cinicamente che “mentre si lavora per il padrone di oggi bisogna prepararsi a servire il padrone di domani” (p. 499). E tuttavia, malgrado le figure spregevoli e i fatti criminosi di cui il libro è infarcito, manca nelle sue pagine quella nota tragica che sola può far grande un’opera letteraria. Il tono è piuttosto quello sarcastico di una commedia in cui l’autore si fa beffe di tutto e di tutti, perché l’unica cosa in cui veramente crede sono i filets de barbue sauce hollandaise che si mangiano da Laperouse al quais des Grands-Augustin, le écrevisses bordelaises o le mousses de Volailles del Café Anglais di rue Gramont, i filets de poularde piqués aux truffes del Rocher du Cancale in rue Montorgueil.

Il cibo è l’unica cosa che esce trionfante dal romanzo, continuamente celebrato dal protagonista, che confessa: “La cucina mi ha sempre soddisfatto più del sesso. Forse un’impronta che mi hanno lasciato i preti” (p. 24). Eco è tecnicamente un grande giocoliere, perché si prende gioco di tutti:
dei suoi lettori, dei suoi critici e soprattutto dei cattolici che lo invitano nei loro convegni alla stregua di un oracolo, dimenticando che al “quid est veritas” di Pilato, Gesù Cristo risponde con le parole “Ego sum via et veritas et vita” (Gv, 14, 6), affermazione esclusiva e sfolgorante pervicacemente negata da tutti i relativisti, da duemila anni a questa parte. “Il Cimitero di Praga” costituisce una conferma, a contrario, dell’esistenza di questa verità, senza la quale tutto è privo di senso e di significato e si spalanca per l’uomo l’abisso dell’orrido, senza possibilità di riscatto. (Roberto de Mattei)


Il sequel di "Wall Street" consente a Oliver Stone di firmare una delle sue pellicole migliori - Nel bel mezzo della crisi è tornato Gordon Gekko di Emilio Ranzato

Gordon Gekko è tornato. Anche se la limousine che lo attende fuori del penitenziario nel quale è rimasto rinchiuso per otto lunghi anni, non è per lui, ma per il giovane gangster di una banda hip-hop. È con questo topos abusato ma sempre suggestivo del cinema classico - il redivivo superato dalla storia - che si apre Wall Street. Il denaro non dorme mai. E l'idea di rispolverare il fortunatissimo personaggio dell'omonimo film del 1987, cinico dispensatore di massime che negli ultimi vent'anni sono entrate a pieno titolo nel gergo cinefilo, benché nata probabilmente da esigenze commerciali consente comunque a Oliver Stone di firmare quello che è forse il suo film migliore, accanto a JFK. Un caso ancora aperto e al sottovalutato Nixon. Gli intrighi del potere.
Rispetto al primo capitolo, qui lo scenario è molto più composito. Al patto faustiano fra il giovane yuppie e il potente speculatore si sostituisce la storia di una famiglia:  mentre suo padre è impegnato a rientrare nel giro, Winnie Gekko (Carey Mulligan) lavora come giornalista indipendente nel campo dell'impegno civile. Del genitore non vuole più saperne, soprattutto dopo la morte del fratello, ma il caso - o forse l'inconscio - ha voluto che instaurasse una relazione seria con Jake Moore (un appropriato Shia LaBeouf), brillante broker finanziario dalla faccia pulita ma senza troppe remore quando si tratta di guadagnare tanto e subito.
Jake lavora per la società di Louis Zabel (Frank Langella), un anziano manager il cui concetto di capitalismo è votato alla prosperità ma anche alla correttezza, e grazie ai lauti introiti aiuta la madre (Susan Sarandon), non rassegnata all'idea di lasciare il lavoro di agente immobiliare nonostante i venti di crisi siano sempre più sferzanti. Quando lo scoppio di un'enorme bolla speculativa svelerà i contorni del baratro economico in cui l'intera nazione rischia di affondare, il loro fragile equilibrio andrà in frantumi, anche a causa delle pratiche senza scrupoli del magnate in ascesa Bretton James (Josh Brolin), sorta di corrispettivo di ciò che era stato Gekko ai tempi d'oro.
La prima mezz'ora del film è addirittura entusiasmante, cosa peraltro non nuova per Stone, che è solito dare subito fuoco alle polveri del suo estro visionario salvo trovarsi poco dopo con il fiato corto. Qui però c'è qualcosa di più profondo e sostanzioso.
Per esempio è bellissima e shakespeariana la figura di Zabel, padre putativo di Jake e ultimo depositario di una civiltà ormai al tramonto, che è costretto a farsi da parte lasciando ai suoi successori un mondo dai foschi orizzonti in cui non resta che sopraffarsi a vicenda.
E Gekko che riemerge dalle proprie ceneri in questo scenario da incubo, fintamente ferito e invece ancora capace di muovere i fili nell'ombra, sembra non a caso uscire da un film di Welles, piazzandosi a metà strada fra il misterioso Arkadin di Rapporto confidenziale e il piccolo dittatore camuffato da investigatore de L'infernale Quinlan:  se nel film precedente era una perfetta macchietta, adesso spaventa sul serio proprio perché è più umano.
Ma anche gli altri hanno qualcosa da farsi perdonare. Jake dà sempre l'impressione di non essere come il suo omologo degli anni Ottanta, lo yuppie interpretato da Charlie Sheen, solo perché le condizioni ne scoraggiano gli slanci. E persino la sua promessa sposa, giornalista impegnata in rotta con il padre cattivo, si dimostrerà disposta a una ricomposizione familiare solo dopo che il denaro che le era stato sottratto ingiustamente, e verso cui ostentava indifferenza, tornerà indietro.
Il merito più grande di Stone e dei suoi  sceneggiatori sta proprio in questa capacità di muovere i personaggi sul crinale del loro orizzonte morale, senza cercare facili soluzioni né da una parte né dall'altra. Evitando così il manicheismo consolatorio del primo Wall Street ma anche la deriva nichilista di Assassini nati, e finendo per comporre un ritratto tanto amaro quanto credibile.
Il regista usa il tono predicatorio ed enfatico che già conosciamo, ma stavolta crede tanto a quello che dice da risultare sempre coinvolgente, e pur rischiando continuamente il qualunquismo, azzecca un paio di immagini decisamente significative.
La prima è il concetto della bolla, leitmotiv di tutto il film che rende i grattacieli fragili come castelli di sabbia, ma anche emblema di quella abbondanza a volte solo apparente che serpeggia lungo  l'intera  storia  americana.
L'altra è la famiglia, vista come filtro della tensione che si crea nella società  statunitense  fra  pubblico  e privato,  di  cui  inevitabilmente  porta  i segni.
Sono le direzioni che prende via via il flusso del denaro a determinare i rapporti di questa particolare famiglia, non esclusa la paventata riconciliazione finale, e i protagonisti se lo dicono candidamente  in faccia senza tanti giri di parole. Eppure i sentimenti non sono assenti, solo sopiti sotto il peso di un gioco che è diventato troppo grande  per  tutti,  e  che  è  nato  nel  segno di una delle luciferine massime di Gekko:  "L'avidità è buona, l'avidità è giusta".
 (©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2010)


Radio Vaticana, notizia del 12/11/2010 - Scienza e Vita" contro lo spot pro-eutanasia: difendere la dignità della persona

“Attendiamo la messa in onda a livello nazionale dello spot pro-eutanasia prima di pronunciarci”. Così Roberto Napoli, commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si è espresso in merito allo spot, realizzato in Australia, già trasmesso in Canada, e, su iniziativa dei radicali, pronto ad andare in onda anche sugli schermi di Telelombardia. Ascoltiamo lo stesso Napoli al microfono di Paolo Ondarza:

R. – Come è noto, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni non può prendere decisioni “ex ante”, cioè prima che vada in onda una trasmissione, uno spot, una pubblicità. In questo caso, ovviamente, se dovesse andare in onda e ci dovessero essere ricorsi – le anticipo che già qualche Associazione, come l’Aiart e altre, si sono mosse a tal proposito – è indubbio che noi dovremo valutare i problemi dell’offesa ai sentimenti religiosi, al comune sentire. Tuttavia, ripeto, possiamo farlo solo “ex post”, quindi non in termini preventivi.

D. – E’ vero che non è ancora andato in onda, ma è disponibile su Internet: questo non incide in nessun modo su un pronunciamento prima del tempo?

R. – Noi non abbiamo previsto un intervento, perché lei sa bene che per quanto riguarda Internet c’è una valutazione di libertà di movimento all'interno della rete. Diversa è la normativa su cui noi siamo chiamati ad intervenire e che riguarda soprattutto il servizio pubblico. Ma stiamo seguendo con molta attenzione l’evoluzione di questo problema che, peraltro, è un problema che tocca le coscienze, tocca la sensibilità e la cultura religiosa… stiamo parlando dell’eutanasia, insomma. Peraltro, lei sa, è un’iniziativa che credo abbia assunto il partito radicale, probabilmente per rilanciare una sua idea politica; è evidente che noi seguiamo con attenzione l’evoluzione di questa cosa. (gf)

Nello spot pro eutanasia della durata di 40 secondi un uomo, seduto su un letto di ospedale, spiega di essere sempre stato libero: “Di esprimersi, di scegliere chi sposare, di avere figli, non di diventare un malato terminale”. Ma secondo Scienza e Vita “il fine vita non va banalizzato con uno spot e la vera libertà è quella di scegliere in favore della vita”. Lo conferma al microfono di Paolo Ondarza il presidente dell’Associazione, Lucio Romano:

R. – La libertà dev’essere intesa come un’assunzione di responsabilità a tutela e difesa della vita, che non significa assolutamente libertà così come viene impropriamente presentata nell’ambito dello spot, come una autodeterminazione assoluta da parte del paziente di poter provvedere anche alla soppressione della propria vita.

D. – Perché dite “no” a questo spot?

R. – E’ uno spot che è assolutamente fuorviante. E' uno spot che vuole presentare in maniera suggestiva e quasi – direi – paradossalmente accattivante una procedura che è assolutamente inaccettabile sotto il profilo etico e sotto il profilo giuridico. Ecco perché è una forma di comunicazione impropria che può suggestionare persone che si trovano in situazione di difficoltà, come sul finire della vita, per esempio, o che potrebbero leggere lo spot come una sorta di “viatico” a quella che è una “buona morte”. E non è assolutamente così! Significa negare qualsiasi responsabilità della società ad essere coinvolta nel giusto accompagnamento, che non significa accompagnamento inducendo la morte, ma nel rispetto della persona, accompagnandola a morire attraverso – per esempio – le cure palliative.

D. – A prima vista – ha scritto il quotidiano Avvenire – manovre di questo tipo sembrano eccessi senza futuro, ma poi finiscono per scavare nella coscienza collettiva producendo ingenti danni a lunga scadenza….

R. – Come tutti gli spot pubblicitari, al momento sembra che non producano risultato, ma diventano poi una sorta di messaggio subliminale che viene ad essere percepito, assunto e, quasi paradossalmente, condiviso come una normalità.

D. – Presidente, lo spot si conclude con la citazione di dati Eurispes 2010, secondo i quali il 67 per cento degli italiani è favorevole all’eutanasia. Vi risultano questi dati?

R. – Non risultano affatto, questi dati. Questi dati, come tutti i dati, devono essere ben attentamente studiati per vedere qual è il tipo di interlocutore che è stato preso in considerazione. Questi dati ci lasciano molto, ma molto perplessi se non addirittura scettici per quanto riguarda l’interpretazione di un vero sentire a livello nazionale che non è assolutamente a favore dell’eutanasia. (gf)


Avvenire.it, 12 novembre 2010 - Tutti uguali i bambini, non le unioni da cui nascono - Equipariamo i figli - Ma senza scardinare la famiglia di Francesco D'Agostino

Nella Conferenza sulla famiglia, che si è appena conclusa a Milano il sottosegretario Giovanardi ha rivendicato a merito suo e del governo la recentissima approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un disegno di legge governativo volto a eliminare ogni differenza legale tra figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori di esso, fino al punto di abolire ogni rilievo legale alle stesse espressioni «figli legittimi» e «figli naturali». L’opinione pubblica ha accolto con interesse la notizia, e su questo punto anche coloro che hanno assunto nei confronti di Giovanardi atteggiamenti critici non hanno avuto nulla da ridire (al limite, come Rosy Bindi, hanno rilevato che questa riforma del Codice civile – piccola ma estremamente significativa – arriverebbe fin troppo tardi).
Tutto bene, quindi? Siamo riusciti finalmente a individuare una riforma urgente, necessaria, giusta e soprattutto condivisa da tutti? Sì e no. Vediamo perché.

Su di un punto non possiamo avere dubbi: ogni discriminazione va rimossa, soprattutto quando è avallata dalla legge stessa, e non solo perché la Costituzione ci impone di farlo, ma perché le discriminazioni sono sempre in sé e per sé ingiuste. Quando poi la discriminazione colpisce i bambini, i soggetti socialmente più fragili, e il loro statuto legale le discriminazioni oltre che ingiuste sono odiose e combatterle diventa un vero e proprio dovere morale, oltre che politico. A questo punto, però, nascono i problemi. Per alcuni, infatti, il disegno di legge Giovanardi si riassume esclusivamente in quanto appena detto: si tratta di una giusta riforma di uno dei tanti profili di quel ricco e complesso settore del diritto privato che chiamiamo diritto di famiglia. Per altri, invece, il discorso non si ferma qui. La totale equiparazione legale tra i figli nati all’interno del matrimonio e figli nati al di fuori di esso non serve solo a rimuovere una discriminazione ma costituisce un opportuno passo avanti nella direzione di una totale parificazione legale delle coppie unite in matrimonio e delle coppie di conviventi. C’è una logica in questa pretesa: se il matrimonio non ha alcuna rilevanza per quel che concerne lo statuto giuridico dei figli, è ancora così importante riconoscerlo costituzionalmente (come fa l’articolo 29 della nostra Carta fondamentale) e dare ai coniugi uno statuto giuridico forte, negato ai conviventi?

La risposta a questa domanda deve essere, a mio avviso, assolutamente positiva. Riconoscere pari statuto legale ai figli, comunque nati (da coppie sposate, da coppie di fatto, da donne sole, da una provetta), è doveroso in nome dei diritti delle persone. Riconoscere la rilevanza giuridico-sociale del matrimonio è doveroso, perché il matrimonio veicola quello specifico bene umano relazionale che chiamiamo "famiglia" e che proprio sul matrimonio e solo su di esso trova il proprio fondamento (come dice correttamente il già citato articolo 29). Questo sta a significare che al di fuori del matrimonio non c’è famiglia? Sicuramente sì. Quando leggiamo che è in aumento il numero dei nuclei familiari costituiti da una persona sola percepiamo l’incapacità lessicale della statistica: chi vive, per qualsiasi ragione, da solo non costituisce una famiglia: famiglia è non solo relazione, ma relazione che vuole essere pubblicamente conosciuta e riconosciuta. I rapporti amicali, le relazioni occasionali vanno rigorosamente rispettati e possono anche suscitare simpatia o ammirazione, ma non hanno carattere familiare.

Se questo è vero, si comprende perché il sottosegretario Giovanardi prima e il ministro Sacconi poi abbiano lamentato il diminuire dei matrimoni in Italia e l’aumento delle convivenze, col conseguente aumento del numero dei figli nati al di fuori del matrimonio. È un fenomeno preoccupante, non per ragioni confessionali (secondo il solito refrain dei laicisti a oltranza), ma per ragioni rigorosamente sociali: l’aumento della pratica delle convivenze, indipendentemente dal fatto che sia da ritenere moralmente da stigmatizzare (e per molti, naturalmente, non lo è affatto), denota che il tessuto sociale di base della nostra società (cioè la famiglia) sta diventando pericolosamente fragile. Al di fuori di un sistema di famiglie fortemente strutturate e reciprocamente relazionate diviene molto difficile garantire nel modo ottimale i processi educativi, l’avviamento al lavoro, l’assistenza ai soggetti deboli e marginali. Parificare lo statuto legale dei figli è un dovere di giustizia; rafforzare la presenza sociale della famiglia è un dovere politico fondamentale. Chi non vede il nesso tra le due cose e opera per contrapporre i figli alla famiglia e la famiglia ai figli e opera per indebolire ulteriormente la famiglia è politicamente cieco o, più semplicemente, si lascia guidare da un’ideologia individualistica che ha smarrito il senso del bene umano.


Avvenire.it, 13 novembre 2010 - La colpevole inerzia dell'Occidente - Norma da cancellare pressioni da esercitare di Riccardo Redaelli

No, non sarà uccisa Asia Bibi. Lo hanno fatto capire informalmente le autorità pachistane. E quando mai, del resto, il Pakistan ha giustiziato qualcuno per blasfemia? Possiamo allora stare tranquilli. La condanna di questa donna – colpevole di aver solo offerto dell’acqua resa impura dal suo essere cristiana alle contadine che lavoravano con lei e di essersi difesa dalla loro protervia contro la sua fede – sarà sospesa. Poi rivista e quindi arriverà la grazia. Come in Pakistan è già successo ad altri cristiani (o a fedeli di altre minoranze religiose) prima di lei. Certo, probabilmente dovrà andare in esilio per non essere linciata da qualche zelante islamico. E le sue figlie, già scampate alle violenze della folla aizzata dai fondamentalisti, con lei. Magari suoi parenti saranno trucidati a tradimento. Quando sarà graziata, come sempre accade in questi casi, qualche jihadista brucerà case e negozi di cristiani per ritorsione. E magari ne ucciderà qualcuno.
E quindi no, nonostante le ipocrite rassicurazioni offerte ufficiosamente dal governo di Islamabad al nostro ministro Frattini, che con forza ha denunciato l’iniquità e la brutalità di questa condanna, non siamo per nulla tranquilli.
Ci indigna che la legge anti-blasfemia imposta dalla deriva radicale islamica molti anni fa sia diventata un mezzo per punire i cristiani e i non musulmani, esposti senza difese a un’applicazione dogmatica e stolidamente letterale della Legge islamica. Basta che dinanzi a un tribunale religioso quattro testimoni musulmani accusino qualcuno, affermando di averlo sentito bestemmiare, e la condanna è certa. Una perfetta arma di ricatto contro singoli o contro le comunità cristiane, uno strumento di minaccia e di oppressione. Certo, non una protezione per l’islam, come sanno bene le autorità governative che intervengono per bloccare – quando non si procede per via sommaria – quelle condanne.
Ma ci indigna anche la pigra indifferenza della maggior parte dell’Occidente. E non solo per questo caso. Da decenni soffia nei vari continenti un vento anti-cristiano che, in alcuni Stati, si è trasformato in cupa tempesta. Un turbine d’odio che punta a sradicare le sempre più sparute minoranze cristiane dalle terre in cui vivono da sempre, quasi non avessero diritto ad abitare la terra dei loro avi come le altre comunità dominanti. Eppure, la nostra voce è flebile. Quasi la modernità e la laicità dei nostri stati fossero un freno a difendere i diritti di comunità bersagliate dalla violenza, in Iraq, come in Egitto, in India come Pakistan o in Sudan. Proprio perché cristiane.
Si dice a volte di voler evitare interferenze controproducenti, di non voler sembrare neo-colonialisti. Ma che c’entra il colonialismo, la cui triste storia si svolge negli ultimi secoli, con la difesa di popolazioni che vivono in quelle terre da molto più tempo, da millenni? E cosa è più controproducente di un vile silenzio, magari per convenienza politica o economico-commerciale?
La verità è che l’unica difesa per Asia – e per tutti i cristiani e i non musulmani che verranno ingiustamente condannati dopo di lei – risiede nella nostra capacità di parlare a una sola voce al governo pachistano, con la richiesta di abolire una volte per tutta questa vergognosa, barbara legge. Non è facile farlo per Islamabad, è ben noto. Troppe le pressioni dei radicali islamici che ne condizionano le scelte. Ma come chiediamo da anni al Pakistan di rompere i legami che ancora mantiene con le milizie talebane, così dobbiamo insistere per questa cancellazione. Islamabad è troppo importante dal punto geopolitico – dice chi non vuole impegnarsi –, ben più della tutela delle sue minoranze. Ma anche noi, con l’aiuto finanziario continuo della comunità internazionale, siamo importanti per loro. Nessun ricatto. Ma è tempo di essere consapevoli che la nostra assistenza e la nostra cooperazione non possono prescindere dal rispetto di alcuni diritti umani fondamentali. Per tutti, e quindi anche per Asia.


BOTTA & RISPOSTA tra IL PRESIDENTE DELLA CAMERA e il direttore di Avvenire – Avvenire.it, 13 novembre 2010 - Il presidente della Camera e leader di Fli - Non voglio parificare matrimonio e unioni ma far incontrare le diverse etiche di Gianfranco Fini - Avvenire.it, 13 novembre 2010 - La risposta del direttore di Avvenire a Fini - Parole non convincenti ma utili di Marco Tarquinio

Avvenire.it, 13 novembre 2010 - Il presidente della Camera e leader di Fli - Non voglio parificare matrimonio e unioni ma far incontrare le diverse etiche di Gianfranco Fini

Caro Direttore,
ho letto con attenzione la risposta con cui lei ha condiviso, dalle pagine del suo giornale, il contenuto di una breve lettera, a firma di Fabio Russo, che (lo dico senza alcuna vena polemica) denota la mancanza di una piena conoscenza di quanto da me affermato domenica scorsa a Bastia Umbra, a proposito della necessità di tutelare la dignità di qualsiasi persona, prescindendo da distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali.
Mi dispiace, pertanto, che non si sia voluto cogliere nel mio intervento tutto lo sforzo, che da molto tempo compio, per far maturare nell’opinione pubblica quel sentimento di umana disponibilità nei confronti di tutti coloro, italiani e stranieri, che versano in situazioni di forte disagio causato dall’assenza di adeguate politiche di integrazione e di difesa dei diritti.
Al riguardo, sono convinto che il rapido mutamento della struttura delle nostre società, e più in generale delle società occidentali, accelerato da fenomeni epocali, quali soprattutto la globalizzazione e l’immigrazione, deve indurre tutti ad una profonda riflessione sui valori fondanti e sullo stesso sistema di relazioni che collega tra loro i cittadini e i gruppi sociali.
E’ in questo contesto che si colloca peraltro il tema democratico, e centrale nel dibattito politico, dell’inclusione dei nuovi diritti che scaturiscono da reali situazioni di fatto e che non possono essere disconosciuti a priori se si mantengono aperti i luoghi del dialogo e del confronto.
Da uomo politico e delle istituzioni ho sempre riconosciuto il valore fondante della famiglia, così come garantita dall’articolo 29 della Costituzione, e mi sono sempre opposto ad ogni ipotesi di parificazione di trattamento tra matrimonio e unioni di fatto, specie di quelle omosessuali. Ma non per questo ritengo giusto, di fronte all’insufficienza di forme ed istituti giuridici, ignorare alcune legittime esigenze che meritano di essere prese in considerazione dal nostro ordinamento in virtù di quella idea di “laicità positiva” intesa come punto di incontro tra diverse concezioni etiche presenti nella società.
Del resto, compito dello Stato di diritto è quello di favorire approdi normativi lungimiranti basati sull’unico criterio possibile da adottare, vale a dire quello della “ragionevolezza” delle leggi e della tutela dei diritti dei cittadini.
Questo, a mio avviso, è l’unico antidoto per debellare ogni pericolosa e strisciante forma di indifferenza umana e sociale che tende a minare la convivenza civile. 
Da questo punto di vista, sono profondamente convinto che il nostro Paese sia molto più avanti, in termini di scelte e di orientamenti culturali, di quanto, talvolta, non lo sia la classe politica italiana troppo spesso dilaniata da odiose ed improduttive contrapposizioni di “schmittiana” memoria.
Non credo, quindi, che un invito alla riflessione sulla necessità di impedire l’emarginazione delle differenze possa essere liquidato come un qualcosa di strutturalmente ed ideologicamente vecchio.
Al contrario, ritengo che l’idea di giungere ad una nuova “dimensione etica e morale” della società possa essere perseguita con il contributo fattivo ed intelligente di tutti i grandi “attori” che operano nel nostro territorio, a cominciare dalla Chiesa cattolica che, per ragioni storiche e per la sua forte e radicata presenza, rappresenta un autentico caposaldo nella cultura della solidarietà e della giustizia sociale.


Avvenire.it, 13 novembre 2010 - La risposta del direttore di Avvenire a Fini - Parole non convincenti ma utili di Marco Tarquinio

Caro Presidente,
dopo aver letto con grande attenzione il discorso da lei tenuto domenica scorsa a Bastia Umbra, ho letto con altrettanta attenzione le messe a punto contenute nella lettera, che ha avuto la cortesia di inviarmi e che volentieri pubblichiamo qui sopra. Avevo, allora, preso buona nota non solo delle significative e condivisibili affermazioni da lei fatte sulle situazioni di disagio riguardanti cittadini italiani e stranieri immigrati in Italia, ma anche delle rischiose argomentazioni (e proiezioni programmatiche) a proposito di novazioni ordinamentali in materia familiare. Su queste ultime – oltre che su certo “ronzio radicaleggiante”, su ben note vicende parlamentari e su alcune sconcertanti accentuazioni anticlericali che hanno accompagnato la gestazione e la nascita del suo partito – mi sono soffermato martedì scorso (e nel frattempo ho dovuto registrare che uno dei più alacri laicisti di Fli, l’onorevole Della Vedova, si è addirittura fatto dipingere sul primo quotidiano italiano come un cattolico doc…). 
Oggi devo prendere atto di altre importanti affermazioni, in particolare del passaggio in cui lei esclude «ogni ipotesi di parificazione di trattamento tra matrimonio e unioni di fatto, specie di quelle omosessuali», e di alcune sorprendenti interpretazioni (su cui non qui non mi soffermo). Ma devo soprattutto sottolineare che lei torna a parlare della «insufficienza di forme e istituti giuridici» in materia familiare, evocandone una pluralità che sia specchio di «diverse concezioni etiche». Temo che la strada sia scivolosa e rischi di finire da un lato nel burrone giuridico dei «matrimoni di serie b» (pacs e dintorni) e dall’altro di sfiorare quello  dei «matrimoni a tempo» pure giustificati da qualche etica per noi esotica (nonché dai fautori del divorzio–lampo alla Zapatero). Mi auguro che non sia così, ma questo s’intravvede. Ed è abbastanza.
Come sa, gentile presidente Fini, e come sanno assai bene (e affermano) anche non pochi parlamentari a lei vicini, l’idea di famiglia che i cattolici – ma non solo i cattolici – considerano un valore non negoziabile è quella naturale, fondata sul matrimonio di un uomo e una donna e aperta ai figli. Questo è un bene civile (sul sacramento le norme dello Stato non intervengono di certo) da «ragionevolmente» preservare, fonte di duratura solidarietà interpersonale e di tenuta nella rete delle relazioni sociali. Su questo uno Stato dovrebbe puntare e investire. Per questo fare leggi. E, per quanto ci riguarda, su un punto così decisivo non può darsi uno «Stato neutrale».  Si chiedeva, proprio lunedì scorso il presidente della Cei, cardinal Bagnasco: «Se uno Stato, in nome di un’ipotetica neutralità o di altri pregiudizi, non si allarmasse a fronte di un prosciugamento dei presupposti etico–culturali cui deve invece attingere se vuole prosperare, come potrà rispondere con solidarietà e giustizia a situazioni e sfide emergenti?». Trovo che questa sia una delle domande–chiave nel tempo che viviamo. E nella sua cortese e utile lettera, per la quale la ringrazio, onorevole presidente Fini, non c’è purtroppo una risposta convincente e chiara.


VEGLIE DI PREGHIERA PER LA VITA NASCENTE - Le radici che ci danno la speranza per vivere di MARINA CORRADI – Avvenire, 13 novembre 2010

« P er ringraziare il Signore che, con il dono di sé, ha dato valore e senso a ogni vita umana. Per invocare la sua protezione su ogni essere umano chiamato all’esistenza». Oggi, vigilia della prima domenica dell’Avvento ambrosiano, nel Duomo di Milano si veglia per la 'vita nascente'. Fra due settimane un’analoga veglia verrà tenuta in San Pietro, e contemporaneamente in tutte le chiese italiane, rispondendo a un invito di Benedetto XVI.

In questo nostro tempo distratto, che scorre anonimo cadenzato dai weekend o, nelle città, dall’'happy hour', come viene chiamata l’ora in cui si finisce di lavorare, si affaccia dunque l’Avvento, cioè l’attesa. Attesa di cosa, verrebbe da chiedersi nelle strade che si riempiono di luci . La massima esibizione di segni natalizi quanto spesso corrisponde a un Natale disincarnato, vuoto della memoria di ciò che è: il nascere di Cristo nella carne di un bambino. L’invito del Papa per l’inizio del duemillesimo decimo Avvento della storia sottolinea, della incarnazione, la conseguenza più concreta, più terrestre: quella nascita come portatrice di 'valore e senso a ogni vita umana'. Che è la radice su cui è cresciuto l’Occidente; radice così profonda da averlo permeato, da esserne considerata la dimensione naturale, prima che cristiana.

Però: 'valore e senso a ogni vita umana', questa affermazione granitica, quante volte sembra violata oggi nelle cronache. Morire per una lite da niente; i clochard dati a fuoco 'per gioco'; le corse ubriache e mortali del sabato notte, verso l’alba, e i tragici conti del mattino.

Nella storia si è sempre ucciso, e anche più di adesso; ciò che turba, è che lo si faccia per nulla, o per gioco. Come l’eco di un ordine fondamentale violato.

Davvero, è la domanda, facendosi astratta la memoria di quella notte a Betlemme, facendosi quasi una fiaba lontana, lo sguardo sulla vita resta uguale? Nella Evangelium Vitae

Giovanni Paolo II scrisse che «nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita umana». Nel nome di quel bambino gli uomini hanno dovuto riconoscersi fratelli, chiamati insieme a un infinito destino. Questo non ha impedito le più atroci guerre. Ma ciò che si insinua oggi è il nichilismo inconsapevole di chi uccide per nulla, come se un uomo fosse un niente.

Si prega domani in Duomo a Milano, e più avanti in tutte le chiese, in questa memoria: valore e senso di ogni vita umana. E 'protezione su ogni vita chiamata all’esistenza'. Sui figli concepiti e subito avvelenati con una pillola. Sugli embrioni 'sovrannumerari' scartati nella fabbrica della procreazione assistita; buttati via, o congelati, il loro destino impietrito per sempre. Il disegno di un uomo mille volte ogni giorno legalmente cancellato, come in un’abitudine.

Avvento, è anche ritrovare lo sguardo sull’uomo generato a Betlemme. Se quella notte, magari anche per i cristiani, si fa fioco sentimentalismo, lo sguardo fra noi inesorabilmente cambia. Scrisse la filosofa ebrea Hannah Arendt: «La fede e la speranza nel mondo trova la sua più efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la lieta novella: ’Un bambino è nato fra noi’». È in questa certezza incarnata che possiamo guardarci come uomini. È in questo cardine che possiamo vivere, sperare e voler continuare nei figli. Senza questa radice, in una vacua smemoratezza che si allarga, il senso manca: e sottile ci corrode la paura.

Nel nome di quel Bambino gli uomini hanno dovuto riconoscersi fratelli chiamati insieme a un infinito destino Eppure c’è chi uccide per niente...